Davvero l’Apocalisse è stata scritta nell’epoca dell’imperatore Domiziano?

Quando è stata scritta l’Apocalisse di Giovanni? E, soprattutto, quanto è importante saperlo? Riuscire ad accertarlo è in effetti importantissimo, più che per ogni altro libro del Nuovo Testamento: l’Apocalisse è infatti un libro profetico e accertarne, nei limiti del possibile, la datazione è cruciale per individuare il rapporto corretto tra profezia ed evento profetizzato.

Sulla datazione dell’Apocalisse gli esegeti sono divisi da tempo immemorabile. Due sono gli schieramenti principali: coloro che sostengono che l’Apocalisse è stata scritta negli anni 90 del primo secolo (all’epoca dell’imperatore Domiziano) e coloro che sostengono che è stata scritta negli anni 60 (quando era ancora in vita l’imperatore Nerone). Oggi, la maggioranza degli esegeti sostiene la tesi della datazione tardiva, ma non è stato sempre così: nel 19° secolo i sostenitori della datazione precoce erano sicuramente più numerosi[1].

L’argomento principale a disposizione dei sostenitori della data tardiva è un’affermazione di S. Ireneo di Lione, il padre della chiesa vissuto nel secondo secolo il quale, nel suo trattato Contro le eresie, affermò che l’Apocalisse “era stata vista” nell’epoca di Domiziano. Ma siamo davvero sicuri che Sant’Ireneo intendesse sostenere quello che gli è stato attribuito? Alla base della predetta controversia c’è infatti un problema di traduzione. Prima di affrontarlo però è opportuno fare una premessa. Una premessa riguardante il contesto storico nel quale è nata, ed è stata scritta, l’Apocalisse.

L’apostolo Giovanni scrive infatti per annunciare eventi che sono tanto terribili quanto, soprattutto, imminenti. Gli eventi principali descritti come vicini nell’Apocalisse sono infatti una grande persecuzione, che sarebbe stata scatenata di lì a poco contro i cristiani compartecipi con Giovanni “nella tribolazione”, e la caduta di Babilonia.

Riguardo alla persecuzione, ecco cosa dice Gesù alla chiesa di Filadelfia (Apoc. 3, 10): “Poiché osservasti la parola della mia perseveranza, anch’io preserverò te dall’ora della tentazione che sta per venire sull’intera terra abitata, per tentare coloro che abitano sulla terra”.

Riguardo alla caduta di Babilonia, vedi tutto il capitolo 18 dell’Apocalisse.

Gli esegeti preteristi ritengono che la persecuzione di cui parla Giovanni sia quella scatenata da Nerone nell’anno 64, e che la caduta di “Babilonia” prefiguri la presa e la distruzione di Gerusalemme e del suo tempio da parte delle truppe romane negli anni 66-70.

Riguardo al dato cruciale dell’imminenza degli eventi anticipati da Giovanni nella sua visione, riporto a seguire i corrispondenti passi dell’Apocalisse, che sono davvero impressionanti nel loro insistere su questo punto:

Apocalisse 1, 1: “Rivelazione di Gesù Cristo, che Dio gli diede per mostrare ai suoi servi ciò che deve avvenire presto, e che significò inviandone l’annunzio mediante il suo angelo al suo servo Giovanni.

Apocalisse 1, 3: “Beato colui che legge e coloro che ascoltano le parole della profezia e osservano le cose scritte in essa! Il tempo infatti è vicino”.

Apocalisse 22, 6: “E mi disse: «Queste sono le parole degne di fede e veraci, e il Signore Iddio degli spiriti dei profeti mandò il suo angelo per mostrare ai suoi servi ciò che deve avvenire presto”.

Apocalisse 22, 7: “Ed ecco, vengo presto. Beato colui che osserva le parole della profezia di questo libro!”.

Apocalisse 22, 10: “E mi dice: «Non suggellare le parole della profezia di questo libro. Il tempo, infatti, è vicino”.

Apocalisse 22, 12: “Ecco, vengo presto, e porto con me la mercede che darò, per rendere ad ognuno come è la sua opera”.

Apocalisse 22, 20: “Dice colui che testimonia queste cose: «Sì, vengo presto». Amen; vieni, Signore Gesù”.

Secondo i preteristi, ed è questa l’esegesi che anch’io ritengo, il libro dell’Apocalisse annuncia ciò che Gesù aveva preannunciato nei Vangeli sinottici: la venuta del Figlio dell’uomo, che viene a giudicare – e a punire – la nazione israelitica che aveva rifiutato il Messia.

Anche qui, riporto a seguire i passi in questione.

Matteo 26, 63-64: “Ma Gesù taceva. E il sommo sacerdote gli disse: «Ti scongiuro per il Dio vivente di dirci se tu sei il Messia, il Figlio di Dio». Gesù gli risponde: «Tu l’hai detto; anzi io vi dico: ormai rivedrete il Figlio dell’uomo sedere a destra della Potenza e venire sulle nubi del cielo».

