Vincenzo Vinciguerra: Piazza Fontana ed oltre

Vincenzo Vinciguerra: Piazza Fontana ed oltre

1969: PIAZZA FONTANA ED OLTRE

Di Vincenzo Vinciguerra, 12 dicembre 2011

Il 1969 è l’anno più ricordato e meno conosciuto della storia dell’Italia repubblicana.

Si pretende che segni l’inizio della “strategia della tensione” che si fa coincidere con la strage all’interno della Banca dell’Agricoltura in piazza Fontana, a Milano, il 12 dicembre 1969, ma non è così.

Quella che è stata chiamata “strategia della tensione” inizia diversi anni prima e se le sue finalità erano quelle di “destabilizzare l’ordine pubblico per stabilizzare l’ordine politico”, il primo esempio lo troviamo a Roma, il ottobre 1963, quando squadre di provocatori inserite fra gli operai edili in sciopero innescarono violentissimi incidenti con le forze di polizia che si conclusero con un bilancio di 168 feriti.

Più vicino nel tempo è l’esempio di destabilizzazione dell’ordine pubblico, programmata e predisposta con cura, che viene fornito dalla cosiddetta “batta­glia di Valle Giulia” a Roma, il 1° marzo 1968, che vide scendere in campo, in prima persona, gli attivisti di “Avanguardia nazionale” che insieme ad altri militanti dell’estrema destra riuscirono a scatenare alcune migliaia di studenti contro le forze di polizia, con un bilancio finale di 211 feriti, 228 fermi e 4 arresti.

Il primo segnale certo dell’avvio di una strategia destinata a sconvolge­re il Paese, in un progressivo ed inesorabile crescendo, ci viene però dall’affissione di manifesti cosiddetti “cinesi”, perché inneggianti alla Cina popolare, nei primi giorni del mese di gennaio del 1966 a Firenze, Livorno, Roma, da parte di militanti di “Avanguardia nazionale” guidati da Stefano Delle Chiaie.

Un’operazione questa, finalizzata a favorire il sorgere di gruppi dissi­denti alla sinistra del Pci, accusato di “revisionismo” e di imborghesimen­to con la speranza, apertamente dichiarata (si ricordi in proposito l’inter­vento di Pino Rauti al convegno dell’istituto “A. Pollio”, organizzato dal Sid per volere dello Stato maggiore dell’esercito, svoltosi a Roma il 3-5 maggio 1965), di obbligare il Partito comunista a dismettere le vesti del­l’agnello per reindossare quelle del lupo per non essere scavalcato alla sua sinistra da gruppi più aggressivi e “rivoluzionari”, come difatti accadrà ne­gli anni successivi con la costituzione di “Potere operaio”, “Lotta conti­nua”, “Avanguardia operaia”, “Autonomia operaia”.

Un’operazione promossa dal servizio segreto civile del ministro degli In­terni, tramite il direttore della rivista “Il Borghese”, Mario Tedeschi, ami­co e confidente del funzionario di Ps Umberto Federico D’Amato, che si colle­ga direttamente con quella che porterà gli attentati del 12 dicembre 1969 a Roma e a Milano, secondo la testimonianza mai valutata di Serafino Di Luia.

Serafino Di Luia, militante di “Avanguardia nazionale” insieme al fratello Bruno, indica esplicitamente nella persona che aveva fatto affiggere i “mani­festi cinesi” ai componenti della sua organizzazione, la stessa che aveva fatto infiltrare Mario Merlino fra gli anarchici nell’estate del 1968.

Il 1969 non è l’anno di inizio della “strategia della tensione” e neanche quello dell'”innocenza perduta” come hanno preteso, a posteriori, tanti espo­nenti della sinistra che hanno cercato di giustificare la loro adesione alla “lotta armata” con l’orrore suscitato dalla strage di piazza Fontana.

La costituzione di “Lotta continua” e “Potere operaio” dei quali tanti mi­litanti saranno in prima fila nello scontro armato con lo Stato, precede di mesi la strage del 12 dicembre 1969, e i loro leader da tempo teorizzano la necessità della violenza operaia e proletaria contro i “padroni” e la borghe­sia detentrice del potere.

Se il giornale di “Potere operaio” diretto da Francesco Tolin, il 30 otto­bre del 1969, esce con un articolo dal titolo “Sì alla violenza operaia”, dal 1° al 4 novembre 1969, a Chiavari, presso 1’hotel “Stella Maris” si svol­ge un convegno del Collettivo politico metropolitano al quale prendono parte Corrado Simioni, Giovanni Mulinaris, Mario Moretti, fra gli altri, destinati a ricoprire un ruolo drammatico negli “anni di piombo”, l’ultimo perfino co­me capo delle Brigate rosse.

Il 1969 non è neanche l’anno della prima strage di civili in Italia, per­ché, prescindendo da quelle compiute da reparti militari e forze di polizia, è preceduta da quella compiuta da Salvatore Giuliano ed i suoi uomini a Portella della Ginestra il 1° maggio 1947, quando aprirono il fuoco sugli operai ed i contadini social-comunisti, convenuti sul luogo con le loro famiglie per celebrare la festa del lavoro.

Cosa è stato allora il 1969?

Il ventiquattresimo anno della guerra civile italiana che, in un contesto planetario, opponeva comunismo ed anticomunismo infiammando ed insanguinan­do tutti i Continenti.

È stato anche 1’anno in cui si è sviluppata l’operazione più raffinata e complessa per imprimere al Paese quella svolta autoritaria auspicata anche in campo internazionale, in particolare da Stati Uniti, Israele e Germania federale, per bloccare definitivamente l’avanzata elettorale del Pci e neu­tralizzarne l’egemonia in campo sindacale e culturale.

L’ipotesi del “colpo di Stato”, inteso come svolta autoritaria a destra, percorre tutto l’anno 1969, dall’inizio alla fine.

A proporre apertamente un atto di forza anticomunista è la destra in tutte le sue componenti.

Il 5-6 aprile 1969, al termine della X assemblea del Nuovo ordine europeo, svoltasi a Barcellona (Spagna), alla quale hanno partecipato Pino Rauti, Ste­fano Delle Chiaie e Nino Capotondi, è emesso un comunicato nel quale si affer­ma che i militanti europei guardano con speranza alla “rivoluzione” greca del 21 aprile 1967 considerata la “nuova realizzazione concreta della riscossa europea”.

A suggerire l’intervento risolutore delle Forze armate non sono solo gli “estremisti”, perché i dirigenti della destra parlamentare e moderata in I­talia sono in prima fila a farsene portavoce con toni, spesso, truculenti e minacciosi.

Così, se “L’Assalto” intitola un suo articolo, “Usare le mitragliatici, Esercito e polizia per difendere il Paese dai delinquenti, Popolo italiano svegliati!”, il 13 aprile 1969, un mese più tardi, il 18 maggio, sullo stesso periodico, il parlamentare missino Giulio Caradonna, in un articolo intitolato “La tigre di carta”, scrive che è necessario “richiamare i reprobi agli immortali principi della patria anche dando di piglio a quel santo manganello che nei periodi di smarrimento è l’unico argomento vali­do per rischiarare gli ottenebrati cervelli dei bruti da troppo tempo abi­tuati a ragionare col ventre se non con il sedere”.

Non si tratta di un’iniziativa individuale, perché è tutto il Movimento sociale italiano ad essere impegnato nell’opera di propaganda finalizzata a presentare il Paese sull’orlo dell’abisso dal quale potrà salvarsi solo con i mezzi più drastici.

Il vicesegretario nazionale del Msi, Pino Romualdi, si spinge fino a paven­tare la possibilità di un guerra civile per fermare il comunismo.

Il 25 maggio, sempre su “L’Assalto”, Romualdi scrive:

“Crediamo nell’olio di ricino e nel santo manganello. Crediamo nella guerra ci­vile. Poiché prima che il comunismo arrivi al potere è chiaro che si troveran­no mezzo milione di uomini capaci di procurarsi le armi e di usarle. Nessuno deve dimenticarlo: oggi, mutati i tempi, l’olio di ricino e il santo manga­nello non basterebbero più”.

Il 13 giugno, scende personalmente in campo Giorgio Almirante che, in un’in­tervista pubblicata su “L’Assalto” incita i giovani di destra allo scontro fi­sico con gli avversari politici affermando che loro devono essere “i contesta­tori della contestazione”.

Cosa sia e cosa vuole la destra estrema italiana, ancora oggi definita “neo­fascista”, lo scrive un altro parlamentare e dirigente nazionale del Movimen­to sociale, sull’organo di stampa del partito, “Il Secolo d’Italia”, nell’ar­ticolo intitolato “Viva il blocco d’ordine”, che così definisce:

“È un blocco che crede nella bandiera tricolore, nelle medaglie al valore, nella figura del mutilato. Un blocco che prepari i ragazzi a superare gli esa­mi per studio non per demagogia, che vuole il servizio militare obbligatorio, il matrimonio indissolubile, il celibato dei preti, la morale non bacchettona ma nemmeno prostituta, i pederasti alla gogna e i treni in orario”.

Di questo “blocco d’ordine”, ovviamente, secondo Nino Tripodi devono fare parte anche quei soldati, agenti e carabinieri che offrono silenziosamente fedeltà e disciplina allo Stato, ignorano i partiti e sconoscono i miti del­la politica”.

È il “blocco d’ordine” di una piccola borghesia che non ha connotazioni ideologiche e che vota, indifferentemente, tutti i partiti da quello social­democratico allo stesso Movimento sociale, passando per la Democrazia cri­stiana, il Partito repubblicano e quello liberale.

Se questo è quello che gli “estremisti” di destra dicono, è fondamentale porre l’accento su quello che fanno.

In prima linea troviamo il direttore de “Il Borghese” , Mario Tedeschi, che l’11 maggio 1969 annuncia la costituzione di “250 gruppi di Azione nazionale (Gan) costituiti in tutta Italia rispondendo al nostro appello per l’”unione delle forze nazionali””.

Nel programma dei Gan, Tedeschi recita:

“Bisogna provvedere a sabotare con tutti i mezzi possibili gli scioperi or­ganizzati dai comunisti e dai clerico-comunisti…Bisogna organizzarsi per essere vicini ai soldati in ogni momento; nel momento tranquillo e nel mo­mento non tranquillo”, per concludere che “ormai chi vuole fare dell’anticomunismo sul serio deve porsi fuori del sistema e contro il regime”.

Incitamento, quest’ultimo, che proviene – è doveroso sottolinearlo – da un personaggio che lavora a stretto contatto con il servizio segreto civile, non disdegnando la collaborazione con il servizio segreto militare.

Quanto annunciano pubblicamente di voler fare corrisponde a quello che fan­no riservatamente.

Il 18 luglio 1969, il sindaco comunista di Bologna, Fanti, rende noto il testo di una circolare dell’Associazione ufficiali combattentistici attivi (Auca), secondo cui “la situazione interna ci fa pensare all’eventualità che le Forze armate debbano entrare in azione per difendere la libertà democrati­ca e la Costituzione impedendo violenze, distruzioni, sovvertimenti… Si trat­terà di collaborare – conclude – con le forze dell’ordine e di agire con quel­le, se necessario, alle dipendenze di un’unica autorità”.

Quale sia l’obiettivo del Msi, lo dice esplicitamente Giorgio Almirante, ormai segretario nazionale del partito, nell’articolo pubblicato da “Il Se­colo d’Italia”, sotto il titolo “Il caos”, il 23 ottobre 1969.

Almirante scrive:

“Siamo nel caos…giunti a questo punto, i casi sono due: o la suprema Magi­stratura della Repubblica interviene per costringere subito la cosiddetta mag­gioranza di centro-sinistra a una aperta verifica o è fatale che la crisi si trasferisca dal Governo, dai partiti, dal Parlamento al Paese, cioè anche al­la piazza”.

L’appello al presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, si accompagna all’esplicita minaccia di ricorrere alla violenza di piazza per riportare 1’ordine.

Non è minaccia vana, perché è proprio sulla “piazza” che gli strateghi oc­culti contano per far scattare la proclamazione dello stato di emergenza. Una “piazza” di destra inferocita per le stragi “rosse” del 12 dicembre 1969, che sarà convocata a Roma, da tutta Italia, per la data del 14 dicembre 1969, con il sangue ancora caldo ed i morti da seppellire.

Non sono solo parole, quelle scritte sul giornale di partito, da Giorgio Almirante, perché sei giorni più tardi, il 29 ottobre 1969 inizia la mobi­litazione degli iscritti.

Il segretario nazionale del “Raggruppamento giovanile studenti e lavorato­ri” del Msi, Massimo Anderson, invia difatti ai subalterni un “foglio disposi­zioni straordinario”, nel quale scrive:

“La drammaticità della situazione che presenta chiari sintomi pre-insurre­zionali, impone la mobilitazione generale e costante di dirigenti e gregari, per l’approntamento dei mezzi e delle misure corrispondenti. Inviati del cen­tro prenderanno contatto diretto con i responsabili dei coordinamenti regio­nali per concordare iniziative e programmi.

Intanto si dispone tassativamente: che i dirigenti provinciali siano a di­sposizione delle federazioni in continuità; che stabiliscano contatto con i coordinatori regionali e con la direzione nazionale giovanile; che nessuna iniziativa attivistica in loco o in trasferimento deve essere intrapresa sen­za preavviso o consenso della direzione giovanile, avuto riguardo al rappor­to di forze con 1’avversario, all’ambiente, agli impegni attivistici in atto altrove. Esprimendo e disciplinando tutte le nostre energie, saremo certamen­te in grado di replicare duramente all’offensiva dei sovversivi e dare un alt al comunismo”.

Non si tratta di attuare misure di difesa, bensì di attacco.

Lo conferma una nota informativa che il ministero degli Interni trasmette in copia allo stesso ministro titolare del dicastero, Franco Restivo, con la qua­le si segnala, il 5 novembre 1969, che “elementi del ‘Raggruppamento giovani­le’, della ‘Giovane Italia’, del ‘Fuan’, del ‘Settore volontari’ avrebbero rassegnato le dimissioni e si starebbero organizzando al di fuori del parti­to per ‘reagire’ alle intimidazioni dei filocinesi e dei comunisti. I giovani dimissionari intenderebbero, in tal modo, dissociare la responsabilità del partito dalla loro futura attività, evitando di coinvolgerlo nelle loro iniziative di gruppo”.

A far dubitare della spontaneità di questa raffica di dimissioni ritenute necessarie per non compromettere l’immagine legalitaria del partito è la se­gnalazione dell’informatissimo Armando Mortilla, “Aristo”, che nota come appaia “singolare al riguardo che queste dimissioni avvengano tutte allo stesso modo, va­le a dire trasmesse con lettere raccomandate”.

Per coloro che escono per non danneggiare il loro partito, ci sono quelli che rientrano per “aprire l’ombrello” che il Movimento sociale può offrire come partito rappresentato in Parlamento.

Il 16 novembre 1969, “Il Secolo d’Italia” annuncia che il Centro “Ordine nuovo” ha chiesto “l’onore” di essere ammesso nel partito.

Il 21 novembre, una nota confidenziale inviata alla divisione Affari riser­vati del ministero degli Interni, a firma “Gal”, confidente operante a sini­stra, informa che “una decina di giorni fa due missini ascoltati per caso da un nostro compagno, dicevano che il 14-15 dicembre p.v. ci sarebbe stata una ‘grossa cosa nazionale’ che dovrebbe ‘creare nel paese un grosso fatto nuovo'”.

Il 2 dicembre, il quotidiano missino “Il Secolo d’Italia” annuncia la mani­festazione nazionale indetta dal partito per il 14 dicembre, a Roma, con un articolo intitolato:

“Il MSI mobilita la Nazione contro la sovversione rossa”.

La macchina della morte è in moto, ed il Movimento sociale italiano è uno dei suoi ingranaggi.

Il 10 dicembre, Giorgio Almirante, nel corso di un’intervista al giornale tedesco “Der Spiegel” afferma che, a suo avviso, la battaglia contro il comu­nismo giustifica tutti i mezzi, e che è venuto il momento di non fare più di­stinzioni fra mezzi politici e militari per definire, una volta per sempre, la situazione in Italia.

Una dichiarazione imprudente ed impudente che segnala come nel mondo politi­co anticomunista si respiri un’aria di ottimistica certezza, tanto che alla possibilità di un intervento delle Forze armate nel Paese si rifà anche la rivista “Epoca” che missina non è.

Il 10 dicembre, difatti, “Epoca” appare nelle edicole con in copertina un vortice tricolore e, al centro, la scritta:

“Che cosa può accadere in Italia”.

All’interno, si scrive:

“Se tuttavia la classe politica non riuscisse a risolvere il problema dei rapporti del Pci con lo Stato, se la confusione diventasse drammatica, e se – nell’ipotesi di nuove elezioni – la sinistra non accettasse il risultato delle urne, le Forze armate potrebbero essere chiamate a ristabilire immedia­tamente la legalità repubblicana.

Questo non sarebbe un colpo di Stato ma un atto di volontà politica a tu­tela della libertà e della democrazia”.

Lo stesso giorno, 10 dicembre 1969, il fratello di Giovanni Ventura, Ange­lo, a Venezia, nel corso di una conversazione con Franco Comacchio stabili­sce il collegamento diretto fra gli attentati che avranno luogo tra due gior­ni a Roma e a Milano e la manifestazione indetta dal Movimento sociale nella Capitale il 14 dicembre.

Angelo Ventura, difatti, rivela a Comacchio che “tra poco sarebbe avvenuto qualcosa di grosso: in particolare una marcia di fascisti a Roma e qualcosa sarebbe avvenuto nelle banche”.

A chiamare in correità nella strage di piazza Fontana i vertici del Msi, è, il 13 dicembre 19ó9, il servizio segreto britannico che su un giornale di Edimburgo, lo “Scotsman”, fa scrivere che questa è da porre in relazione al­la manifestazione indetta, per il giorno successivo 14 dicembre, dal Msi a Roma, attribuendo la notizia a voci raccolte in ambienti milanesi non speci­ficate.

Il governo presieduto da Mariano Rumor vieta però le manifestazioni pubbli­che in tutta Italia e, con questa decisione, decreta il fallimento dell’opera­zione.

Cercheranno di ammazzarlo il 17 maggio 1973, a Milano, per mano di un finto anarchico. Ma questo è un’altra capitolo, successivo, della stessa storia.

A richiedere il ristabilimento dell’ordine turbato dalla “sovversione ros­sa” non c’è solo la destra parlamentare, definita estrema, ma anche gli ex partigiani anticomunisti che non hanno remore ad affiancarsi ai missini.

Il 7 novembre 1969, a Viareggio, si svolge una riunione per decidere la co­stituzione di una nuova organizzazione denominata “Italia unita”, sotto il patrocinio di Randolfo Pacciardi e quello, più riservato, di Amintore Fanfani.

Lo scopo della “Lega Italia Unita” è, secondo quanto dirà successivamente uno dei suoi esponenti di maggiore rilievo, l’avvocato Adamo Degli Occhi, quello di “vedere se di fronte alla sconcertante avanzata socialcomunista e all’evidente crisi nazionale ‘uomini di buona volontà’, ‘onesti’ come li chiama Cicerone, potessero opporsi con i mezzi della democrazia al Catilina socialcomunista”.

Il programma del Partito socialdemocratico che fa capo direttamente al pre­sidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, non si differenzia da quello del Movimento sociale:

“La gente è stufa dei disordini e vuole un partito che metta in ordine le cose”, dichiara Franco Nicolazzi alla rivista “Panorama” il 4 dicembre 1969.

“Il Paese ha bisogno di un periodo di pace e noi vogliamo darglielo”, aggiun­ge la socialdemocratica Maria Vittoria Mezza.

Le Forze armate, dal canto loro, sono adulate, sollecitate e temute in un periodo in cui in America latina, Asia, Africa ed Europa sono protagoniste della vita politica.

Lo ricorda, con implicita ma evidente allusione all’Italia, Giorgio Spini, sul numero unico de “L’Opinione” che, nell’articolo intitolato “Il fascismo senza volto”, scrive:

“Ieri un colpo di Stato militare in Brasile, l’altro ieri in Perù, diciotto mesi fa in Grecia. Tutti lavoretti di poche ore, sbrigati prima ancora che il paese si riavesse della sorpresa. I militari hanno imparato l’arte di far fuo­ri un paese con la stessa sveltezza con cui si tira il collo ad una gallina. A chi toccherà essere fatto fuori la prossima volta?”.

L’interrogativo di Spini non trova risposte rassicuranti negli ambienti mi­litari italiani che, viceversa, pongono in modo aperto e pubblico, la loro candidatura come forza attiva sul piano politico, determinante per il rista­bilimento dell’ordine e della pace all’interno del Paese.

Sulla “Revue militaire générale”, il generale Ernesto Cellentani ripropone la necessità di un coordinamento politico-militare per fare fronte alla mi­naccia rappresentata dalla sovversione su scala continentale fomentata dal comunismo:

“In seno alle forze politiche protagoniste dei disordini e delle sommosse –  scrive l’ufficiale – si è andato rilevando specie negli ultimi tempi un processo di crescente osmosi, ideale e organizzativa, sul piano internazionale. Il problema potrebbe rappresentare, in un futuro prossimo, ulteriori complicazioni e difficoltà poste dall’intervento dell’assai importante componente giovanile studentesca. Sembra allora opportuno realizzare una stretta cooperazione civile e mi­litare sul piano europeo occidentale, tendente allo scopo di mettere a (di­sposizione) fattori comuni di esperienze ed informazioni: potrebbe allo sco­po essere concretata da una politica dell’ordine pubblico ed un’altrettanto comune politica di informazione ed azione psicologica, entrambe necessarie. La popolazione non interessata al disordine potrebbe – infine – essere chiamata in determinati casi limite a cooperare al ristabilimento dell’or­dine . Oggi – conclude Cellentani – esiste, ormai, un fronte interno anche in tempo di pace”.

Non sono solo propositi teorici, destinati a restare privi di risvolti con­creti, se, il 27 aprile 1969, nell’articolo intitolato “Vedovato come isti­tuzione”, “L’Astrolabio” deve scrivere:

“Recentemente il generale Vedovato ha scritto che spetta alle forze arma­te, cioè a lui, di garantire in ogni evenienza, da qualunque parte prodotta, la continuità della politica del governo (non dello Stato) e del suo finan­ziamento. Il ministro Gui gli ha opposto un’imbarazzata rettifica”.

Se il ruolo determinante nella vita politica del Paese viene rivendicato dal capo di Stato maggiore della Difesa, i subalterni si sentono autorizza­ti ad investirsi di compiti che concernono l’ordine pubblico che spettano agli organi preposti alla pubblica sicurezza e non a loro.

Il 21 giugno, a Palermo, dopo che la sua vettura è rimasta bloccata da una manifestazione di operai in sciopero, il generale Giglio emette un mi­naccioso comunicato nel quale scrive:

“Qualunque ulteriore iniziativa suscettibile di ostacolare comunque, di­rettamente o indirettamente, la mia attività di comando, sarà da me e con i mezzi consentiti a mia disposizione immediatamente stroncata”.

La minaccia di far intervenire reparti militari contro gli scioperanti non verrà attuata, ma a Novara, dal 25 al 30 giugno 1969, i militari sono autorizzati ad agire in prima persona contro i loro contestatori.

Dopo che in città si sono verificati scontri fra giovani di sinistra ed avieri del 53° Stormo, le forze di polizia sono esautorate dalle loro funzioni ed il compito di pattugliare la città è affidato agli avieri ed ai carabinieri, che sono parte integrante delle Forze armate all’interno delle quali svolgono anche il compito di polizia militare.

È un segnale che viene recepito come il riconoscimento del ruolo che le Forze armate potranno essere chiamate a svolgere in un futuro assai prossimo, com’è nelle speranze dei rappresentanti di quei partiti che si pongono dalla parte della popolazione che aspira al ristabilimento dell’ordine e che l’in­tervento dei militari lo sollecitano apertamente.

