Apocalisse di Giovanni: la (presunta) persecuzione di Domiziano e quella vera di Nerone

Leggendo l’Apocalisse mi sono reso conto di una cosa: il testo di Giovanni è stato scritto durante una grave persecuzione contro i cristiani. Ma di quale persecuzione si tratta? Nel corso dei secoli, sono stati individuati due imperatori come responsabili di persecuzioni a danno dei cristiani del primo secolo: Nerone e Domiziano. In questi ultimi decenni, però, gli studiosi hanno di molto ridimensionato la persecuzione di Domiziano[1]. A sostenere la sua esistenza troviamo ormai, in Italia, solo Marta Sordi[2] e la sua allieva Ilaria Ramelli[3].

Ho deciso di affrontare oggi il tema della persecuzione di Domiziano contro i cristiani, vera o presunta che sia, perché nella trattazione dell’Apocalisse è invalso un vero e proprio luogo comune, quello secondo cui il libro di Giovanni è stato scritto appunto in epoca domizianea, e che quindi rifletta aspetti e problematiche legati a quell’imperatore. Tuttavia non è stato sempre così: già l’esegeta anglicano John Arthur Thomas Robinson, nel suo classico studio Redating the New Testament, ricordava come “la tendenza generale della critica”, nel diciannovesimo secolo, fosse stata quella di attribuire all’Apocalisse una data antica, tra la morte di Nerone nel 68 e la caduta di Gerusalemme nel 70, e che anche nel ventesimo secolo tale soluzione fosse stata condivisa da illustri studiosi quali Hort, Lightfoot e Momigliano[4].

Le fonti pagane dalle quali alcuni studiosi hanno tratto la convinzione di una persecuzione anticristiana di Domiziano sono due: le Vite dei Cesari di Svetonio e la Storia Romana di Cassio Dione.

Il testo di Svetonio è il seguente:

Domiziano, XII

“Fece aspramente esigere la tassa ebraica, alla quale vennero sottoposti sia i convertiti che vivevano secondo i precetti della religione giudaica, senza averne fatto dichiarazione, sia coloro che tentavano di nascondere la propria origine per sfuggire ai tributi imposti a quella gente. Ricordo di aver visto, mentre ero ancora ragazzo, un procuratore, assistito da numerosi consiglieri, esaminare un vecchio novantenne per vedere se fosse circonciso”[5]

Il testo originale è il seguente:

“Praeter ceteros Iudaicus fiscus acerbissime actus est: ad quem deferebantur, qui vel inprofessi Iudaicam viverent vitam vel dissimulata origine imposita genti tributa non pependissent. Interfuisse me adulescentulum memini, cum a procuratore frequentissimoque consilio inspiceretur nonagenarius senex, an circumsectus esset”.

Ed ecco il testo di Dione Cassio:

LXVII, 14

“… Nello stesso anno Domiziano fece assassinare molti altri uomini, ed anche il console Flavio Clemente, sebbene [questi] fosse suo cugino e avesse sposato Flavia Domitilla, una parente dell’imperatore. Ad entrambi venne mossa l’accusa di empietà, per la quale furono condannati molti altri che simpatizzavano per il giudaismo, ed alcuni morirono, mentre altri furono comunque privati dei beni; Domitilla fu solo esiliata a Pantelleria. Fece inoltre mandare a morte Glabrione, il quale era stato collega di Traiano al consolato, imputandogli, tra le altre accuse, le stesse che ricevettero molti, ed anche perché aveva combattuto come gladiatore contro delle belve feroci. A causa di ciò, probabilmente, [Domiziano], spinto da invidia, nutriva un grandissimo risentimento contro di lui, poiché, avendolo invitato, quando era console, presso la villa di Alba a partecipare ai cosiddetti Juvenalia, lo aveva costretto ad uccidere un grande leone, ed egli non solo se l’era cavata senza un graffio, ma lo aveva soppresso con straordinaria abilità. Di conseguenza, essendo sospettoso nei riguardi di tutti gli uomini, non aveva più speranza di protezione neppure nei liberti, come nemmeno nei prefetti, che addirittura faceva mettere sotto processo dopo la conclusione del mandato. Dapprima aveva esiliato Epafrodito, liberto di Nerone, ora lo fece uccidere accusandolo di non aver difeso Nerone, affinché, con questa punizione che inflisse a lui, scoraggiasse in anticipo i suoi liberti dall’osare qualcosa di simile. Tuttavia, da ciò non ottenne alcuna utilità, ma, addirittura, cadde vittima di una congiura l’anno seguente, e perì, sotto il consolato di Gaio Valente, il quale morì, dopo essere diventato console, a ottantanove anni, e di Gaio Antistio”[6].  