Apocalisse 1, 7: “Ecco, viene con le nubi, e lo vedrà ogni occhio e quanti lo hanno trafitto, e gemeranno su di lui tutte le tribù della terra; sì, amen”.

Torniamo adesso al passo di Ireneo, che tanto ha fatto discutere gli esegeti. Si tratta di un passo grammaticalmente ambiguo, che ha dato luogo a traduzioni non solo difformi ma addirittura tra loro incompatibili. Riporto a seguire la traduzione latina, risalente al V secolo dopo Cristo (Contra haereses, V, 30, 3):

“Cum igitur tantam suasionem habeat hoc nomen Titan, tantam habeat uerisimilitudinem, ut ex multis colligamus, ne forte Titan uocetur qui ueniet, nos tamen non periclitabimur in eo nec asseueranter pronuntiabimus hoc eum nomen habiturum, scientes quoniam, si oporteret manifeste praesenti tempore praeconari nomen eius, per ipsum utique dictum fuisset qui et apocalypsim uiderat: neque enim ante multum temporis uisum est, sed pene sub nostro saeculo, ad finem Domitiani imperi”.

Questa la traduzione (dal latino) di Gian Luca Potestà per il volume I de L’Anticristo, pubblicato dalla Fondazione Lorenzo Valla[2]:

“Dunque, il nome Titano risulta tanto convincente e talmente verosimile, che in virtù di molti argomenti a sostegno arriviamo a concludere che forse colui che verrà si chiamerà Titano. E tuttavia nonostante ciò non ci metteremo a rischio a causa sua, né sosterremo in modo categorico che egli avrà questo nome; siamo infatti consapevoli che, se vi fosse stata necessità che il suo nome fosse proclamato nel nostro tempo, sicuramente lo avrebbe detto chi ha avuto la rivelazione, verificatasi d’altra parte non molto tempo fa, ma pressoché nella nostra epoca, alla fine del regno di Domiziano”.

A seguire presento invece la traduzione dello stesso passo ad opera di padre Vittorino Dellagiacoma (Edizioni Cantagalli)[3]:

“Per tutti questi motivi il nome Titano ha tanta verosimiglianza da farci supporre che l’Anticristo si chiamerà Titano. Ma noi non ci arrischiamo ad affermare che senz’altro avrà questo nome. Se fosse stato opportuno che al nostro tempo fosse annunziato apertamente il suo nome, esso sarebbe stato certamente espresso dal veggente dell’Apocalisse, il quale visse non molto tempo fa, quasi nel nostro secolo, alla fine del regno di Domiziano”.

Come si può notare, per un traduttore (Potestà) a risalire alla fine del regno di Domiziano è “la rivelazione” (il testo dell’Apocalisse) mentre per l’altro (Dellagiacoma) è il suo autore. Chi ha ragione?

Una cosa è certa: il testo in questione ha dato luogo, nel corso dei secoli, ad un equivoco. Quello secondo cui Sant’Ireneo avrebbe affermato in modo chiaro che l’Apocalisse venne scritta al tempo di Domiziano. A questo punto riporto anche il testo greco originale:

“εἰ δὲ ἔδει ἀναφανδὸν ἐν τῷ νῦν καιρῷ κηρύττεσθαι τοὔνομα αὐτοῦ, διʾ ἐκείνου ἂν ἐρρέθη τοῦ καὶ τὴν ἀποκάλυψιν ἑορακότος οὐδὲ γὰρ πρò πολλoῦ χρόνου ἑωράθη, ἀλλὰ σχεδòν ἐπὶ τῆς ἡμετέρας γενεᾶς, πρòς τῷ τέλει τῆς Δομετιανοῦ ἀρχῆς”.

L’equivoco nasce dal fatto che lo stesso verbo – orào = vedere – è usato due volte: prima al participio perfetto, genitivo singolare, che coll’articolo “tou” diventa una relativa: “di colui che ha visto anche la rivelazione”, poi all’aoristo passivo, terza singolare, “fu visto” (eoràthe).

Ora, mi sembra utile riferire il parere del preterista americano Jay Rogers:

“Ireneo non voleva dire che la visione apocalittica venne vista in questa data tardiva [sotto il regno di Domiziano]. Ireneo voleva dire che vi furono contemporanei di Giovanni che vissero fino all’epoca di Ireneo (Policarpo, Ignazio, Papia, ecc.) che avrebbero conservato nella memoria quell’importante elemento conoscitivo se l’Apostolo lo avesse rivelato loro”[4].