E a queste forze politiche i militari si appoggiano con fiducia, certi del loro sostegno politico e propagandistico come avviene con la pubblicazione, da parte della rivista “Il Borghese”, il 31 luglio 1969, di una lettera indirizzata da un gruppo di ufficiali al capo di Stato maggiore dell’Esercito, generale Enzo Marchesi, con la quale sollecitano l’ordine di “reagire sin­golarmente e collettivamente, con i fatti e se necessario con le armi, a qualsiasi aggressione, a qualsiasi offesa alla Bandiera, all’uniforme, al­l’essenza spirituale e materiale dell’organismo militare”.

La pretesa delle Forze armate di ricoprire nel Paese un ruolo maggiore non viene sostenuta solo da destra, ma è anche recepita e giustificata in altri ambienti politici.

Così, la rivista “Panorama”, il 29 maggio 1969, dedica alle Forze armate un articolo, dal titolo “L’esercito inquieto”, in cui Giorgio Gatta denuncia il malessere interno all’istituzione militare e conclude:

“Più chiaramente che in passato dunque si propongono per le forze armate funzioni nuove. Un esempio limitato viene dai Paesi del Terzo mondo, dove l’esercito, padrone delle tecniche più moderne e dotato spesso di una visio­ne più progressista rispetto alle strutture civili, diventa un centro di po­tere e costituisce insieme un elemento unificante della nazione”.

Ma l’unità della Nazione, come la sua pace sociale, la sua sicurezza inter­na ed internazionale, la sua stabilità economica e politica, per le Forze ar­mate passa attraverso la neutralizzazione del pericolo comunista e del parti­to che rappresenta ancora in quell’anno 1969 la “quinta colonna sovietica” in Italia.

Il 4 dicembre 1969, sul settimanale “Panorama”, nell’articolo intitolato “I forzati dell’ordine”, Lino Rizzi segnala il processo di politicizzazione a destra in corso all’interno del Corpo di pubblica sicurezza, accelerato a seguito della morte dell’agente di Ps Antonio Annarumma a Milano, il 19 novembre, ed ai conati di ribellione verificati nei battaglioni celeri di Milano e Torino nei giorni immediatamente successivi e repressi a fatica da­gli ufficiali.      

“La maggior parte dei giovani agenti di Ps – scrive Rizzi – scopre la po­litica e cede alla suggestione dello Stato forte, sposa le posizioni dei par­titi di estrema destra anche come scelta difensiva, di tipo corporativo. Un deputato democristiano racconta che a Nuoro, nelle elezioni politiche del 1968, quattrocento baschi blu del secondo raggruppamento Celere, votando nella stessa sezione hanno fatto uscire dalle urne altrettanti voti per il Movimento sociale italiano”.

Un atteggiamento che premia la politica di un partito che della difesa dei corpi di polizia, a ragione e più spesso a torto, ha fatto un cardine del suo programma ostentato anche con gesti plateali come, a Pavia, il 13 marzo 1969, quando i giovani del Movimento sociale, nel corso di incidenti fra la polizia e gli studenti, si sono schierati simbolicamente a difesa della Questura.

Un partito, il Movimento sociale italiano, che insieme a monarchici, libe­rali e a parte dei democristiani chiede il ripristino della pena di morte e l’introduzione nel codice penale della fustigazione, maggiori poteri al­la polizia, aumenti salariali e tutela ad oltranza del suo operato.

Il “nemico” anche per la polizia, specie per quella dei battaglioni cele­ri in prima linea nei servizi di ordine pubblico, è la sinistra in genere, il Partito comunista in particolare.

Significativa la lettera inviata al ministero degli Interni, il 21 novembre 1968, da un gruppo di agenti e di ufficiali di Ps contenente l’esplicita mi­naccia di agire non contro il comunismo ma contro coloro che cedono al comu­nismo, con evidente allusione ai democristiani ritenuti inclini al compromes­so con il Pci.

“Stretti intorno alla Bandiera del corpo, abbrunata ai sublime olocausto della giovane vita di Antonio Annarumma fermamente giuriamo: o prestigio e autorità alle forze dell’ordine o armi contro i responsabili del cedimento al comunismo”.

Puntuale, giunge il plauso del settimanale “Il Borghese”, diretto da Mario Tedeschi :

“La polizia oggi ha, se vuole, la possibilità di risolvere la crisi in cui si dibatte l’Italia. Se il 20 novembre gli ufficiali di polizia delle caserme di Milano avessero deciso di occupare la città, anziché schierarsi a difende­re il loro generale contro i loro uomini, non avrebbero incontrato resistenza e sarebbero stati applauditi dalla maggioranza della popolazione”.

Un invito esplicito al “colpo di Stato”, rivolto alla polizia da un uomo, Mario Tedeschi, che lavora per il ministero degli Interni.

Nel corso di tutto il 1969 si respira l’aria dell’evento, da tanti invoca­to e da tanti temuto, dell’intervento militare nell’agone politico che il fallimento della politica di centro-sinistra e la scissione interna al Par­tito socialista unificato rendono, anche agli occhi degli osservatori stra­nieri, inevitabile.

L’8 luglio 1969, il “New York Times” scrive che la crisi politica in cor­so rappresenta “la più grave minaccia alla democrazia italiana nella vita della Repubblica”.

Ancora più esplicito è il “Washington Post” che, due giorni più tardi, il 10 luglio, scrive:

“L’Italia si sta forse disintegrando…Caos, guerra civile, un golpe, que­ste calamità sono minacce reali, a giudizio di molti italiani… Il centro­sinistra è caduto vittima delle meschinità personali e di partito…E adesso con lo schieramento di centro ridotto a brandelli, l’estrema destra e l’estre­ma sinistra si fronteggiano attraverso un abisso di profonda sfiducia e di odio di classe”.

Sul piano politico interno, il pericolo è vissuto come reale da un parti­to, come quello comunista, che può contare anche sull’apporto informativo dei servizi segreti dei Paesi dell’Est europeo e di quello sovietico, il Kgb, in particolare.

Il 14 gennaio 1969, i parlamentari del Partito socialista di unità prole­taria (Psiup) segnalano “iniziative a carattere autoritario che coinvolgono anche organizzazioni militari”.

Il 24 marzo 1969, nel corso della riunione della direzione nazionale del Pci, il segretario Luigi Longo afferma:

“Per quanto riguarda i pericoli di svolte autoritarie o di colpi di mano, dobbiamo richiamare l’attenzione del partito sul fatto che questi pericoli sono reali”.

Nel suo intervento, Abdon Alinovi sottolinea che si sono svolte riunioni di ufficiali e chiede che il partito abbia maggiore sensibilità verso que­sti fatti.

Nella riunione del 7-8 maggio 1969, dedicata agli attentati stragisti alla Fiera campionaria ed alla Stazione ferroviaria di Milano del 25 aprile, Carlo Galluzzi denuncia “la tendenza a tradurre lo spostamento a destra a livel­lo organizzativo di governo e forse anche la spinta ad andare a soluzioni au­toritarie, di tipo greco”.

Galluzzi avanza esplicitamente due ipotesi:

“Un colpo di Stato autoritario che può venire da ambienti militari integra­ti dalla Nato”, o una svolta autoritaria di tipo “centrista”, imposta dal presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat.

La direzione nazionale del Pci avverte il pericolo di una azione finalizza­ta ad imporre con la forza una svolta destra, coordinata da forze nazionali ed internazionali.

Se Galluzzi evoca la Nato, la Grecia e chiama in causa il presidente del­la Repubblica Giuseppe Saragat, Enrico Berlinguer denuncia il possibile in­tervento americano:

“Vi è un accrescersi di elementi che indicano qualcosa di torbido e pericoloso in questa situazione. Da questa attivizzazione di elementi di destra non si può escludere una componente internazionale (forse certi orientamenti nuovi della amministrazione Usa)”.

Le ipotesi “golpiste” non vengono espresse solo nell’ambito del partito, ma denunciate pubblicamente, come fa Pietro Secchia a Padova, il 29 giugno, nel corso del convegno nazionale dell’Associazione nazionale partigiani ita­liani (Anpi) dove afferma che “un paese non può vivere permanentemente sotto il rischio, la minaccia o il ricatto di colpi di Stato…”

Il Partito comunista non pensa a colpi di Stato militari.

Nella stessa occasione, a Padova, lo dice esplicitamente Pietro Secchia, che nel partito rimane uno degli uomini più rappresentativi, quando afferma che essi “sono sognati da uomini politici che credono di poter abbattere le di­ghe del malgoverno, alla corruzione sfrenata, all’asservimento allo stranie­ro, eliminando ogni legalità costituzionale e accantonando di fatto la Costi­tuzione” .

I vertici del Pci non temono un “golpe” in stile sudamericano o greco ma, più logicamente, una reiterazione del 25 luglio 1943, un “colpo di Stato” che faccia affidamento sulle Forze armate nell’ambito istituzionale, con il presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, al posto di re Vittorio Ema­nuele III.

È, questa, l’ipotesi più realistica, quella che fa più paura ai dirigen­ti comunisti che sanno di non poter contare sull’aiuto dell’Unione sovieti­ca e dei Paesi dell’Est europeo, perché l’invasione militare sovietica del­la Cecoslovacchia, dodici anni dopo l’intervento militare sovietico in Unghe­ria, e l’inesistente reazione americana in entrambi i casi, hanno provato che i patti di Yalta sono ancora in vigore e che le due potenze egemoni non interferiscono nelle rispettive aree di influenza.

Che così sia, d’altronde, lo prova al di là di ogni ragionevole dubbio, l’indifferenza sostanziale con la quale l’Unione sovietica ha reagito al colpo di Stato militare in Grecia, del 21 aprile 1967, che pure aveva una dichiarata finalità anticomunista, all’interno, ed antisovietica sul piano internazionale.

Il 2 luglio 1969, il segretario nazionale del Pci, Luigi Longo, comunica ai componenti della direzione nazionale del partito che alcuni dirigenti han­no riferito che “la situazione è tale per cui può esserci un intervento (del­l’esercito ). Notizie segnalano movimenti sulla via Appia. Per adesso – prosegue Longo – vedrei di assumere informazioni da tutte le organizzazioni specie nel nord, senza escludere le altre zone”.

La paura ai vertici del Partito comunista è tale che, il 7 luglio, Gior­gio Napolitano, attuale presidente della Repubblica ed allora componente della direzione nazionale del partito, si vede obbligato a consigliare di abbassare i toni della polemica: “Ci sono queste notizie. Ci può essere un disegno che fa leva su determinati ambienti dell’esercito. Ma – prosegue – si possono presentare tutti i gene­rali come potenziali golpisti? Fare esplicitamente appello al fatto che i soldati sono figli del popolo”.

Il 16 luglio 1969, è la volta di Armando Cossutta ad intervenire per deli­neare quale potrebbe essere il più realistico pretesto per un intervento mi­litare inteso a ristabilire l’ordine pubblico.

Ci potranno essere, dice, “grandi lotte che portino a scontri, in cui ci siano ufficiali che perdono la testa e provocano situazioni drammatiche, che ci siano scontri anche con colpi d’armi da fuoco e feriti, insomma si possono determinare situazioni di grandi tensioni in cui si possono inserire questi tentativi”.

È esattamente, questo descritto da Armando Cossutta, lo scenario che pre­parano le forze decise a fare dell’Italia un baluardo dell’anticomunismo nel Mediterraneo.

Nella riunione del 28 luglio, è Gian Carlo Pajetta a parlare esplicitamen­te di “colpi di Stato” e della necessità di difendersi.

Mentre, Luciano Lama, da parte sua, ha ben presente che nell’anno in corso scadono 59 contratti nazionali che interessano oltre cinque milioni di lavora­tori, e di conseguenza ricorda che le richieste sindacali sono radicali, “ed è veramente posta in discussione la compatibilità di tali rivendicazioni con il sistema. Se vi saranno momenti duri – conclude -certi gruppi potranno a­vere buon gioco”.

Il 7 settembre 1969, il quotidiano comunista “L’Unità” scrive che, in Ita­lia, è in vigore l’allarme Nato che sarebbe stato decretato il 6 luglio, nel­l’incombenza della crisi di governo, con la predisposizione di un piano segre­to che prevede la mobilitazione delle basi militari, l’occupazione di ministe­ri, sedi di partiti, redazioni giornalistiche da parte di unità speciali dell’Esercito e dei carabinieri.

Non sono solo ipotesi astratte, quelle formulate dai dirigenti nazionali del Partito comunista, perché costoro assumono provvedimenti concreti a dife­sa propria e del partito, come l’invio di militanti in Unione sovietica per­ché siano addestrati come marconisti, e le circo­lari inviate da Armando Cossutta, a partire dal 21 marzo 1969, ai dirigenti periferici per invitarli a prendere misure di sicurezza straordinarie e a tenere presente che i telefoni sono sotto controllo.

Dal 6 dicembre, infine, secondo quanto scriverà il settimanale “Il Borghese” in epoca successiva, la direzione nazionale del Pci dirama l’ordine di massima vigilanza con il controllo diurno e notturno delle federazioni pro­vinciali e della sede centrale del partito, a Roma, in via delle Botteghe Oscure.

A strage di piazza Fontana avvenuta, nel corso della riunione della dire­zione nazionale del Pci, avente all’ordine del giorno “l’esame della situa­zione politica”, il 19 dicembre 1969, il relatore, Enrico Berlinguer, avanza alcune ipotesi ma sottolinea come appaia valida quella che”si sia trattato di un anello di un vero e proprio complotto reazionario. Le cose – dice Ber­linguer – non sono andate come previsto perché se le altre bombe fossero scoppiate le cose sarebbero state molto gravi. L’ipotesi di un complotto di destra è avanzata anche da forze Dc…”.

Anche Tortorella segnala la preoccupazione dei democristiani, e prosegue:

“Se ci si trovasse a un complotto e non al gesto isolato, la preoccupazio­ne degli altri è che queste cose si possono ripetere e determinare una situa­zione molto difficile da controllare…Nei corpi di polizia – afferma Torto­rella – ci sono obbedienze a centrali diverse.

Non tutti obbediscono agli or­dini dello stesso ministro degli Interni. Altri obbediscono a qualche altra centrale (Presidente della Repubblica?). Certi obbediscono e si muovono su li­nee diverse…”.

Mauro Scoccimarro, a sua volta, dichiara:

“È la prima volta che sono avvenuti attentati così gravi. Rivelano una orga­nizzazione. C ‘è una simultaneità che rivela una base organizzata. Se si ricolle­gano i dati sulla stampa, si ha che non ci troviamo di fronte a gesti fanati­ci ma che ci sono radici più profonde. Se è così significa che ci sono dei pia­ni e ci si potrebbe trovare di fronte a nuovi avvenimenti del genere…”.

I vertici nazionali del Partito comunista, quindi, non credono che gli at­tentati del 12 dicembre siano il frutto di un’azione isolata, compiuta da e­lementi senza arte né parte, non ideologicamente inquadrabili.

Non c’è nessun riferimento ad un’azione di marca “fascista”, perché Luigi Longo, Enrico Berlinguer, Gian Carlo Pajetta e tutti gli altri sanno perfettamente che esiste un pericolo “reazionario” non qualificabile come fascista.

Non a caso nei loro interventi fanno riferimento al presidente della Repub­blica, il socialdemocratico ed antifascista Giuseppe Saragat, ai “corpi se­parati”, alle “obbedienze diverse” che presuppongono l’esistenza di centrali di comando diverse non tutte corrispondenti a quelle ufficiali.

Le “bombe fasciste” è un’immagine propagandistica che il Pci avallerà suc­cessivamente, sul piano mediatico e giudiziario, quando deciderà di coprire i crimini dello Stato e del regime anticomunisti per provare la sua maturità ed affidabilità democratiche.

In realtà, è un anno che i comunisti vivono nel timore del “colpo di Stato”, e gli attentati del

12 dicembre collegati con quelli che li hanno preceduti (in particolare quelli stragisti del 25 aprile a Milano e quelli sui treni dell’3-9 agosto), confermano l’attendibilità delle ipotesi sul tentativo di provocare una svolta autoritaria a destra, con la forza ma nell’ambito della Costituzione.

Per questa ragione il riferimento al presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, è continuo e, soprattutto, esplicito.

Anche settori della Democrazia cristiana non si discostano dalle analisi fatte dal Partito comunista.

Il ministro del Lavoro, Carlo Donat Cattin, nel corso di un incontro con i dirigenti sindacali, il 19 novembre 1969, è chiaro:

“Ci disse – ricorderà successivamente Giorgio Benvenuto – che eravamo or­mai alla vigilia dell’ora X, che il golpe era alle porte, che bisognava af­frettarsi a mettere un coperchio sulla pentola che bolliva se si voleva evi­tare l’arrivo dei colonnelli”.

A conferma che l’origine dell’operazione, la sua direzione, è di matrice socialdemocratica con il tacito assenso dei socialisti nenniani, giunge la reazione del segretario nazionale della Democrazia cristiana, Arnaldo Forlani, che pensa subito al “golpe” quando, il 12 dicembre 1969, subito dopo la strage di piazza Fontana telefona al segretario provinciale democristia­no, Camillo Ferrari, e gli dice:

“Occorre tenerci in continuo contatto telefonico, scambiarci notizie di mezz’ora in mezz’ora”.

Teme, Forlani, un colpo di mano da parte dei militari, dei carabinieri, di forze che comunque hanno potere e sono espressioni dello Stato, non certo dell’anti-Stato.

E Ferrari comprende, anch’egli al volo la situazione e paventa il pericolo, tanto da far presidiare la sede provinciale della Democrazia cristiana mila­nese con l’ordine tassativo di non far entrare nessuno che non sia conosciu­to.

Una Democrazia cristiana sulla difensiva, costretta come il suo grande an­tagonista a far presidiare le sue sedi, conferma che parte dei vertici del partito erano stati esclusi dalla conoscenza dell’operazione e dei suoi sco­pi perché ritenuti, come Aldo Moro, inaffidabili per le loro posizioni incli­ni al dialogo ed al compromesso con il Pci.

Era stato proprio Aldo Moro a suggerire, sul finire del 1968, una “strate­gia dell’attenzione” nei confronti del Partito comunista che, per la prima volta nella sua storia, aveva dissentito e criticato, pubblicamente, l’Unio­ne sovietica per l’invasione della Cecoslovacchia.

E proprio ad Aldo Moro, i dirigenti comunisti consiglieranno di adottare misure precauzionali al suo rientro in Italia, a conferma ulteriore che non ritenevano gli attentati del 12 dicembre frutto di un atto di follia, ma azio­ne pianificata per giungere alla soluzione autoritaria apertamente invocata dagli ambienti più fervidamente anticomunisti.

Non avevano torto.

Non era, difatti, peregrino il timore di un colpo di mano che spostasse l’equilibrio politico e mettesse fuori gioco, una volta per sempre, il Partito comunista creando le condizioni politiche per seguire l’esempio della Germa­nia federale dove il Partito comunista era da sempre fuori legge.

Il 28 febbraio ed il 14 marzo 1990, nel corso di due deposizioni dinanzi alla magistratura, Enzo Generali ricorda che, nel mese di gennaio del 1969, Otto Skorzeny, l’ex colonnello delle Ss germaniche ora collaboratore dei ser­vizi segreti americani ed israeliani, a Madrid, gli aveva preannunciato che, in Italia, si “stava preparando qualcosa di concreto con la partecipazione di militari di alto grado e personalità politiche dell’area di centro-centro-destra; mi citò in proposito –  prosegue Generali – il nome del principe Borghe­se che era l’uomo che lo aveva reso edotto della elaborazione del golpe, del­l’ammiraglio Gino Birindelli, comandante dell’area sud della Nato, i predetti appoggiati da quadri dello Stato maggiore marina…nonché il ruolo del Ser­vizio segreto militare e l’avallo di politici di spicco della Democrazia cristiana di cui non fece i nomi. Il progetto era quello di far cessare autoritativamente l’esperienza del centro-sinistra in Italia e di riassesta­re l’ordine interno privilegiando l’industria”.

Non è, questa, una fantasiosa ricostruzione a posteriori di un millantato­re .

Al giudice istruttore di Treviso, Giancarlo Stiz, Ruggero Pan rivelerà che, il 19 aprile 1969, nel suo studio a Padova, Franco Freda gli aveva parlato della campagna di attentati che stava conducendo e, riferendosi alle loro finalità, aveva concluso affermando che “non era il caso di prendersi cura della massa né di proporsi subito il problema della qualificazione del nuo­vo regime”.

Affermazione rivelatrice sugli scopi di un’operazione finalizzata a desta­bilizzare l’ordine pubblico per consentire la proclamazione dello “stato di emergenza”, la sospensione temporanea delle garanzie costituzionali, lo spo­stamento a destra dell’asse politico.

In altre parole, per “stabilizzare l’ordine politico” mediante la “destabi­lizzazione dell’ordine pubblico”.

Millantava anche Franco Freda? Sembra di no.

Il 14 gennaio 1978, l’ex capo della polizia, prefetto Angelo Vicari, nel cor­so della sua deposizione al processo per il tentato “golpe Borghese” del 7-8 dicembre 1970, affermerà testualmente :

“La Questura conduceva indagini sul ‘Fronte nazionale’ per una serie di ten­tativi di colpi di Stato messi in atto prima e dopo la famosa notte del ‘Tora Tora’. Di questi episodi, ripeto, se sono verificati più di uno. Il più grave, quello che destò maggiore allarme, avvenne nel luglio del 1969”.

È una conferma più che autorevole, stante la personalità e la carica rico­perta dal prefetto Angelo Vicari, per più di 13 anni capo della polizia, che fanno di lui una delle persone più informate d’Italia e, a suo tempo, certa­mente una delle più potenti.

Sempre nel mese di luglio del 1969, un altro personaggio che per posizione sociale, collocazione politica e rapporti con i servizi segreti sovietici e dei Paesi dell’est europeo, era da considerarsi ben informato, Gian Giacomo Feltrinelli, edita un opuscolo di sole 14 pagine, dal titolo “Estate 1969”, che reca come sottotitolo:

“La minaccia incombente di una svolta radicale autoritaria a destra, di un colpo di Stato all’italiana”.

Nel testo, l’editore scrive che le agitazioni sindacali e la crisi della economia americana “hanno indotto, a nostro avviso, già da alcuni mesi cer­te forze di destra, a predisporre ed attuare un piano politico e militare pre­ciso, volto ad imporre al Paese una radicale e autoritaria svolta a destra con un colpo di Stato all’italiana.

Questi piani e la loro attuazione hanno preso nuovo impulso dalla visita di Nixon in Italia ed è possibile che trovino attuazione nel corso di quest’ estate, facilitati dell’esodo estivo, dal generale disinteresse, dalla impre­parazione delle tradizionali organizzazioni operaie (Pci e sindacati), e dal­la sostanziale inefficienza di gruppi che si rifanno ad astratti estremismi ideologici e che, in ogni circostanza, rifiutano il discorso politico”.

Feltrinelli, infine, specifica che il “colpo di Stato” all’italiana sarebbe “ideato e attuato con la compiacente collaborazione della Cia, della Nato e delle forze reazionarie italiane”.

Da una collocazione politica ed ideologica diametralmente opposta, nel me­si di novembre del 1969, la Federazione nazionale combattenti della Repubbli­ca sociale italiana (Fncrsi) diffonde volantini con i quali si invitano i re­duci repubblicani a “non farsi strumentalizzare per un colpo di Stato reazio­nario” .

E che di “golpe reazionario” e non “fascista” si tratti lo conferma pubbli­camente uno dei suoi fautori, l’ex combattente nella guerra di Spagna contro i franchisti spagnoli e i fascisti italiani, il repubblicano Randolfo Pacciardi.

