Vincenzo Vinciguerra: Documento del 1987

Ho deciso di ripubblicare sul mio blog, con il consenso dell’autore, gli articoli pubblicati da Vincenzo Vinciguerra sul sito archivioguerrapolitica.org negli anni tra il 2012 e il 2015.

Il sito di “Archivio Guerra Politica” non c’è più e quindi i relativi articoli erano rimasti oscurati e indisponibili alla consultazione.

Come scrisse a suo tempo lo storico Aldo Giannuli, “Oggi si può dire che non è possibile fare una storia della strategia della tensione in Italia prescindendo dal contributo di Vinciguerra”.

Gli scritti di Vinciguerra verranno pubblicati in ordine cronologico. Cominceremo quindi dal 1987, anno cui risale il documento inviato da Vinciguerra alla Corte di Assise di Venezia e riguardante proprio la strategia della tensione. Buona lettura.

Documento del 1987

17 luglio 1987

Il documento che segue venne inviato da Vinciguerra alla Corte di Assise di Venezia, accompagnato dalla seguente lettera, indirizzata al presidente, Renato Gavagnin:

“II processo che mi vede imputato innanzi alla Corte da Lei presieduta è, per quanto mi riguarda, concluso. Non ho dichiarazioni finali da fare, contrariamente a quanto affermato dall’avv. Pisauro che ha scambiato per tali la mia risposta scritta alle fantasiose affermazioni storico-politiche del pubblico ministero. Trattasi di un documento composto di settanta fogli manoscritti che allego alla pre­sente nella speranza che possiate acquisirlo. Una sola precisazione: non è a me che dovete dare “giustizia” perché non ho nulla da chiedervi e voi non avete nulla da darmi. Eventualmente, un esempio di Giustizia lo po­tete dare a questo Paese che ancora attende dalla sua magistratura una parola di verità su un ventennio di guerra civile: verità nei fatti e verità nelle motivazioni che quei fatti hanno deter­minato.

Distinti saluti.
Vincenzo Vinciguerra”

Premessa
“In ogni processo per strage chi cerca la verità si è sempre scontrato con chi inquina le prove o addirittura fa fuggire i responsabili. In un solo processo, però, ed è proprio quello per l’uccisione dei tre carabinieri a Peteano, si sono visti uniti, nella congiura contro la verità, al completo tutti i poteri dello Stato” (Chi non vuole la verità su Peteano, Il Giorno, 24.6.86).
Con queste parole il dott. Gabriele Ferrari inizia la sua requisitoria. Rivela una realtà che tutti i magistrati impegnati in inchieste sulla “ever­sione di destra” hanno constatato; ma, come tutti i suoi colleghi, non giunge alla conclusione ovvia che vuole questo Stato, nelle persone dei suoi rappresentanti politici e militari, coinvolto nella strategia del ter­rore. Come tutti gli altri magistrati, anche il dott. Ferrari individua in una ideologia che da quarant’anni non ha più posto nella vita politica e cultu­rale di questo Paese, perché svuotata di ogni contenuto originario, la ma­trice del “male”.
Come tutti, preferisce evocare il fantasma di un passato remoto al quale collega arbitrariamente alcuni uomini del presente al fine di dimo­strare una realtà di comodo che è – e nella sua coscienza io credo che lo sappia – lo stravolgimento totale della realtà e, quindi, della Verità.

Per ottenere questo risultato, il pubblico ministero, al pari dei suoi colleghi interpreta come attacco “fascista” all’ordine costituito, scaturito dalla seconda guerra mondiale, ciò che invece è stato difesa di questo ordine non dalla minaccia “fascista” che non è mai esistita, bensì da quella, ipotetica o reale, del comunismo e della sua avanzata, dal 1945 ad oggi, vista come unica, concreta, sola minaccia al mondo occidentale, al mondo “libero” come viene definito. Le prove esistono, basta avere la volontà e il coraggio di esibirle.

  1. IL CONVEGNO DELL’ISTITUTO “POLLIO”

II pubblico ministero parla della “guerra rivoluzionaria” e del Convegno dell’Istituto Pollio, e allora vediamo chi vi ha partecipato e con quali finalità.

PRESIDENZA:

Salvatore ALAGNA – consigliere di Corte d’Appello

Gianfranco FINALDI – giornalista

Adriano MAGI BRASCHI – polemologo, docente universitario

Alceste NULLI-AUGUSTI – generale

SEGRETARIO:

Paolo BALBO – avvocato;

RELATORI:

Eggardo BELTRAMETTI – giornalista e scrittore

Enrico DE BOCCARD – giornalista

Guido GIANNETTINI – giornalista

PARTECIPANTI:

Vittorio DE BIASI – industriale

Pino RAUTI – giornalista

Renato MIELI – scrittore

Marino BON VALSASSINA – docente universitario

Carlo DE RISIO – giornalista

Giorgio PISANO’ – giornalista

Giano ACCAME – giornalista

Gino RAGNO – giornalista

Alfredo CATTABIANI – scrittore-editore

Giorgio TORCHIA – giornalista

Giuseppe DALL’ONGARO – giornalista

Vanni ANGELI – giornalista

Fausto GIANFRANCESCHI – giornalista

Ivan Matteo LOMBARDO – ex ministro

Dorello FERRARI – diplomatico

Osvaldo RONCOLINI – generale

Pio FILIPPANI-RONCONI – docente universitario

(l’elenco è conforme a quello pubblicato da Eggardo Beltrametti nel suo libro, Contestazione e megatoni, Volpe, Roma 1971).

Fra i presenti in elenco risaltano subito i giornalisti de Il Tempo di Roma, quotidiano della destra democristiana: Pino Rauti, Carlo De Risio, Gino Ragno, Giorgio Torchia, Giuseppe Dall’Ongaro, Fausto Gianfranceschi.

Tutti fascisti infiltrati ne II Tempo, diretto dall’ingenuo Renato Angiolillo? Non credo sia una tesi seriamente sostenibile.

Su Rauti e Gianfranceschi non mi soffermo, vista la loro notorietà di “nazisti” assunti dal giornale più conservatore, reazionario e beghino della capitale per meriti che resteranno misteriosi fino a quando non si apriranno gli archivi dei servizi di sicurezza.

Vediamo alcune note biografiche su altri meno conosciuti:

CARLO DE RISIO, è autore, potenza delle coincidenze, di un libro dal titolo Generali, servizi segreti e fascismo (Mi, Mondadori 1978), nel quale fa l’apologia dei servizi di sicurezza militari nell’ultimo conflitto.

GINO RAGNO, dirige l’associazione “Italia-Germania”, collegata a Franz Joseph Strauss, non, quest’ultimo, ex-nazista, ma interprete nel 1945 presso gli americani che occupavano la sua terra, un “leale” collaborazionista.

GIORGIO TORCHIA, dirigeva, all’epoca, l’agenzia giornalistica Oltremare, finanziata dal SID, come risulta dagli atti giudiziari nel processo per la strage di Piazza Fontana a Catanzaro.

GIANO ACCAME, dirigente di “Nuova Repubblica”, l’organizzazione fondata e diretta dall’ex ministro della Difesa Randolfo Pacciardi, che neanche il pubblico ministero può tacciare di “fascista”; è stato anche redattore de “Il Borghese” di Mario Tedeschi.

GIORGIO PISANO’, si accredita come “fascista” e tale viene ritenuto; non si accredita però come collaboratore degli ufficiali della divisione carabinieri Pastrengo, per conto dei quali ha utilizzato “il Candido”, da lui diretto, in almeno due occasioni facilmente rilevabili: l’operazione “Girotto”, quando cioè accreditò sul suo giornale “fascista”, Girotto Massimo, detto “frate mitra”, quale puro rivoluzionario marxista-leninista, contribuendo in tal modo a facilitarne l’infiltrazione nelle Brigate Rosse, con i risultati che tutti conoscono; l’inchiesta sulle responsabilità delle stragi, del gennaio 1981, attribuita pacificamente ad Avanguardia Nazionale, in perfetta sintonia con le note informative che il generale Musumeci passava alla magistratura bolognese, dopo aver collocato, in quello stesso mese di gennaio, la valigia con l’esplosivo sul treno Taranto-Milano che doveva dimostrare la veridicità delle sue note informative e che gli è costata, in seguito, l’accusa di calunnia e depistaggio: su Pisanò c’è, infine, il giudizio espresso da Maurizio Murelli, suo amico, nel 1981, che in una lettera, che è nella disponibilità di chi scrive, dice che al senatore “fascista” non bisogna toccare due cose: i carabinieri e la NATO!

PIO FILIPPANI-RONCONI, collaboratore del SID quale esperto in crittografia, amico personale di Umberto Federico D’Amato.

IVAN MATTEO LOMBARDO, socialdemocratico, antifascista, esponente di primo piano della vita politica italiana negli anni Cinquanta, ex ministro.

Da quali esigenze nasce il Convegno del maggio 1965 dell’“Istituto Alberto Pollio di studi storico- militari”? Le rivela Eggardo Beltrametti, esperto militare di livello internazionale, alla cui citazione come teste in questo processo si è opposto il pubblico ministero:

“In molti ambienti – scrive Beltrametti – compresi quelli ove si concentravano le maggiori cure per la continuità dello Stato, si cominciava ad avvertire l’altro pericolo del varo delle regioni a statuto ordinario, il quale, nel paesaggio del veniente centrosinistra, rappresentava un’altra grossa opportunità offerta ai comunisti, di inserirsi nelle strutture portanti della Nazione. Parimenti cominciava a farsi strada la convinzione che il comunismo in Italia, pur vestito di mentiti panni “democratici”, svolge la sua lotta politica eversiva al di fuori degli schemi tradizionali, con criteri e metodi che si apparentano più a quelli bellici che a quelli consentiti in un paese libero e che perciò l’azione comunista in Italia andava considerata anche come un episodio di guerra, guerra permanente, guerra rivoluzionaria. Arrivando così alla conclusione ovvia che, per contrastare il comunismo, anche nei riguardi del fronte interno occorresse chiamare in causa, per la parte di sua competenza istituzionale, l’organo tecnico a cui è affidata la difesa e la sicurezza delle Istituzioni e dello Stato, cioè le Forze Armate (…) non è inutile ricordare -prosegue Beltrametti -che l’impostazione data dal “1° Convegno” dell’Istituto Pollio non soltanto era condivisa dagli ambienti politici di destra e non soltanto di destra, ma anche dallo Stato Maggiore, nelle persone dei suoi maggiori esponenti. Tant’è che ci fu da parte di essi un appoggio concreto; non ci furono obiezioni quando si chiese e si ottenne che un alto ufficiale seguisse i lavori del Convegno portando un contributo dì suggerimenti e di consigli”.

Giustificazioni a posteriori del “fascista” Beltrametti? No, è sufficiente riandare con la memoria alla metà degli anni Sessanta, per ricordare le violentissime polemiche che accompagnarono il varo delle regioni a statuto ordinario.

Vi erano preoccupazioni di ordine politico, economico, sociale e militare, perché è nota l’importanza militare della dorsale appenninica in quelle regioni centrali che sono tradizionalmente politicamente “rosse”.

Non smentito, né smentibile, Beltrametti prosegue:

“Da questo concreto e ampio consenso all’iniziativa, si può anche dedurre che le Forze Armate, nelle loro istanze superiori, interpretando le preoccupazioni che provenivano dall’alto (e che erano state marcate dalla ripetuta convocazione pubblica e significativa di alcuni capi militari), si dimostravano e si dicevano disposte a raccogliersi attorno al problema del futuro prevedibile della Nazione, assediata da un’insidiosa avanzata di forze, le quali, comunque, per calcolo, per fatalità o per ignavia, si collocavano in un’area propiziatrice della vittoria comunista; cioè in un’area politica che non era quella in cui la Nazione aveva scelto di collocarsi al momento in cui era divenuto legge di Stato il Trattato militare atlantico.”

Ritengo inutile e superfluo far rilevare i riferimenti, chiarissimi, al “Piano Solo” e all’area socialista quale “propiziatrice della vittoria comunista” e il richiamo agli obblighi militari contratti dall’Italia con l’adesione al Patto Atlantico.

Prima di entrare nel merito della “guerra rivoluzionaria”, segnalo quanto afferma Eggardo Beltrametti sull’utilizzo che da parte militare si è fatto degli Atti del Convegno, raccolti in un libro del giugno 1965, edito dalla solita casa editrice Volpe di Roma, col titolo La guerra rivoluzionaria:

“II Convegno – scrive Beltrametti – ha destato vivo interesse negli ambienti militari, anche se (non?) fu espresso ufficialmente, il volume che ne raccolse gli atti fu introdotto nelle biblioteche delle scuole militari”.

Chiarirò nel prosieguo del discorso il perché dell’interesse dello Stato Maggiore dell’Esercito Italiano.

  1. LA GUERRA RIVOLUZIONARIA

Il dott. Gabriele Ferrari ha parlato impropriamente di “guerra rivoluzionaria”, impropriamente ha citato un passo della relazione di Enrico De Boccard sulle tecniche impiegate dalla “guerra rivoluzionaria” (azione psicologica e terrorismo), impropriamente ha attribuito l’utilizzo delle tecniche della “guerra rivoluzionaria” ai relatori ed ai partecipanti del Convegno dell’“Istituto Pollio”.

Nulla di questo è vero.

Il pubblico ministero vi ha presentato una strategia di attacco, la “guerra rivoluzionaria” che, a suo avviso, sarebbe stata elaborata in quel Convegno diretta contro lo Stato, in funzione sovversiva. In realtà, nel Convegno si passarono in rassegna le tecniche della “guerra rivoluzionaria”, considerata mezzo d’attacco comunista, e si avanzarono delle proposte da dare in risposta, affinando e mettendo a punto tecniche di “guerra controrivoluzionaria” in un’ottica di difesa dello Stato.

Si tratta, come vedremo più avanti, di un errore fondamentale da parte del pubblico ministero, sempre che di errore si tratti, frutto della sua ignoranza in materia, e non di una “deviazione” dettata dalla mala fede.

Cos’è, quindi, la “guerra rivoluzionaria”?

“… è il prodotto più raffinato della dottrina marxista- leninista – risponde il colonnello Antoine Argoud (ufficiale paracadutista tra i vincitori della battaglia d’Algeri contro lo FLN algerino, vinta militarmente ma non sufficiente ad impedire l’abbandono francese dell’Algeria, fu uno tra i militari che costituirono l’OAS; condannato a morte in contumacia dal regime gollista, pena poi tramutata nell’ergastolo e tradottasi poi in qualche anno di carcere, è stato uno tra i più ascoltati teorizzatori delle tecniche di guerra controrivoluzionaria; uscì dal carcere nel 1968). Essa consiste in una disgregazione generalizzata della società, provocata grazie ad una tecnica incomparabilmente perfezionata di sovversione appoggiata dal terrore. La guerra rivoluzionaria utilizza tecniche a lungo sperimentate e collaudate dalle organizzazioni clandestine, d’agitazione e di propaganda: la guerra rivoluzionaria non rispetta alcuna legge.

Questa guerra per definizione è totale. Essa viene perciò condotta oramai su tutti i fronti: sul fronte politico, sul fronte militare, sul fronte economico, sul fronte sociale e anche sul fronte dell’arte e della cultura.

È una guerra che si combatte nelle officine ma anche nelle università. Per quanto ciò possa apparire straordinario – continua Argoud – l’esistenza di questa guerra rivoluzionaria costituisce per l’Occidente una terribile minaccia. Se infatti la guerra atomica colpisce le persone fisiche ed i beni materiali, la guerra rivoluzionaria ha come bersaglio le anime stesse degli uomini, la struttura stessa della società… Questa strategia della guerra rivoluzionaria comunista – conclude Argoud – è squisitamente offensiva.

