L’Apocalisse di Giovanni commentata da Edmondo Lupieri

Ho finito di leggere in questi giorni il commento all’Apocalisse di Giovanni, scritto dal prof. Edmondo Lupieri e pubblicato nel 1999 dalla Fondazione Lorenzo Valla/Arnoldo Mondadori editore. Si tratta senza dubbio di uno dei migliori commenti all’Apocalisse pubblicati in Italia negli ultimi decenni. In esso ho trovato un’autorevolissima conferma al mio assunto secondo cui la Babilonia dell’Apocalisse è Gerusalemme. Questa tesi era già stata presentata dal prof. Eugenio Corsini nel suo libro del 1980 (e riproposta dallo stesso autore nel 2002) ma Lupieri la sviluppa e la arricchisce con una acribia e una perspicacia davvero mirabili. Cercherò, nel corso della presente esposizione, di delineare gli argomenti in favore della predetta tesi seguendo prevalentemente il commento del prof. Lupieri.

Innanzitutto, bisogna partire dal riferimento costituito dal versetto 8 del capitolo 11° dell’Apocalisse, quello che parla dei Due Testimoni:

E il loro cadavere rimarrà sulla piazza della città grande, la quale è chiamata spiritualmente Sodoma ed Egitto, ove anche il loro Signore fu crocifisso”.

La “città grande” è evidentemente Gerusalemme. Viene paragonata da Giovanni a Sodoma e all’Egitto perché, avendo fatto crocifiggere il Messia e perseguitato i suoi seguaci, senza pentirsi dei suoi crimini, è diventata equiparabile alle peggiori realtà pagane descritte nell’Antico Testamento. E, come le predette Sodoma ed Egitto, è destinata ad una tremenda punizione.

In secondo luogo, bisogna far rilevare che, nell’Apocalisse (17, 1), Babilonia è designata quale “grande prostituta”. Ora, nell’Antico Testamento le città pagane si macchiano del peccato di idolatria. Ma anche Israele e Gerusalemme si macchiano ripetutamente del peccato di idolatria. Solo che, in quest’ultimo caso, l’idolatria del popolo eletto viene definita dai grandi profeti (Isaia, Geremia, Ezechiele) come “prostituzione”. Solo nel caso delle realtà ebraiche il predetto peccato viene considerato una “prostituzione”, perché la colpa è più grave essendo Gerusalemme la sposa di Jahve.

Presento a seguire tre passi di Isaia, Geremia ed Ezechiele che parlano della prostituzione di Gerusalemme e di Israele:

Isaia 1, 25: “Perché divenne una prostituta la città fedele? Era piena di rettitudine, la giustizia dimorava in essa”.

Geremia 3, 6-9: “Jahve mi disse nei giorni del re Giosia: «Non hai visto ciò che ha fatto la ribelle Israele? Essa correva su ogni luogo elevato e sotto ogni albero frondoso per prostituirsi. Sì, io pensavo: “Dopo che avrà fatto tutte queste cose ritornerà a me”, ma essa non è ritornata. La perfida Giuda sua sorella ha visto ciò e, sebbene avesse visto che ho cacciato via proprio per tutti i suoi adulteri la ribelle Israele, consegnandole il libello del divorzio, la perfida Giuda sua sorella non ha avuto alcun timore. Anch’essa è andata a prostituirsi; ed è accaduto che, per la facilità con cui si è prostituita, essa ha contaminato la terra; ha fornicato con la pietra e con il legno»”.

Ed ecco le parole di Jahve riportate da Ezechiele a proposito di Gerusalemme (16, 15-22):

“Ma tu, confidando nella tua bellezza, forte della tua fama, ti prostituisti; colmando della tua fornicazione ogni passante, fosti sua. Prendesti alcune delle tue vesti e ti formasti alture adorne, sulle quali ti prostituisti. Con i gioielli che ti avevo donato, fatti con il mio oro e con il mio argento, ti sei foggiata immagini di uomo, alle quali ti prostituisti. Le ricopristi con le tue vesti ricamate e offristi a esse il mio olio e il mio profumo. Offristi loro, in soave fragranza, il nutrimento che ti avevo dato, il fiore di farina, miele e olio di cui ti nutrivo – oracolo del Signore Jahve. Prendesti, infine, i figli e le figlie che mi avevi generato e li sacrificasti a esse, perché se ne cibassero. Erano forse poche le tue prostituzioni? Hai sgozzato i miei figli e li hai offerti a esse bruciandoli. Fra tutti questi tuoi abomini e prostituzioni non hai ricordato il tempo della tua giovinezza, quando eri nuda e scoperta e palpitavi nel tuo sangue”.

A mio giudizio, il primo possibile riferimento alla fine di Gerusalemme nell’Apocalisse lo troviamo nei versetti 1, 10-11 (che riporto, come negli esempi successivi, nella versione di Lupieri):

“Fui in spirito nel giorno del Signore e udii dietro a me una voce grande, come di tromba che diceva: Ciò che vedi scrivi in un rotolo e manda alle sette chiese, a Efeso e a Smirne e a Pergamo e a Tiatira e a Sardi e a Filadelfia e a Laodicea”.

Questi versetti sembrano riecheggiare Matteo 24, 31:

“E manderà i suoi angeli con la tromba e con gran voce a radunare i suoi eletti dai quattro venti, da un’estremità all’altra dei cieli”.

Quest’ultimo versetto fa parte del cosiddetto “discorso escatologico” di Gesù, che sarebbe meglio definire ecclesiologico, in quanto – come a suo tempo è stato dimostrato in modo inoppugnabile da mons. Francesco Spadafora – esso riguarda solo la fine di Gerusalemme e lo sviluppo della Chiesa, e non la fine del mondo.