Una prima osservazione riguardo ai predetti testi: né Svetonio né Dione nominano mai, esplicitamente, i cristiani. E non si può dire che non li conoscessero. Ad esempio, Svetonio li nomina espressamente in relazione alla persecuzione di Nerone:

“Vennero condannati al supplizio i cristiani, genere di individui dediti a una nuova e malefica superstizione” (Nerone, XVI).

All’epoca di Svetonio, i cristiani erano decisamente conosciuti, e non era più possibile confonderli con gli ebrei, e questo sin dai tempi della persecuzione di Nerone e della guerra giudaica, rispetto alla quale i cristiani si erano apertamente dissociati.

Ma veniamo a come la professoressa Marta Sordi legge le fonti in questione. Ecco cosa scrive al riguardo (pp. 80-81):

“Da Vespasiano in poi la libertà religiosa era pagata, dagli aderenti al giudaismo con il versamento di un didracma: tale libertà comportava anche l’esenzione da tutti i culti dello stato, compreso quello dell’imperatore. Dal punto di vista formale, dunque, sarebbe bastato che gli aristocratici romani accusati di «deviazione verso i costumi giudaici» si professassero chiaramente come aderenti al giudaismo e che versassero il didracma dovuto al fisco dai Giudei, perché l’accusa di ateismo e di asebeia avanzata contro di loro cadesse. La cosa sarebbe apparsa certamente scandalosa, almeno per gli uomini (per le donne era invece abbastanza consueta anche nell’aristocrazia), ma si sarebbe risolta con sanzioni morali e con vessazioni di vario genere, ma certamente non con la morte. Ma noi sappiamo che, da qualche anno, sembra verso il 90/92, quando cioè Domiziano si era messo a riscuotere con più asprezza la tassa giudaica, erano diventate frequenti le accuse al fisco di persone che senza dichiararsi giudei (improfessi) vivevano alla giudaica e di altre che dissimulata origine non pagavano la tassa (Suet. Dom. 12, 2). La categoria svetoniana di coloro qui improfessi Iudaicam viverent vitam presenta delle indubbie analogie con quella di coloro che deviavano verso i costumi giudaici di Dione: noi sappiamo in effetti che Nerva intervenne a favore degli uni e degli altri, sia sopprimendo l’indebita estensione agli improfessi della tassa giudaica (questa soppressione, che non è, si noti, la soppressione del fiscus iudaicus, la cui tassa continuò ad essere regolarmente pagata dagli aderenti al giudaismo, fu celebrata da Nerva con una moneta dalla leggenda fisci Iudaici calumnia sublata), sia col divieto delle accuse di asebeia e di vita giudaica (Dio 68, 1, 2). Chi erano questi improfessi? La Smallwood (pp. 378ss.) dice che si tratta di una categoria «nebulosa»: essa poteva in effetti comprendere sia i proseliti del giudaismo, sia gli aderenti al Cristianesimo. L’incertezza nella scelta tra i due gruppi può sussistere, però, a mio avviso, solo finché si trattava di pagare o meno la tassa giudaica: ma quando il non dichiararsi Giudei significava incorrere nell’accusa di ateismo e nella pena di morte, quando cioè il problema non era più di natura fiscale ma penale, non si vede che cosa avrebbe potuto impedire a dei proseliti romani del giudaismo, di professarsi apertamente giudei e di evitare la condanna capitale e le pene più gravi”.

Secondo la prof. Sordi, gli inprofessi nominati da Svetonio sono senz’altro i cristiani. Alla Sordi rispose indirettamente due anni dopo (nel 2008) il prof. Roberto Cristofoli, in uno studio pubblicato sulla rivista VETERA CHRISTIANORUM:

“Pochi anni dopo la pubblicazione dello studio della Smallwood, che riteneva l’atteggiamento di Flavio Clemente e Domitilla rispecchiato nella definizione di Flavio Giuseppe σεβόμενοι τὸν θεόν, il Rossi propose appunto di intravvedere dietro qui inprofessi Iudaicam viverent vitam i “proseliti della porta” (in aramaico gêr tôsâbh), che si differenziavano dai “proseliti della giustizia” in quanto non adempivano a tutti i precetti della legge mosaica, ma si limitavano a conformarsi ad alcune usanze del Giudaismo senza professarsi o comportarsi integralmente come effettivi seguaci di quella religione…”[7].