Mosca ha stabilito una volta per sempre, in modo irrevocabile, il suo obiettivo strategico: la conquista del mondo. E per raggiungere questo obiettivo Mosca dispone in seno agli stessi paesi stranieri, come alleati, dei partiti comunisti, questi veri e propri cavalli di Troia dell’era moderna”. (E. DE BOCCARD, Lineamenti ed interpretazione storica della guerra rivoluzionaria, in AA.V.V., La guerra rivoluzionaria, Volpe, Roma, 1965, pp. 21-22).

Non cito a caso il colonnello Argoud, uno dei massimi teorici della “guerra rivoluzionaria”, perché sono proprio gli ufficiali francesi reduci dall’Indocina a rendere di drammatica attualità e di pubblico dominio il pericolo insito per l’Occidente nella “guerra rivoluzionaria” di stampo marxista-leninista, e a proporre l’adozione di tecniche di “guerra controrivoluzionaria” che essi applicheranno in Algeria dal 1954 al 1962.

Dopo la Corea, dove i militari avevano dovuto arrestare la loro offensiva al 38° parallelo, i soldati francesi si videro obbligati a lasciare l’Indocina pur non essendo militarmente sconfitti, in quanto la battaglia di Dien Bien Phu non aveva intaccato la forza ed il morale del dispositivo francese.

Si giunse così alla conclusione che la vittoria dei “comunisti” nei paesi del Terzo Mondo era resa possibile non dalla forza militare che i vari movimenti di liberazione riuscivano ad esprimere, bensì dalla debolezza delle forze politiche occidentali, incapaci di sostenere all’interno dei loro paesi l’offensiva propagandistica dei partiti comunisti, impegnati al di qua degli oceani a sostenere attivamente lo sforzo bellico dei loro “compagni” in Corea come in Indocina e altrove.

Di fronte all’unitarietà di condotta dei partiti comunisti europei ed extra-europei, il cui impegno era diretto e coordinato dalla centrale moscovita, stava la frammentarietà delle azioni difensive dei governi occidentali, incapaci, a detta dei militari, di comprendere che ad una guerra totale diretta da un unico Paese, la Russia, occorreva opporre una difesa comune con l’adozione di tecniche belliche comuni, nell’interesse di tutti.

Ma se furono i francesi a lanciare pubblicamente il grido d’allarme sul pericolo nel quale versava l’Occidente, già dalla fine della Seconda guerra mondiale gli americani studiavano le contromisure da prendere contro la guerra politica condotta dalla Russia in tutto il mondo, dall’Asia all’Europa, che rendeva precari gli equilibri stabiliti dalla vittoria sulla Germania e sul Giappone.

L’avvento dell’era atomica e l’esperienza della guerra mondiale appena conclusa ponevano nuovi problemi ai politici ad ai militari perché, da un lato si palesava la difficoltà di impiegare l’arma atomica quale mezzo risolutore delle controversie internazionali sfocianti in azioni belliche, dall’altro si palesava una forma di combattimento che nei sette anni di guerra aveva dimostrato la sua potenza e la sua praticabilità nel campo bellico.

Può giustamente scrivere un esperto: (W. HAHLWEG, Storia della guerriglia, Feltrinelli, Milano, 1973, pp. 12-13.).

“Se dietro ogni conflitto armato fra popoli e stati moderni si leva sempre l’ombra minacciosa della guerra atomica, dobbiamo pur tuttavia domandarci qual è, in pratica, la forma di guerra che si combatte. Uno sguardo al periodo che intercorre fra la fine della seconda guerra mondiale ed i nostri giorni dimostra che i frequenti conflitti armati (Grecia 1946-1949; Indonesia 1945-1949; Malesia 1948-1960; Indocina 1946-1954; Algeria 1954-1962; Cuba 1956-1959; Vietnam dal 1955) sono tutti più o meno condotti con i metodi della guerriglia che vengono impiegati in parte anche nella guerra di Corea (1950-1953). Ne risulta che la guerriglia dal 1945 in poi è divenuta la forma di guerra prevalente”.

Ma cos’è la guerriglia e quale è stata la sua influenza sull’evoluzione del pensiero militare nell’ultimo quarantennio? Diamo ancora la parola a Werner Hahlweg (ivi. pp. 11-12):

“Solo nei due decenni che seguirono la fine della seconda guerra mondiale si è compreso appieno quali possibilità si erano aperte con la guerriglia, nel quadro delle nuove combinazioni di carri armati ed arma aerea, con l’impiego massiccio di enormi quantità di materiale e lo sviluppo delle nuove armi per lo sterminio di massa. Certamente non nuovo come fenomeno in sé (come forma di combattimento di piccole unità affidate ciascuna alla propria iniziativa autonoma e combattenti in ordine sparso), la guerriglia si rivelava fenomeno nuovissimo per l’ampiezza e la portata delle forze che vi affluivano dal campo politico e sociale: scompariva la differenza fra militari e civili, si era dì fronte ad una resistenza popolare totale, come lotta di masse. Era dato di intravedere la possibilità di una riforma strutturale dell’esercito moderno. “Oggi infatti la differenza fra campo militare e campo civile tende a scomparire, nel senso anzi che il campo civile costituisce il vero e proprio campo d’azione della guerriglia, la quale però, per svilupparsi in modo efficiente deve valersi di una tattica e di una tecnica di tipo militare. È naturale che da questa situazione scaturiscano conseguenze concrete per la organizzazione, la politica, la strategia della guerriglia. In questo contesto si pone il problema del combattente di nuovo tipo, che trae i suoi impulsi motivazionali da una più robusta coscienza sociale e civico-ideologica” (ivi, pag.16).

Ma la guerriglia è solo una fase della “guerra rivoluzionaria” che può favorire il successo di un partito comunista, in un paese occidentale, anche senza giungere alla penultima fase che è appunto quella della guerriglia e quella, ultima, dell’insurrezione. Può conquistare il potere anche applicando le tecniche delle prime due fasi, quelle dell’azione psicologica e dell’infiltrazione, ovvero della creazione di gerarchie parallele. E questi sono i temi trattati nel Convegno dell’Istituto Pollio, sul quale ritorneremo fra poco.

Intanto, ricordiamo come dal 1945 fino al I960, per limitarci al periodo in esame, solo l’Occidente conobbe una serie di conflitti non convenzionali nelle sue tradizionali aree d’influenza, cosicché gli Stati Uniti dovettero prendere atto che la superiorità militare sull’Unione Sovietica, atomica in particolare, nulla serviva per arrestare un’offensiva che procedeva per linee interne. La strategia della “rappresaglia massiccia” che aveva informato la politica americana negli anni Cinquanta cedeva il passo, con l’avvento alla presidenza degli Stati Uniti d’America di J. F. Kennedy, a quella della “risposta flessibile”.

Il nuovo presidente accettava la sfida sovietica e cinese, cosicché già

“il 28 giugno 1961 il professor Walt W. Rostow, consigliere e presidente dell’ufficio politico di pianificazione del Dipartimento di Stato, tenne alla U. S. Special Warfare School una conferenza, in cui esponeva il programma antiguerriglia del governo americano nei suoi aspetti internazionali. «Contrattacco all’attacco della guerriglia» era il tema della conferenza, in cui Rostow sottolineava l’urgente necessità per gli americani di porsi alla testa di un ‘antiguerriglia universale nel senso della concezione del presidente Kennedy’ (ivi, pag.259).

Ora che la necessità di una risposta unitaria da parte occidentale era stata accolta e fatta propria al massimo livello nella nazione guida del mondo “libero”, alla “guerra rivoluzionaria” di Mosca e di Pechino si poteva opporre la “guerra controrivoluzionaria” di Washington.

 

  1. “LA PARATA E LA RISPOSTA”

In Italia, per gli esperti politici e militari americano-dipendenti dal 1945 e per i loro consiglieri di multicolori casacche, il come affrontare l’insidia rappresentata dal partito comunista è un problema di ardua e difficile soluzione.

S’incarica Rauti di chiarire i termini di tale problema all’auditorio del Convegno dell’Istituto Pollio (P. RAUTI, La tattica della penetrazione comunista in Italia, in La guerra rivoluzionaria, cit. p. 95):

“Oggi – spiega – la difficoltà di combattere il comunismo in Italia dipende quasi esclusivamente dal fatto che i comunisti non si vedono. Essi sono tanto onnipresenti quanto invisibili. Voi potete andare nei quartieri più “rossi” di Roma, voi potete andare nelle zone più rosse e sovversive della Toscana e dell’Emilia, dove i comunisti hanno già raggiunto da molto tempo – e sotto molti aspetti hanno già superato – la maggioranza assoluta (dal 60 al 70% di voti); voi potete andare nelle cosiddette “Stalingrado rosse” che non sono soltanto quelle di Sesto S. Giovanni, ma sono anche in certe zone agricole pugliesi, sono nel triangolo molisano, e via dicendo (zone nelle quali i comunisti, notoriamente, controllano la situazione); ebbene – si scandalizza Rauti – non vedrete mai un distintivo comunista all’occhiello. Questo per significare, per sottolineare, quasi, che i comunisti intendono conquistare lo Stato, attraverso la conquista del potere”.

Lucidamente, Rauti prosegue nell’esposizione del suo pensiero:

“Di solito si tende a dire che la g.r., come viene attuata in Italia, sia la trasposizione in termini appena appena adeguati delle tecniche di g. r. che i comunisti hanno seguito e stanno seguendo per la conquista del potere nei Paesi afro-asiatici o, più in generale, nei paesi sottosviluppati. A mio avviso le citazioni di Mao Tse Tung, le citazioni dei testi classici in materia, debbono servire soltanto come riferimento culturale, informativo, perché la tecnica per la conquista del potere, in un paese industrializzato, in un paese moderno, in un paese occidentale, ubbidisce a regole e necessità diverse. Regole – conclude Rauti – che io ho creduto appunto di riassumere prima nelle due considerazioni principali ovvero nella infiltrazione nei gangli dello Stato con il divieto quasi assoluto, per i propri attivisti, di ricorrere ad azioni di violenza, e nella continuità e nella capillarità dell’azione politica” (ivi, pag.97).

L’analisi di Rauti, nella sua chiarezza, dimostra che mancavano i presupposti per un’azione di forza politico-militare contro il partito comunista.

Il “nemico” esisteva, la sua insidia veniva valutata in tutta la sua “pericolosità”, tanto maggiore in quanto avanzava con il metodo di addormentare le coscienze e non con un attacco frontale e violento che, unico, avrebbe permesso all’apparato politico- militare, italiano e atlantico, di agire contro di esso con il consenso della Nazione ed il plauso internazionale. Un leggero “rumor di sciabole” era bastato nel luglio 1964 a mettere in riga un riottoso partito socialista che aveva scoperto, a sue spese, che stare al governo con la Democrazia Cristiana significava condividerne le negative responsabilità ma non il potere. Ma mettere fuori legge i comunisti con i quali anche la Chiesa cattolica si era messa a “dialogare”, annoverandoli fra i suoi “fratelli separati”, era politicamente impossibile.

Non si poteva ricorrere a soluzioni di tipo balcanico o sudamericano con il consenso, sia pure, di un presidente della Repubblica e della NATO, ma si poteva costringere il PCI a riporre l’abito della “talpa” per reindossare quello della “tigre”, creando così i presupposti per l’azione di forza politico- militare. Come? Fomentando l’estremismo della base del PCI e contrapponendolo al “moderatismo” del vertice del partito.

La base del partito comunista non aveva rinunciato alla “rivoluzione” e ancora aspirava alla “dittatura del proletariato” ed alla liquidazione del potere borghese. “Rivoluzionario” al suo interno e “moderato”, aperto al “dialogo” all’esterno, il PCI aveva proprio nell’estremismo della sua base, ancora fideisticamente certa della vittoria del “proletariato”, il suo tallone d’Achille.

Sarà Rauti, ancora lui, a ricordare ai compari e colleghi dell’Istituto Pollio che, dopo l’attentato a Palmiro Togliatti,

“le masse comuniste, per conto loro, scesero nelle piazze ed andarono molto al di là di quanto non volessero i loro dirigenti. Il che sta a dimostrare – esulta Rauti – che spesso i dirigenti comunisti non riescono a padroneggiare il cosiddetto «estremismo di base»” (ivi, pag.95-96).

Una base che già allora si sentiva a disagio per l’accusa di “revisionismo” e di “imborghesimento” che i primi gruppi “cinesi” lanciavano al partito, per lo più ignari (lo sapevano solo gli “infiltrati”) che i primi manifesti “cinesi” nelle strade italiane li avevano affissi quelli di Avanguardia Nazionale per incarico di Mario Tedeschi.

Teorie? No, Renato Mieli, nel suo intervento centrato su L’insidia psicologica della G. R. in Italia, dirà:

“Io credo che non dobbiamo sottovalutare l’importanza del contrasto che oggi divide l’Unione Sovietica dalla Cina; esso non può costituire un motivo automatico di controllo del mondo comunista, anzi il comunismo potrebbe trame vantaggio perché la presenza di un bicentrismo nel mondo comunista è suscettibile di attirare maggiori consensi al comunismo stesso. Ma questa contraddizione diventa invece un motivo di debolezza se si è capaci di denunciarla e di strumentalizzarla” (R. MIELI, L’insidia psicologica della guerra rivoluzionaria in Italia, in La guerra rivoluzionaria, cit., p. 101.)

La teoria dell’“infiltrazione” a sinistra nei gruppi “cinesi”, anarchici, marxisti-leninisti, critici verso il PCI è qui chiaramente annunciata. Qualche anno dopo (1967) diverrà realtà pratica e concreta ad opera anche, fra gli altri, dell’agente “T”, da voi meglio conosciuto come Giorgio Freda, e dai suoi amici e colleghi di apparato (di Stato), Claudio Orsi, Claudio Mutti e tanti altri.

Ed è in questa ottica di “infiltrazione” che Freda scriverà e pubblicherà, nel 1969, La disintegrazione del sistema che non ha mai rappresentato la “bibbia” di nessuno, tantomeno di chi scrive, che questa informazione la ebbe da Freda stesso nel 1971.

Nell’intervento dell’agente “Z”, alias Guido Giannettini, c’è poi un invito ben evidenziato anche tipograficamente nel testo citato, un invito dal sapore profetico perché “stranamente” precorre gli iniziali avvenimenti del 1968.

Cosa dice, quindi, Guido Giannettini trattando della “cultura” che in Italia è di “sinistra”?

“E, a questo proposito, se gli anticomunisti avessero maggiore sensibilità politica, approfitterebbero della situazione per sfruttare in senso anticomunista la naturale tendenza alla ribellione delle nuove generazioni culturali contro il conformismo delle dottrine ufficiali” (G. GIANNETTINI, La varietà delle tecniche nella condotta della guerra rivoluzionaria, in La guerra rivoluzionaria, cit., p. 165.).

Non credo sia una novità dirvi che i noti “katanghesi” dell’Università Statale di Milano si chiamarono così perché vennero istruiti nelle tecniche di guerriglia urbana e di difesa personale da ex-mercenari che avevano operato nel Katanga; nulla di nuovo rivelo quando vi segnalo che la cosiddetta “battaglia di Valle Giulia” all’Università di Roma, che segnò l’inizio ufficiale della contestazione studentesca, ebbe per protagonisti gli attivisti di Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale e MSI.

La strategia della tensione comincia così a delinearsi.

L’estremismo dell’ultra sinistra, così irritante ed invitante per i comunisti ortodossi, li porterà, in un momento di recessione economica, a radicalizzare le lotte sindacali in un crescendo che culminerà nell’autunno caldo” del 1969.

Le masse studentesche, opportunamente tacciate di “sinistrismo”, dopo aver inizialmente buttato fuori dalle Università i rappresentanti del PCI, e opportunamente manganellate a dovere, trasformeranno la loro “ribellione contro il conformismo delle dottrine ufficiali” in lotta politica contro il regime “borghese” e le sue istituzioni.