Il secondo luogo in cui Giovanni allude alla fine di Gerusalemme lo troviamo nel versetto 6, 12:

“E vidi quando aprì il sesto sigillo, e un sismo grande vi fu e il sole fu nero, come sacco di pelo, e la luna tutta fu come sangue”.

Secondo Lupieri il “sismo grande” deriva probabilmente da Ezechiele 38, 19, dove è destinato contro la terra di Israele.

Passiamo ai versetti 6, 15-17:

“E i re della terra e i magnati e i chiliarchi e i ricchi e i forti e ogni servo e libero si nascosero nelle grotte e fra le rocce dei monti e dicono ai monti e alle rocce: Cadete addosso a noi e nascondeteci dal volto di colui che siede sul trono e dal furore dell’agnello, poiché giunse il giorno, quello grande del suo furore, e chi potrà stare dritto?”.

Commenta Lupieri (p. 152): “Anche la scena del rifugio sotto i monti e fra le rocce è composta da più reminiscenze; le rocce vengono da Is. 2, 10.21, mentre Os. 10, 8 contiene un invito, pronunciato dagli Israeliti colpevoli di idolatria, ai monti e ai colli.

Leggiamo adesso Apocalisse 8, 10-11:

“E il terzo angelo suonò: e cadde dal cielo una stella grande, ardente, come una torcia, e cadde sulla terza parte dei fiumi e sulle sorgenti delle acque, e il nome della stella è detto l’Assenzio, e si mutò la terza parte delle acque in assenzio e molti degli uomini morirono per le acque, poiché si erano fatte amare”.

Commenta Lupieri (p. 162): “le «acque amare» dovrebbero essere una ripresa delle acque di Mara (Ex. 15, 23 e contesto). A conclusione dei fatti di Mara, Dio promette agli Israeliti, se osserveranno «tutte le sue leggi», di non colpirli con le «infermità» che aveva rovesciato sugli Egiziani (Ex. 15, 26): il nostro versetto sembra quindi voler portare il lettore e l’ascoltatore del testo a riflettere sui casi di Israele… Lo stesso appare con l’«assenzio». Questo, infatti, in Geremia è sempre promesso da Dio, come cibo insieme con «acque avvelenate», a Israele (Ier. 9, 14) oppure ai profeti d’Israele (Ier. 23, 15).

Leggiamo allora Geremia 9, 10-15 (è Jahve che parla):

«Ridurrò Gerusalemme un cumulo di rovine, un rifugio di sciacalli; le città di Giuda ridurrò un deserto senza abitanti». Chi è quel saggio che comprende ciò? Chi ha avuto dalla bocca di Jahve l’incarico di annunciarlo? Perché il paese è devastato, desolato come un deserto senza viandanti? Ha detto Jahve: «Perché abbandonarono la legge che avevo loro posto innanzi e non ascoltarono la mia voce, ma seguirono la caparbietà del loro cuore e i Baal, che i loro padri fecero loro conoscere». Pertanto, così dice Jahve degli eserciti, Dio di Israele: «Ecco, io darò loro in cibo assenzio, farò loro bere acque avvelenate, li disperderò in mezzo a popoli che né essi né i loro padri avevano conosciuto, e manderò dietro di loro la spada finché io non li abbia distrutti»”.

E leggiamo Geremia 23, 15:

“Perciò così dice Jahve degli eserciti contro i profeti: «Ecco, farò loro inghiottire assenzio e farò loro bere acque avvelenate; perché dai profeti di Gerusalemme l’empietà si è sparsa su tutto il paese»”.

Passiamo adesso ad Apocalisse 8, 13:

E vidi, e udii un’aquila da sola che volava nell’alto del cielo, che diceva a gran voce: Guai, guai, guai a coloro che abitano sulla terra dalle restanti voci della tromba dei tre angeli che stanno per suonare”.

Lupieri suppone, senza esserne certo, che la “terra” menzionata in questo passo si riferisca all’intero mondo abitato e non alla Terra per eccellenza, e cioè Israele. In questo caso ritengo di non essere d’accordo con l’illustre studioso: i tre “guai” probabilmente riguardano sempre Israele (dati i precedenti riferimenti alle acque amare e all’assenzio e i riferimenti immediatamente susseguenti alle cavallette), visto da Giovanni come il Nuovo Egitto.

Veniamo ora ad Apocalisse 9, 9 (il celeberrimo passo delle cavallette):

“e avevano corazze come corazze di ferro, e la voce delle loro ali come voci di molti carri di cavalli che corrono alla guerra”.

Chiosa Lupieri (p. 167): ““Il particolare è tratto da Gioele (2, 5), che costituisce l’antecedente letterario di tutto il brano (cfr. i «denti di leone» in Ioel 1, 6). Il profeta descrive la visita di Iahvè con le caratteristiche di un’invasione di cavallette che distruggono «la terra» e ne terrorizzano gli «abitanti» (1, 2; 2, 1); il contesto chiarisce che la «terra» è quella di Israele e che i suoi abitanti sono il «popolo» (1, 9.16; 2, 1.12-8)”.

Un’interessantissima considerazione di Lupieri è quella che troviamo a p. 175 del suo libro, riguardante i primi versetti del capitolo 11 dell’Apocalisse. Leggiamo allora cosa scrive Giovanni nei vv. 1 e 2:

E mi fu data una canna simile a un bastone, dicendo: Alzati e misura il tempio di Dio e l’altare dei sacrifici e coloro che si si prostrano in esso. E il cortile, quello fuori del tempio, gettalo fuori e non misurarlo, perché fu dato alle genti, e calpesteranno la città santa per quaranta [e] due mesi”.

Secondo Lupieri, il tempio rappresenta la presenza di Dio, l’altare rappresenta la parte santa e salvata di Israele, e cioè i cristiani, mentre il cortile esterno, gettato “fuori”, rappresenta la Gerusalemme anticristiana che sta per essere distrutta e che viene calpestata dai pagani.