In una lettera aperta al settimanale “Panorama”, pubblicata il 7 agosto 1969, Randolfo Pacciardi ricorda come al presidente della Repubblica, Giu­seppe Saragat, “l’art. 92 della Costituzione … dà il diritto di nominare i ministri. Non solo lo può fare – scrive – ma lo deve fare. E se questo go­verno non ottenesse il voto di fiducia, il Presidente ha la facoltà di sciogliere le Camere. È grottesco ritenere che questo sia un ‘colpo di Stato’ e chi lo ritenesse tale, insorgendo, si metterebbe fuori legge”.

E chi, in Italia, avrebbe potuto insorgere, nelle speranze e nelle aspettative di Randolfo Pacciardi e dei suoi amici, se non i comunisti, i soli in grado di poterlo fare per numero ed organizzazione?

L’operazione che avrebbe dovuto concludersi in una domenica di sangue, il 14 dicembre 1969, passando per le mancate stragi del 25 aprile a Milano, per gli attentati ai treni della notte fra l’8 ed il 9 agosto, e per le stragi in parte fallite del 12 dicembre, non scaturisce dai piani e dai programmi dell'”eversione nera” alla quale, come abbiamo documentato, nessuno, nemmeno i dirigenti nazionali del Partito comunista fanno mai riferimento.

Essa è inserita in una strategia internazionale elaborata da un Paese – gli Stati Uniti d’America – che aveva militarmente sconfitto il fascismo e, dall’immediato dopoguerra utilizzava strumentalmente il neofascismo rappre­sentato dal Movimento sociale italiano e dalle organizzazioni ad esso colle­gate.                                 ,

Per questa ragione la necessità di giungere alla soluzione del caso Italia, nel senso di garantirsi la fedeltà dei suoi governi e di neutralizzare la mi­naccia rappresentata dalla costante avanzata elettorale del più forte partito comunista occidentale non si palesa nel 1969 ma percorre tutta la storia post­bellica del Paese.

Negli anni Sessanta per un insieme di fattori che vanno dalla ripresa econo­mica sovietica al conflitto mediorientale, al processo di decolonizzazione, al proliferare di movimenti di liberazione nazionale che professano idee marxiste, al mutamento della strategia militare americana passata da quella della “rap­presaglia massiccia”, ovvero della risposta nucleare ad ogni attacco sovieti­co, a quella della “risposta flessibile” che prevede una controffensiva di pari intensità ed utilizzando gli stessi mezzi, lo scontro fra le due poten­ze egemoni cresce con un’intensità ed una violenza senza precedenti.

Impegnati nella guerra del Vietnam, convinti di aver perso l’Algeria a causa della “guerra rivoluzionaria” condotta dal comunismo guidato da Mo­sca, alle prese con il caso di Cuba ormai inserita nell’orbita sovietica, gli Stati Uniti e 1’Alleanza atlantica non sono disposti a perdere ulteriore terreno soprattutto in quell’area del Mediterraneo che il conflitto fra arabi, soste­nuti dal blocco comunista, ed israeliani, appoggiati da quello occidentale, ha trasformato nella frontiera calda della guerra fredda.

Per la “messa in sicurezza” dell’Italia, sulla cui importanza strategica nel Mediterraneo è inutile soffermarsi, l’anticomunismo nazionale ed inter­nazionale, politico, economico e, soprattutto, militare lavora da anni.

In una situazione politica resa precaria dall’ingresso nell’area governa­tiva del Partito socialista, i primi segnali di una strategia pianificata si possono notare già nel corso del 1965.

È l’anno del convegno organizzato per conto dello Stato maggiore dell’E­sercito all’hotel Parco dei principi di Roma dall’istituto “A. Pollio” per discutere di “guerra rivoluzionaria” e dei mezzi per combatterla, dal 3 al 5 maggio 1965.

Al quale segue la creazione, nel successivo mese di giugno, di un “Comitato italiano per l’Occidente” di cui fanno parte esponenti di tutta l’estrema destra italiana.

Ne sono fondatori, difatti, Nicola Romeo, Piera Gatteschi, Maria Gionfrida, Pier Francesco Nistri, Nino Del Totto, “Lillo” Sforza Ruspoli, inseriti o vi­cini al Movimento sociale, Pino Rauti, capo di “Ordine nuovo”, e Stefano Del­le Chiaie, responsabile di “Avanguardia nazionale”.

Il “Comitato” si propone di “approntare elenchi di combattenti e giovani pronti a fornire un italiano anticomunista per ogni comunista italiano che vada a rafforzare i rossi in qualsiasi parte del mondo…”

È un programma di guerra civile reso subito operativo, visto che “Avan­guardia nazionale” si auto-scioglie e s’immerge nella clandestinità dove re­sterà fino ai primi di gennaio del 1970, quando sarà ricostituita come “A­vanguardia nazionale giovanile”.

Sempre in quel mese di giugno del 1965, a Bellagio, nella Villa Serbelloni di proprietà della Fondazione Rockfeller, si svolge il convegno sul tema “Condizioni dell’ordine mondiale”, organizzato dal Congresso per la libertà delle cultura che è un’emanazione della Central intelligence agency.

A Roma, a Palazzo Rospigliosi, su invito di Maria Camilla Pallavicini, Pino Rauti, Edgardo Beltrametti e Gianfranco Finaldi svolgono una conferen­za sul tema: “Come difendersi dall’aggressione comunista”.

Non c’è solo la destra anticomunista a muoversi, perché l’11 dicembre 1965, a Udine, si svolge una riunione degli appartenenti alla struttura “Gladio” sui temi della “insorgenza e contro-insorgenza”, nel corso della quale viene richiesta “una azione attiva di contropropaganda”.

Il comandante della VIII formazione, “Manlio”, peraltro mai identificato, dopo aver ascoltato le osservazioni dei suoi subalterni, afferma che “ci sono già delle organizzazioni politiche che fanno la contro-propaganda anti­comunista” e che, pertanto, a loro conviene:

a) approfondire la conoscenza degli elementi avversari – persone e fatti – e segnalarli con i consueti canali al Centro…;

b) qualsiasi azione intimidatoria e dimostrativa contro gli elementi avver­sari dovrebbe essere fatta non da elementi nostri del luogo (i quali dovreb­bero curare la segnalazione) ma da elementi provenienti da fuori;

c) compilare e diffondere manifesti e manifestini in risposta a quelli compi­lati dalla parte avversaria;

d) organizzare delle conferenze o comizi per controbattere le idee avversa­rie” .

L’anticomunismo politico e militare agiscono all’unisono e, nell’anno suc­cessivo, il 1966, con l’operazione “manifesti cinesi” i piani divengono ope­rativi.

Se i militanti di “Avanguardia nazionale” svolgono azioni di “propaganda nera” per conto del ministero degli Interni, una relazione interna del Sifar del 6 aprile 1966, riferita alla preparazione dell’operazione “Delfino” della struttura “Gladio” prevista per il periodo 15-24 aprile, si addestra per fare, in modo sistematico, la stessa cosa non limitata però all’affissio­ne di manifesti.

Nella relazione, difatti, si legge che l’esercitazione verrà effettuata “sul terreno della zona di Trieste, con la partecipazione di elementi di un nucleo di propaganda (P/4), di un nucleo di evasione ed esfiltrazione (E/4) e di una unità di pronto impiego (Stella marina). L’esercitazione svilupperà, su base sperimentale, temi concernenti le operazioni caratteristiche della guerra non convenzionale in situazione di insorgenza e contro-insorgenza. Si prevedono quindi azioni di provocazione, quali aggressioni e attentati da attribuirsi all’avversario e la diffusione di materiale di disinformazio­ne”.

Sono le tattiche che impiegheranno i “neofascisti” negli anni successivi, senza, come si può constatare, che siano stati essi ad elaborarle e a sperimentarle sul terreno, bensì le strutture clandestine delle Forze armate italiane.

A confortare la certezza dell’anticomunismo politico giunge, il 20 aprile 1966, la direttiva del capo di Stato maggiore della Difesa, generale Giuseppe Aloja, che raccomanda in seno alle Forze armate ”l’educazione morale e civica” alla scopo di “immunizzare il combattente dalla propaganda sovversiva tenden­te alla disgregazione della compagine militare”.

Il 1966 si chiude con una lettera inviata ad Yves Guerin Serac da Leo Ne­grelli , un giornalista italiano, sul quale a torto è stata sempre posta po­ca attenzione, il quale gli segnala, il 6 novembre, che “c’è in Italia una situazione di emergenza che può determinare non so ancora cosa”.

Il “cosa” comincia a prendere forma nel 1967, ad esempio, con il varo del­l’operazione “Chaos”, varata dalla Cia per favorire, fra l’altro, la costi­tuzione di gruppi “cinesi” e marxisti leninisti in dissenso con i partiti comunisti, come quello italiano, dipendenti dall’Unione sovietica.

Favorire la nascita e lo sviluppo del proprio nemico è, però, solo la pri­ma delle condizioni necessarie per stabilizzare l’ordine politica italiano.

Non è sufficiente alimentare il disordine, difatti, perché bisogna incanalarlo, dirigerlo e volgerlo a proprio favore indirizzandolo versa obbiettivi pre­determinati.

I continui riferimenti alla Grecia ed al colpo di Stato militare del 21 aprile 1967 hanno indotto molti a ritenere che l’anticomunismo politico abbia ritenuto possibile reiterare l’operazione in Italia, dimenticando che in questo Paese generali e colonnelli fanno la politica di chi governa e non sono mai stati disposti a dissentire o, addirittura, a tramare contro il po­tere politico per tema di rovinarsi la carriera.

In Italia, viceversa, la via da seguire è quella già presa in considerazio­ne nel mese di luglio del 1948 e, ancor più, in quello stesso mese del 1960, quando gli incidenti seguiti all’attentato a Palmiro Togliatti, nel primo caso, e alla pretesa del Msi di svolgere il proprio congresso nazionale a Genova, nel secondo, diedero ai settori oltranzisti democristiani la possi­bilità di proporre la proclamazione dello stato di emergenza con tutte le misure di carattere politico-poliziesco che il provvedimento comporta.

A confortare la tesi di quanti sostenevano che questa era la via da seguire, è venuto l’esempio di quanto è accaduto in Francia nel 1968: il caratte­re insurrezionale assunto dalle proteste studentesche ha consentito alle Forze armate di dettare le proprie, durissime, condizioni al generale Charles De Gaulle e a decretarne la fine politica.

L’operazione inizia a Nanterre, il 22 marzo 1968, con l’infiltrazione de­gli uomini dell’Oas, in parte dipendenti da Yves Guerin Serac, fra gli stu­denti in agitazione dell’Università che danno il via ad una vera e propria rivolta a stento sedata dalla forze di polizia.

Non è difficile fomentare gli animi nel mondo giovanile e studentesco, così che gli incidenti di Nanterre diventano l’esempio da seguire anche a Pa­rigi dove si sviluppa quello che sarà poi chiamato il “maggio francese”, a torto mitizzato dalle sinistre di tutto il mondo perché, come già a Nanterre, anche a Parigi la rivolta studentesca è opera degli agitatori professionisti dell’Oas.

Cosa può fare una piazza in rivolta, lo dicono le cifre degli scontri del maggio 1968 nella capitale francese: 625 manifestanti e 513 poliziotti fe­riti, 73 arrestati, 1.555 fermati, 288 automobili ed autobus incendiati o dan­neggiati, 27 negozi devastati.

Posto dinanzi ad un’esplosione di violenza giovanile che le forze di poli­zia non sono in grado di controllare, alla quale si potrebbe affiancare quel­la delle masse operaie in agitazione, il presidente della Repubblica, Char­les De Gaulle si trova obbligato a richiedere il preventivo sostegno delle Forze armate.

Non si conoscono tutte le condizioni poste dai vertici dell’esercito fran­cese a Charles De Gaulle ma di una gli effetti sono visibili ed immediati: l’amnistia incondizionata concessa a tutti gli appartenenti all’Organizzazio­ne dell’esercito segreto (Oas), capi e gregari insieme, scarcerati già nel mese di giugno.

L’obiettivo primo dei “congiurati” internazionali è raggiunto e, con esso, il ridimensionamento drastico del potere del generale Charles De Gaulle chia­mato ora a rispondere del suo operato anti-americano, anti-Nato ed anti-israe­liano.

Un risultato ottenuto attraverso la manipolazione delle masse studentesche, sempre pronte, per l’età, a scagliarsi contro il potere costituito.

In Italia si può percorrere la stessa strada con alcune variabili tatti­che rese inevitabili dalla diversa situazione politica esistente fra i due Paesi.

Qui, a Roma, non c’è un presidente della Repubblica, del carisma di Char­les De Gaulle, da spodestare, ci sono invece forze politiche anticomuniste che sostengono la necessità di giungere ad una soluzione autoritaria, resa inevitabile ai loro occhi dal fallimento del centro-sinistra, ed altre che, viceversa, ritengono ancora possibile percorrere la via legalitaria mantenen­do nella propria orbita di governo il Partito socialista.

Facendo leva sulle prime, gli strateghi occulti devono mettere le seconde dinanzi all’ineluttabilità della svolta autoritaria, da conseguire nel ri­spetto della legge e della Costituzione.

Inoltre, le forze di destra, anzi di estrema destra, le uniche che posso­no contare su attivisti da impiegare in piazza, non sono in assoluto in gra­do di fomentare rivolte come quella di Parigi del maggio 1968.

Tanto più che non deve essere la piazza di destra ad insorgere contro il potere costituito, ma quella di sinistra come nel luglio del 1948 e nel lu­glio del 1960, perché in caso contrario la ragione politica dell’intervento militare per il ristabilimento dell’ordine pubblico viene a mancare.

La tecnica utilizzata dall’Oas dell’infiltrazione dei propri elementi fra gli studenti non poteva essere utilizzata dall’estrema destra italiana, se non sporadicamente e in determinate circostanze.

La “battaglia di Valle Giulia” del 1° marzo 1968, a Roma, fu un esperimen­to irripetibile perché la presenza fra gli studenti dei militanti di Avanguar­dia nazionale, Ordine nuovo e Movimento sociali, molti dei quali conosciutissi­mi come “fascisti”, fu taciuta dalla sinistra che preferì utilizzare gli incidenti come prova dell’insofferenza degli studenti contro il potere accademico e politico.

Avrebbe il Partito comunista e, con esso, le altre forze di sinistra igno­rato una seconda volta la presenza di Stefano Delle Chiaie e colleghi in ve­ste di “rivoltosi” fra gli studenti?

È da escludere.

In Italia, di conseguenza, restava la via della violenza diffusa con attenta­ti sempre più gravi, da attribuire all’estrema sinistra, fino all’esplosione incontrollata di una piazza in cui si affrontavano, in modo cruento e sangui­nose, destra e sinistra.

Una piazza di destra che necessita per esprimere, in modo legittimo, la sua indignazione e la sua rabbia contro i ‘rossi’ di un evento traumatico, come possono esserlo il massacro di piazza Fontana e l’oltraggio ai caduti di tutte le guerre ri­cordati dall’Altare della patria.

L’operazione che si sviluppa nel 1969 non matura in un ambito esclusivamente nazionale perché gli interessi in gioco travalicano quelli italiani, come si conviene ad un Paese che non è libero, né sovrano né indipendente.

L’Italia non può avere i comunisti al governo, sia pure inseriti in una coa­lizione, perché potrebbe essere indotta ad adottare una politica di neutralità e di equidistanza fra i due blocchi contrapposti che gioverebbe all’Unione so­vietica e renderebbe gravissimo nocumento agli interessi degli Stati Uniti e dell’Alleanza atlantica.

Il 2 maggio 1968, il settimanale “Panorama” pubblica un articolo, intitola­to “Sfide negli Oceani”, nel quale scrive:

“Dall’ottobre 1966 all’ottobre 1967 l’Unione sovietica ha aumentato il pro­prio arsenale di missili intercontinentali a testata atomica al ritmo di ol­tre uno al giorno, passando da 340 unità a 720 unità. Alla fine del 1966 la marina sovietica aveva nel Mediterraneo una mezza dozzina di navi, una presenza simbolica; oggi quello che era un ‘lago americano’ è diventato un lago a mezzadria, in cui le 50 unità della VI flotta sono costrette a coesiste­re con una formidabile flotta sovietica di oltre 50 navi. Questi gli aspetti più clamorosi dello sviluppo della potenza russa”.

L’anno successivo, il 1969, la situazione è, se possibile, ancora peggio­re per gli Stati Uniti.

Il 25 maggio 1969, riferendosi alla necessità di sostenere il governo mili­tare greco, il senatore americano Stewart Simmington dichiara:

“Il Libano nella primavera del 1967, ha impedito alla nostra flotta l’ac­cesso ai suoi porti. Le ultime due volte che la nostra flotta ha visitato la Turchia si sono verificate violente manifestazioni antiamericane. Queste cor­renti divengono sempre più forti e se, in Grecia, le cose non andassero come vanno, nel Mediterraneo ci sarebbero pochissimi porti – se non nessuno – di­sposti ad accogliere le nostre navi senza azioni di disturbo. E siccome noi riteniamo necessario il mantenimento della nostra flotta in quel mare chiuso, questa è la ragione perché le cose permangano stabili nel Paese in questione –  cioè la Grecia”.

La logica del ragionamento vale anche, se non a maggior ragione, per l’Ita­lia che il senatore americano nemmeno cita fra i paesi in grado di accogliere la VI flotta nei propri porti, senza suscitare proteste e scioperi dei portua­li della Cgil.

Ai paesi ostili al blocco occidentale, dopo l’Algeria guidata da Houari Boumedienne che i servizi segreti occidentali considerano un mero agente sovieti­co, dal 1° settembre 1969 si aggiunge la Libia dove ha assunto di fatto il po­tere una giunta militare il cui rappresentante di maggiore spicco è il capita­no Gheddafi.

È in Medio Oriente, però, che la situazione si va facendo sempre più gra­ve perché la guerra non dichiarata, iniziata in sordina già nell’autunno del 1967, fra Israele ed Egitto è andata sempre più aggravandosi.

Sul fronte del Sinai, la guerra non è “fredda” né “virtuale” ma vera, san­guinosa e foriera di pericolosissimi sviluppi per la stabilità internaziona­le.

Il 20 luglio 1969, l’aviazione israeliana inizia un’offensiva contro le po­stazioni egiziane che si estende al fronte terrestre, innescando una battaglia che proseguirà, senza soste, fino al mese di dicembre.

Schierati, fianco a fianco, con gli egiziani ci sono i “consiglieri milita­ri” sovietici. Cosa potrà accadere se costoro si scontreranno in prima perso­na con i militari israeliani?

È una delle tante incognite di un conflitto che si riflette pesantemente sulla situazione del Mediterraneo e su quella italiana in particolare. Per­ché, in Italia, c’è un governo che proclama l’equidistanza fra arabi ed israeliani ed un Partito comunista che sostiene apertamente la causa araba e quella palestinese in particolare.

La guerriglia palestinese ha iniziato i suoi attacchi militari ad Israele il 2 gennaio 1965 ma, ormai, ha esteso il suo raggio d’azione all’intera Europa occidentale dove può contare sull’appoggio, non solo politico ma an­che logistico dei comunisti, dei gruppi della sinistra extraparlamentare, contrastata dai servizi segreti israeliani coadiuvati da quelli americani ed atlantici.

Dopo aver “stabilizzato” la Grecia, il 21 aprile 1967, e la Francia, nel maggio del 1968, la sicurezza del Mediterraneo esige la “stabilizzazione” dell’Italia.

L’informatissimo informatore del ministero degli Interni, Mario Tedeschi, il 2 gennaio 1969, preannuncia la tempesta in arrivo con un articolo intito­lato “L’anno dell’assedio”, nel quale scrive che l’anno appena iniziato sarà quello dell’assedio perché in Europa solo l’Italia è rimasta “il bubbone che rischia di contagiare l’intero sistema”, e che di conseguenza toccherà alla amministrazione americana guidata da Richard Nixon l’onere di estirparlo.

Tocca alla potenza egemone salvare dal comunismo un Paese colonizzato, ma deve farlo senza infrangere l’equilibrio di Jalta, conducendo al suo interno una  guerra “sporca” che per essere fatta necessita di specialisti che, a loro volta, non possono agire ufficialmente in nome e per conto dei loro governi che do­vranno sempre essere in condizione di negare ogni interferenza negli affari interni di un Paese terzo, per di più amico ed alleato, specie quando que­sta, come ogni guerra, comporta una scia di sangue e di morte.

Il compito di condurre operazioni clandestine è demandato ai servizi se­greti ma anche questi, come i loro governi, dovendo agire in Nazioni allea­te, amiche o neutrali, non posso esporsi e devono creare strumenti ad hoc che, ufficialmente, agiscono per proprio conto.

È, il caso dell'”Aginter Press”, guidata dal francese Yves Marie Guillon, alias Yves Guerin Serac, noto negli ambienti italiani come “Ralph”.

In oltre 40 anni di inchieste giudiziarie e giornalistiche sulla strage di piazza Fontana e, in generale, sugli eventi del 1969, la figura di Yves Guerin Serac è sempre rimasta sullo sfondo, evocata e mai approfondita.

Il tentativo del giudice istruttore di Milano, Guido Salvini, di indaga­re sul conto “Ralph” provocò la reazione violenta dell’allora procuratore della Repubblica di Milano, Gerardo D’Ambrosio, che, dinanzi alla Commissio­ne parlamentare d’inchiesta sul terrorismo e le stragi, non esitò a dichia­rare, il 16 gennaio 1997:

“Verificammo anche la storia dell’Aginter Press e avemmo la stessa spia­cevole sensazione che fosse stata anche quella un depistaggio”.

Purtroppo, il senatore Gerardo D’Ambrosio ha sempre indagato facendo affidamento sulla polizia e sul servizio segreto civile, non riponendo egli al­cuna fiducia nei carabinieri e nel servizio segreto militare, senza mai pren­dere in considerazione l’ipotesi che quando questi ultimi hanno fatto i ladri, i primi gli hanno fatto da palo e viceversa.

In altre parole, non saranno i corpi investigativi di polizia e carabinie­ri e i servizi segreti civili e militari a dare un contributo alla ricostru­zione della storia italiana relativa alla “strategia della tensione”, per la semplice ragione che ne sono stati i protagonisti in nome e per conto dello Stato maggiore della Difesa e del potere politico che sono chiamati a tutelare.

La storia vera di Yves Marie Guillon, alias Yves Guerin Serac, alias Ralph, è ancora tutta da scrivere.

Ufficiale dei servizi segreti militari in Algeria, Yves Guerin Serac aderi­sce all’Organizzazione dell’esercito segreto (Oas), emanazione delle struttu­re segrete dell’Alleanza atlantica e legata alla Cia americana.

L’Oas, difatti, si batte perché l’Algeria divenga dipartimento francese a tutti gli effetti, unico modo per impedire che possa ottenere l’indipendenza dalla Francia e passare al blocco sovietico agli ordini di Houari Boumedienne.

I militari francesi non credono che il popolo algerino voglia affrancarsi dal dominio francese, ritenendo che alle spalle del Fronte di liberazione al­gerino ci sia il comunismo internazionale guidato da Mosca.

La decisione del generale Charles De Gaulle di concedere l’indipendenza al­l’Algeria, viene vissuta dai militari francesi come un tradimento contro il quale bisognava ribellarsi.

Yves Guerin Serac passa, quindi, nelle file dell’Oas arruolandosi in quel­l’esercito di “soldati perduti”, come li definiva con disprezzo equiparando­li alle “femmine perdute”, cioè alle prostitute, il generale De Gaulle, che intendono battersi contro il comunismo ovunque e comunque.

Al servizio di quei paesi che contro il comunismo sono in prima linea, pri­mo gli Stati Uniti ed anche la stessa Francia perché Yves Guerin Serac non ha spezzato mai i legami con i suoi colleghi francesi che, con lui, condivi­devano l’avversione contro il comunismo.

Il 19 febbraio 1969, nel corso della riunione del Comitato speciale della Nato, il delegato francese afferma;

”Il governo francese e le autorità di sicurezza francesi considerano il Par­tito comunista come il nemico pubblico numero uno”.