Con le strade e le piazze italiane trasformate in campi di battaglia, i teorici della “guerra controrivoluzionaria” possono mostrare alla nazione ed al consesso internazionale il “vero” volto del comunismo italico che, ormai sicuro della sua forza e del suo potere, ha smesso il vestito della “talpa” per reindossare quello della “tigre”.

La “sovversione” era nuovamente allo scoperto, con i metodi che le erano propri, attaccando le “forze dell’ordine”, incitando alla ribellione ed all’eliminazione fisica dei propri avversari (“Se vedi un poliziotto ferito, finiscilo”), denigrando i “valori patriottici”, sputando sulle divise degli ufficiali, occupando le scuole e le fabbriche. Ma non bastava, mancava qualcosa che in passato sempre si era accompagnato al garrire delle bandiere rosse, ai moti di piazza ed all’attacco sovversivo allo Stato: mancavano le bombe contro gli odiati simboli del capitalismo e della borghesia, bombe anarchiche possibilmente.

Nessuna paura! Ci saranno pure quelle, perché gli agenti “T” e “Z”, ed altri, dalle sigle ignote e dai nomi conosciuti, il loro lavoro lo fanno con scrupolo.

Si comincerà con la “fiera di Milano”, il 25 aprile 1969, si continuerà con i treni nell’agosto dello stesso anno, e, infine, quando il Ministro degli Interni, Restivo, sulla base dei rapporti del capo della polizia, Vicari, e dei suoi fedeli e solerti funzionari, il 9 e il 10 dicembre 1969, rivelerà in Parlamento, con toni angosciati e profetici, il pericolo “anarchico”, due giorni dopo, il 12 dicembre, gli “anarchici” fanno saltare la Banca dell’Agricoltura con i suoi clienti, a Piazza Fontana, a Milano. Mai profezia ministeriale si era avverata in così poco tempo!

La “strategia della tensione”, della quale gli attentati dinamitardi erano solo un aspetto, il più eclatante certamente, ma non l’unico, era oramai pienamente operativa. Ora che il disordine ed il terrorismo avevano evidenziato il pericolo “rosso”, la difesa dello Stato era divenuta obiettivo prioritario per le forze politiche e militari appoggiate e sollecitate in tal senso dalla pubblica opinione che, dopo Piazza Fontana, tutto avrebbe accettato e giustificato, nella sua stragrande maggioranza, pur di vedere ristabilito l’ordine infranto.

L’attacco” comunista allo Stato che nel 1965 era “percepito” da pochi, ora era avvertito da tutti; gli strateghi della “guerra controrivoluzionaria” avevano vinto la loro prima battaglia in difesa di quell’ordine politico, economico, sociale e militare scaturito dalla vittoria anglo-americana sull’Europa.

  1. LA DIFESA DELL’ORDINE POLITICO ED IL SUO STRUMENTO: LA GUERRA NON ORTODOSSA

Difesa di quest’ordine”, quindi, e lo ribadisce quell’americano prestato all’Italia che risponde al nome del socialdemocratico Ivan Matteo Lombardo, stabilendo nel suo intervento, più volte, il parallelo Lenin-Hitler, comunismo-nazionalsocialismo.

Ivan Matteo Lombardo, che si occupa di “guerra rivoluzionaria” da prima che Rauti entrasse ne II Tempo e Giannettini divenisse l’agente “Z”, per tacere di Freda e compari ancora liceali, inizia il suo intervento, mai citato da alcun pubblico ministero, in perfetta sintonia con quelli che l’hanno preceduto:

“Un problema di essenziale importanza sollevato da questo dibattito è, a mio modesto parere, quello dell’urgenza ormai divenuta angosciosa di portare a conoscenza di un’opinione pubblica – che non è informata, che segue schemi mentali tradizionali – il concetto ispiratore, l’essenza stessa, perfino la denominazione con cui indicarlo, di quel fenomeno enorme, proteiforme, infinitiforme che è la “guerra rivoluzionaria”, il tentativo cioè del comunismo di conquistare il potere non solo nel nostro Paese, ma ovunque. Infatti, l’aspirazione suprema del comunismo è la conquista del mondo” (I. M. LOMBARDO, Guerra comunista permanente contro l’Occidente, in La guerra rivoluzionaria, cit., p. 205).

Dopo questa premessa, il socialdemocratico Ivan Matteo Lombardo informa i colleghi dei tentativi fatti per designare in forma più appropriata questo conflitto permanente:

“Ad Oslo, nel 1960, all’Assemblea dell’Atlantic Treaty Association, un eccellente documento che ne riassume i dibattiti, che si sforzarono proprio di analizzare ed approfondire il fenomeno, la definì «battle for the minds of men», altri successivamente la definirono «guerra dei nervi», «guerra psicologica». A Parigi, nel 1960, e qui a Roma, nel 1961, due convegni internazionali, ai cui dibattiti parteciparono studiosi e politici di moltissimi Paesi, trattarono del problema definendolo «guerra politica». Per la facile comprensione dei più non era e tantomeno non lo è oggi, definizione felice, sia perché ingannevole nella sua insufficienza a conglobarne tutti gli aspetti, sia perché troppo blanda per indicarne la sostanza drammatica. In questo dibattito si è usata l’indicazione di «guerra non ortodossa», nell’evidente traduzione di una denominazione squisitamente militare di «un-ortodox war».

E, dopo aver consigliato di adottare come termine quello di “guerra permanente” al posto di “guerra rivoluzionaria”, conclude da par suo (ivi, pag.221):

“Mi rendo conto che, a fronte di un’impresa eversiva, di tale mole, di carattere internazionale, non è solamente sul piano interno che quei problemi vanno affrontati, ma altresì sul piano della più stretta collaborazione internazionale. Insomma, è un problema da Stato Maggiore di «controguerra rivoluzionaria», da «Interpol politica», che si propone al mondo libero se vuole sopravvivere, se non vuole morire più per colpa della propria stupidità che per violenza e raffinatezza dell’assalto nemico”.

“Antiguerriglia universale nel senso della concezione del presidente Kennedy”, Oslo 1960, Parigi, Roma 1961, “Stato Maggiore” internazionale, “Interpol politica”, ma dove stanno i fascisti e il fascismo in tutto questo?

Ma andiamo avanti.

Un altro intervento sconosciuto ai Pubblici Ministeri è quello di Adriano Magi-Braschi, sulla cui figura conviene soffermarsi, perché la sua presenza alla presidenza del convegno dell’Istituto Pollio fa giustizia delle tante ciarle (o ciacole, come meglio conviene dire qui a Venezia) sull’attacco fascista” allo Stato, teorizzato a detta del p. m. in quel convegno.

Presentato ai partecipanti con la qualifica di “avvocato”, definito da Eggardo Beltrametti, nel suo elenco pubblicato nel 1971 (riprodotto nelle pagine precedenti), come “polemologo e docente universitario””, Adriano Magi- Braschi era, in realtà, un ufficiale dell’Esercito Italiano, nel quale ricopriva il grado di tenente colonnello in servizio permanente effettivo, promotore dei “corsi d’ardimento” a Cesano, destinati alla creazione di speciali reparti antiguerriglia.

È pacifico, e non spreco parole per dimostrarvelo, che per assumere la presidenza di quel Convegno, il tenente colonnello Adriano Magi-Braschi ebbe l’assenso ed il permesso delle massime gerarchie militari, e che il segreto sulla sua appartenenza alle FF. AA. si giustifica con la necessità di “coprire” chi effettivamente volle e patrocinò quel Convegno, vale a dire lo Stato Maggiore dell’esercito italiano.

Vediamo ora cosa disse, il 4 maggio 1965, il portavoce dello Stato Maggiore dell’esercito italiano:

“Quanto è stato detto sinora – così inizia – dall’on. Ivan Matteo Lombardo, ha praticamente messo a punto il tema. Tuttavia vorrei fare una breve precisazione. In qualità di tecnico della guerra non ortodossa (vi specifico guerra non ortodossa, per riportare la discussione sul piano tecnico, perché altrimenti la discussione si politicizzerebbe), da sette anni a questa parte io ho avuto il piacere di incontrare l’on. Lombardo nelle più diverse parti del mondo: in congressi, incontri, in convegni che avevano per tema, sempre, la guerra del comunismo… Egli fu l’organizzatore (ed è bene ricordarlo) del primo convegno che si è tenuto in Italia sulla guerra politica dei sovietici” (A. MAGI-BRASCHI, Spoliticizzare la guerra, in La guerra rivoluzionaria, cit., p. 249).

Dopo aver posto in giusta evidenza la convergenza delle sue opinioni con quelle espresse dall’on. Ivan Matteo Lombardo, ed aver esaltato la figura del compagno di partito dell’on. Giuseppe Saragat, così continua:

“II primo congresso si tenne in Italia (se non erro nella data, nel 1961). Era stato indetto dalla Lega della Libertà, ad esso aderirono vari movimenti politici e di cultura italiani. Per la prima volta il problema fu presentato all’opinione pubblica italiana. Dunque, fu un atto di coraggio. Noi che da otto anni c’interessiamo a questo problema, ponemmo attenzione, soprattutto, a ciò che avrebbe detto il PCI, ma il PCI non reagì in alcun modo. Eppure in quel convegno furono pronunciate parole di fuoco nei riguardi della sua condotta” (ivi, pag.249-250).

Era indubbiamente un grosso problema per il colonnello ed i suoi superiori che il PCI non reagisse! Ma l’italico campione della guerra controrivoluzionaria, ufficiale dell’esercito italiano, non dimentichiamolo, fornisce anche la sua definizione di Patria:

“Io ho sentito dire – afferma – che dobbiamo assolutamente trovare un’idea, che dobbiamo corazzare i combattenti della guerra futura o di questa guerra, se si vuole accettare l’ipotesi che sia già in atto. Esiste già: esiste il fronte delle due guerre. Un profugo di Budapest, al quale sentii chiedere se difendeva la sua patria, rispose: “ma la mia patria è dove c’è la libertà”. Ecco – s’infervora il colonnello – esiste già una patria di tutti, una patria che va difesa. Esiste un’idea: è quella della libertà” (ivi, pag.251).

Dopo aver lanciato al suo meritato auditorio la parola d’ordine del nuovo nazionalismo, la mia patria è la NATO, il colonnello passa alle proposte operative:

“Se la prima guerra mondiale vide gli Stati maggiori combinati, cioè dalla prima guerra mondiale si ricavò la necessità di avere comandi composti delle tre armi, vale a dire Stati maggiori che ragionassero in funzione tridimensionale; se dalla seconda guerra mondiale sono usciti gli Stati maggiori integrati che comprendono personale di più nazioni; questa guerra vuole gli Stati maggiori allargati, gli Stati maggiori che comprendano civili e militari contemporaneamente”.

Qui il colonnello Magi-Braschi esprime un concetto chiave per la comprensione di tanti avvenimenti, l’interpretazione dei quali rimane oscura, e tale rimarrà, a coloro che nulla sanno dell’evoluzione del pensiero militare in questo quarantennio.

Si poteva, in questo processo, approfondire il discorso su una certa struttura mista, composta da militari e civili, ma il pubblico ministero, coerente con il nulla fatto in tre anni d’indagini, si è opposto anche alla citazione di Miceli e Spiazzi, e non ha colto l’evidente imbarazzo del prefetto Federico D’Amato obbligato, a domanda del Presidente, a dare una risposta sibillina che avvalora, non smentisce, il sospetto che questa struttura mista esista e sia una realtà viva e tragicamente operante nel nostro Paese.

Figurarsi! Per chi, come il pubblico ministero, crede che l’esercito sia sempre quello di La Marmora, ipotesi del genere sono fantapolitiche. Non viene il sospetto al pubblico ministero che la guerra Est-Ovest, perché di guerra è giusto parlare dall’una e dall’altra parte, è per sua natura politica e ideologica. Che la “guerra rivoluzionaria” e la “contro-guerra rivoluzionaria” impiegano gli stessi metodi e si propongono il medesimo fine: la conquista dell’animo, delle menti e delle coscienze delle popolazioni.

Si chiama “guerra non ortodossa”, proprio perché prevede l’impiego di mezzi non propriamente bellici: giornali al posto di mezzi corazzati, ad esempio! Non sa il dott. Ferrari che, dall’immediato dopoguerra, il Ministero degli Interni ha per legge di Stato la delega alla conduzione della propaganda e della contro-propaganda politica e che ogni servizio di sicurezza ha un proprio ufficio di “guerra psicologica” incaricato di tenere i contatti con i mass-media ai quali indirizza notizie, veline, informazioni per esigenze di natura politica e non militare o di sicurezza, nell’interesse del regime e dello stato che serve? Non sa il dott. Ferrari che dal concetto di “guerra totale” deriva quello di “difesa totale” dal quale, a sua volta, discende la necessità per i politici di delegare alle forze armate la difesa oltre che dello “spazio geografico” anche di quello “politico”? O crede che i servizi di sicurezza, che delle forze armate sono parte integrante, servano soltanto a dare la caccia alle spie o agli “eversori”?

Certo, ai tempi di La Marmora…

  1. “CROCIATA IN EUROPA”

(Titolo di un famoso libro del gen. D. Eisenhower, comandante supremo delle forze alleate in Europa durante la seconda guerra mondiale, primo comandante militare delle forze integrate NATO in Europa dal 1951, poi presidente degli Stati Uniti dal 1953 al 1960.)

Prima di proseguire nell’analisi della requisitoria politica del pubblico ministero, mi soffermerò brevemente sull’equazione fascismo-anticomunismo che pur se non è stata fatta espressamente dal dott. Ferrari, si evince chiaramente da tutto ciò che è stato detto.

In particolare, dando per scontato che fascismo è anche anticomunismo, il che non vuoi dire che sia solo anticomunismo, vedremo se il furore antibolscevico dell’ultimo quarantennio ha origine nel nostro Paese, da una eredità del passato regime, o se, viceversa, trova la sua matrice nella necessità nordamericana di utilizzare gli strumenti ideologici in funzione anti-russa.

Prima occorre brevemente premettere che all’ideologia totalitaria del marxismo-leninismo come arma della Russia si è contrapposta dalla metà del XX secolo un’ideologia altrettanto totalitaria, seppur non ritenuta tale dai più: l’americanismo.

Un misto di moralismo quacchero, di puritanesimo, di business, di dollari, di fanatismo messianico, che fonda le proprie origini e si alimenta nel mito dell’America, nazione-guida del mondo destinata da Dio alla salvezza dell’orbe terracqueo e dei suoi abitanti. A costoro offre il modello americano di vita sociale, economica, politica e culturale, nella certezza assoluta che sia il meglio che l’uomo abbia mai espresso e al quale possa aspirare. Offre e impone!

“Noi americani… siamo il popolo eletto, scelto da Dio, l’Israele dell’epoca moderna, noi abbiamo in custodia l’arca delle libertà del mondo… Dio ha dato a noi, e l’umanità si aspetta da noi grandi cose, e grandi cose palpitano nei nostri cuori” (M. MARGIOCCO, Stati Uniti e PCI, Laterza, Bari, 1981, p. 7).

Questa è la prosa ispirata di Hermann Melville nel 1892, certo uno scrittore, un poeta, l’autore di Moby Dick.

“Ho la sensazione che Dio abbia creato la nostra nazione e l’abbia portata al suo attuale livello di potenza per adempiere ad un grande compito – quello di difendere i valori spirituali, il codice della moralità contro le potenti forze del male che cercano di distruggere questi valori” (ivi, pag.8).

Questo è il tenore delle dichiarazioni di Henry Truman, presidente degli Stati Uniti, quello delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki.