Dunque c’era una categoria di persone che rientrava precisamente nella definizione degli inprofessi: erano i proseliti della porta. Vedere negli inprofessi una menzione dei cristiani a me sembra un vero e proprio abbaglio.

Marta Sordi nomina poi alcuni esponenti dell’aristocrazia romana che, secondo lei, furono condannati per cristianesimo: Flavio Sabino, Flavio Clemente, le due Flavie Domitille, e Acilio Glabrione. Però, anche in questo caso, Svetonio non menziona il cristianesimo come causa della loro messa a morte. Ecco come Svetonio li nomina.

Acilio Glabrione:

“Mandò a morte parecchi senatori e, fra loro, alcuni consolari, tra cui Civica Ceriale, in Asia, durante l’esercizio stesso del suo proconsolato, e Salvidieno Orfito, e Acilio Glabrione, mentre erano in esilio, accusandoli di voler preparare una rivoluzione, e gli altri per ragioni del tutto insignificanti” (X).

Flavio Sabino:

“Fece morire anche il figlio di Elvidio, con pretesto che, in un esordio teatrale, aveva criticato il suo divorzio con la finzione scenica di Paride ed Enone e fece morire uno dei suoi cugini, Flavio Sabino, perché il banditore, nel giorno delle elezioni consolari, lo aveva proclamato, per errore, imperatore invece che console designato” (X).

Flavio Clemente:

“Infine, per un leggerissimo sospetto, mandò a morte il proprio cugino Flavio Clemente, appena uscito dal consolato, pur essendo questi un uomo disprezzatissimo per la sua pigrizia e pur avendone apertamente designato i figli, ancora bambini, quali propri successori, mutando il loro nome e facendoli chiamare, il primo Vespasiano e l’altro Domiziano” (XV).

Quindi, i predetti membri dell’aristocrazia vennero messi a morte per motivi politici, non religiosi. Il cristianesimo non viene mai nominato come causa della loro condanna. Per quanto riguarda Acilio Glabrione, così il vocabolario Castiglioni Mariotti traduce l’espressione “molitores rerum novarum”: “cospiratori rivoluzionari”. Per quanto riguarda invece Flavio Clemente, mi sembra opportuno citare il testo originale latino di Svetonio:

Denique Flavium Clementem patruelem suum contemptissimae inertiae, cuius filios etiam tum parvulos successores palam destinaverat abolitoque priore nomine alterum Vespasianum appellari, alterum Domitianum, repente ex tenuissima suspicione tantum non in ipso eius consulatu interemit”.

A questo proposito, Cristofoli svolge delle considerazioni che mi sembrano ineccepibili:

 “ed in ogni caso va sottolineato un fatto di fondamentale importanza, e cioè che, stando a Svetonio, Flavio Clemente non venne messo a morte in quanto si distingueva per la sua contemptissima inertia, bensì a causa di una tenuissima suspicio – ed è notevole come anche a monte della rovina di altri senatori vi fu una levissima causa: vd. Dom. 10, 2: il biografo non individua tale tenuissima suspicio nella sua sostanza, ma in maniera rivelatrice la pone comunque di seguito a una serie di particolari riconducibili al timore di Domiziano di venire assassinato in una congiura. Fu tale suspicio cui la condotta di Flavio Clemente diede adito, dunque, a causarne la condanna, e non la sua inertia. Svetonio non avrebbe potuto definire tenuis l’eventuale rifiuto di un console di celebrare i sacrifici dovuti – ciò che peraltro avrebbe avuto un carattere palese, e non sarebbe potuto rimanere semplice suspicio – ed oltretutto l’inertia non contraddistingueva l’atteggiamento dei soli Cristiani (e Giudei), ma in generale quello di molti degli oppositori al regime…”[8].