Guerin Serac ed i suoi colleghi francesi erano, quindi, sulla stessa barri­cata.

Insieme a loro, dalla stessa parte, si collocavano tutti i servizi segreti del cosiddetto “mondo libero”, primi quelli italiani.

Ed è per questa ragione che mai latitante è stato meno ricercato dalle po­lizie di mezzo mondo, perché Yves Guerin Serac, fino al mese di giugno del 1968, è ufficialmente perseguito dalle autorità francesi perché, a suo dire, condannato a morte da un Tribunale militare del suo Paese, per le attività svolte nell’Oas.

Da Lisbona (Portogallo) dove risiede senza particolari precauzioni, dirige 1’Aginter Press, viaggia indisturbato in tre Continenti (Europa, Africa e America latina), coordina l’attività dei suoi uomini e svolge, senza alcuna trepidazione, la sua attività di anticomunista di servizio.

In Italia, ovviamente, è intoccabile.

Il 31 gennaio 1968, Yves Guerin Serac incontra a Roma Pino Rauti. Il giorno successivo, 1° febbraio, Armando Mortilla, “Aristo”, redige una nota infor­mativa per la divisione Affari riservati del ministero degli Interni, con la quale ragguaglia il servizio segreto civile sul contenuto dei colloqui fra il latitante francese ed il capo di “Ordine nuovo”.

Per comprendere il rilievo che riveste la figura di Yves Guerin Serac e ribadire che i servizi segreti, civili e militari, non hanno mai avuto bi­sogno di agire all’insaputa delle autorità politiche dalle quali dipendono, c’è la nota che il 5 febbraio 1968, la divisione Affari riservati invia al ministro degli Interni, Paolo Emilio Taviani, sugli incontri avuti dall’ex ufficiale francese con Rauti ed altri esponenti di estrema destra, fra il 30 gennaio ed il 1° febbraio 1968.

Ha avuto un ruolo, Yves Guerin Serac, nell’operazione del 1969 e nella strage di piazza Fontana?

La prima risposta viene dalla certezza che il direttore dell’Aginter Press conosce almeno tre persone che sono state chiamate in causa per aver preso parte agli attentati del 12 dicembre 1969 a Roma e a Milano: Pino Rauti, Stefano Delle Chiaie e Guido Giannettini.

Sappiamo che Yves Guerin Serac ha mantenuto contatti costanti con i suoi interlocutori italiani prima e dopo i tragici eventi del 1969.

Nel dicembre del 1968, ad esempio, redige per i suoi amici italiani un do­cumento, intitolato “La nostra azione politica”, che sarà reso pubblico dal settimanale “L’Europeo” il 28 novembre 1974, senza suscitare alcun interesse in coloro che indagavano sugli attentati del 12 dicembre 1969.

Il documento è, esattamente, quello che appare e che si proponeva di essere: il programma dell’operazione che dovrà essere condotta nel corso dell’an­no entrante per giungere alla proclamazione dello “stato di emergenza” e porre le basi per la reazione di quello “Stato forte contro la sovversione rossa” che è nei sogni di Pino Rauti e colleghi di partito e di servizio.

“Noi pensiamo – è scritto nel documento – che la prima parte della nostra azione politica debba essere quella di favorire l’installazione del caos in tutte le strutture del regime…A nostro avviso la prima azione che dobbiamo lanciare è la distruzione della struttura dello Stato sotto la copertura del­l’azione dei comunisti e dei filocinesi.

Noi d’altronde – prosegue il documento – abbiamo già elementi infiltrati in tutti questi gruppi: su di loro dovremo evidentemente adattare la nostra azione: propaganda e azioni di forza che sembreranno fatte dai nostri avver­sari comunisti e pressioni sugli individui che centralizzano il potere ad o­gni grado”.

È la reiterazione del programma dell’esercitazione “Delfino” redatto da­gli uomini del Sifar per la struttura “Gladio”, il 6 aprile 1966, che pre­vedeva “azioni di provocazione, quali aggressioni e attentati da attribuir­si all’avversario e la diffusione di materiale di disinformazione”.

Non c’è traccia ufficiale della presenza in Italia di Yves Guerin Serac nel corso del 1969, ma di quella dei suoi uomini sì.

Difatti, il 3 maggio 1969, il questore di Milano, Ferruccio Allitto Bo­nanno informa il ministero degli Interni che il dirigente di Ot, Armando Marques si trovava nel capoluogo lombardo il 27 aprile, due giorni dopo gli attentati stragisti alla Fiera campionaria ed alla Stazione ferroviaria, attribuiti agli anarchici.

Il 24 agosto 1969, è il questore di Massa Carrara ad informare il ministero degli Interni del passaggio in città del dirigente di Ot, André Fontaine.

Agosto è il mese degli attentati ai treni (8-9 agosto) e Massa Carrara uno dei centri in cui Avanguardia nazionale può contare su uno dei gruppi più attivi ed agguerriti.

Non sono segnalati gli incontri che costoro hanno avuto con i loro amici italiani dei quali il ministero degli Interni ha preferito, evidentemente, omettere i nominativi e, soprattutto, il contenuto dei colloqui.

Il rapporto fra Yves Guerin Serac ed i suoi colleghi di schieramento e – spesso di servizi – non è solo di natura politica e ne fa testo la nota re­datta dal Sid il 16 dicembre 1969, riferita alle responsabilità degli organizzatori della strage di piazza Fontana a Milano e degli attentati alla Ban­ca nazionale del lavoro e all’Altare della patria, a Roma.

Abbiamo già visto come Yves Guerin Serac sia elemento ben conosciuto dai servizi segreti italiani e, perfino, dal ministro degli Interni, Paolo Emilio Taviani.

C’è da aggiungere che il servizio segreto militare, sul conto dell’ex uffi­ciale francese, è altrettanto ben informato di quello civile, sia perché Pi­no Rauti è legato al servizio sia perché Armando Mortilla, “Aristo”, non è solo confidente della divisione Affari riservati del ministero degli Inter­ni ma anche del Servizio informazioni difesa.

Inoltre, Guerin Serac è in rapporti con Guido Giannettini, il giornalista de “Il Secolo d’Italia” che dal 1966 è stato arruolato come agente “Zeta” dal servizio segreto militare.

La pretesa che la nota del 16 dicembre 1969 sia stata redatta esclusiva­mente sulla base delle informazioni fornite dal confidente del Sid, Stefa­no Serpieri, serve al servizio segreto militare per occultare le sue responsabilità nel caso che la magistratura voglia approfondire il tema ed investigare sul conto di Yves Guerin Serac.

È nota la capacità dei servizi segreti di mescolare abilmente verità e menzogne. La nota redatta il 16 dicembre 1969, però, si distingue più per le omissioni che per le bugie, in quanto è finalizzata a chiamare in cau­sa il servizio segreto civile al quale fa capo Stefano Delle Chiaie.

Il servizio segreto militare non intende trovarsi da solo nelle bufera, quindi chiama implicitamente in correità il controspionaggio, la divisione Affari riservati, con l’intento di obbligarla ad una difesa comune.

Nella nota, di conseguenza, non fa riferimento agli stabili rapporti che intercorrono fra Pino Rauti e Yves Guerin Serac, ed avalla astutamente la pista “anarchica” sostenuta dal ministero degli Interni per proporre una linea comune e condivisa.

La nota del Sid recita:

” – gli attentati hanno certamente un certo collegamento con quelli orga­nizzati a Parigi nel 1968 e la mente organizzativa dovrebbe essere un cer­to Guerin Serac, cittadino tedesco, il quale risiede a Lisbona ove dirige l’agenzia Ager Interpress; viaggia spesso in aereo e viene in Italia attra­verso la Svizzera; è anarchico, ma a Lisbona non è nota la sua ideologia; ha come aiutante un certo Leroy Robert, residente a Parigi B.P. 55-83 a La Seyne sur Mer; a Roma, ha contatti col predetto Delle Chiaie; ha i seguen­ti connotati: anni circa 40, altezza m. 1,78 circa, biondo, snello, parla tedesco e francese; è certamente in rapporto con la rappresentanza diploma­tica della Cina comunista a Berna”.

Quali le verità?

La descrizione fisica di Yves Guerin Serac è esatta, come più o meno la sua età;

Robert Leroy, ben conosciuto anch’egli dai servizi segreti militari italia­ni, era effettivamente un suo collaboratore; l’indirizzo parigino dello stesso Leroy si rivelerà esatto; il luogo di residenza di Guerin Serac, Lisbona, è rispondente al vero; veri anche i suoi rapporti con Stefano Delle Chiaie;

i rapporti con l’ambasciata della Cina popolare a Berna (Svizzera), saranno rivelati da Robert Leroy in un’intervista concessa alla rivista “L’Europeo” e da questo pubblicata il 4 luglio 1974, che susciterà l’adirata reazione di Stefano Delle Chiaie, a Madrid, nei confronti dello stesso Guerin Serac.

Le menzogne:

–  L’agenzia si chiama Aginter Press;

–  Yves Guerin Serac è francese, non tedesco (ma ha ottimi rapporti con i ser­vizi segreti della Germania federale, come ben sa il Sid);

–  non è anarchico, ma è un ex ufficiale francese fanaticamente anticomunista.

Per quale motivo il Sid avrebbe dovuto depistare le indagini sulla strage di piazza Fontana indicando una pista internazionale, le figure di Yves Gue­rin Serac e di Robert Leroy, il collegamento del primo con Stefano Delle Chiaie?

La domanda non ha mai avuto risposta da parte di coloro che negano l’ori­gine estera di un’operazione che interessava una Nazione, l’Italia, nella quale non è nemmeno ipotizzabile che si possa tentare di modificare l’assetto istituzionale senza il preventivo consenso della potenza egemone e della Na­to.

Il servizio segreto militare depista, effettivamente, le indagini indican­do una pista anarchica che non esiste, spacciando lo stesso Yves Guerin Serac come anarchico, ma non sull’origine internazionale degli attentati del 12 dicembre 1969 che fanno parte integrante di un’operazione politica di ampio respiro ispirata da chi ha il potere di poterne sfruttare gli effetti per i propri fini.

Oltre all’accertato, al di là di ogni ragionevole dubbio, rapporto inter­corso fra Yves Guerin Serac, Pino Rauti e Stefano Delle Chiaie, ci sono al­tri indizi che collegano la sua persona e la sua organizzazione agli atten­tati del 12 dicembre 1969, a Roma e Milano?

La risposta è affermativa.

Il documento programmatico, “La nostra azione politica”, è stato redatto da Guerin Serac nel mese di dicembre del 1968.

Il nome del circolo pseudo anarchico fondato dall’avanguardista Mario Mer­lino, “22 marzo”, è mutuato dalla rivolta dell’Università francese di Nan­terre del 22 marzo 1968, alla quale presero parte anche gli uomini di Guerin Serac.

Il 12 dicembre 1969, a Milano, qualcuno ha piazzato manifesti che rie­cheggiavano gli slogan del “maggio francese” del 1968: “Autunno 1969. Inizio di una guerra prolungata”, che è la versione pressoché testuale di “Mai 68. Debut d’une lutte prolongée”.

E, infine, è giusto segnalarne un quarto sui collega­menti, anche sul piano esecutivo, fra gli ambienti internazionali di cui è parte integrante Yves Guerin Serac e quelli impropriamente definiti neofascisti italiani.

Il 15 settembre 1969, a Padova, in una delle biblioteche dell’Università ignoti collocano in uno scaffale, mimetizzandolo fra gli altri, un “libro” internamente cavo contenente un ordigno che non esplode solo per ragioni tecniche.

Non è un’arma a portata di tutti coloro che vogliono compiere attentati, tant’è che risulta impiegata la prima volta il 14 luglio 1956, ad Amman (Giordania) dai servizi segreti israeliani che se ne servono per uccidere il tenente colonnello Mahmud Mustafà, in forza ai servizi segreti egiziani.

Nel 1974, Yves Guerin Serac ne aveva uno a sua disposizione nell’appartamento, in avenida Manzanares, a Madrid, dov’era ospite di Stefano Delle Chiaie dopo la sua fuga da Lisbona a seguito della “rivoluzione dei garofa­ni” del 25 aprile 1974.

Una coincidenza suggestiva?

Può darsi, ma va segnalata e tenuta presente, come una seconda che vede Fran­co Freda dichiarare ai magistrati che i timer da lui acquistati erano destina­ti ad un capitano algerino.

E capitano era Yves Guerin Serac in Algeria.

Nel linguaggio criptico di un individuo specializzato nel ricattare gli al­tri il riferimento, comprensibile a pochi, al direttore dell’Aginter Press appare diretto.

L’Aginter press si configura come un’agenzia di copertura della Cia, colle­gata ai servizi segreti francesi, atlantici e dei paesi amici ed alleati de­gli Stati Uniti.

Il francese Yves Marie Guillon, alias Yves Guerin Serac, non a caso aveva al suo fianco, come stretto collaboratore, l’americano Jay Salby, detto “Castor” della cui dipendenza dal servizio segreto americano nessuno ha mai osa­to dubitare.

E i servizi segreti americani sono direttamente chiamati in causa nella strage di piazza Fontana dal “tecnico della stragi” , Carlo Digilio, fidu­ciario della Cia a Venezia e, ufficialmente, componente del gruppo veneto di Ordine nuovo diretto da Carlo Maria Maggi e di cui faceva parte Delfo Zorzi, indicato come uno degli esecutori materiali del massacro all’inter­no della Banca dell’Agricoltura.

A dare conferma ed avallo quanto mai autorevoli alla partecipazione americana all’operazione destinata a concludersi il 14 dicembre 1969, se non direttamente agli attentati stragisti di Milano e Roma del 12 dicembre, so­no scesi in campo l’ex ministro degli Interni, il democristiano Paolo Emilio Taviani, e l’ex ministro degli Interni, presidente del Consiglio e presidente della Repubblica, Francesco Cossiga.

Anche costoro, giunti al termine della loro esistenza terrena, hanno deci­so di depistare le indagini sulla strage di piazza Fontana?

Appare, viceversa, più vicino alla verità ritenere che non si abbia, ancora oggi, la volontà e l’interesse di affermare che l’operazione politico-terro­ristica del 1969 abbia avuto origine ed impulso anche da nazioni estere ami­che ed alleate dell’Italia.

Se alle spalle dell’operazione destinata a concludersi con la proclamazio­ne dello stato di emergenza ci sono gli apparati segreti e clandestini degli Stati Uniti, della Francia e dell’Alleanza atlantica, i servizi segreti ita­liani, militari e civili, sono chiamati a svolgere il loro ruolo di supporto e copertura dei gruppi operativi che, camuffati dietro la fragile apparenza di oppositori del regime, di segno neofascista, rappresentano il braccio ar­mato dello Stato.

La conferma di questa realtà è, perfino, negli atti giudiziari prodotti da una magistratura ostinata nel voler provare, senza riuscirci, che la strage del 12 dicembre 1969 è stata il frutto della collusione fra una cel­lula nazifascista e i servizi “deviati”, fantomatici quanto la prima.

Non vi è uno solo dei protagonisti e dei comprimari dell’operazione che, in quarant’anni di indagini, non sia risultato collegato alle strutture segrete e clandestine dello Stato democratico ed antifascista.

Certo, ognuno è libero di credere che i Rauti, i Freda, gli Zorzi, i Del­le Chiaie ed i loro amici fossero confidenti che non confidavano, informato­ri che non informavano, spioni che non spiavano, che siano stati così astu­ti da ingannare gli sprovveduti dirigenti del Sid e della divisione Affari riservati del ministero degli Interni, ma la realtà è diversa come dimostra­no le coperture che questi apparati di sicurezza hanno garantito agli uomini ed ai gruppi del neofascismo italiano durante e dopo la guerra politica con una continuità nel tempo che prova come la verità su costoro non può essere detta senza compromettere il potere politico, allora come oggi.

A Padova, quando il commissario di Ps, Pasquale Juliano – che per essere in forza alla Squadra mobile è fuori dai giochi politici e segreti – punta su Massimiliano Fachini, consigliere comunale del Msi, ed i suoi amici come detentori di armi e di esplosivi, a rovinargli la carriera è il direttore della divisione Affari riservati del ministero degli Interni, Elvio Cate­nacci.

Sempre a Padova, il 7 giugno 1969, agenti dell’ufficio politico della Que­stura, agli ordini del commissario di Ps Saverio Molino, perquisiscono la abitazione di Eugenio Rizzato al quale sequestrano una pistola automatica calibro 7,65 marca Beretta e 15 pallottole, per il cui possesso lo denuncia­no a piede libero.

Molino, però, omette nel rapporto alla magistratura di fare cenno al rin­venimento della documentazione relativa al “Comitato d’azione di risveglio nazionale” (Carn), nella quale si legge che, fra i suoi scopi, vi è la “for­mazione di gruppi d’assalto, pronti a qualsiasi evenienza e disposti a qual­siasi impiego, che saranno a tempo opportuno attrezzati in pieno assetto di guerra”.

Questo documento, il capo dell’ufficio politico della Questura di Padova lo manda solo alla divisione Affari riservati che lo conserva per ovvie ed evidenti ragioni: non far trapelare che i gruppi di destra si preparano a sostenere le Forze armate ed i corpi di polizia nel caso di repressione del movimento comunista italiano.

Il 18 aprile 1969, a Roma, la polizia arresta Marcello Brunetti, trovato in possesso di 18 chili di polvere da mina, 4 metri di miccia a lenta combu­stione, 85 detonatori, nell’ambito delle indagini sull’attentato del 31 mar­zo precedente al palazzo di Giustizia per il quale saranno, poi, indiziati suo cugino, Enzo Maria Dantini e Franco Papitto.

Il Sid è in possesso dal 3 marzo 1969 di un rapporto informativo, tra­smesso da “fonte certa”, che segnala che Enzo Maria Dantini avrebbe stipu­lato un “patto” con due esponenti di gruppi filo-cinesi e trozkisti in fun­zione anti-Pci.

Enzo Maria Dantini, il cui nome sarà poi rinvenuto negli elenchi della struttura clandestina “Gladio”, e Franco Papitto saranno, successivamente, prosciolti da ogni accusa, ma non avrebbero potuto esserlo se il servizio segreto militare avesse trasmesso alla magistratura la nota confidenziale, redatta da “fonte certa”, del 3 marzo 1969.

Il 14 agosto 1969, a Padova, Livio Juculano denuncia alla magistratura la esistenza di un deposito di armi forse ubicato a Paese, “località di campa­gna compresa tra Treviso e Vittorio Veneto” .

Il 23 agosto 1969, ancora Livio Juculano chiama direttamente in causa co­me mandante di attentati a Roma, “il già menzionato avvocato Fredda” e, come detentore di armi, un suo amico “libraio di Treviso”.

Benché le accuse siano gravissime, e Franco Freda, avvocato, e Giovanni Ventura, libraio, siano facilmente identificabili, saranno lasciate cadere nel vuoto a riprova che le “protezioni” c’erano anche in campo giudiziario.

Il 30 agosto 1969, un informatore del Sid di Bologna, Francesco Donini, riferendosi agli attentati ai treni della notte fra l’8 ed il 9 agosto, in­via una nota al locale Centro di controspionaggio riferendo che “gli autori degli attentati dinamitardi farebbero capo all’organizzazione studentesca di estrema destra Nuova Caravella, che avrebbe sede a Roma e organizzerebbe corsi per sabotatori o dinamitardi diretti da Stefano Delle Chiaie”.

“Nuova Caravella” è un’organizzazione universitaria che fa capo ad Adria­no Tilgher e Guido Paglia, effettivamente legati a Stefano Delle Chiaie, già oggetto di indagini da parte della polizia (vedi nota del 31 marzo 1969), ma il servizio segreto militare terrà per sé l’informazione.

Il 6 settembre 1969, il commissario di Ps Pasquale Juliano invia al giudi­ce istruttore padovano, Ruberto, un dettagliato memoriale difensivo nel qua­le riferisce di aver appreso dal suo confidente, Francesco Tommasoni, che e­siste un’organizzazione responsabile di attentati che fa capo a “certo avvo­cato Freda di Padova” e a un bidello dell’istituto “Configliaschi”, che va identificato in Marco Pozzan, responsabile dei Volontari nazionali del Msi a Padova.

Sul finire dell’estate del 1969, i magistrati padovani hanno nei loro in­cartamenti le accuse esplicite per detenzione di armi, di esplosivi e per la commissione di attentati, anche a Roma, a carico di Franco Freda, Gio­vanni Ventura, Marco Pozzan provenienti da fonti diverse e non collegate fra loro.

Non risulta che siano state fatte indagini, compiuti accertamenti, emessi provvedimenti giudiziari, anche meramente formali, a carico degli accusati.

Il 13 settembre 1969, Franco Freda chiede per telefono spiegazioni all’e­lettricista Tullio Fabris sul modo di montare un congegno ad incandescenza.

Il 18 settembre successivo, lo stesso Franco Freda sollecita alla ditta “Elettrocontrolli” di Bologna, sempre per telefono, la consegna di 50 timer da 60 minuti.

L’utenza telefonica di Franco Freda è sotto il controllo dell’ufficio po­litico della Questura di Padova, diretto dal commissario di Ps Savero Moli­no. Questi, però, non si chiede per quale motivo un avvocato debba ordinare timer e farsene spiegare il funzionamento.

Il disinteresse di Molino è ancora più sorprendente se si considera che a carico di Franco Freda esistono già le accuse esplicite del commissario di Ps Pasquale Juliano e di Livio Juculano, di cui non è credibile che i fun­zionari dell’ufficio politico della Questura di Padova non siano a conoscenza.

Altrettanto sorprendente è che Franco Freda i timer li ordini per telefo­no. Non lo è se si considera che la sicumera con la quale agisce gli provie­ne dalla consapevolezza della coperture istituzionali di cui gode.

Lo stesso meccanismo di protezione scatta a Roma.

Il 31 gennaio 1969, in una relazione indirizzata al ministero degli Interni, il prefetto denuncia che i gruppi dell’estrema destra procedono a compiere aggressioni contro gli avversari politici determinando “uno stato di tensio­ne alimentato ad arte”, infiltrando i propri elementi nel Movimento studen­tesco “per condurre azioni di sfaldamento dall’interno” compiendo a suo no­me azioni violente, “volte a creare ripercussioni negative nell’opinione pubblica e a portare discredito sul Movimento”.

Gli organi periferici e subalterni dello Stato registrano i comportamenti politici dei gruppi dell’estrema destra ma, ovviamente, la loro denuncia non può avere conseguenze di carattere giudiziario o, comunque repressivo perché la tattica dell’infiltrazione nel Movimento studentesco per scredi­tarlo rientra nella strategia elaborata da coloro che hanno deciso di desta­bilizzare politicamente il Paese neutralizzando il Partito comunista e i gruppi che si rifanno all’ideologia marxista-leninista.

Maggiore sarà la violenza espressa dalle formazioni della sinistra, mag­giore sarà la richiesta dell’opinione pubblica per il ristabilimento dell’or­dine e la repressione dei “sovversivi rossi”.

I movimenti politici di estrema destra traducono sul terreno le direttive impartite dal Sifar agli uomini di “Gladio” e quelle date a loro da perso­ne come Yves Guerin Serac.

Cambiano gli uomini, le nazionalità, gli apparati clandestini ma la stra­tegia portata avanti nei Paesi europei ritenuti a rischio, primo fra tutti l’Italia, è identica per tutti.

In un mondo politico in cui lo Stato, secondo gli insegnamenti di Julius Evola, è il rappresentante dell’ordine gerarchico che deve governare la società, i confidenti dei corpi di polizia abbondano, così che il 29 gennaio 1969 il ministero degli Interni redige un appunto nel quale è scrit­to:

“La fonte riferisce che attentati non gravi e comunque a carattere dimo­strativo potrebbero essere portati tra alcune settimane contro uffici pub­blici, ministeri compresi. L’azione dovrebbe essere condotta da elementi di estrazione di destra…”.