Risparmio alla corte le citazioni di Wilson, Roosevelt, Kennedy e Reagan, tutte dello stesso tenore in una linea di continuità che giunge fino ai nostri giorni, e torniamo ai fatti.

Comincia Ellery Stone, capo della Commissione alleata in Italia nel 1945, che scrive in un rapporto a Washington del 15 giugno 1945:

“L’Italia si trova a un bivio… Come in altri paesi devastati dalla guerra, il terreno è fertile per la rapida crescita dei semi di un movimento anarchico foraggiato e diretto da Mosca allo scopo di portare l’Italia sotto la sfera d’influenza sovietica. Ci sono già i segni che, se la situazione attuale dura abbastanza a lungo, il comunismo trionferà, forse con la forza… I posteri giudicheranno severamente il nostro operato, se il primo paese europeo ad essere liberato dal fascismo e dal nazismo grazie agli sforzi di due grandi democrazie dovesse cadere preda di un’altra dittatura” (ivi, pag.40).

Nel settembre 1945, un documento americano redatto da uno speciale Comitato interministeriale indicava quale obiettivo prioritario per la politica degli Stati Uniti che l’Italia non precipitasse

“in un nuovo totalitarismo e da qui in uno schieramento politico internazionale diametralmente opposto agli interessi americani” (ivi, pag.44).

“Interessi americani”, signori, non “fascisti”.

Senza soffermarci sugli anni Cinquanta, veniamo pure agli anni del Convegno dell’Istituto Pollio, agli anni Sessanta, della “apertura a sinistra” al partito socialista di Nenni, autorizzata dalla Casa Bianca in opposizione al Dipartimento di Stato americano.

“In Italia l’esperimento di centro-sinistra non è ancora assestato e la direzione definitiva che il centro-sinistra potrà prendere è tutt’altro che chiara” (ivi, pag.101).

Un fascista? No, Henry Kissinger, il 27 giugno 1966, deponendo davanti alla Commissione Esteri del Senato americano.

“Siamo davanti ad una lotta senza speranza? L’America non ha più tempo per combattere” (ivi, p.102) s’interrogava, con toni melodrammatici e angosciati, il senatore Barry Goldwater, i cui interventi troveranno sempre spazio nelle pagine de Il Borghese, diretto da quel fraterno amico del prefetto Federico D’Amato che risponde al nome di Mario Tedeschi. L’Italia, scriveva uno studioso americano nel 1964,

“è diventata il grande campo di battaglia ed il banco di prova per la strategia comunista in Europa occidentale, non tanto perché il partito comunista italiano è il più numeroso e il più forte fra quelli dei paesi appartenenti alla NATO; ma perché questo forte partito ha sviluppato una specifica strategia studiata per assicurargli la leadership delle forze proletarie della Comunità Economica Europea, e, attraverso di essa, la guida dei movimenti operai dell’Europa capitalistica – che deve essere affrontata e considerata dagli altri partiti comunisti” (ivi, pag.102).

Quella “specifica strategia”, così lucidamente descritta dai teorici della “guerra contro-rivoluzionaria” dell’Istituto Pollio.

Potrei continuare per pagine e pagine con citazione di esempi sulla virulenza anticomunista dell’America e sul fanatismo con il quale questa nazione conduce le sue battaglie, ma ho voluto fare solo una digressione, spero utile, per dimostrare che non necessariamente la violenza anticomunista deve essere di marca “fascista”, e che la nazione guida del mondo occidentale, così come si configura dopo il 1945, è stata in realtà il motore di tutte le strategie politiche e militari anti-marxiste che sono poi state attuate in Italia, paese dipendente dagli Stati Uniti d’America, economicamente, politicamente, militarmente e culturalmente.

In questo quadro a stelle e a strisce, come s’inserisce il neofascismo post-bellico?

  1. IL NEO-FASCISMO

Per offrire una risposta esauriente bisogna tornare indietro nel tempo, alle “radiose giornate”, come le definì Palmiro Togliatti, al mese del sangue e delle rose del 1945.

Un insieme di testimonianze dirette, personali, e una somma imponente di documenti provenienti da tutte le parti interessate dimostrano che ci fu da parte delle forze militari e politiche della resistenza di segno anticomunista una selezione accurata fra i fascisti da eliminare fisicamente e quelli, i più, da non considerare tali per età, mancanza di connotati ideologici nell’adesione alla RSI, e per appartenenza alle Forze Armate regolari di Salò.

La ragione di questo atteggiamento di “benevolenza” era motivata da una preoccupazione che si era già palesata nel luglio del 1943 e che era stata fatta propria ed espressa dal re Vittorio Emanuele III, con una nota del 16 agosto 1943, indirizzata a Pietro Badoglio, con la quale ammoniva che

“l’eliminazione presa come massima di tutti gli ex-appartenenti al partito fascista da ogni attività pubblica deve recisamente cessare – perché altrimenti – la massa onesta degli ex-appartenenti al partito fascista, di colpo eliminata da ogni attività senza specifici demeriti, sarà facilmente indotta a trasferire nei partiti estremisti la propria tecnica organizzativa, venendo così ad aumentare le future difficoltà di ogni Governo d’ordine”.

Mutatis mutandis, nella primavera del 1945 si trattava di evitare che la “massa onesta” degli aderenti alla RSI e dei suoi soldati regolari, non di partito, si spostasse a sinistra, confluendo per reazione nei partiti socialista e comunista, dato anche il carattere fortemente “sociale” e anticapitalista dell’ultimo fascismo.

L’operazione venne facilitata anche dal fatto che i quadri medi ed i militanti del PCI si resero irresponsabilmente colpevoli di eccidi e massacri indiscriminati che cessarono solo per l’intervento delle forze alleate e regolari del Regno del Sud.

La sanguinosa selezione compiuta dalle forze democratiche antifasciste di stampo anticomunista in contrapposizione alla cieca caccia all’uomo scatenata dalla massa comunista, diede perciò i suoi frutti di cui hanno beneficiato tutti i “governi d’ordine” fino ad oggi.

Eliminata la classe dirigente della RSI, liquidata fisicamente la gran parte di coloro che alla Repubblica di Salò avevano aderito perché credenti in un’idea, all’esilio ed alla galera gli altri, nella restante massa dei “repubblichini” restavano come tratti politici distintivi due componenti che erroneamente vengono attribuite al solo fascismo: il nazionalismo e l’anticomunismo.

Questo, si potrà dire, vale per la “base” del neo-fascismo postbellico non per i capi, le “menti”, i “teorici” e via di seguito.

Al di là delle decine di sigle e di gruppi, l’unica formazione politica che rivendicava l’eredità della RSI e del ventennio fascista, di un certo spessore numerico, fu il MSI e dei suoi dirigenti ci occuperemo quindi brevemente.

ARTURO MICHELINI: non aderì mai alla RSI, pur avendo ricoperto durante il ventennio la carica di vice- federale dell’Urbe, dove rimase in attesa, occupandosi di commercio, dell’arrivo dei “liberatori”.

FRANCO MARIA SERVELLO: nell’aprile del 1945 scrisse un articolo, comparso in un giornale di Salerno controllato dalla V Armata, nel quale si compiaceva per la fucilazione di Mussolini. (Cfr. P. G. MURGLA, Ritorneremo, Sugarco, Milano, 1976.)

ALFREDO CUCCO: arrestato dal prefetto Cesare Mori quale “mafioso” benché dirigente di primo piano del PNF palermitano, assolto al processo, si vedrà rifiutare per anni udienza da Mussolini. Riportato in auge dal calabrese Scorza, nel 1943 fu vice-segretario del PNF. Aderì alla RSI dove occupò la carica di sottosegretario agli spettacoli del Minculpop, stabilendosi a Venezia. In ottimi rapporti col patriarca di Venezia, a fine guerra si rifugiò in convento da dove uscì per aderire al MSI. (Cfr. A. PETACCO, II prefetto di ferro, Rizzoli, Milano.)

GIORGIO ALMIRANTE: giornalista del Tevere e condirettore di Difesa della razza, aderì alla RSI e fu capo gabinetto del ministro Mezzasoma del Minculpop, in sostituzione di Gilberto Bernabei fuggito al Sud nel Natale del 1944. Il 25 aprile 1945, salutato dal ministro Mezzasoma con le parole “vado a morire con il duce”, preferì andare dalla parte opposta e si rifugiò a casa di un israelita di Torino. Unico fra tutti i dirigenti della RSI, e forse fra tutti gli aderenti, a non essere processato per “collaborazionismo”, nel dopoguerra riapparirà per fondare il MSI. Riapparirà anche il suo predecessore al Minculpop, Gilberto Bernabei, che sarà prezioso e fidato segretario personale di Giulio Andreotti per oltre un ventennio. (G. ALMIRANTE, Autobiografìa di un fucilatore, II Borghese, Milano, 1974).

L’elenco potrebbe continuare con altri personaggi “mitici” della storia missina, come ad esempio Ezio Maria Gray che il 25 luglio 1943 mandò un telegramma di congratulazioni a Pietro Badoglio (Cfr. A. PETACCO, Dear Benito, caro Winston, Mondadori, Milano, 1976), ma è meglio passare alle “idee”.

Il MSI, fin dal suo apparire si è sempre rifatto all’esperienza del regime fascista, in un arco di tempo che va dal 3 gennaio 1925 al 25 luglio 1945. Ne metterà in risalto la politica estera e nazionalistica, quella religiosa che porta al Concordato, quella sociale di stampo assistenzialistico, la componente antimarxista e la visione statalista.

Dell’esperienza della RSI, porrà in risalto solo due aspetti: il “sacrificio” di quanti, primo Mussolini, la costituirono per porre un fermo “all’ira tedesca” e la scelta per “l’Onore d’Italia” di quanti vi aderirono senza per questo essere fascisti.

Il MSI, cioè, non ha una propria ideologia, ha solo una linea politica che cammina sul filo di due direttrici: il nazionalismo e l’anticomunismo.

Due componenti ideologicamente derivate dal fascismo e non tali, quindi, da provocare il rifiuto del “sistema” democratico e antifascista che in tale partito non vede un antagonista né un pericolo, vuoi per la scarsa levatura intellettuale e morale dei suoi “capi”, vuoi per la mancanza di una componente ideologica definita che, unica, avrebbe potuto permettergli di proporre un’alternativa” che invece rimane solo uno slogan fra i tanti che il MSI ha escogitato per nascondere il vuoto ideologico che da sempre ha contraddistinto la sua esistenza e la sua attività.

Il Centro “Ordine Nuovo” di Pino Rauti ha una caratteristica sulla quale conviene soffermarsi: non ha mai avuto un programma politico né si è mai posto un obiettivo politico. L’unico intervento nell’agone politico risale alla campagna per la “scheda bianca” della primavera del 1968.

“Ordine Nuovo” non guarda all’esperienza del ventennio fascista come esempio positivo, si rifà principalmente a quella del nazismo, e per quanto riguarda la RSI la considera positivamente non dal punto di vista ideologico, bensì da quello dello “stile” di cui diedero prova i suoi combattenti.

Ma una formazione politica che non fa “politica”, che svolge solo un’attività di tipo formativo, direi pedagogico; che tende a “creare” degli uomini, a selezionarli, a reclutarli, affascinandoli con le teorie di Evola e di Guénon; che offre non solo idee ma anche modelli di vita che queste idee hanno concretizzato, attuato con coerenza, a che serve se non è una setta esoterica – ed “Ordine Nuovo” non lo è mai stato?

Per comprendere e dare una risposta a questo quesito occorre riportarsi alle tematiche sulla “guerra rivoluzionaria” e “controrivoluzionaria”, attingendo agli atti del Convegno dell’Istituto Pollio, là dove si parla del “soldato rivoluzionario” e del suo antagonista “controrivoluzionario”. Dice Eggardo Beltrametti:

“… l’elemento uomo, strumento e non soggetto della g. r. è un’arma e… l’impiego di quest’arma conseguentemente non è impacciato da considerazioni morali o spirituali” (E. BELTRAMETTI, La guerra rivoluzionaria: filosofia, linguaggio e procedimenti. Accenni ad una prasseologia per la risposta, in La guerra rivoluzionaria, cit., p. 76.).

E il soldato controrivoluzionario? Sempre secondo Beltrametti, “deve sentirsi protagonista della risposta alla g. r., non tanto per il fucile che porta, quanto per la sua forza interiore; deve insomma avere un carattere, una morale, una dottrina adatte per portare l’offesa sullo stesso terreno del nemico” (ibidem) perché non vi deve essere “alcuna differenza morale nel colpire il nemico con quelle armi che si dimostrino efficaci” (ivi, pag.78).

Un’attività culturale, formativa, quella del Centro “Ordine Nuovo”, divenuto centro di reclutamento per le esigenze della guerra “controrivoluzionaria”. Si cercavano “uomini-arma” selezionandoli fra i simpatizzanti, gli aderenti ed i “militanti” (questi i tre livelli di “Ordine Nuovo”) per una causa che non era la loro.

Uomini da inserire nel più assoluto segreto in organismi NATO, a difesa di quel mondo “occidentale” dominato dall’America, nella cui vittoria finale sull’Europa si individuavano l’origine della decadenza occidentale e della finis Europae.

Parole prive di riscontri? Opinioni mie?

Non credo che il Ministro degli Interni vi abbia inviato il facsimile della “scheda di adesione” al Centro “Ordine Nuovo” di Rauti, che conteneva fra l’altro domande riguardanti il servizio militare, il possesso di porto d’armi, gli sport praticati e altro ancora che nulla avevano di “culturale”. Non vi avrà certamente mandato copia del volantino “Uno Stato forte contro la sovversione rossa”, se sì avrete visto che rappresenta, graficamente ben stilizzato, un plotone d’esecuzione in procinto di sparare.

Il Centro “Ordine Nuovo” fu, quindi, all’insaputa della stragrande maggioranza dei suoi iscritti, “un’organizzazione parallela”, secondo quanto teorizzato dallo stesso Rauti nel suo intervento al convegno del maggio 1965, delle forze militari italiane ed atlantiche. Del resto le stesse esigenze della “guerra non ortodossa” comportano la creazione di nuclei di difesa civili che agiscono sotto il controllo dei militari e che sono stati in realtà formati, come testimonierà anni dopo lo stesso Beltrametti, in forma cauta e riduttiva, ma chiara e inequivoca, “alla frontiera orientale”. Dice testualmente Beltrametti: “A dire il vero una iniziativa di questa natura, la quale non ha superato la fase sperimentale, è stata presa in Italia in un’area limitata del territorio orientale” (E. BELTRAMETTI, Contestazione e megatoni, cit., pp. 151-152).

Del resto, per definire il ruolo di Pino Rauti è sufficiente leggere quanto dice Gianfranco Finaldi nel suo intervento introduttivo:

“… Questo non è un convegno di studio. Non è un convegno politico. Ad esso prendono parte persone oltremodo qualificate: studiosi, esponenti del mondo economico ed imprenditoriale, intellettuali, giornalisti e osservatori militari.

Non vi partecipano uomini politici in quanto tali, in quanto cioè militanti politici, dirigenti di partito e parlamentari. L’esclusione vuole essere una limitazione intenzionalmente e responsabilmente posta da noi stessi, onde evitare facili scivolamenti nel campo della polemica politica attiva. Si capisce che l’argomento è profondamente politico. Ma proprio per questo, siamo decisi a mantenerlo su un piano che conveniamo chiamare scientifico” (G. FINALDI, Inaugurazione del Convegno, in La guerra rivoluzionaria, cit., p. 15.).

Occorre commentare? Serve far rilevare il fatto che il “nazista” Rauti vi partecipa con ben altri titoli che non quelli di “politico”? Io credo di no.

Comunque, i “fascisti” ci stanno. Non lo negano. E se il pubblico ministero avesse avuto l’onestà di leggere gli atti del Convegno avrebbe anche saputo il perché e con quale ruolo.