Molto opportuna, poi, l’osservazione di Lupieri a p. 177, secondo cui i Due Testimoni dei versetti 3-10 del capitolo 11 dell’Apocalisse costituiscono una ripresa dei “due ulivi” menzionati nel capitolo 4 del profeta Zaccaria. Il fatto poi che i due testimoni colpiscano la “terra” con piaghe costituisce non solo un rimando alle piaghe dell’Egitto narrate dall’Antico Testamento ma anche al fatto che nel versetto 11, 8 Gerusalemme, la “città grande” dove è stato crocifisso Gesù viene appunto accomunata a Sodoma e all’Egitto. Lupieri quindi spiega perché la “città grande” che è Gerusalemme è destinata ad essere “calpestata” dai gentili: essa è il luogo della vittoria della “bestia che sale dall’abisso”. I suoi cittadini si allietano all’uccisione dei due testimoni, continuando contro la chiesa l’atteggiamento dei crocifissori di Gesù. Illuminante è poi la spiegazione dell’epiteto di “città grande” (pp. 181-182), spiegazione che merita di essere riportata nella sua interezza:

“L’epiteto «città grande» è biblico…Osserviamo che spesso la definizione di grandezza precede un mutamento di situazione repentino e a volte drammatico: la città è di solito conquistata dagli ebrei o almeno si converte. Anche Gerusalemme può ambire a una sua grandezza, in quanto sede del «gran re», che è Dio (Ps. 48, 2; cfr. 47, 3), o in quanto viene ricostruita «grande e spaziosa» (Nehem. 7, 4); il verso per noi più importante, però, è una profezia di Geremia: «E passeranno popoli per questa città e chiederanno, ciascuno al suo vicino: Perché fece così il Signore a questa città grande?» (Ier. 22, 8). Anche qui l’epiteto sottolinea drammaticamente il futuro repentino mutamento di situazione (rispetto al tempo del profeta): la «città grande» è ormai votata alla distruzione. Si comprende quindi che Giovanni riusi la stessa espressione, ora che spiega il peccato di Gerusalemme, dopo averne annunciato il «calpestamento» a opera dei pagani. Sino a questo punto della narrazione, Giovanni ha parlato soltanto di Gerusalemme e non di altre città, né il lettore o ascoltatore del testo ha ancora compreso che questa «città grande» sarà in seguito definita Babilonia. Da questo stesso brano egli apprende varie connotazioni della città. La prima è insieme storica e teologica: la città è il luogo della crocifissione. Il dato si riferisce a un preciso evento storico, ma questo è riportato per il suo significato profondo: è il peccato estremo, a cui non segue pentimento (come mostra l’uccisione dei testimoni) e a cui, quindi seguirà la distruzione. La seconda è teologica: la città, non più «santa», ma «grande», come le città pagane, è ormai considerata da Dio alla stregua di Sodoma (che finì nel fuoco) e dell’Egitto (su cui si abbatterono le piaghe). Gerusalemme è il luogo del peccato, dove trionfa Satana e dove si abbatterà la punizione di Dio”.

Il passo successivo su cui vorrei che si concentrasse l’attenzione del lettore è quello di Apocalisse 12, 17-18, quello relativo alla descrizione dell’ira del dragone contro la donna:

“E s’infuriò il drago contro la donna e andò a far guerra contro i rimanenti del suo seme, coloro che conservano le norme di Dio e che hanno la testimonianza di Gesù. E stette dritto sulla sabbia del mare”.

A differenza di quanto fanno di solito i traduttori, Lupieri non traduce l’espressione ἄμμος τῆς θαλάσσης con “spiaggia del mare”, bensì con “sabbia del mare”, in quanto la “sabbia del mare” è l’espressione tradizionale per indicare il popolo d’Israele. Giovanni vuol dire che, pur sconfitto in cielo, in una certa fase della storia umana Satana risulta parzialmente, seppur provvisoriamente, vittorioso, in quanto riesce a far leva, per esercitare il proprio potere, sull’Israele non cristiano e “carnale”: quello appunto che ha voluto la messa a morte di Gesù.

A pagina 212, commentando Apocalisse 13, 11-14, Lupieri fa un’osservazione che si potrebbe definire preterista: “Quindi se la bestia guarita rappresenta la restaurazione imperiale operata da Vespasiano, si deve ammettere che Giovanni parli in generale delle vicende dell’impero romano. Lo «sgozzamento» della testa non sarebbe tanto un accenno al suicidio (reale o presunto) di Nerone, ma alle difficoltà nell’anno dei tre imperatori (69)”.

Sempre al mondo ebraico fa riferimento, secondo Lupieri, il dettaglio del “marchio” della bestia posto sulla mano destra o sulla fronte dei suoi seguaci: esso costituirebbe un’allusione all’abitudine giudaica di usare i tefillim o filatteri, che “sono striscioline di pergamena o di papiro, con su scritti passi importanti della Bibbia, arrotolate e rinchiuse in apposite scatolette e quindi legate attorno al capo e sulla mano sinistra, in modo da ottemperare al dettato biblico” (p. 213).

E veniamo alla definizione di Babilonia come “grande prostituta” (Apocalisse 17, 1). Lupieri osserva che mai, nell’Antico Testamento, la Babilonia “storica” viene qualificata con l’appellativo di “prostituta”. Questo è invece il termine usato dai profeti per designare i tradimenti idolatrici di Gerusalemme e di Israele.

Soffermiamoci ora sui versetti 8-10 del capitolo 14:

“E un altro angelo, secondo, seguì dicendo: Cadde, cadde Babilonia, quella grande, quella che del vino dell’ira della sua prostituzione ha dato da bere a tutte le genti. E un altro angelo, terzo, li seguì, dicendo a gran voce: Se qualcuno si prostra alla bestia e alla sua immagine e prende il marchio sulla sua fronte o sulla sua mano, anch’egli berrà del vino dell’ira di Dio, quello versato puro nel calice del suo furore e sarà tormentato con fuoco e zolfo, di fronte agli angeli santi e di fronte all’agnello”.