La campagna di attentati, puntualmente preannunciata al ministero degli Interni, inizia il 28 febbraio 1969 con un attentato dinamitardo contro un ingresso secondario del Senato, in via della Dogana vecchia.

Il 27 marzo 1969, è compiuto un attentato contro la sede del ministero della Pubblica istruzione in viale Trastevere. Le caratteristiche dell’ordigno impiegato in questa occasione corrispondono a quelle della bomba utilizza­ta contro il Senato il 28 febbraio.

Il 31 marzo 1969, sempre a Roma, è compiuto un attentato contro il pa­lazzo di Giustizia, questa volta c’è anche la rivendicazione fatta con vo­lantini firmati “Marius Jacob” per denunciarne la matrice anarchica.

Negli ambienti politici e della Questura non ci crede nessuno.

Il 18 marzo 1969, il quotidiano “L’Unità”, organo di stampa del Partito co­munista, in un articolo intitolato “Chi si serve dei fascisti? Gli attenta­ti missini e i problemi dell’ordine pubblico”, chiama direttamente in causa il Movimento sociale italiano ed ipotizza che gli attentatori siano agli ordini del ministero degli Interni.

Il 17 aprile 1969, sul settimanale “Panorama”, nell’articolo intitolato “Lo dicono con le bombe”, commentando gli attentati compiuti a Roma contro il Senato (28 febbraio), il ministero della Pubblica istruzione (27 marzo) e il palazzo di Giustizia (31 marzo), Lino Rizzi riporta il convincimento dei magistrati inquirenti che sia unica la centrale che ha compiuto gli at­tentati utilizzando sempre lo stesso materiale.

E riporta il giudizio espresso in proposito da Giuseppe Velotti:

“Certo il linguaggio (dei volantini di rivendicazione – Ndr) è quello degli anarchici, ma nulla ci impedisce di pensare che dietro di esso si nascondano degli agenti provocatori, o degli ultras di destra impegnati a dimostrare l’incapacità e l’inettitudine del potere costituito contro l’ondata di sovversione e agitare di riflesso, la necessità di uno Stato forte. È solo una ipotesi, ma non bisogna assolutamente trascurarla”.

L’ufficio politico della Questura di Roma la verità la conosce e, almeno in questa occasione, la mette pure per iscritto. Nel suo rapporto sull’atten­tato del 31 marzo al palazzo di Giustizia, chiama in causa, insieme ad alcu­ni anarchici, anche tre elementi dell’estrema destra romana: Marcello Bru­netti, Enzo Maria Dantini e Franco Papitto:

“Gli autori dell’attentato, in uno scritto rimasto sul luogo dell’esplo­sivo a firma di una fantomatica organizzazione anarchica, adoperando un fra­sario che rivela la loro posizione ideologica tutt’altro che anarchica, ri­vendicano la responsabilità anche dell’attentato al ministero della Pubbli­ca istruzione…Infine la composizione dell’esplosivo adoperato nei due at­tentati e negli altri precedenti è simile, almeno per quanto è stato dichia­rato dal persone della locale direzione di artiglieria, a quella del materia­le sequestrato a Brunetti… Si ritiene pertanto che il Brunetti, il Dantini il Papitto siano corresponsabili dei predetti attentati”.

Saranno i magistrati di Milano ai quali gli atti relativi agli attentati al Senato, al ministero della Pubblica istruzione e al palazzo di Giustizia di Roma sono stati trasmessi per competenza in quanto titolari di un’inchiesta su altri attentati compiuti dagli anarchici, ad escludere, il 15 luglio 1969, la responsabilità di Marcello Brunetti, Enzo Maria Dantini e Franco Papitto, disponendo il rinvio a giudizio dei soli anarchici Pietro Angelo Della Savia, Paolo Faccioli e Paolo Braschi.

Il granello di sabbia che avrebbe potuto inceppare l’oliato meccanismo dell’infiltrazione, della strumentalizzazione e della provocazione viene, in questo modo, rimosso.

L’appunto che, il 29 gennaio 1969, preannuncia la campagna di attentati a Roma, condotta da elementi di destra, il convincimento dei funzionari dell’uf­ficio politico della Questura di Roma che militanti di estrema destra abbiano concorso con anarchici a compiere gli attentati, il sospetto avanzato pubbli­camente che l’estrema destra è impegnata a strumentalizzare gli avversari ideologici per far ricadere su questi ultimi la responsabilità degli atti di violenza, non costituiscono un ostacolo per quanti hanno deciso di”salvare l’Italia dal comunismo”, con ogni mezzo lecito ed illecito.

Perfino il quotidiano vaticano, “L’Osservatore romano”, il 2 aprile 1969, dopo l’attentato al palazzo di Giustizia, avverte il bisogno di denunciare la protezione accordata ai “terroristi”, scrivendo:

“Il commercio degli esplosivi non è come il commercio degli ortaggi. E poi­ché la polizia non sta certo inattiva e non manca di collegamenti e controlli, si deve concludere che le iniziative sciagurate contano su una immancabile complicità o connivenza od omertà”.

Le condizioni per prevenire e reprimere le violenze, gli attentati, i loro autori materiali ci sono tutte sul piano informativo, ma può un potere poli­tico impegnato attraverso i suoi organismi segreti a “destabilizzare l’ordi­ne pubblico” perseguire sé stesso?

Evidentemente, no.

Lo provano altri due episodi direttamente connessi all’eccidio del 12 dicem­bre 1969, a Milano, in piazza Fontana.

Il 21 marzo 1969, sul bollettino “Terra e libertà”, organo di stampa del gruppo anarchico “Gli Iconoclasti”, Pietro Valpreda elenca 10 attentati anar­chici, compiuti in meno di un mese, e trionfalmente conclude:

“Altri attentati seguiranno a questi qui elencati. La polizia brancola nel vuoto. I borghesi tremano e cercano di svignarsela con il capitale. Gli pseudo­comunisti pigliano posizione contro questi atti di terrorismo anarcoide. La coscienza popolare comincia a risvegliarsi e…i botti aumentano!!!”.

Quali conseguenze subisce Pietro Valpreda per la rivendicazione – perché tale è – di ben dieci attentati e il preannuncio che ne verranno fatti mol­ti altri?

Nessuna.

La polizia non lo interroga, se non altro in veste di persona informata sui fatti relativi a ben 10 attentati, non lo denuncia per istigazione alla vio­lenza e apologia di reato.

La polizia non fa nulla, al di là, forse, di una segnalazione alla magi­stratura che, da parte sua, nel mese di giugno del 1969, le chiede di identificare i componenti del “Gruppo anarchico iconoclasta” che sul suo bollettino porta l’indirizzo del circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa” diretto da Giuseppe Pinelli.

La “violenza anarchica” fa comodo alla divisione Affari riservati del mi­nistero degli Interni così come al Sid ed ai loro responsabili politici e chi la propaganda non può – né deve  – essere perseguito.

Come avrebbe potuto, altrimenti, il ministro degli Interni Franco Restivo, nel corso di un suo intervento alla Camera dei deputati, il 10 dicembre 1969, due giorni prima della strage “anarchica” di piazza Fontana a Mila­no, imputare la gran parte degli atti di violenza verificatisi durante l’anno in Italia all'”estremismo anarcoide”?

Del resto, non stiamo trattando della storia di una rivoluzione che, noto­riamente, parte dal basso per travolgere le istituzioni e lo Stato, ma di un’operazione che parte dall’alto e che è finalizzata a salvaguardare lo Stato ed il regime dalla minaccia del “comunismo internazionale”.

È normale, pertanto, che chiunque operi nell’ambito di questo disegno “stabilizzatore” lo faccia con la complicità e la protezione degli appara­ti segreti dello Stato e delle forze politiche che li dirigono.

Non si può parlare degli eventi del 12-14 dicembre 1969 senza soffermarsi su una figura rimasta sempre sullo sfondo e mai, esattamente come quella di Yves Guerin Serac sul piano internazionale, direttamente chiamata in causa nelle indagini sulla strage di piazza Fontana.

Ci riferiamo al capitano di fregata, medaglia d’oro al V.M., presidente del Movimento sociale italiano, poi presidente del “Fronte nazionale”, prin­cipe Junio Valerio Borghese.

Comandante del sommergibile “Scirè”, passato poi al comando della Deci­ma flottiglia mas, il reparto di incursori subacquei della Marina milita­re più segreto ed ardito della Forze armate italiane, l’unico in grado di infliggere alla potentissima flotta britannica nel Mediterraneo perdite gra­vissime, Junio Valerio Borghese l’8 settembre 1943 si trova al suo posto di comando a La Spezia.

Non aderisce, se non di fatto, alla Repubblica sociale italiana, perché Junio Valerio Borghese non è mai stato fascista, ma non accetta il tradi­mento perpetrato nei confronti degli alleati tedeschi con i quali stabili­sce un accordo di co-belligeranza.

Nel corso dei 600 giorni della Repubblica di Salò, Junio Valerio Borghe­se intrattiene ottimi rapporti con i tedeschi, con il servizio segreto del­la Regia Marina del Regno del sud, pessimi con i fascisti che, giustamente, della sua lealtà non si fidano, tanto che nel gennaio del 1944 lo mettono in carcere.

Ma, ormai, la divisione di fanteria Decima è un realtà militare di cui la Repubblica sociale non si può privare e così, a malincuore, Benito Mussoli­ni rimette Borghese in libertà e lo riconferma nella carica di comandante della Decima.

Il 25 aprile 1945, a Milano, Junio Valerio Borghese si congeda dagli uomi­ni della Decima e si rifugia a casa di un partigiano delle brigate sociali­ste “Matteotti” in attesa dei soccorsi che non tardano ad arrivare.

Il 12 maggio 1945, a bordo di una jeep americana, vestito con una divisa americana, scortato dal capo dell’X-2 americano, James Jesus Angleton, dal commissario di Ps Umberto Federico D’Amato e da un ufficiale del servizio segreto della Regia Marina viene condotto da Milano a Roma dove, dopo un incontro mai peraltro confermato ufficialmente, con l’ammiraglio Raffaele De Courten, ministro della Marina del regio governo, è associato al carce­re di Cinecittà, destinato ad ospitare i nemici di rango sia italiani che tedeschi.

I rapporti di collaborazione instaurati con i servizi segreti americani, in particolare con James Jesus Angleton, sono provati al di là di ogni ra­gionevole dubbio.

Una collaborazione che ha consentito a Junio Valerio Borghese e ad un ri­stretto nucleo della Decima flottiglia mas, fra i quali il futuro ammiraglio Gino Birindelli, di affondare nel porto di Sebastopoli, in Crimea, il 29 ottobre 1955, la corazzata sovietica “Novorossijak”, già appartenente alla Marina militare italiana con il nome di “Giulio Cesare” e ceduta ai russi come risarcimento per i danni di guerra, nel 1949.

Esponente prestigioso della “Salò tricolore”, non ideologicamente fa­scista, Junio Valerio Borghese aderisce al Movimento sociale italiano il 17 novembre 1951, per divenirne il presidente qualche mese dopo e, infine, abbandonare la carica per lasciare il posto al maresciallo d’Italia Rodol­fo Graziani, ex ministro della Difesa e comandante in capo delle Forze ar­mate della Rsi.

Aristocratico, conservatore, anticomunista, Junio Valerio Borghese gode di un meritato credito negli ambienti militari internazionali che si riflette anche nel campo politico in cui egli si trova ad operare, dopo che è fallito il tentativo di farsi reintegrare in servizio nella Marina militare.

Il principe Borghese è un conservatore e un reazionario, non concepisce altra politica che non sia quella improntata ad un anticomunismo fanatico, che porti l’Italia a stringere rapporti sempre più stretti con gli Stati Uniti e che fa di lui un oltranzista “atlantico”, tanto che il 17 maggio 1959 viene espulso dalla carica di presidente della Federazione nazionale combattenti della Rsi e sostituito con Giorgio Pini, uno degli uomini più vicini a Benito Mussolini.

Negli anni Sessanta, Junio Valerio Borghese non può, quindi, che ritrovar­si fra coloro che intendono “salvare l’Italia” dal comunismo, non più dall’in­terno del Movimento sociale di cui rimane, comunque,un iscritto, ma con uno strumento politico personale, da lui diretto, che chiama “Fronte nazionale”, riprendendo una vecchia idea dei primi anni Cinquanta, e nel quale c’è posto per chiunque si professi anticomunista, senza alcuna preclusione ideologica.

Il “Fronte nazionale” viene ufficialmente costituito il 13 settembre 1968, a Roma.

Cosa si propone l’organizzazione creata dal principe Borghese, lo sinte­tizza una nota informativa del Sid del 22 maggio 1970 che ne illustra gli scopi :

“Obiettivo minimo…è la difesa contro la piazza avversaria in caso di in­surrezione; obiettivo medio è l’inserimento in eventuali ‘reazioni’ degli am­bienti politici e militari, che potrebbero muoversi di fronte al prevedibile deterioramento della situazione italiana; obiettivo massimo è l’egemonia po­litica in un’eventuale soluzione autoritaria da realizzarsi su tutto il ter­ritorio nazionale”.

Il “Fronte nazionale” non è un movimento politico che si propone di cerca­re consensi, magari per trasformarsi in partito e concorrere alle elezioni, ma uno strumento di guerra al comunismo che si propone di agire, se necessa­rio, anche con la forza per eliminare, una volta per sempre, il pericolo co­munista in Italia e mantenere quest’ultima a fianco degli Stati Uniti e nel­l’ambito dell’Alleanza atlantica.

Una formazione politica ma apartitica, aperta a tutti coloro che vogliono combattere il nemico comunista, non soltanto a parole.

Lo riconosce anche il servizio segreto militare, il Sid, che in una nota del 9 agosto 1970, scrive:

“Il Fronte nazionale è stato più volte segnalato come organizzazione per attuare un colpo di Stato; ha delegati provinciali in diverse città; è col­legato con Ordine nuovo e Avanguardia nazionale; è ritenuto il sodalizio più idoneo a influenzare in proprio favore le forze armate e la polizia”.

Costituito ufficialmente nel settembre del 1968, il “Fronte nazionale” ed il suo capo non potevano restare estranei agli avvenimenti del 1969, compre­si quelli sanguinosi del 12 dicembre.

Le tracce del suo impegno ci sono, vistose pure ma, stranamente, ignorate dalla magistratura italiana e dagli storici italiani per la semplice ragio­ne che nessuno ha mai considerato il rapporto di collaborazione che intercorreva fra Junio Valerio Borghese e Pino Rauti, per “Ordine nuovo”, Pino Romualdi e Giorgio Almirante, per il Msi, mentre Stefano Delle Chiaie ed “Avanguardia nazionale”, ufficialmente inesistente quest’ultima perché auto-scioltasi già nel 1965, ne costituivano la guardia pretoriana.

A Viareggio, presso 1’hotel Royal, il 19 marzo 1969 ha luogo la prima riu­nione pubblica del “Fronte nazionale”, presente Junio Valerio Borghese. Il Sid registra che “l’unico accenno di interesse è quello fatto da Borghese in merito alle Forze armate che, secondo il presidente del Fronte, non a­vrebbero fatto mancare il loro appoggio nella lotta al comunismo”.

Borghese ed il “Fronte nazionale” non hanno altri e diversi fini politici da quella battaglia contro il comunismo che viene condotta da forze ben più potenti delle loro.

I compiti fra i gruppi sono differenziati, quindi c’è chi cura l”‘infiltra­zione” a sinistra, chi la “provocazione”, chi compie attentati e chi cerca fi­nanziamenti .

Borghese, fra altri, assolve questo compito curando i rapporti con gli in­dustriali con promesse rassicuranti. Così l’11 maggio 1969, scrive il Sid,

“nel corso di una riunione con esponenti del mondo armatoriale genovese, ha deciso la costituzione di ‘gruppi di salute pubblica’ per contrastare – anche con l’uso delle armi – l’ascesa al potere del Pci”.

Nel corso dell’anno, infine, le promesse non bastano più, così Borghese ed i suoi uomini scendono nei dettagli, con i loro interlocutori, su quanto han­no in animo di preparare.

 Il 6 giugno 1969, l’informatissimo servizio segreto militare scrive in una nota:

“Un esponente del Fronte nazionale ha informato alcuni dirigenti della So­cietà metallurgica italiana (Smi) che il movimento ha in programma di attua­re nel periodo da giugno a settembre 1969, un colpo di Stato per porre fine alla precaria situazione politica che travaglia la vita del Paese. L’uomo di Borghese vorrebbe trattare l’acquisto di munizioni prodotte negli stabili­menti della Smi ma riceve un netto rifiuto”.

Il Sid, come il servizio civile, i vertici militari e buona parte di quel­li politici, lavora per il “colpo di Stato”, quindi le informazioni che raccolgono sul conto delle intenzioni di Junio Valerio Borghese e dei suoi uomini le tiene per sé, non a caso lo dirige l’ammiraglio Eugenio Henke, socialdemocratico di provata fede.

Il 30 settembre 1969, a Roma, si svolge una riunione di esponenti del “Fron­te nazionale”, presieduta dal collaboratore più stretto di Junio Valerio Borghese, Remo Orlandini.

In questa occasione si parla più liberamente degli scopi e dei mezzi per conseguirli, così che il Sid nella immancabile nota informativa scrive:

“Un ufficiale (nome noto) si intrattiene con Prospero Colonna il quale, nel dirsi certo della riuscita del ‘colpo di Stato’, soggiunge che Valerio Borghese aveva già studiato un piano di ‘provocazione’ con una serie di grossi attentati dinamitardi per fare in modo che l’intervento armato di destra potesse verificarsi in un clima di riprovazione generale dei criminali ‘rossi’; precisò inoltre che le vittime innocenti in certi casi saranno purtroppo necessarie”.

Questa volta le informazioni sono più dettagliate, troppo per i gusti del Sid che si sbilancia nel dichiararle poco attendibili.

Ha ragione, il servizio segreto militare di preoccuparsi perché sa bene che a compiere gli attentati stragisti alla Fiera campionaria ed alla Sta­zione ferroviaria di Milano il 25 aprile 1969 sono stati i suoi collaborato­ri, Franco Freda e Giovanni Ventura, e non i criminali “anarchici” ai quali è stata attribuita la colpa per indirizzare a sinistra la riprovazione e la collera dei cittadini.

In quell’occasione i morti non ci sono stati, ma il Sid sa che presto si dovranno contare anche questi.

Il “piano” studiato da Junio Valerio Borghese ricalca alla lettera quello del Sifar e di “Gladio”, quello di Yves Guerin Serac, così che, tramite il loquace Prospero Colonna, giunge la conferma ulteriore che tutti i gruppi di destra agiscono nell’ambito di una unica strategia di cui sono gli esecutori, non gli ideatori e che ha per fine ultimo la sconfitta del comunismo, nemico degli Stati Uniti d’America.

I rapporti di Junio Valerio Borghese con Pino Rauti si interromperanno nell’autunno del 1970 perché i due non si accordano sui finanziamenti che devono essere spartiti fra le rispettiva organizzazioni; quelli con Stefa­no Delle Chiaie avranno fine solo il 27 agosto 1974, quando il principe mo­rirà a Cadice – con tempestiva opportunità per Giulio Andreotti ed i suoi amici – di pancreatite fra le amorose braccia di un agente femminile del Sid.

Nel corso degli anni, sul banco degli imputati per la strage di piazza Fontana sono saliti gli alleati di Ordine nuovo ed i pretoriani di Avan­guardia nazionale, anche se a posteriori, dinanzi al Tribunale della sto­ria, ora deve comparirci anche il principe Junio Valerio Borghese.

La figura del “principe nero” non è mai esistita, un’altra leggenda crea­ta dalla disinformazione che, in questo Paese senza libertà, si spaccia per informazione, per di più corretta e rispettosa della verità.

Junio Valerio Borghese, il 26 gennaio 1970, è ricevuto dall’ambasciato­re americano a Roma ed ha già iniziato a programmare il tentativo, questa volta da attuare in modo difforme da quello del 12-14 dicembre 1969, che si concluderà a Roma, nella notte fra il 7 e l’8 dicembre 1970 per ripor­tare l’ordine in Italia e sconfiggere il comunismo.

L’apparato bellico di cui Junio Valerio Borghese è parte integrante non è stato scalfito né minacciato dalle indagini giudiziarie sulla strage di piaz­za Fontana, concentrale sugli anarchici, prima, e sulla “cellula nera” padova­na, dopo.            

La guerra al comunismo può, quindi, continuare senza intralci né paure.

Il 12 dicembre 1969, le indagini sulla strage di piazza Fontana, a Milano, e sugli attentati di Roma sono immediatamente indirizzate verso gli ambienti anarchici.

Il ministro degli Interni, Franco Restivo invia a tutte le polizie europee, il 13 dicembre 1969, un telegramma in lingua francese, nel quale scrive:

“Attualmente non abbiamo alcuna indicazione valida a proposito dei possi­bili autori della strage, ma indirizziamo i nostri primi sospetti verso les cercles anarchisants”.

Mesi di propaganda basata su attentati di presunta matrice anarchica dan­no ora i suoi frutti, se anche 1′”Osservatore romano”, il 14 dicembre 1969, nell’articolo intitolato “Vincere il male”, scrive che la causa della vio­lenza deriva dalla “coltura dei bacilli nullisti, nichilisti, anarcoidi e violenti”.

Sono invece, tassativamente esclusi dalle indagini e dai sospetti uomini e gruppi inseriti in partiti rappresentati in Parlamento, per la pretesa che un’azione sovversiva può essere rivolta contro le istituzioni ed il si­stema dal suo esterno e non può essere promossa dal suo interno.

Diviene così evidente la ragione per la quale Pino Rauti ed i suoi uomini sono rientrati, ufficialmente, nel Movimento sociale italiano che si confi­gurava come 1′”ombrello” sotto il quale ripararsi perché i suoi dirigenti ed i suoi militanti sarebbero stati esclusi da qualsiasi azione repressiva condotta dalle forze militari e di polizia contro gli “estremisti” sia di destra che di sinistra.

Intanto, gli ordinovisti con a capo Pino Rauti sono esclusi, a priori, dalle indagini sull’eccidio di piazza Fontana.

La pista internazionale, nell’immediatezza degli attentati, non viene trascurata.

Il 13 dicembre 1969, il commissario di Ps, Luigi Calabresi, viene inviato in missione in Svizzera; il

17 dicembre, il questore di Milano, Marcello Guida, nel corso di una conferenza stampa, affermerà che la strage di piaz­za Fontana è un “affare con collegamenti internazionali”. Il 18 gennaio 1970, la rivista “Epoca”, nell’articolo intitolato “Valpreda come Oswald”, riporta le dichiarazioni del capo dell’ufficio politico della Questura di Roma, Bona­ventura Provenza il quale afferma:

“Io non escludo a priori l’idea di un complotto che sarebbe caso mai più internazionale che interno. Ma non azzardo ipotesi in mancanza di elementi sicuri”.

Ancora prima, il 1° gennaio 1970, il settimanale”Panorama” riportava, in un articolo intitolato “L’alibi dell’anarchia”, a firma di Gianni Farneti, le dichiarazioni di un funzionario di polizia rimasto anonimo, il quale ha af­fermato :

“Si sono avanzate anche le ipotesi di interventi stranieri per servirsi di questi gruppi a fini economici e politici…Da una parte è pressoché certo che alcuni industriali tedeschi hanno finanziato formazioni estremiste per acuire le fasi di sciopero e diminuire la capacità di esportazione di certi settori industriali italiani. Dall’altra parte, l’ipotesi di finanziamenti greci a scopi politici è tutt’altro che peregrina”.

I rapporti fra i gruppi dell’estrema destra italiani e il governo militare greco sono ampiamente provati e, con specifico riferimento alla strage di piazza Fontana ed agli attentati a Roma ed anche a quelli del 25 aprile a Milano alla Stazione ferroviaria ed alla Fiera campionaria, ci sono le gravissime dichiarazioni rese alla rivista “Panorama” da Kostas Plevris e pubblicate nel numero in edicola il 13 marzo 1975, sotto il titolo “Dracme per il Msi”.