Mi tocca ancora citare Eggardo Beltrametti, il teste rifiutato in questo processo:

“… constatiamo che in questa sede si sono trovate persone che nel passato hanno operato in solchi politici diversi. Vorrei soffermarmi un momento su questo dato positivo del Convegno. Esso infatti da un lato è stato onorato dalla presenza attenta ed impegnata dell’on. Ivan Matteo Lombardo, il quale è uscito dalla prigione il 25 luglio 1943. Perché egli era all’opposizione allora, quando in Italia era molto più difficile fare l’opposizione. Ma alcuni di noi, più giovani, che sono nati e vissuti nel solco del fascismo sono qui presenti e tutti, gli uni come gli altri, siamo degli ex che hanno un orizzonte comune, quell’orizzonte che è proprio di questo convegno. Infatti, noi ci troviamo sulla stessa barricata. Probabilmente lo eravamo da allora e non lo sapevamo” (E. BELTRAMETTI, La guerra rivoluzionaria…, cit., p. 259).

Ma non è un vincitore che parla, bensì un vinto, uno sconfitto che si umilia nel definirsi “ex” e che nella sua “cupidigia di servilismo” riduce il “fascismo immenso e rosso” di Drieu La Rochelle ad un movimento anti­comunista, meramente antibolscevico come l’Azione Cattolica o i Comitati Civici.

Quindi gli ex-fascisti ci stanno ed hanno il ruolo subalterno e subordinato che i vincitori, i detentori del potere, assegnano agli sconfitti che si mettono al loro servizio.

E quanto fosse subordinato e subalterno questo ruolo lo si vide nell’ottobre del 1969, allorché Pino Rauti fu obbligato ad “aprire l’ombrello” perché i detentori del potere avevano deciso che uno “Stato democratico e antifascista” non poteva essere “salvato” solo dalla minaccia comunista ma anche da quella “fascista” in nome di quella “centralità” del potere democristiano riaffermata fin dal 1945.

  1. “DESTABILIZZARE PER STABILIZZARE”

Ci fu uno scontro fra coloro che ritenevano tatticamente producente insistere solo sul pericolo “rosso” e coloro che, viceversa, temendo uno spostamento a destra dell’asse politico, volevano rappresentare un potere attaccato da entrambi i lati, “cittadella assediata” dagli “opposti estremismi”.

Uno scontro che rifletteva quello in atto da tempo negli Stati Uniti, fra Dipartimento di Stato, Casa Bianca, Pentagono, CIA e FBI e che alla fine si risolverà con la vittoria dei fautori degli “opposti estremismi” e provocherà la rottura, nella primavera del 1973, dei vertici militari e del SID.

Il pubblico ministero nella sua requisitoria è riuscito a confondere ciò che era chiaro e a negare ciò che è vero; di più, nel tentativo di provare l’attacco “fascista” allo Stato democratico, ha citato a sproposito la mia affermazione sulla finalità di una strategia che mirava a “destabilizzare l’ordine pubblico per stabilizzare il regime”, e di suo ha aggiunto che si voleva obbligare i cittadini a “barattare sicurezza con libertà”.

Ma chiunque si proponga questi fini agisce in difesa del regime e dello Stato che con esso s’identifica, non contro di esso, perché se nemici hanno la forza di “destabilizzare l’ordine pubblico” eventualmente lo fanno per aprire la fase dello scontro generalizzato contro lo Stato, nell’ottica di un’offensiva contro di esso, che tende ad indebolirne la capacità difensiva.

Se, viceversa, lo fanno per “stabilizzare il regime” o “il potere”, come ha preferito dire il pubblico ministero, allora costoro non sono nemici dello Stato, ma agiscono in un’ottica difensiva dello stesso, avendo inoltre la facoltà legislativa di poter offrire ai cittadini intimoriti “sicurezza” in cambio di minor libertà.

Nel primo caso applicano le tecniche della “guerra rivoluzionaria”, nel secondo quelle della “guerra controrivoluzionaria” così come sono state teorizzate nei vari convegni internazionali e non soltanto in quello del maggio 1965.

Il pubblico ministero, come esempio storico di “provocazione nazista”, vi ha citato l’incendio del Reichstag provocato, a suo dire, dai nazisti per incolpare i comunisti ed avere, in tal modo, la possibilità di metterli fuori legge.

Non ha riflettuto il p. m. su quanto diceva, altrimenti avrebbe taciuto, perché, ammesso e non concesso (storicamente non è provata la responsabilità dei nazisti) che gli hitleriani abbiano posto in essere quest’opera di provocazione ai danni del partito comunista, lo hanno fatto perché stavano già al potere (Hitler era cancelliere del Reich dal 30 gennaio 1933) e avevano quindi gli strumenti legali per utilizzare la provocazione mettendo fuori legge il partito comunista tedesco, cosa che puntualmente avvenne con il consenso del presidente Hindenburg.

Fu un’azione perfettamente inquadrata in una logica di difesa dello Stato, minacciato dal pericolo “rosso”.

Se dopo la strage di Piazza Fontana, il governo, con il consenso di una larga maggioranza parlamentare o meno, avesse messo fuori legge i gruppi anarchici e, dopo la strage di Brescia, quelli della destra extra-parlamentare, il p. m. vi avrebbe visto un attacco fascista alla democrazia o una difesa dello Stato democratico? La risposta mi pare superflua.

Ma c’è un esempio storico molto più calzante di quello citato dal p. m., la provocazione posta in essere dalla polizia politica zarista e portata avanti per anni con attentati ad alte personalità dello Stato, bombe, incendi, congiure, complotti, ecc. ecc.

Il metodo era efficace: “provocatori” infiltrati nelle varie organizzazioni di opposizione al regime trascinavano i loro “compagni” in campagne di attentati che permettevano poi al regime di emanare leggi sempre più repressive e alla polizia politica di aumentare i suoi poteri.

E la mimetizzazione di questi “infiltrati” era talmente perfetta e segreta che quando su alcuni di essi emerse la verità in sede processuale, i loro disgraziati compagni si rifiutarono per molto tempo di accettarla come tale. Perfino nella Russia zarista, a volte, la verità sull’azione della polizia politica veniva a galla: in democrazia, invece, i pubblici ministeri pur di negarla vanno a caccia di nazisti a quarantadue anni dalla fine del Reich. Longevi e prolifici questi nazisti! Anche la polizia politica zarista agiva, ed efficacemente, in un’ottica di difesa dello Stato, impersonificato dal “piccolo padre” di tutte le Russie.

Venendo ai nostri tempi, potrei ricordare tutti gli interventi compiuti dagli Stati Uniti in paesi latino-americani ed europei utilizzando metodi destabilizzanti dell’ordine pubblico, al fine, sempre puntualmente conseguito, di ristabilire “legge e ordine”, ma non vorrei ripetere, moltiplicando gli esempi, quanto ho già detto sull’Argentina e sui montoneros, i cui capi lavoravano per la giunta militare, mentre i loro militanti compivano attentati con le pastiglie di cianuro in bocca per evitare di cadere vivi, in caso di insuccesso, nelle mani della giunta.

Non posso comunque evitare di parlarvi del caso di David Graiver: banchiere di razza e religione israelita, con interessi in Europa e negli Stati Uniti, fallito nel 1977 e morto in un “incidente” aereo in Messico nello stesso anno.

David Graiver, banchiere di successo, fra le sue molteplici attività svolgeva anche quella di “riciclatore” del denaro che i montoneros si procuravano con i sequestri di persona; e all’epoca del suo crollo finanziario doveva dare a Firmenich e compagni la cifra di sedici milioni di dollari. (Mario Firmenich è stato uno dei capi di spicco dei montoneros, sopravvissuto indenne agli anni dei desaparecidos e della repressione militare, fin quando, nel 1985, sono apparse, anche sulla stampa italiana, le prime notizie e le prove del suo legame con i militari argentini, in particolare quelli vicini alla massoneria ed al ramo argentino della P2: non a caso Firmenich ha effettuato alcuni soggiorni in Italia, che costituiscono altri interessanti episodi della sua carriera di provocatore e confermano l’utilizzazione a tutto campo delle strutture di “Interpol politica” sognate da Ivan Matteo Lombardo). Graiver era un uomo potente e dalle potenti amicizie, in Argentina, in Israele, negli Stati Uniti e anche in Europa, così che quando, a seguito del crollo finanziario, venne individuato come finanziatore dei montoneros, e si diede alla latitanza, la stampa argentina lo indicò solo come estafador (truffatore), fuggito per aver fatto bancarotta con i soldi dei suoi clienti.

Si tacque anche sull’arresto di Jacobo Timmermann, israelita, direttore del quotidiano L’Opinion, anch’egli implicato nelle operazioni dei sequestri di persona compiuti dai montoneros, e, in particolare, in quello dell’italiano Oberdan Sallustro, e grande amico di David Graiver.

La giunta militare argentina impose il più rigoroso silenzio sugli aspetti politici di questa vicenda: Jacobo Timmermann venne posto agli arresti domiciliari senza subire alcun interrogatorio e con facoltà di telefonare ai familiari in Israele; il padre di David Graiver, inizialmente arrestato per complicità con il figlio, venne presto scarcerato; e la provvidenziale, quanto mai tempestiva ed opportuna morte di David Graiver, schiantatosi al suolo con il suo aereo privato, in Messico, sollevò la Giunta militare dall’onere di un processo imbarazzante che comunque era stato subito circoscritto al solo reato di “bancarotta fraudolenta”.

Qualche tempo dopo, alcuni amici, in Argentina, vennero in possesso di una lettera autografa di Sol Linowitz, consigliere speciale di Jimmy Carter per l’America Latina, indirizzata ad Antonio Allende, esponente della democrazia cristiana argentina, nella quale, oltre a trattare di un imminente vertice dell’Internazionale democristiana in Venezuela, a Caracas, si doleva per la morte del “nostro amico” (così nel testo) David Graiver. Per il governo argentino, impegnato a difendersi dall’offensiva propagandistica del presidente degli Stati Uniti sulla violazione dei diritti umani, era tale lettera un’arma di rara efficacia propagandistica contro Carter ed il suo staff, perché dimostrava i legami di un uomo del “clan” del presidente con la sovversione argentina: sulla lettera fu, invece, imposto il più rigoroso silenzio.

In conclusione, una fotocopia della lettera venne inviata a me, a Santiago del Cile, dove riuscii a farne pubblicare il testo insieme ad un mio articolo di commento sul quotidiano della capitale cilena Cronaca, nel quale inquadravo il “caso Graiver” nella sua giusta dimensione politica. Una settimana dopo, sullo stesso giornale, con la medesima evidenza, appariva un articolo firmato da un giornalista messicano, anticomunista viscerale, in ottimi rapporti con la giunta militare cilena, che aveva per titolo ”La grande estafa del banquero David Graiver”, presentato, secondo copione, come “truffatore”, “millantatore”, “furbastro”, che aveva abusato dell’ingenuità delle persone con le quali era venuto in contatto.

Un episodio emblematico ove si consideri che Sol Linowitz, amico personale dell’ex presidente Salvador Allende e suo consigliere legale negli Stati Uniti, era indicato pubblicamente come nemico giurato del Cile del generale Pinochet.

Non fu un caso che la risposta al mio articolo venne data, nei termini sopra indicati, da un anticomunista “feroce”, come non a caso mi trovo oggi contro, con mia soddisfazione, sia ben chiaro, gli anticomunisti nostrani, più o meno “fascisti” o presunti tali.

Non fu un caso che i termini usati allora, in Argentina ed in Cile, per definire David Graiver siano identici a quelli impiegati in Italia per tratteggiare la figura di Licio Gelli, caduto in disgrazia. Non è un caso che l’azione montonera in Argentina giustificò il colpo di stato del 24 marzo 1976 e lo sciopero dei camionisti cileni, finanziati dalla CIA, abbia giustificato il colpo di stato dell’11 settembre 1973.

Non è un caso che il denominatore comune di questi avvenimenti, in America Latina ed in Europa, nella diversità delle situazioni e delle soluzioni, sia sempre e soltanto l’anticomunismo. In America Latina si ricorre, secondo gli usi e la storia di quell’infelice continente, all’intervento diretto delle Forze Armate, mentre in Europa si difende la democrazia con tecniche più sofisticate.

 

  1. L’AZIONE PSICOLOGICA

È l’anticomunismo, in chiave anti-russa, l’ossessione dell’America post-bellica che difende il suo impero ed i suoi interessi, lanciando una crociata ideologica che coloro, in Italia ed ovunque, che ritengono il comunismo il “male” per antonomasia del XX secolo, trovano non solo necessaria ma sacrosanta ed alla quale aderiscono senza riserve.

Del fascismo e del nazionalsocialismo, miti sepolti e tramontati, si ricorda solo ciò che serve ad alimentare l’anticomunismo delle vecchie generazioni ed a generarlo nelle nuove. Non esiste un solo libro, a “destra”, in quella destra che viene definita, e a volte si autodefinisce, “fascista” o addirittura “nazionalsocialista”, un solo libro – dico -, che parli della guerra europea sui fronti occidentali, ma solo di quella sul fronte orientale.

Si ricordano le imprese delle Waffen SS sul fronte dell’Est e si tace sulle battaglie disperate delle divisioni SS sul fronte occidentale, perché insieme al loro sacrificio vada seppellito anche il ricordo che l’Europa fu vinta dagli aerei americani, dai mezzi corazzati americani e dalle armate americane.

Un’opera lenta, tenace, portata avanti da quarant’anni perché migliaia di giovani identificassero il loro nemico nell’imperialismo sovietico e dimenticassero di vivere sotto il tallone di quello americano.

  1. TRE LIVELLI PER UNA STRATEGIA DI GUERRA

Non occorse certo un gran lavoro di strategic intelligence agli esperti americani e della NATO per individuare nel “ventre molle” dell’Europa il punto debole dello schieramento atlantico sul finire degli anni Cinquanta. Più tempo gli occorse per trovare i punti deboli del nemico secondo le ricerche della tactical intelligence da applicare alla “quarta dimensione” della guerra, così ben delineata dall’antifascista Ivan Matteo Lom­bardo.

Non ripeterò qui quanto già detto e scritto sulla natura difensiva della strategia della tensione, aggiungerò soltanto che snidare il nemico, farlo uscire allo scoperto e distruggerlo risponde anch’esso a principi di strategia militare che impongono di intervenire prima che il nemico abbia completato la sua preparazione e il suo schieramento, in questo caso la “infiltrazione nei gangli vitali dello Stato”. Un’operazione così delicata, difficile e gravida di funeste conseguenze non viene varata da forze subalterne, ma deve essere legittimata da forze politiche chiamate, in futuro, a “coprire” l’intera operazione e gli uomini che l’hanno condotta a termine. Esistono quindi tre livelli:

  1. II livello politico, l’unico in grado di delegare e di legittimare l’operato delle Forze Armate e di sicurezza chiamate a condurre una guerra invisibile.
  2. II livello militare, che studia, analizza e conduce sul terreno le operazioni per il tramite dei suoi servizi di sicurezza, gli unici in grado di muoversi con la necessaria segretezza sul terreno della “quarta dimensione” di questa guerra.
  3. II livello civile, necessariamente politico, necessariamente subalterno al potere, necessariamente “estremista” nei metodi se non nelle idee, necessariamente “fanatizzato”.

IL LIVELLO CIVILE:

Nel caso italiano, si crea uno schieramento “civile” che va dai partigiani “bianchi” ai “fascisti”, uniti, fianco a fianco, nella lotta contro il nemico comune: il comunismo. Uno schieramento reso possibile da anni ed anni di lenta, efficace, “azione psicologica”.

Analizzando l’azione politica dei gruppi della destra extraparlamentare, senza distinzione alcuna, vediamo subito che non esistono programmi politici, né proposte, né obiettivi, minimi o massimi, vicini o lontani nel tempo.