Tra gli oppositori del regime c’erano evidentemente anche i filosofi, a cominciare dagli stoici, e infatti Domiziano prese di mira anche loro:

“Fece anche morire Sallustio Lucullo, legato della Britannia, per aver consentito che delle lance di nuova foggia venissero chiamate «luculliane», e Giunio Rustico per aver pubblicato i panegirici di Peto Trasea e di Elvidio Prisco, chiamandoli «uomini santissimi»; e in quella occasione espulse dall’Urbe e dall’Italia tutti i filosofi” (X).

Svetonio raffigura Domiziano, negli ultimi anni del suo potere, come ossessionato dall’idea di cadere vittima di qualche complotto. Vedeva nemici dappertutto:

Diceva anche: «La condizione dei principi è la più miserevole. Quando viene scoperta una congiura sono creduti solo se restano uccisi!»” (XXI).

Osserva inoltre Cristofoli:

“La circostanza per la quale Flavio Clemente, Domitilla e Acilio Glabrione potessero aver aderito alla religione cristiana o alla religione giudaica si presenta – alla luce delle testimonianze delle fonti antiche – probabile, ma non sta a monte del provvedimento di condanna nei loro confronti attuato da Domiziano; semmai ne sta a valle: il princeps, che intendeva colpire alcuni personaggi per ragioni squisitamente politiche, rivolse contro di loro l’accusa strumentale di ateismo-maiestas, presentandoli come seguaci di costumi e religioni invisi alla gran parte dell’opinione pubblica”[9].

Da parte mia, osservo che, se Domiziano avesse deciso di perseguitare i cristiani in quanto tali, non si sarebbe accontentato di esigere da loro una tassa come quella ebraica ma avrebbe direttamente imposto la confisca dei loro beni, come all’epoca accadeva a chi cadeva in disgrazia:

In ogni dove venivano sequestrati i beni dei vivi e dei morti, per qualunque delitto, e sotto qualsiasi accusa; era sufficiente essere stato denunciato per un atto o una parola qualsiasi contro la maestà del principe. Venivano persino confiscate le più estranee eredità, solo che si presentasse qualcuno ad affermare di aver udito il defunto dichiarare, quando era vivo, che aveva nominato suo erede Cesare” (XII).

Alla fine, dopo la sua morte, il Senato decretò la damnatio memoriae di Domiziano:

“Il Senato invece se ne rallegrò immensamente [della sua morte], tanto da non riuscire a trattenersi, dopo aver affollato la Curia, dal fare a gara nel vilipendere il morto con le più ingiuriose e violente invettive, e si comandò anche di portare delle scale per strappare seduta stante i suoi scudi e i suoi ritratti e buttarli a fracassarsi sul pavimento. Si decretò infine che dovunque fossero scalpellate le iscrizioni e distrutta ogni memoria di lui”.

Il motivo è chiaro: negli ultimi anni della sua vita, Domiziano era diventato un tiranno e si era reso “temuto e inviso a tutti” (Svetonio, XIV), ma è significativo che tra questi “tutti” il suo biografo non menzioni i cristiani, se davvero fossero stati perseguitati.

Passiamo ora alle più antiche fonti cristiane della (presunta) persecuzione domizianea. Le conosciamo grazie ad Eusebio di Cesarea, che le incluse nella sua Storia ecclesiastica. Si tratta di Egesippo e di Tertulliano. Riporto a seguire i relativi brani (III, 19-20)[10]:

Quando lo stesso Domiziano ordinò di sopprimere i discendenti di Davide, un’antica tradizione riferisce che alcuni eretici denunciarono anche quelli di Giuda (che era fratello carnale del Salvatore) come appartenenti alla stirpe di Davide e alla parentela di Cristo stesso. Egesippo riporta queste notizie, dicendo testualmente: «Della famiglia del Signore rimanevano ancora i nipoti di Giuda, detto fratello suo secondo la carne, i quali furono denunciati come appartenenti alla stirpe di Davide. L’evocatus li condusse davanti a Domiziano Cesare, poiché anch’egli, come Erode, temeva la venuta di Cristo. Ed egli chiese loro se erano discendenti di Davide, e ne ebbe la conferma. Chiese allora quante proprietà e quanto denaro avessero. Essi risposero che avevano in totale novemila denarii, metà per ciascuno, e neppure in contanti, ma erano il valore di un terreno di soli trentanove pletri, di cui pagavano le tasse e di cui campavano, coltivandolo essi stessi. E gli mostrarono le mani, portando a testimonianza del loro lavoro personale la rudezza del corpo e i calli formatisi sulle mani per la continua fatica. Interrogati su Cristo e il suo regno, sulla sua natura e il luogo e il tempo in cui si sarebbe manifestato, risposero che il suo regno non era di questo mondo, né di questa terra, ma celeste e angelico, e si compirà alla fine dei secoli, quando Cristo verrà nella gloria a giudicare i vivi e i morti e renderà a ciascuno secondo le sue opere. Allora Domiziano non inflisse loro nessuna condanna, ma li disprezzò giudicandoli meschini e li lasciò andare, e con un editto fece cessare la persecuzione contro la Chiesa. Una volta liberati, essi furono a capo delle Chiese come testimoni e insieme parenti del Signore, e, ritornata la pace, rimasero in vita fino a Traiano». Questo è ciò che riporta Egesippo. Ma anche Tertulliano cita una notizia simile: «Anche Domiziano, pur avendo soltanto una parte delle crudeltà di Nerone, aveva tentato un tempo di imitare le sue stesse azioni. Ma poiché aveva, penso, un briciolo di buon senso, desistette subito, richiamando quanti aveva esiliato». Dopo Domiziano, che fu imperatore per quindici anni, ricevette l’autorità imperiale Nerva: non solo furono abolite le disposizioni di Domiziano, ma il Senato romano decretò anche il ritorno e la restituzione dei beni di quanti erano stati cacciati ingiustamente”.

Ricordiamo le date relative ai personaggi finora citati. Svetonio (70-130 d.C. circa). Cassio Dione (Nicea, 155 circa-235 d.C.). Egesippo (110 circa-180 circa). Tertulliano (155 circa-230 circa). Eusebio (260-339).

Secondo Marta Sordi, Egesippo ha commesso un errore: Domiziano non si recò mai in Giudea e quindi non era stato lui a interrogare i parenti di Gesù, bensì “il fratello Tito o Vespasiano stesso”[11]. La Sordi sostiene che anche Tertulliano si è sbagliato:

“Scrivendo dopo Egesippo Tertulliano (Apol. V, 4), che conosceva da altre fonti – e in particolare da Melitone – l’esistenza della persecuzione domizianea, seconda dopo quella di Nerone, fu indotto ad attribuire a Domiziano in base ad Egesippo la revoca di quella persecuzione che da tutte le altre fonti pagane e cristiane, sappiamo invece revocata da Nerva…”.

Su Tertulliano fa un’osservazione interessante il più volte nominato prof. Cristofoli:

“Nella Lettera ai Corinzi, Clemente Romano infatti non parla di persecuzioni sotto i Flavi… pur scrivendo proprio in un momento che avrebbe dovuto essere immediatamente successivo alla presupposta azione di Domiziano contro i Cristiani: si concentra invece sulla persecuzione di Nerone, e non fa parola di un’azione analoga di Domiziano. Allo stesso modo Tertulliano, all’incirca un secolo dopo, praticamente smentisce un’azione anticristiana di largo obbiettivo di Domiziano nel momento stesso in cui circoscrive ogni attacco portato sotto il suo regno al Cristianesimo alla condanna all’esilio di singoli individui, tra i quali non menziona espressamente neanche Flavio Clemente ed Acilio Glabrione…”[12].

Un’ulteriore osservazione meritevole di menzione è quella dello storico del cristianesimo antico George Edmundson, in Italia peraltro del tutto sconosciuto:

“La persecuzione degli aderenti alla fede cristiana da parte di Domiziano fu molto meno diretta e, come si può dedurre dalla lettera di Plinio a Traiano circa sedici anni dopo, non stabilì alcun nuovo precedente; poiché se fossero stati stabiliti precedenti così nuovi, non sarebbero sfuggiti all’attenzione di questo scrittore, che era un contemporaneo e, come dimostra la sua corrispondenza, un attento osservatore degli eventi attuali”[13].

Avendo quindi acclarato che la persecuzione di Domiziano a danno dei cristiani può essere considerata quantomeno dubbia, torniamo all’Apocalisse di Giovanni. I passi da cui si può arguire che l’Apocalisse venne scritta nel bel mezzo di una (feroce) persecuzione sono molteplici. Li elenco a seguire:

Apocalisse 2, 9-10: “So la tua tribolazione e la tua povertà – ma sei ricco! – e la calunnia di coloro che si dicono Giudei e non lo sono, ma sono una sinagoga di Satana. Non temere ciò che stai per soffrire: ecco che il diavolo sta per gettare alcuni di voi in carcere, per tentarvi, e avrete una tribolazione di dieci giorni. Sii fedele fino alla morte, ed io ti darò la corona della vita”.