Secondo Lupieri bisogna distinguere tra “le genti”, con cui Babilonia si prostituisce, e coloro che si prostrano di fronte alla bestia: questi ultimi sarebbero sempre i giudei che hanno rifiutato Cristo, per i quali il “vino dell’ira di Dio” sarà versato puro. Quindi, anche in questo caso, l’ira di Dio si rivolge verso una realtà giudaica.

I versetti successivi, 11-13, sempre del capitolo 14, con il loro triplice riferimento al fuoco, allo zolfo e al fumo, che costituiscono il tormento – “per i secoli dei secoli” – inflitto ai seguaci della bestia, hanno come modello il destino di Sodoma e Gomorra (Genesi 19, 28), e il rinvio a Sodoma richiama Apocalisse 11, 8 (la città grande che “si chiama spiritualmente Sodoma ed Egitto”).

Riporto a seguire i predetti passi della Genesi e di Apocalisse 14:

Genesi 19, 24-28: “…quand’ecco Jahve fece piovere dal cielo sopra Sodoma e sopra Gomorra zolfo e fuoco, provenienti da Jahve. Distrusse queste città e tutta la valle con tutti gli abitanti e la vegetazione del suolo. Ora, la moglie di Lot restò indietro a guardare e divenne una statua di sale. Abramo andò di mattina presto al luogo dove si era fermato davanti a Jahve; contemplò dall’alto il panorama di Sodoma e Gomorra e tutta la distesa della valle e vide che un fumo saliva dalla terra come il fumo di una fornace”.

Apocalisse 14, 10-11: “…Se qualcuno si prostra alla bestia e alla sua immagine e prende il marchio sulla sua fronte o sulla sua mano, anch’egli berrà dal vino dell’ira di Dio, quello versato puro nel calice del suo furore e sarà tormentato con fuoco e zolfo, di fronte agli angeli santi e di fronte all’agnello. E il fumo del loro tormento sale per i secoli dei secoli, e non hanno più riposo, di giorno e di notte, coloro i quali si prostrano alla bestia e alla sua immagine e se uno prende il marchio del suo nome”.

Passiamo adesso ai versetti 14-20 del medesimo capitolo 14 (quelli della duplice mietitura, delle spighe e dell’uva). Chiosa Lupieri (p. 229):

“Il precedente profetico è Ioel 4, 13, dove mietitura e vendemmia rappresentano il giudizio di punizione delle genti nella valle di Giosafat. La critica è divisa sul senso da dare qui al doppio avvenimento. Quasi tutti sono d’accordo che si tratti di una scena di giudizio, ma si può pensare a un doppio giudizio di salvezza, cioè a una raccolta degli eletti, o di peccatori, ma perdonati e salvati (così Corsini 1980, p. 383 sg.; per un testo con mietitura e vendemmia considerate positivamente, cfr. Is. 62, 8-9), oppure a un doppio giudizio di condanna, oppure a una situazione mista, con una raccolta di salvezza per le spighe e una vendemmia di condanna per i grappoli (nessuno pensa alla salvezza dei grappoli e alla condanna delle spighe). Mio commento personale: a me sembra che, se il precedente è Gioele 4, 13, allora sia la mietitura che la vendemmia rappresentino un giudizio, almeno prevalente, di condanna. Inoltre, per capire il passo in questione occorre tenere presente le parole di Giovanni Battista nel Vangelo di Luca (Luca 3, 16-18): “Giovanni rispose a tutti dicendo: “Io vi battezzo con acqua; ma viene uno che è più forte di me, al quale io non son degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali: costui vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Egli ha in mano il ventilabro per ripulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel granaio; ma la pula, la brucerà con fuoco inestinguibile””.

Osserva ancora Lupieri:

“se la «vigna» dei profeti è di solito Israele (Is. 5, 7; 27, 2-3; Ier. 2, 21; 5, 10; 6, 9; 12, 10; Ez. 15, 1-8; 17, 6-10; 19, 10-4; Os. 10, 1; cfr. Ps. 80, 9-17), come ancora mostrano la parabola dei vignaioli omicidi (Eu. Marc. 12, 1-12 e paralleli) e quella dei due figli (Eu. Matth. 21, 28-32), allora il nostro passo dovrebbe riguardare in primo luogo il destino dei giudei non cristiani”.

Riporto allora a seguire i versetti di Apocalisse 14, 19-20:

“E gettò l’angelo la sua falce sulla terra e vendemmiò la vite della terra e gettò le uve nel tino dell’ira di Dio, quella grande. E fu calpestato il tino, fuori della città, e uscì sangue dal tino fino alle briglie dei cavalli, per mille seicento stadi”.

Commenta Lupieri (pp. 231-232):

“l’espressione «calpestare i tini» è ben presente nella LXX e può anche essere priva di significati simbolici o traslati, indicando semplicemente la pigiatura dell’uva (come in Nehem. 13, 15); il verbo «calpestare», tuttavia, è quello tradizionalmente usato per la presenza persecutoria e contaminante dei nemici di Dio nella città santa, come lo stesso Giovanni mostra a 11, 2…Tuttavia Lam. 1, 15 prova che l’intera scena della pigiatura era stata applicata a Gerusalemme, «calpestata» da Dio. Il nostro passo quindi può riferirsi alla «pigiatura» di Israele”. Inoltre, è sempre Lupieri a osservare che l’espressione “il tino dell’ira di Dio” esprime necessariamente un giudizio di condanna, di contro all’interpretazione ottimistica di Corsini (nel suo volume del 1980). Mio commento personale: il fatto che il tino venga calpestato “fuori della città”, richiama il fatto che anche Gesù venne crocifisso “fuori della città”. Si tratta evidentemente di un contrappasso che ricade sui giudei anticristiani.