Un dato ulteriore risulta subito ed è la mancata ricerca del consenso che sta alla base di ogni formazione politica in quanto tale. La loro attività è esclusivamente indirizzata ad arginare la “marea rossa”, le loro proposte politiche si riducono a chiedere il potere per le Forze Armate, unico “baluardo” della Nazione “tradita da un regime corrotto e corruttore”.

Nella destra extra-parlamentare si agisce (contro i “rossi”) o ci si addestra in vista dello scontro (con i “rossi”) dato per scontato ed imminente; ci si infiltra (fra i “rossi”) e quando ci si dedica alla formazione culturale si pone l’accento sull’esigenza imperiosa di difendere la civiltà occidentale, “uomini in piedi fra le rovine”, minacciata, occorre dirlo?, dai “rossi”.

L’anti-americanismo, che pure esiste in forma ridotta, non si traduce in termini politici, rimanendo confinato in un disprezzo intellettuale fine a sé stesso.

Giudicati nel loro insieme o separatamente, i gruppi della destra ex­tra-parlamentare appaiono incapaci di costituire una minaccia politica per il regime statale, e non per incapacità di uomini ma per scelta, perché (basti vedere le date della loro “nascita” ed i periodi del loro massimo sviluppo) sono nati quali formazioni fiancheggiatrici di forze capaci per potenza di giungere a una soluzione del caso italiano: le Forze Armate.

Destinate a fare da supporto all’azione altrui, abbandonate a sé stesse da coloro che se n’erano servite per tutti gli anni Sessanta e fino alla metà degli anni Settanta, le formazioni storiche della destra extra- parlamentare si dissolveranno perché avranno esaurito la loro funzione e, nulla vedendo al di fuori di un cieco anticomunismo, non saranno capaci di ritagliarsi uno spazio politico e spariranno come gruppi organizzati: senza storia e senza gloria.

Sul MSI, c’è poco da aggiungere a quanto detto. Vi ricordo che questo partito null’altro ha mai saputo proporre che “stato d’assedio”, “leggi di emergenza”, “potere ai militari”, “blocchi d’ordine” e “pena di morte”, in un programma qualunquistico che è comune a tutte le destre reazionarie, in Europa e fuori.

Per le forze partigiane “bianche” (che vanno dai socialisti ai liberali), il discorso è identico, perché identico è il fine e l’origine del loro raggrupparsi, sebbene – e questo diverrà di fondamentale importanza negli anni Settanta – dividano equamente il loro odio fra comunisti e fascisti, non rifuggendo però dallo strumentalizzare giovani “fascisti”.

Tutti costoro vivono nella speranza messianica dell’intervento risolutore delle FF. AA., direi quasi che è una fede abitualmente ispirata ed alimentata dall’azione psicologica degli ufficiali incaricati di operare in tali ambienti. Ed è in questo mondo, strumentalmente unito dall’avversione al comunismo e dalla fiducia nelle Forze Armate, che gli uomini dei “servizi”, appoggiati e coadiuvati da ufficiali dei carabinieri, e, in un rapporto di concorrenza e di rivalità, da funzionari della polizia politica, studiano, selezionano e reclutano gli uomini che per caratteristiche appaiono loro più idonei a trasformarsi in loro collaboratori permanenti ai quali affidare il compito di creare gruppi d’azione, proporre attentati, svolgere attività informative. A parte personaggi della levatura di Edgardo Sogno e di Pino Rauti, che sapevano fin dall’inizio il lavoro che svolgevano ed i fini che si volevano raggiungere, il primo con coerenza rispetto al secondo, la strumentalizzazione di quasi tutti gli altri fu possibile da un equivoco sempre presente nell’ambiente di destra: la distinzione tra Stato e regime. In totale perfetta malafede ai vertici, fino a giungere alla buonafede nei livelli più bassi della gerarchia, i militari hanno coltivato ed aizzato l’eversione, in questo mondo così vario, contro il regime presentandosi come i difensori dello Stato che ad esso si contrapponeva.

Se per i “fascisti” il regime era “corrotto e corruttore”, per i partigiani e gli antifascisti aveva “tradito“ gli ideali della resistenza; per entrambi era troppo debole nei confronti del comunismo. Le Forze Armate, per i “fascisti” rappresentavano un mondo nel quale non erano (e non si sentivano) discriminati ed emarginati, anzi si sentivano accettati e compresi per il loro fervore anticomunista, per il rispetto dei valori patriottici e dell’ordine gerarchico; per i partigiani, esse incarnavano la continuità ideale della resistenza combattente, lontana dai giochi di potere, logorata nella guerriglia e sacrificata sulla “Gotica”. Erano, esse, la garanzia più salda che gli ideali della lotta di “liberazione” non sarebbero stati traditi e che lo Stato democratico e antifascista sarebbe stato difeso a costo di qualche “operazione indolore” da compiere con l’avallo e l’appoggio delle forze politiche che dalla resistenza e dai suoi valori avevano origine ed in essi si riconoscevano.

E le Forze Armate e di polizia che più di ogni altra istituzione incarnano la “continuità dello Stato” e ne sono presidio e difesa, hanno coltivato questa illusione che almeno nei partigiani bianchi aveva fondamento e ragione d’essere, mentre nei “fascisti” era totalmente fuori luogo. E, non a caso, a pagare il prezzo di una strategia che non gli apparteneva, saranno, poi, chiamati a rispondere i soli “fascisti”, sul piano politico e su quello giudiziario.

IL LIVELLO MILITARE:

Solo nelle aule dei tribunali si sente, oramai, parlare di ufficiali “fascisti” che hanno “tradito” il loro giuramento di fedeltà alla Repubblica per “affinità ideologica” con i “terroristi neri”.

Mi limiterò a questo proposito a sottolineare come gli ufficiali ex­ aderenti alla RSI, riammessi in servizio nel 1952, non hanno mai raggiunto gradi elevati né mai hanno ricoperto incarichi di vitale importanza per la difesa della Nazione. A chi, come il pubblico ministero, ribadisce queste farneticazioni e rileva che ancora nel 1987 esiste una “congiura contro la verità”, in questo tipo di processi, naturalmente per colpa dei “fascisti”, ricordo che il generale Ernesto Viglione, capo di Stato Maggiore della Difesa, nel 1975, dodici anni or sono, ha definitivamente bloccato la carriera degli ufficiali provenienti dalla RSI.

Dalla fine della guerra, solo gli ufficiali che avevano partecipato alla “campagna d’Italia” nei ranghi del Corpo di Liberazione o avevano militato nelle bande partigiane, hanno avuto accesso alle più alte cariche militari nelle Forze Armate italiane e in seno all’Alleanza Atlantica.

Alcuni esempi:

GIOVANNI DE LORENZO, M. O. al valor militare per meriti resistenziali, operò nelle reti informative militari a Roma, in Toscana ed in Emilia, abolì i “corsi d’ardimento” voluti da Aloia e venne acclamato dal PCI, che lo considerò un difensore delle istituzioni democratiche; a destra lo si considerava un generale “neutralista” e Rauti scrisse un libello contro di lui, Le mani rosse sulle forze armate.

ENZO MARCHESI, decorato al valor militare per meriti partigiani, militò nella formazione azionista “Stellina”, capo di SM Esercito nel dicembre 1969, capo di SM Difesa nel dicembre 1970.

ALBERTO LI GOBBI, M. O. al valore partigiano, ha comandato la forza mobile della NATO (AMF) e, negli anni ’70, la brigata paracadutisti “Folgore”; i tedeschi, nel marzo del ’44 gli uccisero il fratello ed a lui, arrestato, lo interrogarono con metodi degni del commissario di PS Genova, dei NOCS.

RENZO APOLLONIO, decorato al valor militare per meriti partigiani, ha comandato la regione militare Tosco-Emiliana negli anni ’70.

DUILIO FANALI, capo di SM Aeronautica, sul finire degli anni Sessanta; dopo l’8 settembre 1943, aveva aderito al Regno del Sud.

GIULIO GRASSINI, capo del SISDE dal 1978 al 1981, ufficiale dei carabinieri, decorato al valor militare per meriti partigiani.

EUGENIO HENKE, ammiraglio, capo del SID, capo di SM Difesa, dopo l’8 settembre 1945 aveva aderito al Regno del Sud.

ARNALDO FERRARA, partigiano confesso e non pentito, dal 1967 al 1977 ha ricoperto la carica di Capo di SM dell’arma dei carabinieri, senza che questo riesca ad incuriosire qualche magistrato.

GIOVANBATTISTA PALUMBO, partigiano, come risulta dagli atti in vostro possesso, ha fatto brillante carriera nei carabinieri.

Altri nomi li troverete nello scritto sulla RSI e sulla resistenza che ho allegato agli atti, in particolare nei capitoli che trattano specificamente del ruolo dei militari nelle reti informative degli alleati e della resistenza. Prima di fantasticare di “colpi di stato” fascisti, ideati, sognati o tentati da ufficiali superiori dell’Esercito italiano, il pubblico ministero avrebbe dovuto informarsi se, ed eventualmente in quale misura, le Forze Armate sono autonome dal potere politico o sono, comunque, in grado di sottrarsi, in tutto o in parte, al controllo politico.

Avrebbe scoperto che la subordinazione delle alte gerarchie militari al potere politico è totale perché i meccanismi delle nomine, degli avanzamenti, delle promozioni sono in mano ai politici che li utilizzano con assoluta discrezionalità; avrebbe scoperto che il capo di SM Difesa è un consulente, in pratica, del Ministro della Difesa e che ha funzioni di coordinamento fra le tre Armi; avrebbe scoperto che Esercito, Marina ed Aviazione, attraverso i loro capi di SM, sono in eterna lotta fra loro, al fine di ottenere i finanziamenti necessari per mantenere a livelli accettabili e migliorare i rispettivi apparati bellici e che si rivolgono ai politici, unici in grado di soddisfare le loro esigenze.

Avrebbe cioè constatato che la dipendenza dei militari italiani dalla classe politica è totale, sia sotto il profilo tecnico-amministrativo che psicologico. Avrebbe, poi, scoperto, approfondendo le sue ricerche, che dalla fine della guerra, le Forze Armate italiane sono chiamate a garantire lo status quo voluto dai vincitori e che sono chiamate a rispondere della lealtà con la quale assolvono tale ruolo sul piano interno dal potere politico e su quello internazionale dall’Alleanza Atlantica, di cui l’Italia è parte integrante; il che si traduce in un doppio controllo sul loro operato, cosicché le Forze Armate italiane sono subalterne e subordinate al potere politico nazionale ed a un potere politico-militare sovranazionale.

Andando avanti nelle sue ricerche, il pubblico ministero avrebbe scoperto che le Forze Armate italiane sono totalmente dipendenti per il loro armamento dagli USA e da paesi dell’Alleanza Atlantica; che non hanno la possibilità di produrre mezzi bellici pesanti che non siano quelli consentiti su licenza degli Stati Uniti e, da una decina di anni, dalla Germania e che sono qualitativamente inferiori a quelli di Francia, Germania, Inghilterra; che questa dipendenza rende impossibile ai nostri militari, anche il solo ipotizzare uno sganciamento dall’Alleanza Atlantica e dalla tutela americana.

Avrebbe, quindi, scoperto che non solo dal lato politico ed economico ma anche, se non soprattutto, da quello militare siamo un Paese a “sovranità limitata” per il quale valgono ancora oggi determinate clausole del Trattato di pace e che ha la sola “libertà” di assolvere il ruolo delimitato assegnateci dai vincitori della Seconda guerra mondiale. Dal che discende che un ipotetico “colpo di stato” nel nostro Paese poteva essere fatto solo nell’ambito e con il consenso dei paesi aderenti all’Alleanza Atlantica, primo fra tutti gli Stati Uniti. Un “colpo di stato fascista”, inteso a ristabilire la situazione prebellica sul piano interno ed internazionale (Stato totalitario e indipendenza nazionale), in un Paese suddito come il nostro e in un consesso di nazioni interdipendenti fra loro, è solo un’affermazione priva di logica e basata sulla totale ed assoluta ignoranza della realtà in cui viviamo.

Bisogna, inoltre, considerare che se mai ci fosse stata un’opposizione politica “fascista”, organizzata e decisa, avrebbe eventualmente praticato la via della rivolta, dell’insurrezione che è una rivoluzione che parte dal basso; viceversa, il “colpo di stato” è una rivoluzione che parte dall’alto, da chi detiene, almeno in parte, le leve del potere e vuole impadronirsene totalmente.

Non a caso si parla di “rivoluzione fascista” del 1922 e di “colpo di stato” del 25 luglio 1943. Il pubblico ministero non ha mai parlato di “rivoluzione fascista”, bensì di “colpo di stato”, con ciò riconoscendo che l’eventuale azione eversiva era diretta ed alimentata dall’alto, il che implica il riconoscimento della responsabilità nell’eversione stessa di una parte almeno della classe dirigente politica e militare italiana. Nella sua superficialità, il pubblico ministero non ha considerato che “il colpo di stato”, a sua volta, va distinto dal provvedimento di necessità.

Cito un insigne giurista:

“Il colpo di stato si risolve in un abuso della legge vigente, che pretende di essere definitivo, cioè destinato a durare; il provvedimento di necessità è bensì una violazione delle norme vigenti, ma considerata come eccezionale e provvisoria”. (F. CARNELUTTI, Controvento, Morano, Napoli, 1961). E, mentre non esiste prova alcuna che in Italia si sia mai ipotizzato un “colpo di stato”, esistono tutte le prove che, in più occasioni, a partire dal I960 ad oggi, negli ambienti politici e militari detentori del potere e/o ad esso contigui, si è adombrato, suggerito, invocato, cercato il “provvedimento di necessità”, cioè quel particolare “colpo di stato” che temporaneamente sospende le garanzie costituzionali e permette l’emissione dei provvedimenti eccezionali contro le forze politiche che minacciano la sicurezza e la stabilità delle istituzioni.

Solo in questo caso le Forze Armate avrebbero potuto intervenire nel rispetto di precise norme costituzionali previste dal nostro ordinamento e il loro operato, legittimato dal potere politico e costituzionale, avrebbe assunto il significato difensivo dello Stato e della democrazia che solo avrebbe potuto giustificare un’azione di forza nel rispetto dei trattati e dello spirito dell’Alleanza Atlantica.

Così operando, politici e militari avrebbero giustificato il loro agire invocando lo stato di necessità provocato dall’attacco eversivo di sinistra prima, di destra e sinistra dopo, e apparendo i difensori della democrazia e della libertà minacciate dai portatori di ideologie totalitarie; sul piano internazionale, inoltre, avrebbero garantito la permanenza dell’Italia nell’Alleanza Atlantica o, secondo la terminologia corrente, nel “mondo libero”, che l’avanzata elettorale e “l’infiltrazione nei gangli vitali dello Stato” del PCI poteva rimettere in discussione avviandola ad una scelta neutralista. Avrebbero così ristabilito “legge e ordine” in un paese turbato dagli scioperi, dagli scontri di piazza, dagli attentati e dalle stragi, riscuotendo il plauso della grande maggioranza della popolazione che avrebbe accolto con sollievo il baratto “sicurezza con libertà” e, internazionalmente, il rispetto e il consenso dei Paesi della NATO.

Il ruolo delle Forze Armate e in particolare dell’arma dei carabinieri, preposta per compiti istituzionali alla difesa della sicurezza del Paese, fu negli anni ’60 quello di creare lo “stato di necessità” attraverso i suoi servizi di sicurezza e i suoi apparati di polizia politica.