Apocalisse 3, 9-10: “Ecco, metterò quelli della sinagoga di Satana, che si dicono Giudei – ma mentono – e non lo sono, sì, farò che essi vengano e si prostrino dinanzi ai tuoi piedi, e conoscano che io ti ho amato. Poiché osservasti la parola della mia perseveranza, anch’io preserverò te dall’ora della tentazione che sta per venire sull’intera terra abitata, per tentare coloro che abitano sulla terra”.

Apocalisse 6, 9-11: “E quando aprì il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime degli sgozzati a causa della parola di Dio e della testimonianza che avevano. E gridarono a gran voce, dicendo: «Fino a quando, o padrone santo e verace, non compi il giudizio e non trai vendetta del nostro sangue dagli abitanti della terra?». E fu data ad ognuno di essi una veste bianca, e fu detto loro di indugiare ancora poco tempo, finché non giunga a pienezza anche il numero di quanti, conservi loro e fratelli loro, debbono essere uccisi come loro”.

Apocalisse 7, 9-14: “Dopo ciò vidi: ed ecco una folla numerosa, che nessuno poteva computare, d’ogni gente e tribù e popolo e lingua: ritti davanti al trono e davanti all’agnello, ravvolti in vesti bianche, e con palme nelle mani. E gridano a gran voce, dicendo: «La salvezza appartiene al Dio nostro seduto sul trono e all’agnello!» … E uno degli anziani mi rivolse la parola, dicendo: «Questi, ravvolti in vesti bianche, chi sono e donde vennero?». E dissi a lui: «Signore mio, lo sai tu». E disse a me: «Questi sono coloro che vengono dalla grande tribolazione, e lavarono le loro vesti e le imbiancarono nel sangue dell’agnello»”.

Apocalisse 13, 9-10: “Se qualcuno ha orecchio ascolti. Se qualcuno è destinato alla prigionia, va alla prigionia; se qualcuno dev’essere ucciso di spada, bisogna ch’egli sia ucciso di spada. Qui è la perseveranza e la fede dei santi”.

Apocalisse 14, 12-13: “Qui è la perseveranza dei santi, i quali osservano i comandamenti di Dio e la fede di Gesù. E udii una voce dal cielo che diceva: «Scrivi: Beati fin d’ora quei morti che muoiono nel Signore». «Sì – dice lo Spirito – cosicché si riposeranno delle loro fatiche; le loro opere infatti li seguono»”.

Apocalisse 16, 6: “Poiché hanno versato sangue di santi e di profeti, sangue hai dato loro da bere: ne sono meritevoli”.

Apocalisse 17, 6: “E vidi la donna ubriaca del sangue dei santi e del sangue dei testimoni di Gesù. E, vendendola, mi meravigliai di meraviglia grande”.

Apocalisse 18, 24: “e in essa fu trovato il sangue dei profeti e dei santi e di tutti quelli che furono sgozzati sulla terra”.

Apocalisse 20, 4: “E vidi dei troni, e le anime dei decapitati per la testimonianza di Gesù e per la parola di Dio, i quali non adorarono la fiera né la sua immagine e non ricevettero il marchio sulla fronte e sulla loro mano; e sedettero sui troni, e il giudizio fu dato loro; e vissero e regnarono con il Cristo per mille anni”.

Non c’è dubbio: qui si parla di martiri – di sgozzati e di decapitati. Martiri che sono stati già uccisi e martiri che saranno uccisi entro “poco tempo”. È uno dei leitmotiv dell’Apocalisse. La visione della Babilonia satolla del sangue dei fedeli di Gesù sarebbe però assolutamente sproporzionata se riferita ai cristiani (presuntivamente) perseguitati da Domiziano. Piuttosto, la “folla grande, che nessuno poteva contarla” dei martiri che compare in Apocalisse 7, 9, a me richiama alla mente sia la “grande moltitudine di eletti” che Clemente, nella Lettera ai Corinzi, indica come martirizzati da Nerone, che la multitudo ingens che Tacito (Ann. XV 44) riferisce alla medesima persecuzione.