Plevris rivela che, nel 1969, il servizio segreto greco

“creò una sezione speciale dotata di mezzi economici particolarmente consistenti e di uomini che conoscevano a fondo le cose italiane. Poi, per evitare il rischio di es­sere scoperti e accusati di tramare ai danni dell’Italia, i capi del Kyp mascherarono la sezione dietro la facciata innocua di una scuola guida che aveva gli uffici nel centro di Atene, a pochi passi dal palazzo del governo. Infine la sezione ingaggiò direttamente dieci agenti italiani scelti tra le file dei fascisti. Ed io di questi agenti possiedo l’elenco completo”.

Plevris, però, rifiuta di fare i nomi, ma aggiunge:

“Posso dire soltanto che uno di essi è attualmente in prigione perché coin­volto nella strage di piazza Fontana”.

Nel periodo in cui Kostas Plevris rilascia l’intervista, in carcere con l’accusa di concorso nella strage di piazza Fontana ci sono tre persone: Franco Freda, Giovanni Ventura e Guido Giannettini.

Non risulta che qualche magistrato italiano abbia chiesto di interrogare Kostas Plevris per farsi dire i nomi dei dieci italiani, ma soprattutto di quello, fra i tre imputati per strage, che era stato arruolato dal servizio segreto greco.

Nella primavera del 1975, ad Atene, non c’era più la Giunta militare ma un governo socialista al quale, per via diplomatica, si potevano sollecita­re le stesse risposte.

Non è stato fatto, da quanto è dato di sapere.

La pista internazionale, per la magistratura italiana, deve essere scartata ad ogni costo.

Eppure, a rendere inevitabile un’indagine seria sulla pista internaziona­le ci sono la nota del Sid del 16 dicembre 1969, le dichiarazioni del que­store di Milano, Marcello Guida, del 17 dicembre 1969, quelle del capo del­l’ufficio politico della Questura di Roma, Bonaventura Provenza, pubblicate il 18 gennaio 1970, quelle di un anonimo funzionario di polizia rese pubbli­che dalla rivista “Panorama” il 1° gennaio 1970, le affermazioni specifiche di Kostas Plevris apparse sempre su “Panorama” il 13 marzo 1975, le stesse dichiarazioni di Franco Freda sulla consegna dei timer ad un “capitano al­gerino” che suggeriscono la presenza sulla scena di persone non italiane, e, infine, le accuse rivolte da Carlo Digilio ai servizi segreti america­ni.

È doveroso ricordare che le indagini sulla strage di via Fatebenefratel­li del 17 maggio 1973, a Milano, compiuta dal confidente del Sid Gianfranco Bertoli, autoproclamatasi anarchico dopo l’arresto, a carico degli stessi personaggi imputati per concorso nella strage di piazza Fontana del 12 di­cembre 1969, hanno evidenziato un possibile ruolo svolto dai servizi segreti israeliani e francesi.

Del resto, che il gruppo veneto di Ordine nuovo avesse rapporti con i ser­vizi segreti israeliani, la magistratura italiana lo sapeva dal 31 maggio 1966, quando a seguito dell’arresto di Marcello Soffiati ed altri, nel loro arsenale era stato rinvenuto esplosivo gelatinizzante israeliano.

Ancora, il generale Gianadelio Maletti ha rivelato che l’espatrio in Spa­gna di Marco Pozzan, altro imputato per concorso nella strage di piazza Fon­tana, nel mese di gennaio del 1973, era stato richiesto da un “servizio ami­co”, per specificare successivamente che si trattava di quello spagnolo.

Sullo sfondo degli avvenimenti italiani dell’epoca si stagliano, a questo punto, i servizi segreti americani, francesi, israeliani, greci e spagnoli, mentre più defilati si presentano i servizi segreti della Germania federa­le.

Per quanto tempo ancora, questo Paese dovrà tollerare la disinformazione giudiziaria e giornalistica sulla strage “nazifascista” di piazza Fontana?

Abbiamo visto come le direttive impartite ai reparti clandestini delle Forze armate ed ai gruppi politici di estrema destra impegnati nella batta­glia contro il comunismo prevedevano la tattica della disinformazione, del­l’infiltrazione e della provocazione.

Gli esempi si sprecano.

Dall’affissione dei “manifesti cinesi” a cura dei militanti di “Avanguardia nazionale” nel gennaio del 1966, firmati a nome del “Movimento marxista-leninista d’Italia”, agli attentati del 25 aprile 1969 attribuiti agli anar­chici, all’incendio del deposito della Pirelli, a Milano, compiuto dagli uo­mini del partigiano “bianco” Carlo Fumagalli e rivendicato a nome delle “Bri­gate rosse” il 7 gennaio 1971, alla mancata strage sul treno “Torino-Roma” del 7 aprile 1973, che avrebbe dovuto essere, nelle intenzioni dei suoi or­ganizzatori, attribuita a “Lotta continua”, c’è una serie infinita di azio­ni attribuite al “nemico” ideologico e politico per renderlo inviso alla popolazione e giustificare ogni intervento repressivo nei suoi confronti.

L’infiltrazione nei gruppi avversari diviene prassi a partire dalla se­conda metà del 1967, quando la Cia avvia l’operazione “Chaos”. Lo scopo non è di carattere informativo, con l’infiltrato che carpisce notizie e riferi­sce ma è politico perché si propone di condizionare l’azione dei gruppi infiltrati per indurli a compiere azioni violente.

Le operazioni sono fatte in accordo con i servizi segreti italiani. Il 28 aprile 1969, ad esempio, Giovanni Ventura e Pietro Loredan s’incontrano con Alberto Sartori, leader del Partito comunista marxista-leninista, al quale consegnano i “rapporti informativi” redatti allo scopo dall’agente del Sid Guido Giannettini.

Il 6 agosto 1969, la fonte “Agrippina” informa la divisione Affari riser­vati del ministero degli Interni che, nel corso di un convegno svoltosi a Barcellona (Spagna), Stefano Delle Chiaie si è vantato

“di aver collocato più di una dozzina di membri appartenenti al suo gruppo in organizzazioni comuniste filocinesi in Italia, i quali si sarebbero già distinti come atti­visti nelle lotte di piazze”.

Non ci saranno conseguenze perché, come vedremo, l’infiltrazione negli ambienti anarchici, Stefano Delle Chiaie ed i suoi uomini la conducono per conto del ministero degli Interni.

L’infiltrazione fra questi ultimi non è un segreto. Tant’è che, il 13 ago­sto 1969, a Torino, sul quotidiano della Fiat, “La Stampa”, è pubblicato un articolo intitolato “Scomparsi gli anarchici per evitare interrogatori”, a firma G.M., che avrebbe dovuto essere letto con attenzione prima della strage di piazza Fontana e, a maggiore ragione, dopo.

In esso, si scrive: che “dopo gli attentati ai treni (dell’8-9 agosto – Ndr) gli anarchici milanesi sono spariti dalla circolazione”. E, inoltre:

“Dopo l’attentato alla Campionaria, era sembrato che l’organizzazione dei giovani anarchici fosse stata distrutta: in realtà la loro bandiera nera non è mai stata ammainata; le file sono state riorganizzate seguendo nuovi crite­ri per rendere più difficile l’identificazione dei nuovi accoliti…Fino a qualche tempo fa gli anarchici a Milano erano pochi, privi di mezzi, per nulla organizzati. Ora qualcuno ha pensato di sfruttare le loro utopie. Così gli anarchici sono stati corteggiati e finanziati dalla destra totalitaria e dall’estremismo di sinistra”.

L’articolo, certamente ispirato da qualcuno che conosce la realtà che esi­ste dietro le quinte del palcoscenico, suggerisce qualcosa di più inquietan­te dell'”infiltrazione”. Insinua il dubbio della collusione fra “fascisti” e anarchici.

È possibile un’alleanza tattica fra “fascisti” e anarchici in funzione an­ticomunista?

La risposta non può che essere affermativa. L’attentato del 31 marzo 1969 al palazzo di Giustizia di Roma sarà confessato, ad esempio, dall’anarchico Paolo Faccioli ma non ha torto l’ufficio politico della Questura di Roma a ritenere che l’esplosivo sia stato fornito dai neofascisti.

A Milano, è il “fascista” Nino Sottosanti a fornire un alibi all’anarchico Tito Pulsinelli, scagionandolo dall’accusa di aver compiuto un attentato, ed è abituale frequentatore della casa di Giuseppe Pinelli, l’anarchico che dirige il circolo “Il Ponte della Ghisolfa”.

Un anarchico storico di Massa Carrara, poi, Gino Bibbi, sarà sfiorato dal­le indagini per il tentato golpe del 7-8 dicembre 1970 diretto da Junio Va­lerio Borghese, mentre risale al 1946 la costituzione del gruppo anarchico, “Unione Spartaco” a cura di un anticomunista oltranzista come Carlo Andreoni.

La linea politica della Federazione anarchica italiana (Fai), nel dopo­guerra, individua tre nemici dell’anarchia: la Chiesa cattolica, il milita­rismo e il comunismo.

A quanti chiedono le ragioni dell’ostilità degli anarchici nei confronti del comunismo, giunge semplice ed esauriente la risposta di Alfonso Pailla:

“Siamo stufi di morire per rivoluzioni che danno il potere a chi poi ci stermina”.

Senza andare eccessivamente indietro nel tempo per scoprire cosa hanno fatto i bolscevichi russi ai loro compatrioti anarchici, è sufficiente riandare alla guerra di Spagna, a Barcellona, dove le Brigate internazionali elimi­narono fisicamente centinaia di anarchici che pure si battevano al loro fianco contro le truppe del generale Franco e quelle fasciste italiane.

E al massacro degli anarchici da parte dei comunisti fa proprio riferimen­to Pietro Valpreda in una conversazione con Aniello D’Errico, da questi ripor­tata il 27 aprile 1969 al commissario di Ps Luigi Calabresi che lo sta interro­gando.

Parlando della possibilità di far compiere attentati dinamitardi a persone esperte in materia di esplosivi, Pietro Valpreda, secondo quanto riferito da D’Errico, gli dice che un commando di tre persone, fra le quali Paolo Braschi, “.aveva assunto la denominazione di ‘Barcellona 39’ e aveva compiuto attentati dinamitardi prima a Genova e poi a Milano…”.

Il riferimento, nella scelta dei nome del commando, al massacro compiuto dai comunisti degli anarchici in Spagna, è esplicito e non lascia adito a dubbio alcuno.

L’anticomunismo anarchico può, di conseguenza, aver trovato conveniente ed opportuno stabilire un’alleanza tattica con il neofascismo anticomuni­sta per fare fronte comune ad un nemico la cui spietatezza era nota ad en­trambi gli schieramenti.

Il tempo e le menzogne hanno fatto dimenticare, oggi, che il segretario nazionale del Pci, fino al mese di agosto del 1964, quando morì a Jalta, in Crimea, era Palmiro Togliatti divenuto, sul piano propagandistico, un raffi­nato politico ma, su quello storico, un feroce esecutore degli ordini di Josip Stalin per il quale, notoriamente, la vita degli altri non aveva al­cun valore.

Successore di Palmiro Togliatti alla guida del Partito comunista italiano fu Luigi Longo, altro protagonista delle pagine di sangue scritte dai comuni­sti in Spagna contro gli anarchici, insieme al segretario provinciale del Pci di Trieste, Vittorio Vidali.

Oggi, gli ex comunisti vengono identificati con i baffi di Massimo D’Alema in crociera con la sua barca a vela, o con i modi da allievo del colle­gio delle Orsoline di Walter Veltroni, ma negli anni Sessanta il ricordo di quello che le milizie comuniste erano state capaci di fare, in termini di massacri, in Spagna e, successivamente, in Italia durante e dopo la guerra civile era ben vivo sia fra i “fascisti” che fra gli anarchici.

Non era difficile rievocare questi ricordi per far comprendere cosa sarebbe capitato agli anticomunisti nel caso che il Pci fosse salito, anche legalmen­te, per via elettorale, al potere nel nostro Paese.

Per comprendere la realtà storica bisogna calarsi nel suo tempo, non giu­dicarla con gli occhi del tempo presente. E in quegli anni, il comunismo era sinonimo di ferocia e di crudeltà espresse ovunque avesse avuto modo di agi­re soprattutto laddove aveva assunto il potere.

Una collusione che non deve far gridare allo scandalo perché la prassi di considerare “amico il nemico del mio nemico” è vecchia quanto il mondo e, in quegli anni i servizi segreti americani e cino-popolari collaboravano contro l’Unione Sovietica.

Con quali gruppi o, forse è meglio dire, con quali uomini dell’anarchia i­taliana i militanti di “Avanguardia nazionale” ed altri gruppi siano riusci­ti a stabilire un rapporto politico ed operativo di cobelligeranza è campo ancora tutto da esplorare.

Certo, e ci sentiamo di affermarlo con forza, è che la “collusione” c’è stata.          

In questo contesto s’inquadra la figura di Pietro Valpreda.

Non c’è traccia, fino ad oggi, della nascita dell “‘anarchico” Pietro Valpre­da.

La più fitta nebbia copre la data, sia pure approssimativa, della sua a­desione all’ideale anarchico, e soprattutto quella dell’inizio della sua attività politica.

Quando comincia la battaglia anarchica di Pietro Valpreda, in quale gruppo, città, con quali compagni, in che modo?

Chi ha una milizia politica alle spalle è in grado di ricostruirla fin dal suo esordio, indicando luoghi, nomi e date.

Non ci è mai capitato di leggere il dettagliato curriculum vitae dell’anar­chico Pietro Valpreda.

Come mai?

La prima segnalazione dell’esistenza di Pietro Valpreda risale al 28 gennaio 1968, quando viene fotografato ed intervistato mentre con altri dodici amici si prepara a contestare il Festival di Sanremo.

Valpreda, però, non si presenta come anarchico e neanche con il suo vero nome ma come “Alberto”, e la contestazione al Festival della canzone italia­na non ci sarà perché Stefano Delle Chiaie che l’ha organizzata ha dato il contrordine su richiesta del patron del Festival che, tramite una terza per­sona, gli ha fatto sapere di essere “camerata” e di non meritare il danno derivante al suo spettacolo da una contestazione.

Se la prima apparizione, in veste di mancato contestatore ma non di anarchi­co, collega Pietro Valpreda a Stefano Delle Chiaie e ad “Avanguardia naziona­le”, la seconda lo vede, questa volta come convinto alfiere dell’ideale anar­chico, comparire al congresso organizzato dalla Federazione anarchica italia­na a Carrara il 31 agosto 1968. Certo, in otto mesi si può abbracciare qualsiasi ideale, così che anche Pietro Valpreda dalla mancata contestazione del Festival di Sanremo all’i­nizio del congresso anarchico di Carrara, dal 28 gennaio al 31 agosto 1968, può essere diventato un sincero e convinto anarchico.

Non è il solo, però, perché ad accompagnarlo a Carrara ci sono altri “a­narchici” che hanno viaggiato, da Roma, con la benzina pagata da Guido Pa­glia, dirigente di “Avanguardia nazionale”.

Gli “anarchici” sono, difatti, tutti militanti dell’organizzazione diretta da Stefano Delle Chiaie: Pietro “Gregorio” Manlorico, Luciano Paulon, Augu­sto De Amicis, Aldo Pennisi, Alfredo Sestili, Mario Merlino.

Pietro Valpreda, nella sua ingenuità, non si accorge che i suoi compagni anarchici sono tutti provenienti dalla estrema destra “neofascista”, anzi da un’organizzazione di “picchiatori” fascisti com’è considerata” Avanguardia nazionale”.

Non dubita della loro genuina fede anarchica nemmeno quando il 15 ottobre 1968 uno degli “anarchici” che lo hanno accompagnato a Carrara, Pietro “Gre­gorio” Manlorico, viene arrestato insieme ai camerati di “Avanguardia nazionale”, Lucio Aragona e Corrado Salemi, per aver compiuto un attentato contro la sezione del Partito comunista del Quadraro.

Sulla via di Damasco, folgorato dall’ideale anarchico, nello stesso perio­do è anche Mario Merlino, dirigente di “Avanguardia nazionale”, a Roma.

Il 16 aprile 1968, Mario Merlino è stato in Grecia, con gli altri camera­ti, per rendere omaggio ai “colonnelli” che avevano fatto il “colpo di Stato” e salvato il loro Paese dal comunismo.

L’8 maggio 1968, insieme ai camerati Guido Paglia e Adriano Tilgher, Merli­no viene denunciato per aver organizzato una manifestazione di protesta con­tro l’esclusione del Sudafrica dalle Olimpiadi. Non sopporta, Mario Merlino, che i razzisti sudafricani siano emarginati da una manifestazione sportiva così importante.

Nello stesso mese di maggio, Merlino fonda, a Roma, il circolo “XXII marzo” con lettere che richiamano i fasti della Roma imperiale e la data che ricor­da gli incidenti dell’Università francese di Nanterre nei quali tanta parte hanno avuto gli uomini di Yves Guerin Serac.

Del neo-costituito circolo fanno parte Aldo Pennisi, Luciano Paulon, Pietro “Gregorio” Manlorico, Elio Guerino, Senato Granoni, Giovanni Nota, Guido Sciarelli, Antonio De Amicis, Lucio Aragona, Alfredo Sestili.

Il 31 agosto 1968, con cinque componenti del circolo “XXII marzo”, Ma­rio Merlino si presenta insieme a Pietro Valpreda al congresso anarchico di Carrara, anarchico fra gli anarchici.

Nel breve volgere di quattro mesi, Mario Merlino è passato dall’omaggio ai “colonnelli” greci e dalla difesa del Sudafrica “bianco”, all’ideale anarchico che combatte militari e militarismo, schiavisti e razzisti.

Cos’è accaduto?

Un significativo spiraglio di luce, per quanto riguarda il solo Mario Merli­no, viene dato dalle dichiarazioni rese da Serafino Di Luia al giornalista Giorgio Zicari e pubblicate su “Il Corriere della sera” il 5 marzo 1970.

Di Luia dichiara, testualmente:

“Merlino è stato mandato fra gli anarchici e la persona che lo ha plagiato è la stessa che fece affiggere il primo manifesto cinese”.

Il messaggio che Serafino Di Luia invia, tramite un giornalista che lavora per il servizio segreto militare, è ricattatorio, indirizzato ai pochi che possono comprenderlo e sono, pertanto, in grado di valutarne la minaccia che contiene.

Il 5 marzo 1970, difatti, solo pochissime persone collocate ai vertici del Movimento sociale italiano, di Avanguardia nazionale e della divisione Affari riservati del ministero degli Interni potevano comprendere il senso dell’oscuro riferimento al “primo manifesto cinese”.

L’episodio dei “manifesti cinesi” affissi dai militanti di “Avanguardia nazionale” nel mese di gennaio del 1966, difatti, diverrà noto solo alla metà degli anni Ottanta.

Da quel momento la possibilità di individuare chi sarebbe stata la perso­na che aveva “plagiato” Mario Merlino e lo aveva fatto infiltrare fra gli anarchici, diviene concreta per la ragione che a proporre a Stefano Delle Chiaie ed ai suoi amici l’operazione “manifesti cinesi” era stato il di­rettore del settimanale “Il Borghese”, Mario Tedeschi.

Mario Tedeschi, lo sappiamo, è stato uno dei più accaniti accusatori degli anarchici e di Pietro Valpreda da lui indicati come responsabili della stra­ge di piazza Fontana.

Ma l’ex sergente della divisione di fanteria di marina “decima” che già il 10 gen­naio 1947 il questore di Roma, Saverio Polito, scagionava dall’accusa di far parte di organizzazioni clandestine neofasciste, non ha mai fatto mi­stero, negli anni Ottanta, di essere stato da sempre intimo amico di Umber­to Federico D’Amato, il funzionario più rappresentativo della divisione Affa­ri riservati del ministero degli Interni.

Serafino Di Luia, in quel mese di marzo 1970, sa perfettamente che Mario Tedeschi è stato, all’epoca dell’operazione “manifesti cinesi”, il tramite, l’intermediario fra la manovalanza avanguardista e Umberto Federico D’Amato, ideatore e mandante dell’operazione.

Stefano Delle Chiaie ed i suoi uomini vennero a conoscenza, già in quel mese di gennaio del 1966, che ispiratore dell’affissione di manifesti fir­mati a nome del Movimento marxista-leninista d’Italia non era il “camerata” Mario Tedeschi e neanche il segretario nazionale del Msi, Arturo Michelini, ma Umberto Federico D’Amato.

Si ricatta per procurarsi un vantaggio, la minaccia deve essere fatta ma non portata a termine e, in questo caso, il destinatario era troppo potente per i fratelli Serafino e Bruno Di Luia: l’importante era fargli sapere che loro sapevano, che conoscevano il segreto inconfessabile che vedeva Mario Merlino infiltrato fra gli anarchici, nell’estate del 1968, dalla divisione Affari riservati del ministero degli Interni nella persona dell’allora questore Umberto Federico D’Amato.

Ed al ministero degli Interni, difatti, i due fratelli si rivolgono, questa volta direttamente, facendo sapere al questore di Bolzano, tramite un loro intermediario che “qualora non perseguiti da alcun ordine di cattura o circo­lare di ricerca” sono disposti “a venire in territorio italiano per incontrar­si con qualche funzionario di Ps al quale intenderebbero fare rivelazioni in­teressanti sui recenti attentati dinamitardi commessi a Milano ed a Roma e anche su quelli della famosa ‘notte dei treni’…”.

I due fratelli Di Luia sono due gregari di “Avanguardia nazionale” ma la loro minaccia, prima, e la loro disponibilità a parlare in via confidenzia­le, dopo, non sono sottovalutati se ad incontrarli è inviato, il 10 aprile 1970, un funzionario del servizio segreto civile del rango di Silvano Russomanno.

Il contenuto del loro colloquio non è mai stato reso noto. Se ne conosce, però, il risultato: i due fratelli Di Luia, Bruno e Serafino, potranno rien­trare in Italia e non saranno mai disturbati per deposizioni testimoniali o indagati, a qualsiasi titolo, per gli attentati del 12 dicembre 1969 a Roma e a Milano e per quelli ai treni dell’8-9 agosto 1969, sui quali avevano “ri­velazioni interessanti” da fare e che sono rimaste sepolte negli inaccessi­bili archivi della divisione Affari riservati del ministero degli Interni.

Il rapporto fra Avanguardia nazionale ed il ministero degli Interni non si è limitato all’operazione “manifesti cinesi” del gennaio 1966, ma è prosegui­to nel tempo con altre “operazioni” di ben più pregnante rilievo.

Non è un sospetto che deriva dalle dichiarazioni dei fratelli Bruno e Sera­fino Di Luia, ma una certezza che proviene dalla reiterazione della minaccia nei confronti di Mario Tedeschi, questa volta fatta direttamente dai verti­ci dell’organizzazione nel tentativo di evitarne la messa fuori legge con tutte le conseguenze penali e politiche che il provvedimento comporta.

Quando nel 1973-74 si profila l’adozione di provvedimenti di carattere giudiziario nei confronti dei dirigenti e dei militanti di “Avanguardia na­zionale”, scatta da parte di questi ultimi l’immancabile operazione ricatta­toria a carico di quanti hanno prima utilizzato i loro servigi ed ora li “scaricano” senza battere ciglio.

Chi sia uno dei destinataci del ricatto, lo dice una nota informativa pro­veniente da Milano, indirizzata al ministero degli Interni, che informa che Pino Romualdi sta preparando un’azione intesa a stroncare la candidatura di Mario Tedeschi a segretario nazionale del Msi-Dn, presentandolo come legato ai servizi segreti.

L’azione di Pino Romualdi sarebbe appoggiata da “Avanguardia nazionale” che porterebbe come prova un assegno di un milione di lire consegnato dal ministero degli Interni a Mario Tedeschi e da questi versato ai dirigenti dell’ organizzazione.