La strategia della tensione che ha attraversato un ventennio della nostra storia trova così la sua logica e la sua ragione d’essere; insieme trovano spiegazione logica e coerente le coperture che ancora oggi vengono date a coloro che, civili o militari, hanno contribuito al successo di tale strategia, eversiva nei metodi e difensiva nei fini, che non possono essere sconfessati o abbandonati da un potere politico e militare che dal loro operato ha tratto solo vantaggio e che dall’emergere della verità può ricavare solo danno.

Come hanno creato lo “stato di necessità”? Operando lungo due linee direttrici: l’azione diretta e l’omissione, ovvero la “copertura”.

L’azione diretta affidata ai civili inseriti in una struttura mista o reclutati per la bisogna negli ambienti politici più fervidamente anticomunisti o predisposti all’azione. L’omissione o la “copertura” affidata ai CS, agli ufficiali dei reparti preposti all’ordine pubblico dei carabinieri ed ai funzionari della polizia politica. Non uso a caso il termine di “omissione” perché chi conosce il modus operandi degli addetti alla sicurezza sa che costoro non hanno mai interrotto la loro attività informativa, cioè non si sono mai astenuti dal raccogliere informazioni su uomini, gruppi, attentati, congiure e chi più ne ha più ne metta, ma ha “omesso” di trasmettere alla polizia ordinaria ed alla magistratura le notizie di cui venivano in possesso. I servizi di sicurezza nel nostro Paese sono numerosi e non collaborano fra loro, tanto più che una compartimentazione stagna esiste anche all’interno dei singoli servizi. È normale, quindi, che i civili (e a volte non solo quelli) vengano schedati e sorvegliati da questo o quel servizio ignaro che i “sorvegliati” magari lavorano per un altro servizio. Non c’è timore di errore in tale attività perché i Centri periferici non hanno competenza per agire direttamente, ma svolgono la loro attività informativa ed inviano le notizie raccolte al Centro che provvederà a conservarle nei suoi archivi o a utilizzarle quando, e se, se ne presenterà la necessità. Anche la conoscenza del modus operandi degli “uomini dell’ombra” conferma che il coordinamento di una strategia operativa che coinvolge direttamente o indirettamente migliaia di persone può essere fatto solo ai vertici e dai vertici degli apparati di sicurezza e di polizia. Le “coperture” non possono scattare mai a basso o medio livello della gerarchia, perché ciò che un CS periferico può “coprire” può essere scoperto da un “servizio cugino”, con le conseguenze che si possono facilmente intuire; tanto più non saranno subalterni a “coprire”, senza essere a loro volta autorizzati e “coperti”, se i fatti sono di estrema gravità, o coinvolgono militari o poliziotti, cioè “colleghi”.

Ma di tutto questo, che ne sa il pubblico ministero? E, sempre restando in tema di quel che non sa il p. m., Amos Spiazzi, altro teste rifiutato in questo processo, ha pubblicamente dichiarato che quando, giovane ufficiale del servizio “I” dell’Esercito, prestava servizio in Alto Adige, al tempo degli attentati firmati dagli irredentisti sud-tirolesi, ebbe a vantarsi con un suo superiore per il fatto che nel settore di sua competenza non esplodevano bombe… venne rimproverato perché le bombe era meglio che esplodessero.

Ed è provato che i servizi italiani avevano anche i “terroristi” austriaci che le bombe le mettevano per loro conto!

Qualcuno ha mai fatto l’elenco degli ufficiali dei carabinieri, dei servizi e dei funzionari di polizia che hanno prestato servizio in Alto Adige, al tempo della guerriglia sud- tirolese, e che ritroveremo negli anni della “strategia della tensione” in punti chiave del territorio nazionale e coinvolti in episodi a dir poco oscuri?

Non viene il sospetto al p. m. che, varata la strategia della “destabilizzazione dell’ordine pubblico per stabilizzare il regime”, era meglio che le bombe esplodessero in tutto il territorio nazionale, prima “rosse”, poi “nere” e, infine, multicolori?

Altrimenti come lo “destabilizzavano” questo ordine pubblico!

L’ennesima riprova del ruolo avuto dagli apparati militari e di polizia in questa strategia, la si ottiene scorrendo anche parzialmente l’elenco degli ufficiali e dei funzionari di polizia chiamati, se non a rispondere di reati, a spiegare certe omissioni o carenze investigative. Un elenco lungo che non ritengo utile riproporvi (si potrebbe cominciare dall’attuale questore Antonino Allegra, per finire con il noto generale Musumeci), perché il problema sostanziale non è quello di scorrere un lungo elenco nominativo, ma di dire una volta per sempre se costoro sono tutti “fascisti” infiltrati negli apparati di Stato, o “traditori” della Repubblica (e in tal caso che si cominci a provarlo e a spiegare perché, benché inquisiti, come Allegra nel 1969, li ritroviamo sempre ai loro posti con accresciute responsabilità e poteri) o sono individui che hanno operato in ossequio a direttive dall’alto e quindi fedeli allo Stato nel cui interesse hanno agito, anche violando il codice penale certo, ma in nome della ragion di Stato.

IL LIVELLO POLITICO:

Non ripeterò quanto ho già scritto sulla preminenza dei politici sui militari e, quindi, sul controllo totale ed assoluto che il potere politico ha sempre esercitato sulle gerarchie militari, mi limiterò a fare degli esempi concreti.

Il pubblico ministero vi ha portato, come esempio di “colpo di stato fascista” il cosiddetto “Piano Solo” del luglio 1964, citandovi alcuni passi tratti dalla relazione di minoranza della Commissione parlamentare d’inchiesta. Io comincerò col citarvi alcuni passi della relazione di maggioranza di tale Commissione, così chiamata perché espressione della maggioranza di governo, di quella parte politica cioè che, a dire del p. m., sarebbe stata la prima vittima del golpismo “fascista” di De Lorenzo e accoliti:

“Cosa dunque è accaduto? E’ avvenuto che, nella primavera-estate del 1964, il generale De Lorenzo, quale comandante generale dell’Arma dei carabinieri, al di fuori di ordini o direttive o di semplici sollecitazioni provenienti dall’autorità pubblica (specificamente il ministro dell’Interno o il ministro della Difesa o il Presidente del consiglio dei ministri) e senza nemmeno darne loro notizia, ideò e promosse l’elaborazione di piani straordinari da parte delle tre divisioni dell’Arma operanti sul territorio nazionale”.

A questo, risponde ancora la relazione di maggioranza: “Tutto ciò nella previsione che l’impossibilità di ricostituire un governo dì centro-sinistra avrebbe portato a un brusco mutamento dell’indirizzo politico tale da creare gravi tensioni determinando una situazione dì emergenza speciale”.

Vale a dire alla temutissima, negli ambienti economici, militari, politici ed ecclesiastici, ipotesi di una rinnovata alleanza PSI-PCI con la ricostituzione di un “Fronte Popolare”. E, visto che non c’è traccia di golpismo “fascista”, la relazione di maggioranza imputa al generale De Lorenzo la sola omissione di aver predisposto un piano dì difesa della sicurezza nazionale e di averlo portato al livello di esecuzione senza aver preventivamente informato i ministri competenti e il governo.

“Difesa della sicurezza nazionale” minacciata dall’eventuale alleanza PSI-PCI, nell’ottica del potere democristiano e dell’Alleanza Atlantica; certo, anche Almirante sarebbe stato felice se il “Piano Solo” fosse divenuto esecutivo, ma l’esultanza di codesto forcaiolo non è sufficiente per parlare di “colpo di stato fascista”.

D’altronde, a quali conclusioni giungono le mancate vittime di De Lorenzo? I relatori di minoranza scrivono che è provata la connessione “tra l’operazione elaborata e preparata dal generale De Lorenzo e uomini politici di elevato rango e responsabilità” e, come si sa, fanno un preciso riferimento anche al capo dello Stato, il democristiano Antonio Segni.

Non ci sono riferimenti ai “fascisti’ sempre che non si voglia ritenere tale l’allora capo dello Stato, ma sono certo che il p. m. non vorrà giungere a tanto.

Come finisce, è noto: a De Lorenzo, quale premio per aver fatto da capro espiatorio, uomini della DC offrono la presidenza dei Cantieri Navali di Taranto, ma il generale rifiuta, si mette in politica prima coi monarchici e poi con i missini quando i primi confluiscono nel partito di Almirante.

Ma sul “Piano Solo” non sappiamo tutto perché c’è stato chi ha “coperto”, costellando di omissis i documenti e utilizzando a tutto spiano l’arma del segreto di Stato; un uomo che così facendo ha permesso ai “fascisti” del “Piano Solo”, come Dino Mingarelli, quello “ideologicamente affine” a chi scrive, secondo Casson e Ferrari, di continuare nella loro carriera di ufficiali dei carabinieri e di “tradire la Repubblica”. Faccio il nome, certo che il p. m. vorrà chiederne l’incriminazione, previa acquisizione della sua testimonianza nell’inchiesta-bis su Peteano: si chiama Francesco Cossiga, ed attualmente risiede al Quirinale, come già il suo conterraneo Antonio Segni nel 1964.

Veniamo al noto Giulio Andreotti, punto di riferimento del generale Gianadelio Maletti, capo del reparto “D”, “sicurezza interna”, del SID, che il p. m. ha definito “famigerato”. Il capo di tale “famigerato” ufficio, nella primavera del 1973, si pone al servizio di Andreotti ed entra in guerra con il capo del SID, Vito Miceli, che gode di altri protettori politici.

Ed è subito guerra, a colpi di informazioni riservate passate ai giornali, delazioni e riaperture di inchieste da parte della magistratura che si vede beneficata di notizie ed informazioni.

Andreotti, per esempio, ha già da tempo deciso, dagli inizi del 1972 o ultimi del 1971, che il pericolo per la democrazia viene dai “fascisti” e, con il valido aiuto di Maletti e La Bruna, decide di provarlo facendo riaprire l’inchiesta sul “golpe Borghese” che la magistratura romana aveva già dichiarato inconsistente. Per inciso, sulla rivista II Borghese, diretta dal fraterno amico del prefetto Federico D’Amato, Mario Tedeschi, un tale di nome Filippo De Jorio dedica ad Andreotti un lungo articolo dal titolo alquanto antipatico, “Un Giuda è fra noi”. Alcuni giorni dopo, con una tempestività sorprendente, i NAP, i “Nuclei Armati Proletari”, sparano alle gambe di Filippo De Jorio che così capisce, almeno credo, che non solo non è il caso di scrivere articoli così antipatici, ma forse è meglio non fare nemmeno gli articoli, altrimenti arrivano i NAP e sparano: la prima volta alle gambe, la seconda chissà.

Tornando all’attività del nostro, lo vediamo impegnarsi in rivelazioni sull’aiuto dato, ad esempio, dal SID a Giannettini del quale rivela l’appartenenza al servizio; lo vediamo denunciare sulla base dei dati raccolti da Maletti e La Bruna, il “pericolo” corso dalla democrazia il 7 dicembre 1970: lo vediamo minacciare l’apparizione, accanto agli imputati per la strage di Piazza Fontana, di imputandi.

Giulio Andreotti pare conoscere tutto e poter parlare di tutti ma, guarda caso, cessate le “guerre” interne al potere, quando arriva a Catanzaro non ricorda, non gli pare di aver detto quello che hanno scritto i giornali, perché, per carità, lui sarebbe disposto a collaborare ma non sa. Fu un bel colpo quello della riapertura dell’inchiesta sul “golpe Borghese”, vanamente contrastata da Vito Miceli che, per primo, ci rimette le penne e finisce in galera per l’inchiesta sulla “Rosa dei Venti”; mentre Maletti s’incontra con il comunista Pecchioli, in forma riservata, e La Bruna veglia sulla segretezza degli incontri; si sa, Andreotti ritiene che il PCI sia una “tigre di carta” e gli anni Sessanta lui li ha già dimenticati. Ma, se per Maletti c’è cotanto onorevole, per Miceli non c’è nessuno?

No, anche lui, tranquillizzatevi, ha un onorevole che lo stima. Aldo Moro. È Moro a fare fuoco e fiamme quando arrestano Miceli e ad inviargli un telegramma di solidarietà quando viene arrestato. È sempre Moro, in quel periodo, ad imporre “segreti di Stato” a tutto spiano e omissis sui documenti da mandare, perché non se ne può fare a meno, a certi magistrati. E non fu l’on. Tanassi a raccomandare agli ufficiali del SID di “dire il meno possibile”?

Quanti “segreti di Stato” hanno opposto i politici alla magistratura: sulle rivelazioni “Cavallaro”; sulle attività di Luigi Cavallo; sull’opera di Edgardo Sogno; sulla “Rosa dei Venti”, ecc. ecc. I nomi di questi politici li conosce anche il pubblico ministero, sono nomi di primo piano nella storia di questo Paese, dalla fine della guerra ad oggi, e conosce anche la loro attività di “insabbiatori” e tuttavia ne trae la convinzione che costoro ed il regime che rappresentano sono stati minacciati dall’eversione fascista, e cosa coprono e chi coprono allora costoro? Le trame fasciste ed i fascisti che li volevano abbattere? Un minimo di serietà serve, altro che “pericolo fascista “!

In realtà, il livello politico sa bene cosa copre, quale verità occulta e perché. II potere politico è l’unico e vero beneficiario della strategia della tensione e non potrà mai abbandonare i suoi generali che l’hanno organizzata e costoro a loro volta non possono lasciare che i loro subalterni paghino per aver eseguito i loro ordini né possono abbandonare al loro destino i “civili” che, a loro volta, devono tacere anche a costo di farsi qualche decina di anni di carcere, tanto le assoluzioni, prima o poi, arrivano.

Così i tre livelli, politico-ideativo, militare-organizzativo e civile-esecutivo sono fermamente uniti da un imprescindibile filo d’omertà: al terzo livello, si fa i “martiri dell’idea” e i “perseguitati politici”; al secondo livello, gli ufficiali intemerati che, al più, si sono rivelati incapaci; al primo livello, si loda la magistratura e la si incoraggia a stroncare il terrorismo residuo e si esalta la vittoria della democrazia sull’eversione “nera e rossa”; intanto si continuano ad opporre “segreti di Stato”, si varano leggi che tendono a limitare il potere dei magistrati e si premiano i “dissociati” perché stiano zitti; è sufficiente che si battano il petto e riconoscano che lo Stato democratico aveva ragione e loro torto; alla stampa “indipendente”, poi, ai mezzi radiotelevisivi, è sufficiente ordinare di tacere.

  1. P2: UNA STRUTTURA PARALLELA

“In ogni processo per strage chi cerca la verità si è sempre scontrato con chi inquina le prove o addirittura fa fuggire i responsabili. In un solo processo però, ed è proprio quello per l’uccisione dei tre carabinieri a Peteano, si sono visti uniti nella congiura contro la verità, al completo, tutti i poteri dello Stato”.

Perché? Risponda, pubblico ministero.

Perché “Gelli nel 1944 era un brigatista nero, ideologicamente fanatico”. Così risponde il dott. Gabriele Ferrari, pubblica accusa al processo di Peteano, destinato a lunga e brillante carriera. Gli atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla Loggia P2 li avete, allegati alla documentazione processuale, e non servirebbe da parte mia confutare l’incredibile affermazione del p. m.

Infatti, sottolineare che Gelli era un “brigatista nero” nel 1944 e per di più “ideologicamente fanatico”, cancellando quarant’anni dalla vita di costui, quasi che il Gran maestro della Loggia P2 abbia tramato da allora contro la Repubblica con fanatismo è aberrante sotto il profilo storico, logico e politico.

Lo avete scritto nella relazione Anselmi, che Licio Gelli faceva il doppio gioco senza alcun fanatismo ideologico e che, a guerra finita, consegnò ai servizi di sicurezza una lista di cinquantasei nomi di “collaborazionisti”, ancora protetti dal segreto perché fra costoro ci sono persone che hanno costruito le loro fortune postbelliche su meriti antifascisti che, evidentemente, non potevano avere e rivendicare.