Per quanto riguarda i “mille seicento stadi”, Lupieri ritiene (pp. 232-233) che anche questa misura si riferisca a Israele:

“Giovanni sembra voler dare la misura di tale «terra», così da chiarire di chi e di che cosa egli stia parlando. La critica ha osservato, infatti, che «mille seicento stadi» era ritenuta la lunghezza di Israele (Bauckam 1993, p. 48, con rinvii). La riprova dell’esistenza di una speculazione giudaica sulle dimensioni di Israele o di Gerusalemme che aveva come fondamento il numero 1600 (centuplo del quadrato di 4, doveva prestarsi bene a indicare una misura di superficie o di lunghezza, date le 4 direzioni della terra o i 4 lati del muro del tempio e/o di Gerusalemme), viene ora dal Rotolo del Tempio. In esso la lunghezza del muro esterno della città escatologica è appunto espressa in «mille seicento cubiti» …Il numero, quindi, spinge a interpretare «la città» con Gerusalemme e i «calpestati» con i giudei”.

Parliamo adesso di un momento cruciale dell’Apocalisse, quello in cui viene descritto il versamento delle sette piaghe. Leggiamo il versetto di Apocalisse 15, 1:

E vidi un altro segno nel cielo, grande e stupendo, sette angeli con sette piaghe, le ultime, poiché in esse si compì l’ira di Dio”.

Lupieri (p. 233) si chiede quale sia il soggetto che viene colpito dalle sette piaghe e nota l’analogia tra le sette piaghe dell’Apocalisse e le dieci piaghe con cui viene colpito l’Egitto nell’Antico Testamento (analogia che aveva notato anche il sottoscritto in un precedente post)[1]. Tale analogia va tenuta presente sempre alla luce di Apocalisse 11, 8. Tuttavia, secondo Lupieri, è possibile ravvisare altri due riferimenti all’Antico Testamento, quelli costituiti da Levitico 26 e Deuteronomio 28:

“Qui, concluso il patto, come in tutti i contratti antichi, sono elencate serie di benedizioni e di maledizioni per il contraente (in questo caso il popolo d’Israele) che rispetti o infranga le clausole. A Deut. 28, 59-60 leggiamo: «Il Signore ti trasmetterà le tue piaghe…piaghe grandi e stupende…e rivolgerà su te tutta la pena d’Egitto, quella malvagia». Il destino d’Egitto, dunque, e tutte le sue piaghe sono già chiaramente promessi in Deut. 28 agli ebrei se non osservano il patto con Dio”. Mio commento: il segno nel cielo, “grande e stupendo” richiama le sette piaghe menzionate in Deuteronomio 28, “grandi e stupende”.

La prima piaga (la “ferita cattiva e malvagia”) corrisponde alla sesta piaga inflitta all’Egitto mentre la seconda e la terza piaga (le acque che si mutano in sangue) corrispondono alla prima piaga dell’Egitto. Diamo ancora la parola a Lupieri (p. 237):

“Il motivo per cui Giovanni decide di incominciare dalla sesta probabilmente si radica ancora in Deut. 28. La «ferita» o «ulcera», infatti, è l’unica punizione promessa due volte a Israele. «Ti colpirà il Signore con la ferita d’Egitto», suona Deut. 28, 27 e «ti colpirà il Signore con ferita malvagia» ribadisce Deut. 28, 35. Se dunque Giovanni ha di mira il tradimento d’Israele, la piaga adatta fra quelle d’Egitto è la piaga costituita dall’«ulcera» o «ferita malvagia»”.

La piaga del sangue descritta dall’Apocalisse costituisce chiaramente un contrappasso rispetto al versamento del sangue dei giusti e dei profeti di cui si era macchiata Gerusalemme nel corso della sua storia, come viene ricordato nel Vangelo secondo Matteo 23, 29-36:

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che edificate i sepolcri dei profeti e ornate le tombe dei giusti, e dite: “Se fossimo vissuti ai tempi dei nostri padri non saremmo stati, come loro, complici nel versare il sangue dei profeti”. Voi così testimoniate contro di essi d’esser figli di coloro che uccisero i profeti; a vostra volta colmate la misura dei vostri padri! Serpenti, razza di vipere, come potete sfuggire alla condanna della Geenna? Perciò, ecco che io vi mando profeti, sapienti e scribi: ne ucciderete e crocifiggerete, ne flagellerete nelle vostre sinagoghe e ne perseguiterete di città in città, affinché ricada su di voi tutto il sangue innocente sparso sulla terra, dal sangue del giusto Abele fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachia, che avete assassinato fra il santuario e l’altare. In verità vi dico: tutte queste cose ricadranno su questa generazione”.

Le parole di Gesù, in particolare il castigo che sarebbe ricaduto su “questa generazione”, si adempirono nell’anno 70, con la presa e la distruzione di Gerusalemme e del tempio da parte delle truppe romane. Un castigo che, a mio modo di vedere, viene preconizzato proprio dall’Apocalisse, in quanto condivido l’opinione degli esegeti preteristi, secondo i quali l’Apocalisse è stata scritta “prima che Gerusalemme cadesse”, come recita il titolo di un memorabile libro di Kenneth Gentry.

Veniamo ora ai versetti di Apocalisse 16, 8-10:

E il quarto versò la sua coppa sul sole, e gli fu dato di bruciare gli uomini col fuoco. E furono bruciati gli uomini con grande bruciatura, e bestemmiarono il nome di Dio, colui che ha il potere su queste piaghe, e non si pentirono così da dargli gloria. E il quinto versò la sua coppa sul trono della bestia, e fu il suo regno ottenebrato, e masticavano le loro lingue dal tormento, e bestemmiarono il Dio del cielo per i loro tormenti e per le loro ferite e non si pentirono delle loro opere”.