L’avvertimento è pesante e diretto.

Il 15 ottobre 1974, alla presenza dell’avvocato Giorgio Arcangeli, Adriano Tilgher e Felice Genoese Zerbi tengono una conferenza stampa nella quale denunciano, ovviamente senza specificarle, le “sporche e criminali opera­zioni di potere” da parte della Democrazia cristiana, i tentativi dei servizi segreti italiani, civili e militari, di strumentalizzare l’organizzazio­ne per concludere facendo due nomi: l’ex ministro della Difesa, il socialdemo­cratico Mario Tanassi, e il direttore de “Il Borghese”, ora senatore del Msi-Dn, Mario Tedeschi.

Appare evidente che la sola operazione “manifesti cinesi” del gennaio 1966 ed il finanziamento, sempre riferito agli anni Sessanta di 300 mila al mese al gruppo avanguardista, non sono argomenti tali da intimidire Mario Tedeschi che da queste “rivelazioni” non subirebbe alcun danno.

Inoltre, nel 1974, il direttore de “Il Borghese” è anche senatore del Msi-Dn, di un partito cioè dal quale, dopo le stragi di Brescia e dell’Italicus, la Democrazia cristiana ha preso decisamente le distanze.

Cosa potrebbe fare Mario Tedeschi per evitare lo scioglimento di “Avanguar­dia nazionale” e l’incriminazione e l’arresto dei suoi dirigenti?

Nulla.

Ma come abbiamo visto, Mario Tedeschi, nell’operazione “manifesti cinesi” e in quella, successiva, dell’infiltrazione di Mario Merlino fra gli anarchi­ci è stato solo un intermediario.

L’avvertimento di Tilgher e Genoese Zerbi è rivolto, usando il suo nome, a chi è stato sempre alle sue spalle e sopra di lui: il servizio segreto civile e il ministero degli Interni, che hanno loro sì la forza di evita­re lo scioglimento di “Avanguardia nazionale” e i provvedimenti giudiziari a carico dei suoi dirigenti e militanti.

Gli oppositori politici non hanno, per ovvie ragioni, possibilità di ri­cattare i detentori del potere. Ma “Avanguardia nazionale”, come tutte le formazioni politiche di estrema destra ha fatto, per conto del potere, l’opposi­zione agli oppositori di sinistra, con operazioni sulle quali è obbligata a conservare il segreto.

Può solo minacciare di infrangerlo per reagire alla ingratitudine di chi, dopo averla usata, se ne libera con sprezzante noncuranza.

Ed è questo, esattamente, che “Avanguardia nazionale” fa.

Il 30 giugno 1975, l’organizzazione pubblica un “Bollettino di controinfor­mazione nazionale rivoluzionaria” nel quale scrive:

“Chi pensasse ad un indolore provvedimento amministrativo contro Avanguar­dia nazionale ha sottovalutato la forza e la decisione di questa organizzazione. Se poi si arriverà al processo, Avanguardia nazionale chiamerà sul ban­co dei testimoni ministri, uomini politici, segretari di partito, corpi sepa­rati e quanti in un modo o nell’altro, hanno prima cercato l’amicizia di A­vanguardia nazionale e poi, visti respinti i tentativi, hanno deciso la fi­ne di una organizzazione non incasellabile nei giochi di sistema”.

È una minaccia ma, soprattutto, è una autodenuncia della compromissione del gruppo e dei suoi dirigenti con il sistema che sempre hanno dichiarato di voler combattere.

Per ora, conta la minaccia che qualcuno valorizza perché quando l’operazio­ne giudiziaria e di polizia è in procinto di scattare sulla stampa appare la notizia relativa con l’indicazione perfino del numero dei mandati di cattura che stanno per essere emessi.

La retata contro gli “avanguardisti” viene, quindi, annullata e posticipa­ta di almeno due mesi, messa in atto con tutte le precauzioni del caso che non impediscono, però, che Adriano Tilgher sia informato con un anticipo di pochi minuti dell’arrivo a casa sua della polizia, e riesca a scappare.

Nella storia tragica del massacro di piazza Fontana si può, a questo punto, inserire pacificamente la figura del moderato direttore de “Il Borghese”, uo­mo di servizi e di potere, Mario Tedeschi, come trait d’union fra il ministe­ro degli Interni e i “fascisti” di “Avanguardia nazionale”.

A carico di Mario Tedeschi non c’è solo la certezza che fu lui personalmen­te a proporre ai dirigenti di “Avanguardia nazionale” l’operazione “manifesti cinesi”, il rapporto organico con questa organizzazione dimostrato dai finan­ziamenti che elargiva, 1’accusa gravissima dei fratelli Serafino e Bruno Di Luia di aver infiltrato Mario Merlino fra gli anarchici, il fatto di essere stato proprio lui oggetto del ricatto dei dirigenti di “Avanguardia nazionale” negli anni 1974-1975 per evitare la dissoluzione per legge del gruppo, ma anche qualcos’altro, estremamente significativo, che si ricollega all’operazione del 1969 che porta alla strage di Milano del 12 dicembre 1969, ed alla figura di Pietro Valpreda.

A fornire l’indizio, in modo del tutto involontario ed in epoca non sospetta, sono gli assertori dell’innocenza di Pietro Valpreda, gli autori del libro “La strage di Stato”.

Sono loro, difatti, in un’intervista concessa al “Manifesto” e da questo pubblicata il 2 settembre 1972, a dare una spiegazione alla pubblicità fatta, prima della strage di piazza Fontana a Pietro Valpreda:

“Come mai tutte quelle foto di Valpreda fatte prima. Valpreda era uno scono­sciuto…Allora – dichiarano – organizzammo una rapida inchiesta per stabili­re come le foto erano arrivate ai giornali. E venne fuori che quelle foto ap­partenevano tutte ad un unico servizio ed erano state fatte dall’agenzia di Giacomo Alexis per lo ‘Specchio’, Alexis fa le foto anche per ‘Il Borghese'”.

Le foto che ritraggono Pietro Valpreda, seduto per terra, con una vistosa “A” di anarchia sul petto che saluta con il pugno chiuso che fa tanto comunismo, fanno ormai parte della storia della strage di piazza Fontana perché provano la sua sincera adesione all’ideale anarchico.

Il fatto che a scattarle sia stato un fotografo che lavorava per Mario Tedeschi, direttore de “Il Borghese”, acquista ora un significato diverso e sinistro, quello di un particolare, non di poco conto, di un’operazione “sporca”, organizzata dal servizio segreto civile, di cui Pietro Valpreda può essere stato strumento inconsapevole o complice consapevole.

Crediamo che sia giunto il momento di porsi l’interrogativo su chi sia stato realmente Pietro Valpreda.

Fino ad oggi la matrice politica ed ideologica della strage di piazza Fon­tana del 12 dicembre 1969, è stata fatta derivare dall’innocenza o dalla colpevolezza dell'”anarchico Pietro Valpreda”.

Nessuno dubita della testimonianza del tassista Cornelio Rolandi, il pri­mo ed il solo (aggiungiamo
noi) ad affermare di averlo portato dinanzi al­la Banca dell’Agricoltura quel pomeriggio del 12 dicembre 1969 con la bor­sa contenente la bomba fatale.

Per affermare l’innocenza di Pietro Valpreda si ricorre alla presenza, su quel taxi, di un sosia percorrendo una pista che è stata indicata proprio da Pietro Valpreda.

L’ipotesi più ardita formulata in questi anni, quella che propone la figura di un anarchico vero, utilizzato inconsapevolmente dai “fascisti” per i loro fini stragisti ed incastrarlo sul piano giudiziario per criminalizzare gli anarchici e tutta la sinistra italiana, benché ragionevole ha susci­tato la rabbiosa e scomposta reazione di quanti hanno visto vacillare il lo­ro mito.

Certo, appare singolare che qualcuno, dovendo deporre una bomba anche se dimostrativa, prenda un taxi in una città, come Milano, dove lo conoscono in tanti, compresi i funzionari e gli agenti dell’ufficio politico della Questura, ma oggi sappiamo anche che, all’interno della Banca dell’Agricol­tura quel pomeriggio del 12 dicembre 1969 sono entrati in due, giunti con una macchina dove li attendevano i complici, sulla base di testimonianze più solide e quindi più attendibili di quella del taxista Cornelio Rolandi, perché provenienti dall’interno del gruppo stragista.

La presenza sulla scena della strage di piazza Fontana, nella veste di esecutore materiale, di Pietro Valpreda non appare fondamentale per defi­nire cosa sia stato quel massacro e quali fini si proponesse chi lo ha idea­to ed organizzato.

A Milano, quel giorno non c’è stata solo la strage alla Banca dell’Agri­coltura: qualcuno è andato a deporre una borsa contenente un ordigno che non poteva esplodere all’interno della Banca commerciale; altri hanno af­fisso manifesti con gli slogan del “maggio francese”; altri ancora hanno forse deposto in altri luoghi ordigni che non sono poi esplosi o perché sono stati rinvenuti o perché sono stati ritirati a tempo da coloro che li avevano collocati.

A Milano, quel 12 dicembre 1969, c’è stato un lavoro di squadra i cui componenti non sono mai stati identificati. Fra costoro, anche Pietro Valpreda può aver fatto la sua parte senza necessariamente andare in piazza Fontana alla Banca dell’Agricoltura, magari nelle sue vicinanze, ma per fare altro, non certo per compiere una strage o fare un attentato dinami­tardo sia pure dimostrativo all’interno di un istituto bancario.

Per fare altro, si può anche prendere un taxi senza il timore di essere riconosciuto dopo.

Cosa ha fatto Pietro Valpreda a Milano è un segreto che ha portato con sé nella tomba, ma che,in fondo, è scarsamente pregnante per rispondere al quesito se costui sia stato un anarchico vero caduto in una trappola o un complice consapevole di Mario Merlino nell’opera di infiltrazione fra gli anarchici e di provocazione ai loro danni.

Nel leggere quanto ha scritto di suo pugno Pietro Valpreda sul bollettino “Terra e libertà”, organo del gruppo anarchico da lui stesso fondato, “Gli Iconoclasti”, composto da cinque persone di cui una stranamente mai identificata, il 21 marzo 1969, si ritrova la stessa logica auto-distruttiva, masochistica, dei “fascisti” che si vantano di essere stragisti e che esaltano lo stragismo indiscriminato, quello che ammazza indistintamente uomini, donne, vecchi, bam­bini,e pretendono con questi mezzi di accreditarsi come guida politica e morale della Nazione.

Cosa scriveva, difatti, Pietro Valpreda a discredito dell’ideale anarchico, in un momento in cui dal ministro degli Interni in giù la violenza in Ita­lia veniva attribuita all'”estremismo anarcoide”?

“Che gli anarchici facciano scoppiare le loro bombe in zone isolate è fal­so. Abbiamo visto dove sono scoppiate e possiamo dire che non sempre, anzi qua­si mai scoppiano in zone isolate…”.

È il preannuncio di una strage come quella tentata alla Fiera campionaria di Milano il mese successivo, il 25 aprile, e sulla cui matrice anarchica in Italia nessuno, in quel momento, ha dubitato.

Del resto, se la prosa di Pietro Valpreda era quella che segue, l’uomo del­la strada dubbi non poteva averne:

“Centinaia di giovani – scriveva Valpreda – sono pronti ad organizzarsi per riprendere il posto di nemici dello Stato e a gridare né Dio né padrone, con la dinamite di Ravachol, col pugnale di Caserio, con la pistola di Bresci, col mitra di Bonnot, le bombe di Filippi e di Henry. Tremate borghesi! Ravachol è risorto!”.

Se questa è l’immagine preferita da coloro che denunciano il pericolo anarchi­co e che si accompagna allo slogan di Pietro Valpreda, “Bombe, sangue, anar­chia”, è necessario fare il raffronto con quanto scriveva un uomo dei cui ideali anarchici nessuno ha mai dubitato: Giuseppe Pinelli.

L’11 giugno 1969, nel bollettino della “Crocenera”, ciclostilato del circo­lo “Il Ponte della Ghisolfa”, a commento di un attentato avvenuto a Palermo, attribuito agli anarchici, ma in realtà commesso da militanti di destra, si scrive :

“Per quanto emozionalmente squilibrati siano i neofascisti, non siamo tan­to ingenui da credere all’improvvisa contemporanea follia di sette di loro. Evidentemente le loro azioni facevano parte di un piano. Che dei fascisti colpiscano gli obiettivi ‘anarchici’ si può spiegare solo con l’intento di:

1)   suscitare la psicosi dell’attentato sovversivo per giustificare la re­pressione poliziesca e l’involuzione autoritaria;

2)   gettare discredito sugli anarchici e, per estensione, sulle forze di si­nistra.

Essenziale per ottenere il secondo risultato, e utile anche per il primo, è di fare qualche ferito innocente o meglio ancora (ma più pericoloso) qual­che morto”.

L’incompatibilità fra la prosa di Pietro Valpreda e quella di Giuseppe Pinelli, non rispecchia la differenza fra due personalità o due visioni di vivere ed interpretare lo stesso ideale politico ma, a nostro avviso, due finalità contrapposte.

Per “suscitare la psicosi dell’attentato sovversivo”, denunciata dall’e­sponente del circolo “Il Ponte della Ghisolfa”, difatti non servono attenta­ti è sufficiente leggere quello che scrive Pietro Valpreda su un bollettino che reca l’indirizzo dello stesso circolo del “Ponte della Ghisolfa”.

Se misteri rimangono nella vicenda della strage di piazza Fontana uno ri­guarda certamente il rapporto intercorso fra Giuseppe Pinelli e Pietro Valpreda.

Giuseppe Pinelli non stimava Valpreda. Ne diffidava.

Il 1° dicembre 1969, invia due lettere, una a Pio Turroni, ex combattente in Spagna, l’altra a Veraldo Rossi, responsabile del circolo anarchico “Bakunin” di Roma, nella quali riporta l’accusa rivolta da Paolo Braschi a Pietro Valpreda di aver rivelato al giudice Amati, che glieli ha contestati, due atten­tati, commessi rispettivamente uno a Genova e l’altro a Livorno, nonché di aver rubato l’esplosivo “attribuendo allo stesso Braschi l’origine delle sue informazioni”.

Pinelli non dubita della veridicità delle accusa di delazione lanciate da Paolo Braschi contro Pietro Valpreda e, difatti, conclude scrivendo

“La prossima settimana vado a Roma per parlare con Pietro Valpreda, per ve­dere cosa intende fare il giorno del processo”.

Nel processo di beatificazione di Pietro Valpreda, compiuto dalla sinistra italiana (ma non dagli anarchici, come vedremo), è stata opportunamente can­cellata dalla memoria una dichiarazione resa l’8 gennaio 1970 da Licia Pinelli.

La vedova dell’anarchico, morto in circostanze mai chiarite all’interno del­la Questura di Milano, afferma che suo marito aveva cacciato Pietro Valpreda dal circolo “Il Ponte della Ghisolfa” e la circostanza può trovare riscontro nel fatto che Valpreda, con una coincidenza che non può essere solo tempora­le, dopo il suo interrogatorio in Questura da parte degli agenti dell’ufficio politico, il giorno seguente, 29 aprile 1969 abbandona il capoluogo lombardo e si trasferisce definitivamente a Roma.

La connessione la ricaviamo dalle parole di Licia Pinelli che in merito al­la cacciata di Pietro Valpreda dichiara:

“Non ne conosco i motivi. Posso, però, ricostruirli per una circostanza narra­tami da mio marito. Egli, infatti, dopo gli attentati del 25 aprile 1969, ebbe un colloquio con il dirigente dell’ufficio politico della Questura – dottor Allegra – che gli disse che non avrebbe preso provvedimenti nei suoi confron­ti perché sapeva che aveva escluso Valpreda dal Circolo e gliene indicò le precise circostanze. Ritengo che il Valpreda non fosse più un elemento che potesse riscuotere la fiducia del movimento anarchico”.

Parole gravissime e dimenticate.

Il 29 novembre 1969, prima ancora di ricevere la lettera che Giuseppe Pinel­li gli scriverà il 1° dicembre, il responsabile del circolo anarchico “Bakunin” di Roma, dapprima accusa Pietro Valpreda di essere un delatore, quindi lo diffida insieme ai suoi amici di ripresentarsi al circolo. Pietro Valpre­da, Roberto Gargamelli, Enrico Di Cola, Leonardo Claps sono obbligati ad an­darsene .

Ancora prima, il 19 novembre 1969, l’anarchico Angelo Spanò abbandona il circolo “22 marzo” e costringe Pietro Valpreda ad andarsene dalla baracca in cui vivono insieme.

In epoca successiva, Spanò spiegherà che “il comportamento di Valpreda appariva sospetto. Temevo di essere coinvolto in qualche pasticcio che a­vrebbe potuto combinare”.

Cacciato da Giuseppe Pinelli dal circolo de “Il Ponte della Ghisolfa” di Milano, buttato fuori dal circolo “Bakunin” di Roma, sfrattato da Angelo Spanò, che di lui diffida, non si può affermare in tutta coscienza che la figura di Pietro Valpreda sia esente da ombre.

Ombre che i suoi comportamenti successivi all’arresto ingigantiscono. Il 16 dicembre 1969, Valpreda guida la polizia alla ricerca di un deposito di esplosivi di cui aveva già parlato Mario Merlino. Ed accusa esplicitamente, senza alcuna reticenza, Ivo Della Savia:

“Ricordo che Ivo Della Savia prima di partire da Roma l’ultima volta, passando per la via Tiburtina all’altezza della Siderurgica romana e della dit­ta Decama, a circa 200-300 metri dal Silver cine, mi indicò un tratto di bo­scaglia dicendo: ‘Non molto lontano dalla strada, ai piedi di una pianta non molto alta, tengo della roba conservata’…”.

Per essere sicuro che i poliziotti non equivocassero sulla parola “roba”, Valpreda specifica:

“Non mi precisò di che cosa si trattasse. Comunque con la parola roba noi intendiamo fare riferimento a esplosivo, detonatori e micce”.

E Ivo Della Savia è sistemato.

Il 20 dicembre 1969, a Roma, la Federazione anarchica italiana emana un co­municato nel quale chiede che sia fatta piena luce sugli attentati stragi­sti del 12 dicembre, ed afferma che

“il linciaggio morale degli anarchici non verrà consentito a nessuno, come nessuno potrà impedirci di essere noi stessi accusatori di un sistema che tollera la sopraffazione e volutamente ignora – quando non favorisce – i quotidiani attentati alla vita e alla li­bertà dei cittadini”.

La Fai, però, non ha fatto i conti con Pietro Valpreda.

Il 9 gennaio 1970, Valpreda, nel corso di un interrogatorio, per giustifica­re il riconoscimento fatto dal taxista Cornelio Rolandi, avanza l’ipotesi di un sosia, che lui avrebbe visto nella primavera del 1969, al bar “Gabriele”, mentre parlava di armi e di esplosivi.

Il “sosia”, prosegue Valpreda, si chiama “Gino” e non è fascista, al contra­rio, è anarchico.

Le dichiarazioni rese da Pietro Valpreda non restano senza conseguenze con­crete perché precise e dettagliate nei confronti dell’anarchico “Gino”. Così, il 13 gennaio 1970, scortato da un gruppo di compagni anarchici, Tommaso Gi­no Liverani precede l’azione della polizia e si presenta spontaneamente in questura, dove viene arrestato per reticenza.

Sarà scarcerato il 20 febbraio e, successivamente, Tommaso Gino Liverani entrerà a far parte delle Brigate rosse.

Qualcuno ha osservato che Pietro Valpreda e Mario Merlino hanno adottato la stessa linea difensiva ma, aggiungiamo noi, hanno seguito anche la mede­sima tattica accusatoria contro gli anarchici.

Il rapporto fra Pietro Valpreda e Mario Merlino è un altro elemento, sem­pre trascurato, per valutare se il primo sia stato un anarchico strumenta­lizzato, colluso o un infiltrato fra gli anarchici.

Nessuno ha mai osato dubitare che se Pietro Valpreda è stato incastrato nella tragica vicenda di piazza Fontana per farà di lui il colpevole di una strage anarchica, il responsabile primo sia stato Mario Merlino nel ruolo di infiltrato di “Avanguardia nazionale” negli ambienti dell’anarchia.

È questa una “verità” di cui sono convinti tutti, meno uno: Pietro Valpreda.

Mai, nemmeno una volta, Valpreda ha levato il dito accusatore contro Mario Merlino. Mai, l’anarchico Valpreda ha accusato il “fascista” Merlino di aver­lo ingannato. Mai, l’imputato principale nella strage di piazza Fontana ha dichiarato che Merlino ha agito contro di lui ed il movimento anarchico nel­l’ambito di un disegno di provocazione portato avanti dai”fascisti” di cui Merlino, a Roma, era oltretutto un elemento di un certo rilievo.

Il 13 giugno 1970, esce nelle librerie il libro “La strage di Stato” che proclama l’innocenza di Pietro Valpreda e accusa Mario Merlino di essere un provocatore fascista.

Nel carcere di “Regina Coeli”, a Roma, dove si trova recluso, Pietro Valpreda, a questo proposito, il 22 luglio 1970, annota:

“La mente provocatoria nonché la cinghia di trasmissione tra i fascisti e il ’22 marzo’ sarebbe dunque Merlino. Che Merlino non abbia un passato limpi­do, che sia politicamente ambiguo, che sia stato un provocatore, tutti que­sti precedenti sono ormai ampiamente dimostrati, ma ciò non vuol dire che lo sia stato nel nostro caso, in seno al nostro gruppo, riguardo agli attentati del 12 dicembre. Non per quello necessariamente questo. È una massima molto antica. Vuol dire chiaramente che da ciò che si è commesso nel passato non si può arguire che lo si commetta necessariamente anche ora.

Per cui – prosegue Valpreda – non è che io difenda Merlino o una sua pretesa verginità morale; nego recisamente che al presente sia colpevole nei ri­guardi nostri di ciò di cui viene imputato dall’accusa…”.

Per Pietro Valpreda, dunque, Mario Merlino non è stato un provocatore fa­scista, un infiltrato fra gli anarchici, ma una persona che ha avuto nel periodo di comune attività politica, sotto la bandiera dell’anarchia, un comportamento limpido e coerente, esente da ombre, a prescindere dal suo passato di militante dell’estrema destra.

Nel corso del processo per la strage di piazza Fontana, a Catanzaro, Pie­tro Valpreda la sua fiducia e la sua stima nei confronti di Mario Merlino le ostenta apertamente, sia nell’aula della Corte di assise che fuori quando pranza con lui nell’albergo dove risiedono i giornalisti come risposta implicita ma chiarissima alle accuse che costoro rivolgono al militante di “Avanguardia nazionale”, il “cattivo” fascista contrapposto al “buon” anarchico.

Una favola alla quale, il primo a dare dimostrazione pubblica di non cre­derci è proprio la “vittima”, Pietro Valpreda.

Il 6 luglio 2002, Pietro Valpreda muore a Milano, senza aver mai detto una sola parola suscettibile di gettare luce sugli eventi del 1969.

Due giorni dopo, l’8 luglio 2002, il quotidiano “Il Giornale”, nell’arti­colo intitolato “Merlino: io e Pietro arrestati e usati solo per fini poli­tici”, riporta le dichiarazioni di Mario Merlino che, fra l’altro, rivela di aver rivisto l’amico “nel suo pub quando lo andai a trovare insieme ad alcuni camerati. Fu sorpreso ed affettuoso, parlammo a lungo dei tempi anda­ti, mi invitò a tornare”.

Certo, Mario Merlino riconvertitosi al fascismo, può usare il termine “ca­merati” per indicare coloro che lo hanno accompagnato da Pietro Valpreda, ma può anche essere stato scelto per rivendicare quell’appartenenza all’am­biente neofascista di Pietro Valpreda che rimane un segreto solo perché, a nostro avviso, è mancato il coraggio di analizzare con cura, con sereni­tà, senza pregiudizi, la figura e l’attività dell’anarchico Pietro Valpre­da.