Mio commento personale: tenderei ad essere d’accordo con Rogers. La volontà di Giovanni di tenere celato il nome della Bestia non si inferisce dall’eventualità che l’Apocalisse sia stata vista nell’epoca di Domiziano ma dal fatto che Giovanni ebbe, per quello che se ne sa, una vita molto lunga, e che quindi ebbe tutto il tempo, se avesse voluto, di rivelare quel nome.

Tra gli eruditi che hanno invece sostenuto una data domizianea dell’Apocalisse proprio in base al passo di S. Ireneo, c’è il domenicano francese Ernest Bernard Allo, autore di un voluminoso commento pubblicato nel lontano 1921, commento che in quegli anni gli valse la nomina a consultore della Pontificia Commissione Biblica. A p. CCIV, leggiamo:

“…Inoltre – e questo è decisivo, mi sembra – Ireneo, se avesse voluto parlare della morte relativamente recente di Giovanni, non avrebbe scritto che «egli è stato visto …verso la fine del regno di Domiziano, poiché altrove egli dice espressamente che è vissuto ancora più a lungo, fino al regno di Traiano” (Contro le eresie, II, 22, 5).

Concludo questa rassegna di opinioni con il parere, molto più recente dell’esegeta J. Stolt:

“Secondo David Aune nel suo recente, imponente commento, il commentatore del Nuovo Testamento J. Stolt, seguendo Wettstein, Novum Testamentum Gracecum (2:746), ha sostenuto che ‘colui che vide l’Apocalisse’ è il soggetto logico di eorathe e ha proposto che ciò che Ireneo aveva in mente era di commentare su quanto a lungo l’autore dell’Apocalisse aveva vissuto, non su quando egli aveva scritto l’Apocalisse. Questa è in realtà un’opinione sostenuta da vari studiosi a partire da Wettstein”[5].

Comunque lo si voglia giudicare, il passo di S. Ireneo ha avuto un’influenza immensa, difficilmente quantificabile, sulla ricezione dell’Apocalisse nel corso dei secoli. Gli esegeti che hanno accettato la data domizianea si sono però trovati di fronte alla difficoltà di spiegare in modo coerente, e soprattutto attendibile, i riferimenti di Giovanni all’imminenza e alla terribilità degli avvenimenti menzionati. L’”ora della tentazione che sta per venire sull’intera terra abitata” è davvero riferibile all’epoca di Domiziano? E soprattutto, come collocare cronologicamente la caduta di “Babilonia”? Perché, e questo va ricordato, non c’è durante il regno di Domiziano un evento catastrofico paragonabile a quello descritto da Giovanni. Il passo di Ireneo, per come è stato inteso dagli esegeti nel corso dei secoli, ha condotto gli studiosi ad un punto morto, perché ha disarticolato il legame, strettissimo nel testo di Giovanni, tra la profezia e gli eventi profetizzati. Accantonati – o addirittura ignorati – i riferimenti cronologici costituiti dal regno di Nerone e dalla guerra giudaica, gli esegeti, influenzati – ma sarebbe meglio dire ossessionati – dal mito dell’Anticristo escatologico, hanno proiettato l’Apocalisse nel ben noto scenario costituito dalla “fine del mondo”, e per questo non hanno esitato a “spiegare” i riferimenti, precisi e inequivocabili, di Giovanni all’imminenza della venuta del Cristo giudice con una citazione, totalmente decontestualizzata[6], ripresa dalla seconda lettera di Pietro. La citazione è la seguente:

“Una cosa però non dimenticate, o carissimi: che un giorno solo presso il Signore è come mille anni e mille anni sono come un solo giorno” (2 Pt. 3, 8).

Quindi, secondo i predetti esegeti, quando Gesù nell’Apocalisse dice “vengo presto”, vuol dire che verrà…alla fine del mondo!

A tal punto i pregiudizi riescono a velare la comprensione del testo biblico.

 

[1] L’esegeta britannico John Arthur Thomas Robinson riferisce nel suo opus magnum Redating the New Testament (“Ridatare il Nuovo Testamento”) che il fatto di rifiutare la data domizianea rientrava in “quella che Hort chiama ‘la tendenza generale della critica’ per la maggior parte del diciannovesimo secolo” (Redating the New Testament, London 1977, p. 224).

[2] L’Anticristo, volume I, Il nemico dei tempi finali, a cura di Gian Luca Potestà e Marco Rizzi, Fondazione Lorenzo Valla 2013, p. 67.

[3] S. Ireneo, Contro le eresie, volume secondo, Edizioni Cantagalli, Siena 1968, p. 245.

[4] Jay Rogers, In the Days of These Kings – The Book of Daniel in Preterist Perspective, Media House International, 2017, p. 271.

[5] Kenneth Gentry, Navigating the Book of Revelation, Gentry Family Trust udt, 2010, p. 28.

[6] Il contesto di 2 Pt. 3, 8 non è escatologico ma parenetico.

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