Affermare che per quarant’anni Licio Gelli abbia ingannato tutti coloro che, in un modo o nell’altro, lo hanno aiutato nella sua ascesa all’interno della Massoneria e del potere, è talmente assurdo che non merita la dignità di una confutazione, in un momento, poi, in cui Gelli “tratta” con le autorità italiane per tornare in Italia, dopo essere “evaso” da una prigione svizzera di “massima sicurezza”.

Licio Gelli, doppiogiochista, collaboratore dei servizi di sicurezza, massone, era anche anticomunista come lo era tutta la Massoneria italiana, ispirata e diretta da quella nordamericana più che britannica. Assieme a lui ed alla Massoneria, lo erano la classe politica dirigente del nostro Paese, la Chiesa cattolica, la classe imprenditoriale ed economica, l’alta finanza e le Forze Armate; e, in un mondo “libero”, votato alla sconfitta del comunismo, disperatamente cercata per i propri interessi dagli Stati Uniti d’America, l’anticomunista Gelli fa carriera, anche in virtù dei suoi sentimenti anticomunisti: dov’è la singolarità del caso?

La riprova la troviamo negli elenchi della Loggia P2, i cui iscritti erano, ovviamente, anticomunisti e non erano quegli ingenui sprovveduti che potevano essere ingannati o truffati dal diabolico “brigatista nero”, Licio Gelli, impegnato a tramare contro la Repubblica democratica e antifascista. Nella lista della Loggia massonica diretta da Licio Gelli si trovano i nomi del fior fiore dell’antifascismo italiano, tutti con un passato resistenziale e alcuni, addirittura, con un ruolo preminente nella resistenza, nella cui leggenda sono entrati a pieno titolo.

Gli esempi e le prove abbondano:

EDGARDO SOGNO RATA DEL VALLINO, responsabile dell’organizzazione “Franchi” durante la resistenza, elemento di punta dell’antifascismo liberale, giunto ai vertici, nonostante la giovane età, del movimento partigiano; la sua organizzazione, dedita allo spionaggio ed ai collegamenti con gli alleati, viene considerata fra le migliori e le più attive in assoluto fra quelle operanti nel territorio della RSI.

Uomini destinati ad un brillante avvenire nel dopoguerra fanno parte della “Franchi”, agli ordini di Sogno, valga per tutti quello di Adolfo Beria d’Argentine, attuale Procuratore generale a Milano e, a quel tempo, tenente delle Forze Armate di Salò e quindi doppiogiochista, come Gelli.

UMBERTO FEDERICO D’AMATO, collaboratore dei servizi di sicurezza americani nel periodo 1943-1945, giovane commissario di PS della Repubblica di Salò e quindi doppiogiochista, come Gelli.

ORTOLANI UMBERTO, ufficiale del SIM (Servizio Informazioni Militari), operò al nord durante la guerra civile, in stretto contatto con il vertice del CLN e del CVL.

JOHN McCAFFERY, inglese, buon amico di Sogno, Sindona, Gelli, dal 1943 al 1945 diresse a Berna il SOE (Special Operations Executive), l’organizzazione britannica incaricata di “mettere a fuoco l’Europa con metodi non da gentiluomini”, come disse Winston Churchill. Spionaggio e sabotaggio erano le “specialità” del SOE e di McCaffery, punto di riferimento di tutti i resistenti italiani, fra i quali il solito Edgardo Sogno.

GIOVAN BATTISTA PALUMBO, resistente, vice questore di Cremona dopo la “liberazione”, non può essere seriamente ritenuto un complice di Gelli nella trama “fascista” contro la Repubblica.

GIULIO GRASSINI, direttore del SISDE, generale dei carabinieri, partigiano decorato, anche lui vittima dei raggiri del “fanatico brigatista nero Licio Gelli”?

VITALIANO PEDUZZI, banchiere, nel 1943-45 capo dell’organizzazione spionista “Feltre” della resistenza italiana, in contatto con l’OSS americano.

Si potrebbe continuare nell’esame del passato degli iscritti alla Loggia P2, per trovarvi che la stragrande maggioranza può avanzare, a ragione, meriti antifascisti e che un buon numero di essi vanta notevole esperienza e capacità nel campo dello spionaggio, delle wet operations e della guerra non ortodossa.

Uomini che, come Sogno, Ortolani, McCaffery, erano a livello di vertice nell’ambito dell’antifascismo italiano, nel settore della guerra politica, non ortodossa, che all’epoca si chiamava “segreta” e veniva condotta “senza bandiera”, come ha scritto Sogno, mentre Gelli era un doppio­giochista di basso livello in contatto con britannici e americani.

Tutti abbindolati da un “truffatore”, da un “millantatore”, come Gelli che per quarant’anni è riuscito ad occultare il suo odio per la democrazia e i suoi propositi di restaurazione fascista in Italia, secondo la brillante tesi del pubblico ministero in questo processo?

Ma tutti costoro, fra i quali si contavano a decine gli ufficiali dei carabinieri, dell’Esercito, della Guardia di finanza e della polizia di Stato non si sono mai accorti di nulla? Tesi assurde, improponibili da chi giudica anche superficialmente la storia della Loggia P2, del suo “maestro venerabile” e dei suoi iscritti; tesi di comodo, avanzate da chi rifiuta e teme la verità sulle motivazioni della “strategia della tensione” e dei “depistaggi”; tesi comode per coloro, e sono tanti, che questa verità non vogliono far emergere.

Viene spontaneo chiedersi: come giudica il fatto che l’inchiesta su Peteano ricomincia a seguito di una nota informativa del SISMI, diretto dal generale piduista Santovito, che indirizza i magistrati sulla “pista nera”? Se Licio Gelli fu all’origine del depistaggio iniziale perché ha ordinato e permesso a un suo fedele iscritto di far riaprire l’inchiesta, si era forse “pentito”, “dissociato”?

Aveva forse sottovalutato la diabolica intelligenza del dott. Ferrari e del dott. Casson, ai quali non sapeva, l’incauto, che sarebbe stata affidata l’inchiesta e il compito di smascherarlo? Possibile, errori ne fanno tutti, anche il diabolico Gelli! Tralasciando ogni altra considerazione sull’argomento, desidero esprimere la mia sorpresa nel constatare che i due magistrati veneziani, Casson e Ferrari, si siano limitati ad autoesaltare e lodare i loro “meriti” nella conduzione dell’inchiesta sull’attentato di Peteano, dimenticando i loro collaboratori che pure ci sono stati e che devono aver dato un prezioso contributo all’accertamento della verità.

Eppure, chissà quante notti insonni ha trascorso il dott. Impallomeni, dirigente della DIGOS di Venezia, pensando al modo migliore di collaborare con i due magistrati in questa inchiesta destinata a denunciare il “pericolo fascista” impersonificato da Licio Gelli che, ne sono certo, il dott. Impallomeni deve odiare molto, dopo aver scoperto, grazie alla sagacia di Ferrari e Casson che anche lui era una vittima, ingannato dal perfido Gelli, che lo voleva utilizzare per distruggere la democrazia e restaurare il fascismo: già, perché il dott. Impallomeni è stato iscritto alla Loggia P2, insieme a Federico D’Amato e ad una ventina, o poco più, di altri suoi ingenui collaboratori.

E a Trieste, il dott. Antonino Allegra, questore, ha certamente mobilitato tutte le risorse della polizia di Stato per indagare sul territorio di sua competenza, sui fascisti “infiltrati” nel Ministero degli Interni. È vero che fu inquisito per aver fatto sparire uno o più reperti utili alle indagini sulla “strage di Piazza Fontana” e venne poi amnistiato, ma rimase al suo posto perché ai suoi superiori apparve subito evidente che agì in buona fede: inoltre non era solo, con lui c’era, ad esempio, il dott. Russomanno, dell’ufficio Affari Riservati, sulla cui fedeltà alle istituzioni nessuno ha mai dubitato.

Inoltre è risaputo che è stato collaboratore di Federico D’Amato, che se lo portò, nel ’74, nella Polizia di frontiera, tanto lo stimava. E di D’Amato, presidente del Club di Berna, capo della rappresentanza italiana nel Comitato speciale della NATO, incaricato dei problemi della sovversione, decorato della Bronze Star americana per i servigi resi nel periodo ’43- ’45, e del suo lealismo democratico non si può dubitare.

Anche questi collaboratori della giustizia, della verità e della democrazia andavano citati e il non averlo fatto non è stato molto elegante da parte di Casson e Ferrari. E oggi che il cinico e astuto Licio Gelli, “il brigatista nero ideologicamente fanatico” si può considerare sconfitto dalla forza della democrazia, perché mai si vedono “uniti nella congiura contro la verità, al completo, tutti i poteri dello Stato”? Perché, pubblico ministero, perché?

  1. UOMINI E IDEE

Ma altre sono le preoccupazioni del dott. Ferrari, rivelate, ad esempio, dalla perentoria affermazione: “Questa ideologia va fermata anche se si propaga con mezzi pacifici”, e come le ferma le idee, sia pure “fasciste”, questo Robespierre in sedicesimo? Consideriamolo un momento del delirio oratorio del pubblico ministero, che ignora che le “idee” non si “fermano”.

Ma non è stato questo testé citato l’unico momento delirante della requisitoria del dott. Ferrari, che si è voluto dedicare anche ad Evola, citando Orientamenti, e che merita, quindi, una breve risposta anche su questo punto.

Io non condivido certe operazioni politiche nelle quali fu coinvolto Julius Evola, e mi riferisco, per esempio, alla pubblicazione de Gli uomini e le rovine, con la prefazione di Junio Valerio Borghese, nel 1952; mi sono sempre opposto all’uso strumentale che del pensiero evoliano è stato fatto in certi ambienti e da ben individuate persone, e non posso certo tacere dinanzi alla volgarizzazione e alla criminalizzazione che ne fa il pubblico ministero, che, oltretutto, ignora totalmente l’opera di Julius Evola che non si racchiude in Orientamenti ma spazia in un numero notevolissimo di opere e per un cinquantennio di vita culturale italiana ed europea.

Il pubblico ministero, estraendo dal loro contesto alcuni passi di Evola, ironizza sui “superuomini”, vi trova il razzismo e l’esaltazione dello Stato totalitario. Ebbene, vediamo:

“Evola esalta l’individuo, il quale individuo non è tutt’uno con l’uomo, cioè con l’uomo qualunque, con l’uomo «inautentico», direbbe Heidegger: ma colui che ha saputo sviluppare in sé la qualità superiore onde si distingue il Mann dal Mensch, secondo i tedeschi, o il vir dall’homo, secondo i romani. Ciò che Evola esalta, secondo le sue stesse parole, è la virilità; e non è la virilità fisica, sibbene la virilità spirituale. Posso concedere al pubblico ministero che, pertanto, egli sia un fautore dell’aristocrazia; ma è l’aristocrazia nel senso puro, intesa come il governo dei migliori. «Tramontata la cavalleria», si legge a pag. 134 (di Rivolta contro il mondo moderno), «anche la nobiltà finì col perdere ogni elemento spirituale del genere come punto di riferimento per la sua più alta fedeltà divenendo parte di semplici enti politici – come è appunto il caso delle aristocrazie degli Stati nazionali succeduti alla civiltà ecumenica del medioevo. I principii dell’onore e della fedeltà sussistono anche quando il nobile non è più un ufficiale del re; ma vana, sterile, priva di luce, è la fedeltà quando non si riferisca più, sia pure mediatamente, a qualcosa di là dell’uomo. Onde le qualità conservatesi per via dell’eredità nelle aristocrazie europee, da nulla più rinnovate nello spirito delle loro origini, dovevano subire una fatale degenerescenza: al tramonto della spiritualità regale non poté non seguire quello della stessa nobiltà, presso all’avvento di forze proprie ad un livello ancora più basso».

Riesce a comprendere il pubblico ministero che la fedeltà di cui parla Evola è riferita non a gruppi, uomini, stati e neanche ideologie politiche, pur sempre costruzioni sull’uomo, ma a qualcosa di trascendentale e di spirituale?

Legga il pubblico ministero una critica seria allo Stato fascista ed alla degenerazione statolatrica del regime mussoliniano tratta sempre da Orientamenti:

“Se l’ideale di una unità virile e organica fu già in parte essenziale nel mondo che andò travolto – per esso, da noi, fu anche rievocato il simbolo romano – pure debbonsi riconoscere i casi in cui tale esigenza deviò e quasi abortì lungo la direzione sbagliata del totalitarismo. Questo, di nuovo, è un punto che va visto con chiarezza, affinché la differenziazione dei fronti sia precisa ed anche che non siano fornite armi a coloro che vogliono confondere a ragion veduta. Gerarchia non è gerarchismo (un male questo che, purtroppo, oggi cerca di ripullulare in tono minore), e la concezione organica non ha nulla a che fare con sclerosi statolatrica e una centralizzazione livellatrice. Quanto ai singoli, superamento vero, sia di individualismo che di collettivismo, si ha solo quando uomini sono di fronte a uomini; nella diversità naturale del loro essere e delle loro dignità, avendo massimo risalto l’antico detto che “la suprema nobiltà di essi è non essere padroni di servi, ma dei signori che amano la libertà anche in coloro che obbediscono”. E quanto all’unità che deve impedire, in ogni genere, ogni forma di dissociazione e di assolutizzazione del particolare, essa deve essere essenzialmente spirituale, deve essere quella di un’influenza centrale orientatrice; di un impulso che, a seconda dei domini assume le forme più differenziate di espressione” (J. EVOLA, Orientamenti, Edizioni Europa, Roma.)

È stato detto ancora di Evola:

“Certo egli ha predicato (…) lo spirito legionario; ma è proprio per questo, a proposito del quale l’incredibile leggerezza della polizia ha pescato il granchio più fenomenale di tutto il processo. Cosa sia lo spirito legionario, l’Evola stesso ci dice: «Nulla ha imparato dalle lezioni del recente passato chi si illude oggi circa la possibilità di una lotta permanente politica e circa il potere dell’una o dell’altra formula o sistema cui non faccia da precisa controparte una nuova qualità umana. Ecco un principio che oggi quanto mai dovrebbe aver evidenza assoluta: se uno Stato possedesse un sistema politico o sociale che, in teoria, valesse come il più perfetto, ma la sostanza umana fosse tarata, ebbene, quello Stato scenderebbe prima o poi al livello delle società più basse, mentre un popolo, una razza capace di produrre uomini veri, uomini dal giusto sentire e dal sicuro istinto raggiungerebbe un più alto livello di civiltà e si terrebbe in piedi di fronte alle prove più calamitose anche se il suo sistema politico fosse manchevole ed imperfetto. Si prenda dunque precisa posizione contro quel falso realismo politico, che pensa solo in termini di programmi, di problemi organizzatori partitistici, di ricette sociali ed economiche. Tutto questo appartiene al contingente, non all’essenziale. La misura di ciò che può essere ancora salvato dipende invece dall’esistenza, o meno, di uomini, di uomini che ci siano dinanzi non per predicare formule, ma per essere esempi». È chiaro? Per aver detto queste cose alla gioventù italiana, Evola dalla polizia italiana è stato definito come un pazzoide…”. (Carnelutti, cit., pag.359-360). “Un pazzoide”, lo stesso termine, identico, utilizzato dal pubblico ministero per definire Evola trentacinque anni dopo. Le citazioni che ho utilizzato, infatti, sono tratte dall’arringa che l’avvocato Francesco Carnelutti fece in difesa di Julius Evola, chiamato a rispondere, dinanzi ad una Corte d’Assise della Repubblica Italiana, di “tentata ricostituzione del PNF”, ai sensi della legge 3 dicembre 1947, n. 1546. Julius Evola venne assolto con formula piena.

Vincenzo Vinciguerra

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