A mio avviso, un brano come Apocalisse 13, 9-10 lo si capisce davvero se lo si legge alla luce della tradizione del Quo Vadis?

In conclusione, se quella di Domiziano non è stata una vera persecuzione, la persecuzione di cui parla Giovanni non può che essere quella di Nerone. E se la Babilonia dell’Apocalisse simboleggia Gerusalemme, l’ostilità della “sinagoga di Satana” nei confronti dei cristiani non può aver avuto come scenario la Roma di Domiziano, dove gli ebrei non avevano più il peso politico di cui avevano goduto al tempo di Nerone.

A proposito del fattore ebraico nella persecuzione di Nerone: la prof. Emanuela Prinzivalli ha fatto acutamente notare che la menzione della “gelosia”, di cui furono vittime Pietro e Paolo, nella Lettera di Clemente potrebbe riguardare proprio l’opposizione dei giudei nei confronti dell’attività missionaria degli Apostoli:

“Si tenga presente che anche in Act. Ap. 13, 45 e 17, 5 l’atteggiamento dei giudei verso Paolo e Barnaba o Paolo e Sila è presentato come gelosia”[14].

Quindi, riassumendo, quando Giovanni parla della persecuzione dei cristiani di certo non si riferisce a Domiziano. Eppure, è talmente invalso il luogo comune di inserire l’Apocalisse in un contesto domizianeo che ancora oggi la maggioranza degli studiosi ritiene che sia stata scritta nell’epoca dell’ultimo dei Flavi. Ora, alla morte di Domiziano, Gerusalemme era già stata (integralmente) distrutta da più di 25 anni. Non è credibile che, se Giovanni avesse scritto il suo libro negli anni 90, non avrebbe menzionato la distruzione della “città grande, la quale è chiamata spiritualmente Sodoma ed Egitto, ove anche il loro Signore fu crocifisso” (11, 8).

Ho iniziato questo post citando Robinson e lo concludo con le parole del medesimo autore:

“Quando questa purga limitata e selettiva [quella di Domiziano], in cui nessun cristiano fu con certezza [in quanto tale] messo a morte, è paragonata al massacro dei cristiani sotto Nerone in quello per cui due testimoni antichi e interamente indipendenti[15] parlano di ‘immense moltitudini’, è sorprendente che i commentatori siano stati indotti da Ireneo, che non menziona neppure una persecuzione, a preferire un contesto domizianeo per il libro dell’Apocalisse”[16].

 

[1] Da ultimo, il professor Daniele Tripaldi, nel suo commento all’Apocalisse di Giovanni (Carocci 2018), è arrivato a definire “fantasma” la persecuzione di Domiziano.

[2] Marta Sordi, I cristiani e l’impero romano, Jaca Book, Milano 2006.

[3] Ilaria Ramelli (con don Ennio Innocenti), Gesù a Roma, Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe, Roma 2006.

[4] John Arthur Thomas Robinson, Redating the New Testament, London 1977, pp. 224-225.

[5] La traduzione del testo di Svetonio è quella di Felice Dessì, BUR classici greci e latini, Milano 2018.

[6] La traduzione del testo di Dione Cassio è quella di Alessandro Stroppa, BUR classici greci e latini, Milano 2018.

[7] Roberto Cristofoli, Domiziano e la cosiddetta persecuzione del 95, Vetera Christianorum, 45, 2008, 67-90.

[8] Ivi, p. 68.

[9] Ivi, pp. 88-89.

[10] La traduzione da me utilizzata è quella dell’edizione Rusconi del 1979, curata da Maristella Ceva.

[11] Marta Sordi, op. cit., pp. 74-75.

[12] Roberto Cristofoli, cit., pp. 74-75.

[13] George Edmundson (1848-1930) fu uno storico dell’Università di Oxford, autore del volume The Church in Rome in the First Century, più volte citato da John Arthur Thomas Robinson nel suo Redating the New Testament.

[14] Seguendo Gesù – testi cristiani delle origini, volume I, a cura di Emanuela Prinzivalli e Manlio Simonetti, Fondazione Lorenzo Valla, 2010, p. 465.

[15] Tacito e Clemente Romano.

[16] John Arthur Thomas Robinson, op. cit., p. 233.

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