Qui c’è un’ulteriore analogia col libro dell’Esodo: l’impenitenza dei reprobi dell’Apocalisse fa da contraltare all’indurimento del cuore del Faraone descritto nei primi undici capitoli dell’Esodo. A proposito dell’ottenebramento del regno della bestia, Lupieri richiama con grande acutezza il parallelo costituito dalla “tenebra esteriore” menzionata dall’evangelista Matteo nei versetti 8, 11-12:

Perciò vi dico: molti verranno da oriente e da occidente per sedere a mensa con Abramo ed Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno [i giudei] saranno gettati nelle tenebre di fuori: là sarà il pianto e lo stridor dei denti”.

È poi senz’altro condivisibile l’identificazione, operata da Lupieri (pp. 242-243), tra lo pseudoprofeta (la “bestia dalla terra”) che compare in Apocalisse 16, 13 e il potere religioso giudaico corrotto:

“lo «pseudoprofeta» compare in modo inatteso e Giovanni non chiarisce chi egli sia; la sua identità con «la bestia che sale dalla terra» apparirà solo a 19, 20. Per un ebreo convertito al cristianesimo, è scontato che quella dei giudei non cristiani è una «falsa profezia»; l’epiteto di «pseudoprofeta», anzi, pare specializzarsi per personaggi del giudaismo (Act. Ap. 13, 6) o, comunque, per avversari religiosi che costituiscono un pericolo, contemporaneo o escatologico, rispetto all’autore (Eu. Marc. 13, 22; Eu. Matth. 7, 15; 24, 11.24; 2 Ep. Pet. 2, 1) …Lo scadimento d’Israele (sempre in termini giudeocristiani) fa sì che a rappresentare spiritualmente il giudaismo non sia più «il» Michele o un angelo di Dio, ma una «bestia», simile a quella che rappresenta il potere politico pagano, o uno «pseudoprofeta»”.

Leggiamo adesso il versetto di Apocalisse 16, 19:

E fu la città, quella grande, in tre parti, e le città delle genti caddero. E Babilonia, quella grande, fu ricordata di fronte a Dio, così da darle il calice del vino dell’ira del suo furore”.

L’origine della tripartizione della città si trova in Ezechiele 5, che descrive l’ira di Jahve contro la Gerusalemme ribelle:

“Ora tu, figlio dell’uomo, prendi una spada affilata, usane come di un rasoio da barbiere e passala sul tuo capo e sulla tua barba. Presa poi una bilancia, dividerai i peli. Appena compiuti i giorni dell’assedio, bruciane un terzo in mezzo alla città; un altro terzo, prendilo e colpiscilo con la spada intorno a quella e, infine, disperdi al vento l’ultimo terzo, mentre io snuderò la spada dietro di essi [i gerosolimitani]”.

Perché Jahve punisce Gerusalemme? Perché i suoi abitanti sono stati “più ribelli delle genti” (Ez. 5, 5-7).

Ecco quindi identificato l’ennesimo parallelismo tra la Babilonia dell’Apocalisse e la Gerusalemme punita da Dio nell’Antico Testamento.

Un ulteriore parallelismo è quello della “grandine grande” di Apocalisse 16, 21. Riporto a seguire le sagaci osservazioni di Lupieri, seguite da un mio commento. Lupieri (p. 247):

“la «grandine grande», già vista a 11, 19, compare per l’ultima volta. All’interno del testo, la sua comparsa serve a completare il parallelismo del nostro passo con 11, 19; al di fuori del testo, essa è essenziale a connettere questa «piaga della grandine», la settima e ultima dell’Apocalisse, con la settima piaga d’Egitto (Ex. 9, 13-35). La costatazione che sulla terra non vi era mai stato un sismo grande come questo «da quando fu uomo» (versetto 18), trova un parallelo piuttosto preciso nella ripetuta affermazione che in Egitto non vi era mai stata grandine come quella, sin dal giorno della sua fondazione (Ex. 9, 18 e 24). Inoltre anche la grandine d’Egitto era accompagnata da «lampi» e «tuoni» (Ex. 9, 23.24.29.33.34), oltre che da un «fuoco» misteriosissimo (Ex. 9, 23), che richiama alla mente il «fuoco» più volte incontrato sia con la grandine (cfr. 8, 7) sia con «lampi – voci – tuoni» (cfr. 4, 5 e spec. 8, 5) sia da solo (da ultimo in apertura della scena delle sette piaghe, a 15, 2, e come elemento centrale della quarta piaga, che altrimenti sarebbe l’unica piaga apocalittica a non avere alcun aggancio con le piaghe di Ex.). Quanto al peso di questa grandine, come «di un talento», è certo possibile che l’idea sia derivata dalla tragica esperienza delle catapulte romane, quale Giuseppe Flavio non mancò di registrare (Bell. Iud. V [6, 3] 270). Tuttavia si osservi la frase che Giovanni decide di usare per tale grandine: essa «scende dal cielo». Il verbo «scendere», usato dieci volte, indica sempre una discesa «dal cielo»”. Mio commento: a mio avviso, l’idea della grandine non è “derivata” dall’esperienza delle catapulte romane, semplicemente perché Giovanni ha scritto il suo testo prima dell’inizio della guerra giudaica, altrimenti la sua non sarebbe più una profezia ma un vaticinio “ex eventu. La grandine che “scende dal cielo” è un’espressione figurata per indicare l’ira di Dio e questa “discesa” non vieta che tale espressione abbia poi avuto, dopo lo scoppio della guerra giudaica, un riscontro materiale nel lancio delle pietre da parte delle catapulte.

Passiamo ad Apocalisse 17, 1-3:

E venne uno dei sette angeli, quelli che hanno le sette coppe, e parlò con me dicendo: Vieni qua, ti mostrerò la condanna della prostituta, quella grande, quella che è seduta su molte acque, con la quale i re della terra fornicarono e coloro che abitano la terra s’ubriacarono del vino della sua prostituzione. E mi portò al deserto in spirito. E vidi una donna seduta su una bestia scarlatta, ripiena di nomi di bestemmia, con sette teste e dieci corna”.

Chiosa Lupieri (p. 251): “Possiamo perciò raggiungere una prima conclusione provvisoria: quando Gerusalemme pecca è equiparata alle genti e la sua punizione alla loro (almeno a partire da Geremia); inoltre, nel suo destino di depravazione e di prostituzione si realizza quell’accostamento all’Egitto e al suo destino che abbiamo visto minacciato in Deut. 28 e che ci sembra Giovanni abbia ripreso esplicitamente a 11, 8. In Num. 11, 33, anzi, già «il Signore colpì il popolo con una piaga gravissima», confermando la propria volontà di trattare Israele come l’Egitto (fra i contemporanei, il lavoro migliore sulla Babilonia dell’Apocalisse mi pare Beagley 1987)”.

Per quanto riguarda l’accostamento tra la prostituta e il deserto, né la Babilonia “storica” né Roma possono esservi collegate, mentre per Israele il deserto fu luogo di peccato idolatrico (Esodo 32, il vitello d’oro).

Proseguiamo con Apocalisse 17, 4:

“E la donna era avvolta di porpora e scarlatto, e indorata con oro e pietra preziosa e perle, con un calice d’oro nella sua mano, ripieno di abominazioni – le impurità della sua prostituzione”.

Lupieri (pp. 254-255) nota la straordinaria coincidenza, che di solito sfugge ai commentatori, tra l’abbigliamento della prostituta con l’arredo del tempio-tabernacolo costruito da Mosè nel deserto e con la veste di Aronne (e quindi con quella del sommo Sacerdote di Gerusalemme). Da parte mia osservo che la coincidenza in questione non era sfuggita al prof. Claude Tresmontant, autore di due memorabili libri sull’Apocalisse.

Anche la menzione delle perle (e del bisso e della seta, menzionati nel capitolo 18, vv. 12 e 15) risulta difficilmente compatibile con la Roma pagana, mentre risulta compatibile con una realtà un tempo sacra ma ormai irrimediabilmente decaduta e degenerata come la Gerusalemme anticristiana[2]. D’altra parte, ritroviamo le perle in Apocalisse 21, 21: sono identificate come le porte della Gerusalemme celeste, vale a dire di quella realtà destinata a sostituire la Gerusalemme terrena come sposa di Dio. Per quanto riguarda il calice della prostituta, il suo contenuto è espresso da un termine – βδέλυγμα, “abominazione” – che richiama l’espressione utilizzata dal profeta Daniele (9, 27; 11, 31; 12, 11) per designare il culto idolatrico nel tempio di Gerusalemme. Come osserva Lupieri, “prostituzione” e “abominazione” sono termini tecnici utilizzati dai profeti per indicare il peccato idolatrico di Israele.

Inoltre, il particolare del nome scritto sulla fronte della prostituta (Apocalisse 17, 5), richiama il πέταλον, la lamina d’oro indossata dal sommo Sacerdote gerosolimitano.

E veniamo al versetto fatidico di Apocalisse 17, 6:

E vidi la donna ubriaca del sangue dei santi e del sangue dei testimoni di Gesù. E stupii vedendola, con grande stupore”.

Il versetto sembra essere una reminiscenza, oltre che del già citato passo di Matteo 23, 29-36, del capitolo 22 di Ezechiele (quello dedicato ai delitti di Gerusalemme) e in particolare del versetto 2:

“Ora tu, figlio dell’uomo, istituisci il processo, sì, giudica la città sanguinaria. Fa’ ad essa noti tutti i suoi abomini”.

Riguardo allo stupore provato dal veggente osservando la “donna ubriaca del sangue”, osserva giustamente Lupieri (p. 267):

“La «donna», non la bestia, è oggetto del suo stupore: date quelle che erano le premesse teologiche della storia della salvezza (l’amore di Dio per il suo popolo), è la trasformazione della donna in prostituta, non la naturale malvagità della bestia, ciò che desta orrore nel veggente giudeo cristiano”.

Anche il destino della “donna”, che finisce per essere distrutta dai propri amanti-alleati, trova un antecedente nell’Antico Testamento, e in particolare nel profeta Ezechiele, che dedica i capitoli 16, 19 e 23 a descrivere la sorte di Israele e di Gerusalemme, destinata a essere “desolata”, “denudata” e “bruciata” dai suoi stessi amanti.

Esaminiamo ora Apocalisse 17, 18:

“E la donna che vedesti è la città, quella grande, quella che ha regno sui re della terra”.

Scrive Lupieri (p. 280):
“La regalità poteva essere applicata a Gerusalemme e il regno sognato era ritenuto estendersi fino all’Eufrate ovvero, in contesti universalistici e/o messianici, a tutta la terra. Impressiona l’esaltazione del ricordo del regno di Davide e di Salomone, in un testo di poco posteriore all’Apocalisse: «La città di Sion dominava allora su tutte le terre e le regioni» (Secondo Libro di Baruc 61, 7). Era considerato universale persino il «regno» di Zorobabele, la cui figura di ultimo sovrano davidico andava assumendo toni messianici (cfr. P. Sacchi, L’esilio e la fine della monarchia davidica). Tra i passi biblici che applicano la regalità in modo esplicito a Gerusalemme, emerge Ez. 16, che al versetto 13 ricorda come Gerusalemme, quando godeva del favore di Dio, fosse «arrivata sino a essere regina». In seguito, però, «prendesti i vasi… dal mio oro e dal mio argento – lamenta Iddio per bocca del profeta – fra quelli che ti diedi, e ti facesti immagini maschili e ti prostituisti con esse» (v. 17). In Gerusalemme, quindi, regalità e prostituzione idolatrica sono collegate. Né dovrebbe obbligarci a vedere qui Roma il fatto che Babilonia sia ricordata come regina nella Bibbia o il fatto che alcune frasi di Giovanni possano essere citazioni di passi profetici in cui la «regina» era Babilonia: Gerusalemme ormai assume su sé stessa epiteti e attributi delle entità nemiche di Israele”.

Un ulteriore segno, per identificare la Babilonia dell’Apocalisse, è quello che troviamo nel versetto 18, 6:

“Date a lei come anch’ella ha dato e raddoppiate al doppio, secondo le sue opere: nel calice con cui versò, versate a lei il doppio”.

È sempre Lupieri a osservare come l’idea di una punizione “doppia”, sia caratteristica tradizionale di Gerusalemme e di Israele, e cita Isaia 40, 2 e Geremia 16, 18.

Isaia 40, 2: “Parlate al cuore di Gerusalemme e proclamatele che è finita la sua sofferenza, che è stata scontata la sua iniquità. Essa ha ricevuto dalla mano di Jahve doppio castigo per tutti i suoi peccati”.

Geremia 16, 18:

“Innanzitutto ripagherò al doppio la loro iniquità e il loro peccato, perché hanno contaminato il mio paese con i cadaveri dei loro idoli e hanno riempito la mia eredità con i loro abomini”.

Se ai nemici di Israele si applicava la legge del taglione, per i peccati commessi dagli ebrei Dio punisce “al doppio” perché i peccati degli ebrei ai suoi occhi costituiscono un tradimento. Conclude Lupieri (p. 285):

Imperdonabile come Sodoma, Gerusalemme-Babilonia riceve le «piaghe» (vv. 4 e 8) come l’Egitto e infine deve bere in quel «calice» con cui aveva dato da bere agli altri. Con il particolare del «calice», Giovanni porta a conclusione quanto ha detto in precedenza: la prostituta «Babilonia» beve il sangue dal calice che proviene da Dio. Che il «calice» sia destinato a Gerusalemme è detto in numerosi passi profetici, come Is. 51, 17; Ier. 13, 12-4 e soprattutto ancora Ez. 23, 32-4, in cui Gerusalemme beve il calice della «sorella Samaria» sino a svuotarlo e a «succhiarne i cocci»”.

Ma c’è di più: la menzione da parte dell’angelo (Apocalisse 18, 23) della “voce di sposo e di sposa” che “non più mai sarà udita in te” (il destinatario della maledizione è sempre “Babilonia”). Si tratta di una ripresa (e di una citazione precisa) di vari passaggi di Geremia in cui il profeta compiange o minaccia Gerusalemme: Ier 25, 10; 7, 34; 16, 9; 33, 11.

Apocalisse 18, 22-23: “E voce di citaredi e di musici e di flautisti e di suonatori di tromba non più mai sarà udita in te; e alcun artigiano di ogni arte mai più sarà trovato in te; e voce di mola non più mai sarà udita in te; e luce di lucerna non più mai brillerà in te; e voce di sposo e di sposa non più mai sarà udita in te; poiché i tuoi mercanti furono i magnati della terra, poiché col tuo veleno furono traviate tutte le genti”.

Geremia 25, 10: “Farò cessare in mezzo a loro la voce della gioia e dell’allegria, la voce dello sposo e della sposa, il rumore della mola e la luce della lampada”.

Geremia 7, 34: “Io farò cessare nelle città di Giuda, nelle vie di Gerusalemme, la voce della gioia e dell’allegria, la voce dello sposo e della sposa, poiché il paese sarà ridotto un deserto”.

Geremia 16, 9: “…poiché dice Jahve degli eserciti, Dio di Israele: “Ecco, sotto i vostri occhi e nei vostri giorni farò cessare in questo luogo la voce della gioia e dell’allegria, la voce dello sposo e della sposa”.

Quindi, riassumendo, il prof. Lupieri ha dimostrato in modo stringente che la Babilonia dell’Apocalisse è Gerusalemme: Giovanni, nel descrivere la “grande prostituta” riprende, riecheggia e cita passi dell’Antico Testamento che hanno per oggetto i peccati (e le punizioni) di Israele e di Gerusalemme. Quei commentatori, anche cattolici, che hanno sostenuto la Babilonia dell’Apocalisse essere Roma, non hanno capito moltissimo della fisionomia del libro di Giovanni.

In conclusione, vorrei fare un’ultima osservazione, mia personale, sul canto di Mosè menzionato in Apocalisse 15, 3:

“E cantano il canto di Mosè, il servo di Dio, e il canto dell’agnello, dicendo: Grandi e stupende le tue opere, Signore Dio onnipotente; giuste e veritiere le tue vie, tu che sei il re delle genti; chi non teme, Signore, e non glorificherà il tuo nome?”.

Il “canto nuovo” dei santi dell’Apocalisse è il canto di vittoria di Mosè, in quanto Babilonia (Gerusalemme) è il nuovo Egitto che, quando Giovanni scrive, sta per essere annientato.

 

[1] https://www.andreacarancini.it/2023/11/apocalisse-di-giovanni-la-gerusalemme-terrena-e-il-nuovo-egitto/

[2] Spiega Lupieri a p. 256: “A cominciare dalla Dimora stessa, tutte le parti di tessuto sono composte di «bisso, giacinto, porpora e scarlatto» e le varie parti in legno («colonne») sono «indorate d’oro»: Ex. 26, 1 = 36, 8 (i teli) e 26, 29 = 36, 34 (le «colonne» o «assi»). Similmente, il «velo» della Dimora è composto di «giacinto, porpora, scarlatto e bisso» e le sue quattro colonne sono «indorate d’oro»: Ex. 26, 31-2 = 36, 35-6…”.

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