Prima di Mario Merlino, un altro personaggio oggi riconosciuto con asso­luta certezza fra i responsabili della strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, Giovanni Ventura aveva rilasciato una dichiarazione che poneva in dubbio la fede anarchica di Pietro Valpreda e che, addirittura, rivela­va una conoscenza personale e diretta fra loro, pubblicata da “Il Mattino” di Padova il 20 dicembre 1986.

Dichiarava Giovanni Ventura:

“Sì, il ’68 ha prodotto le circostanze del nostro avvicinamento. Allora era normale. Valpreda, Merlino, Delle Chiaie. Il giro era così…”.

La sinistra italiana tutta e, a destra, la sola “Avanguardia nazionale”, hanno fatto dell’innocenza di Pietro Valpreda un postulato di cui non si può e non si deve dubitare se non si vuole finire al rogo, ma è bene ricor­dare che la direzione nazionale del Pci vietò al suo parlamentare avvocato, Malagugini, di assumere la difesa del ballerino anarchico lasciandola alle cure dell’avvocato Guido Calvi che, per essere militante del Psiup, non comprometteva il partito.

Una prudenza che dimostra come i vertici del Partito comunista qualche dubbio sulla fede anarchica di Pietro Valpreda lo nutrivano, anche se non ritenevano opportuno ostentarlo pubblicamente e, tantomeno, spiegarne le ragioni.

Chi è stato Pietro Valpreda?

Un innocente anarchico che ha rischiato di passare alla storia italiana come il “mostro” che aveva provocato 16 morti e 90 feriti all’interno del­la Banca dell’Agricoltura di Milano, il 12 dicembre 1969, vittima di una congiura politico-poliziesca che voleva criminalizzare, con l’anarchia, tutta la sinistra italiana?

Un anarchico convinto, sincero nelle sue idee e nelle sue aspirazioni, talmente ingenuo da cadere in una trappola tesa da un individuo che, a Roma, tutti conoscevano come neofascista militante?

Un infiltrato di “Avanguardia nazionale”, alla pari del suo amico Mario Merlino, negli ambienti anarchici, in un’operazione promossa dalla divisio­ne Affari riservati del ministero degli Interni?

Allo stato, a queste tre domande possiamo dare risposta solo alla prima.

O, giustamente, la facciamo dare alla Federazione anarchica italiana, la so­la che aveva l’autorità, l’autorevolezza, gli elementi di conoscenza per po­ter riconoscere o, al contrario, disconoscere in Pietro Valpreda un compagno anarchico. La risposta, la Fai l’ha data nell’immediatezza dei fatti, perentoria, inequivocabile e pubblica.

Il 22 gennaio 1970, il settimanale “Panorama”, nell’articolo intitolato “Le prove e i dubbi”, riporta la dichiarazione della Federazione anarchica italiana sul conto di Pietro Valpreda e degli aderenti al circolo “22 marzo”:

“Non li conosciamo. Per quel che ci riguarda non sono anarchici…”

Più chiaro di così?

L’11 marzo 1972, viene reso noto che Pietro Valpreda ha accettato di can­didarsi nelle successive elezioni politiche nelle liste de “Il Manifesto”. Im­mediatamente , diversi gruppi anarchici informano la stampa che non lo vote­ranno: Valpreda sarà anche innocente per la strage di piazza Fontana ma per gli anarchici italiani lui non è un compagno anarchico.

Serve altro?

Pietro Valpreda è divenuto anarchico sulla base della sua esclusiva parola, per la fiducia che gli è stata accordata dalla stampa italiana, dalla magi­stratura, dai partiti politici tutti, dalle formazioni della sinistra, da “Il Manifesto”, ma non dagli anarchici e dai loro organismi rappresentati­vi, i soli e gli unici in grado di poter avallare o negare la qualifica di anarchico a qualcuno in questo Paese.

A Pietro Valpreda, gli anarchici italiani l’hanno negata.

È questa è una delle poche certezze esistenti nell’ambito degli eventi del 1969, compresa la strage di piazza Fontana.

In un’operazione lunga e complessa come quella di cui stiamo trattando, coordinata dagli apparati segreti e clandestini dello Stato, le protezioni a coloro che agiscano sui terreno devono necessariamente esserci prima per facilitare il loro operato, e dopo nel caso che il fine non venga raggiunto e si debba fronteggiare un’indagine giudiziaria intesa ad accertare le re­sponsabilità penali e personali in eventi di eccezionale gravità come la strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969.

Fiumi d’inchiostro sono stati scritti per raccontare le protezioni accor­date alla “cellula nera” padovana sia da parte dei servizi segreti militari che da quelli civili, anche se per questi ultimi il loro intervento è sta­to callidamente sfumato.

Difatti, 1’ intervento del Sid a favore di Franco Freda e Giovanni Ventura poteva essere spiegato all’opinione pubblica con la presenza accanto a loro dell’agente “Z” del Sid, Guido Giannettini.

La necessità di proteggere un loro agente poteva giustificare i depistaggi posti in essere dal servizio segreto militare per salvare processualmente sia Guido Giannettini che Franco Freda e Giovanni Ventura, ma quelli compiuti da­gli uomini del ministero degli Interni non potevano avere altra spiegazione che quella di una complicità inconfessabile.

Inoltre, si può sostenere che abbiano “deviato” gli uomini del servizi se­greto militare, a scopo difensivo, ma diviene difficile sostenere che lo stes­so abbiano fatto quelli del servizio civile del ministero degli Interni e gli uffici politici delle Questure di Padova, Roma e Milano.

È, viceversa, provato che i primi depistaggi seguiti alla strage di piaz­za Fontana non sono attribuibili al servizio segreto militare bensì a quello civile ed ai funzionari degli uffici politici della Questure di Padova, Mila­no e Roma.

A Padova, la polizia politica apprende, già il 15 dicembre 1969, che le borse utilizzate per gli attentati di tre giorni prima, a Milano e a Roma, o almeno alcune di esse, sono state vendute in un negozio del centro citta­dino.

Interroga i due titolari della valigeria, ma informa del fatto la sola di­visione Affari riservati del ministero degli Interni che manterrà segreta la notizia venuta, casualmente, alla luce solo il 15 settembre 1972.

Non serve avere esperienza in campo investigativo per comprendere che fare confronti fra le commesse che hanno venduto le borse e gli eventuali acquiren­ti dopo tre giorni, quando la memoria visiva è ancora viva, rende possibile conseguire un risultato positivo che diviene molto più difficile da ottene­re dopo tre anni, anche se negli intendimenti dei dirigenti del servizio se­greto civile la notizia avrebbe dovuta restare segreta per sempre.

A Milano, qualcuno in Questura si preoccuperà di far scomparire il laccio dov’era attaccato il cartellino del prezzo, rinvenuto nella borsa contenen­te l’esplosivo collocata all’interno della Banca commerciale, perché da es­so si può risalire al negozio che l’ha venduta e rendere possibile l’identi­ficazione dell’acquirente.

È un’azione, come si vede, coordinata che ha un solo obiettivo: proteggere gli autori degli attentati del 12 dicembre 1969, a Roma e a Milano, la cui identità è necessariamente nota sia ai servizi segreti civili che a quelli militari.

A Roma, a favore degli aderenti al circolo “anarchico” fondato da Mario Merlino, il “22 marzo”, l’ufficio politico della Questura si muove subito: tace ai magistrati inquirenti la presenza in questo circolo dell’agente di Ps Salvatore Ippolito, infiltrato con il nome di copertura di “Andrea”, per­ché riferisca quello che vede e sente al commissario di Ps, Spinella, rive­landolo solo il 9 maggio 1970 perché espressamente invitata a farlo dalla magistratura.

Non è un favore da poco agli attentatori del 12 dicembre, perché “Andrea” sa tante cose gran parte delle quali non può, anzi non deve riferire, per­ché i rapporti che l’agente di Ps infiltrato faceva sul conto degli aderen­ti al circolo “22 marzo” si fermano alla data del 20 novembre 1969.

Però, risulta in modo certo e documentato che il poliziotto il suo ruo­lo di “infiltrato” all’interno del circolo “22 marzo” lo ha svolto fino al 12 dicembre 1969, tanto da essere “fermato” dai suoi colleghi e posto in camera di sicurezza con Mario Merlino ed altri per vedere se riusciva a conoscere ancora qualcosa in extremis.

Cosa aveva scritto 1’agente di Ps Salvatore Ippolito nei rapporti re­datti dalla data del 20 novembre a quella del 12 dicembre 1969?

Una domanda destinata per sempre a restare senza risposta.

L’ufficio politico della Questura di Roma sa, fin dal momento in cui procede al “fermo” di Mario Merlino, la stessa sera del 12 dicembre 1969, che costui non ha un alibi.

Lo sa, con assoluta certezza, perché le due abitazioni alle quali fa ca­po in quel periodo Stefano Delle Chiaie sono sotto il controllo visivo degli agenti dell’ufficio politico.

Quindi, nel momento stesso in cui Mario Merlino affermerà di essersi re­cato, nel pomeriggio del 12 dicembre 1969, a casa della convivente di Ste­fano Delle Chiaie, Leda Minetti, in via Tuscolo e di non averlo trovato ma di essersi intrattenuto nella sua casa con il figlio Riccardo Minetti, i funzionari dell’ufficio politico sanno che mente.

Non fanno, però, assolutamente nulla. Danno il tempo a Stefano Delle Chiaie di conoscere il contenuto delle dichiarazioni di Mario Merlino e di chie­dere a Leda Minetti ed al figlio Riccardo di confermarle.

Inoltre, con una procedura inspiegabile, l’ufficio politico della Questu­ra di Roma lascia che siano i carabinieri a vagliare la posizione di Stefa­no Delle Chiaie, ad interrogarlo, a decidere sulla validità delle testimo­nianze dei suoi cari, Leda e Riccardo Minetti.

Il 22 dicembre 1969, Stefano Delle Chiaie, in compagnia di Leda Minetti e del figlio Riccardo, si presenta dai carabinieri asserendo di aver saputo da quest’ultimo che, effettivamente, Mario Merlino era stato a casa sua il pomeriggio del 12 dicembre, come poteva confermare anche la madre, ma di non conoscere i motivi per i quali era venuto a fargli visita.

Lo stesso giorno, il tenente colonnello dei carabinieri, Pio Alferano, dopo l’interrogatorio di Stefano Delle Chiaie, redige un rapporto nel qua­le scrive che non vi è “alcun fondato sospetto su Valpreda”.

La Questura di Roma ha fermato Mario Merlino ed altri aderenti al circolo “22 marzo”, la Questura di Milano ha provveduto al fermo di Pietro Valpreda e, prima a quello di altri anarchici compreso Giuseppe Pinelli. È la polizia che a Roma come a Milano ha in mano l’iniziativa delle indagini, degli interrogatori, dei confronti, che investiga su tutti meno uno: Ste­fano Delle Chiaie, lasciato alle cure dell’Arma dei carabinieri.

Perché?

Mario Merlino che, nel 1974, farà avere a Riccardo Minetti delle sue poe­sie con dedica per ringraziarlo di aver reso falsa testimonianza in suo favore, non ha un alibi.

È ufficialmente anarchico dall’estate del 1968, pubblicamente accredita­to come tale anche da certa stampa, ma è costretto a chiamare in causa Ste­fano Delle Chiaie ed i suoi familiari per coprire il lasso di tempo del 12 dicembre 1969 coincidente con quello degli attentati alla Banca nazionale del lavoro e all’Altare della patria.

Stefano Delle Chiaie, a sua volta, chiama in causa il giornalista Gianfran­co Finaldi e il dirigente di “Avanguardia nazionale”, Guido Paglia perché confermino di averlo incontrato a piazza San Silvestro.

Non è noto se i magistrati abbiano mai chiesto a Finaldi e a Paglia di confermare o smentire l’incontro quel pomeriggio, dopo le 17.00, con Delle Chiaie. Perché, per quanto possa sembrare incredibile, c’è la possibilità concreta che nessun magistrato abbia mai verificato le dichiarazioni, sul punto, rese dal capo di “Avanguardia nazionale”.

Non ha alibi Pietro Valpreda.

Il principale indiziato per la strage di piazza Fontana riesce solo a chia­mare in causa, a suo favore, la nonna e la zia che, affettuosamente, lo so­stengono e lo difendono affrontando un processo per falsa testimonianza. Valpreda dice che è stato sempre a casa loro. Ma di chi?

Il 15 gennaio 1970, a Milano, al commissario di Ps Beniamino Zagari, la nonna di Pietro Valpreda, Olimpia Torri, dichiara che il nipote, il pomeriggio dell’11 dicembre, era stato sempre a casa sua perché raffreddato ma, in questo mo­do, contraddice la zia, Rachele Torri, che viceversa aveva affermato che il nipote era stato a casa sua.

Non è sbagliato ritenere che l’attivissimo ballerino anarchico Pietro Valpreda quel tragico pomeriggio non sia stato a casa della nonna e neanche in quella della zia, ma altrove.

Mario Merlino si protegge dietro il suo capo, Stefano Delle Chiaie, il qua­le, a sua volta, chiama a difenderlo un suo gregario, Guido Paglia, che la storia dell’infiltrazione di Mario Merlino la conosce fin dagli esordi, men­tre Pietro Valpreda, a Milano, può solo invocare la complicità della nonna e della zia.

Ma, nella storia dei militanti di “Avanguardia nazionale” non c’è solo la mancanza di alibi nel pomeriggio del 12 dicembre 1969, ci sono anche comportamenti individuali che fanno presumere una responsabilità colletti­va, un coinvolgimento più ampio di quello circoscritto a Delle Chiaie e Mer­lino, degli uomini di Junio Valerio Borghese.

Ci sono delle fughe all’estero che non trovano giustificazioni in provve­dimenti restrittivi della libertà personali o, perfino, in meri avvisi di garanzia o in citazioni per deposizioni testimoniali.

È il caso, per seguire un ordine cronologico, della fuga all’estero dei fratelli Bruno e Serafino Di Luia, entrambi militanti nel gruppo diretto da Stefano Delle Chiaie.

Come abbiamo visto nelle pagine precedenti, i due fratelli non si limitano ad espatriare, ma evidentemente spaventati dall’idea di essere coinvolti in un fatto di estrema gravità come la strage di piazza Fontana, lanciano avvertimenti minacciosi e ricattatori anche attraverso le pagine de “Il Corriere della sera” (5 marzo 1970), fino a richiedere quindici giorni do­po al questore di Bolzano, “se non ricercati”, un incontro con un funziona­rio del servizio segreto civile. I nomi dei fratelli Bruno e Serafino Di Luia saranno fatti, insieme a quello di Luciano Luberti, dalla moglie di Armando Calzolari che li indi­cherà come gli assassini del marito, ma l’accusa non avrà seguito e l’inda­gine giudiziaria si concluderà con il verdetto di “omicidio a carico di i­gnoti”.

Negli atti del processo di piazza Fontana e in quelli degli attentati ai treni dell’8-9 agosto 1969, sui quali Serafino Di Luia afferma di avere “ri­velazioni interessanti” da fare i loro nomi non compaiono, neanche come semplici testimoni.

Il loro comportamento equivale ad un’autodenuncia che rivela la loro par­tecipazione, non sappiamo con quale grado di responsabilità, agli eventi sui quali affermano di avere “rivelazioni interessanti” da fare, gli atten­tati del 12 dicembre 1969 e dell’8-9 agosto 1969.

Certo, non si possono conoscere particolari “interessanti” se non si è stati in contatto diretto con gli organizzatori e gli autori degli atten­tati.

All’epoca, però, i due fratelli non sono stati sfiorati neanche dal sospetto. Quindi la domanda legittima che poniamo è questa: perché sono scappati al­l’estero?

A questo interrogativo ne sommiamo un secondo: è lecito conoscere oggi quel­le “rivelazioni interessanti” di cui, almeno in parte, hanno portato a cono­scenza il funzionario della divisione Affari riservati del ministero degli Interni, Silvano Russomanno, quel lontano 10 aprile 1970?

Crediamo che, dopo 41 anni, sia diritto di questo popolo iniziare a cono­scere la verità, senza aggettivi, sulla strage di piazza Fontana, l’opera­zione che la precedette e quelle che ne sono seguite.

I fratelli Bruno e Serafino Di Luia sono in grado, per le loro stesse di­chiarazioni, di dare un contributo alla verità, piccolo o grande che esso possa essere: che siano, finalmente, chiamati a darlo.

Il secondo ad abbandonare l’Italia è Stefano Delle Chiaie.

L’accusa a suo carico è modestissima: falsa testimonianza. Il periodo massimo di carcerazione preventiva che può fare non supera i sei mesi.

Stefano Delle Chiaie ha sempre sostenuto la sua innocenza per quanto ri­guarda la strage di piazza Fontana e gli attentati che l’hanno preceduta.

Nel 1970, la magistratura, in particolare quella romana, non poteva certo essere accusata di prevenzione nei confronti di quanti militavano nell’estre­ma destra, quindi Delle Chiaie non rischiava di cadere vittima di una perse­cuzione giudiziaria.

Ma, allora, è normale chiedersi perché una persona che non rischia nulla, che al massimo con un’incriminazione per falsa testimonianza potrà fare al­cuni mesi di carcere, debba iniziare una latitanza che avrà termine solo il 23 marzo 1987, in coincidenza con l’inizio del processo per l’attentato di Peteano di Sagrado, per decisione dell’ammiraglio Fulvio Martini, direttore del Sismi.

Stefano Delle Chiaie è stato processato ed assolto, con sentenza ormai passata in giudicato, dall’accusa di concorso nella strage di piazza Fon­tana.

La sua lunga militanza di combattente nazional-rivoluzionario, in prima linea contro il sistema parlamentare e democratico, gli è costata in tutto una detenzione di due anni di carcere, pochi per chi, come lui, ha rivendi­cato la responsabilità sia pure solo morale di aver contribuito a determi­nare la “lotta armata” neofascista nel Paese.

Ma, se il sistema politico non aveva nulla da rimproverargli, se gli orga­ni di polizia a suo carico non avevano raccattato niente che potesse costar­gli anni di carcere, se la magistratura era riuscita a contestargli il solo reato di “falsa testimonianza”, perché Stefano Delle Chiaie è fuggito ed è rimasto latitante per ben 27 anni?

Cosa temeva per sé stesso, Stefano Delle Chiaie?

Il quarto militante di “Avanguardia nazionale” a rifugiarsi, senza un moti­vo apparente, all’estero è Maurizio Giorgi.

Se i fratelli Bruno e Serafino Di Luia, in quegli anni, erano noti per l’attivismo in piazza, se Stefano Delle Chiaie era conosciuto come il capo indiscusso di “Avanguardia nazionale”, Maurizio Giorgi era una figura grigia confusa fra tante altre.

Oggi sappiamo che la notte del 7-8 dicembre 1970 era entrato con Adriano Tilgher, Giulio Crescenzi ed altri di “Avanguardia nazionale”, nel ministero degli Interni per ordine di Junio Valerio Borghese, e che il 30 novembre 1972 fu lui ad accompagnare il capitano del Sid, Antonio Labruna, a Barcellona, in Spagna, per farlo incontrare con il latitante Stefano Delle Chiaie.

I nomi di Tilgher, Crescenzi ed il suo non sono mai comparsi fra gli in­dagati e gli imputati per il tentato golpe del 7-8 dicembre 1970, l’aver accompagnato un capitano dei servizi segreti militari in una località este­ra per incontrare un latitante nella massima segretezza poteva integrare, nell’ipotesi più pessimistica, gli estremi del reato di favoreggiamento per­sonale per il quale avrebbe potuto essere processato a piede libero e avreb­be riportato una condanna minima che non avrebbe espiato perché amnistiabile.

Come già quello dei fratelli Bruno e Serafino Di Luia, anche il nome di Maurizio Giorgi non è mai comparso negli atti del processo di piazza Fonta­na.

Però, nel 1976, per ragioni mai chiarite, due imputati per la strage di Milano del 12 dicembre 1969, Marco Pozzan e Giovanni Ventura, decidono di obbligare il Sid a rivelare il nome del confidente che aveva accompagnato il capitano Antonio Labruna da Stefano Delle Chiaie, il 30 novembre 1972.

Sul conto di Maurizio Giorgi giova ricordare le dichiarazioni rese dallo stesso Labruna alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia P2, il 13 ottobre 1982.

Al presidente della commissione, Tina Anselmi, l’ufficiale dichiara:

“Io e i miei uomini eravamo penetrati in Avanguardia nazionale. Sapevamo che erano protetti dal ministero (degli Interni – Ndr). Poi Maletti ci ordinò di uscire. Collaborai con Maurizio Giorgi (Avanguardia nazionale) e andammo in Spagna per incontrare Delle Chiaie. Sospetto – conclude Labruna – che Giorgi collaborasse con gli affari riservati degli Interni”.

Non è il ritratto lusinghiero di un nazional-rivoluzionario duro e puro, ma non ci sono tracce di reati e neanche implicitamente il sospetto che possa aver ricoperto un qualsiasi ruolo, anche marginale, negli attentati del 12 dicembre 1969.

Giovanni Ventura e Marco Pozzan sono, ovviamente, a conoscenza dell’incon­tro fra il capitano Antonio Labruna e Stefano Delle Chiaie, del 30 novembre 1972.

I due conoscono, almeno in parte, anche il contenuto del loro colloquio per­ché ha riguardato la vicenda di piazza Fontana e il possibile espatrio di Mar­co Pozzan in Spagna, cosa che difatti avverrà a metà gennaio del 1973.

Nell’economia di questo discorso non si riesce a comprendere quale impor­tanza possa rivestire per Giovanni Ventura e Marco Pozzan il disvelamento da parte del Sid del nome di Maurizio Giorgi, ufficialmente solo accompagna­tore a Barcellona del capitano Antonio Labruna.

Ma, i due imputati di strage parlano a ragion veduta tanto che nel luglio del 1976, a scopo precauzionale, Maurizio Giorgi espatria per la prima volta rifugiandosi in Spagna, a Madrid, nell’appartamento che ospita già i latitan­ti di “Avanguardia nazionale”, per poi fare rientro a Roma quando la minaccia sembra rientrare.

Non è così: con una costanza ed una tenacia degne di migliore causa Marco Pozzan e Giovanni Ventura insistono perché il servizio segreto militare ri­veli il nome dell’accompagnatore di Labruna a Barcellona, il 30 novembre 1972, da Delle Chiaie; ed ottengono che di tale richiesta si faccia porta­trice la Corte di assise di Catanzaro dov’è in corso il processo per l’ecci­dio del 12 dicembre 1969.

Il Sid resiste fino a quando può, poi cede, non senza aver informato pre­ventivamente il proprio ambiguo confidente che il suo nome dovrà essere fatto in Corte di assise.

Maurizio Giorgi, questa volta, parte definitivamente dall’Italia, dopo aver attraversato clandestinamente la frontiera,e si sposta a Santiago del Cile, a fine giugno del 1977, dove l’attende Stefano Delle Chiaie.

Il 19 luglio 1977, due settimane dopo la partenza di Giorgi dall’Italia, il capitano Antonio Labruna rivela, nel corso della sua deposizione in Corte di assise a Catanzaro, il nome del confidente ed accompagnatore in Spagna, il 30 novembre 1972.

Non accade nulla.

Maurizio Giorgi non può essere ascoltato, in veste di testimone, perché è ormai ufficialmente irreperibile.

Ma, forse, non viene nemmeno cercato per la semplice ragione che nessuno, a quel punto, insiste sul suo nome, nessuno invoca la sua testimonianza e, tantomeno la sua incriminazione per qualche reato.

Maurizio Giorgi farà rientro in Italia quasi cinque anni più tardi, e verrà arrestato nella primavera del 1982 nell’ambito dell’inchiesta che coinvolge i militanti di “Avanguardia nazionale”, senza che mai il suo nome e la sua persona siano in qualche modo collegate agli eventi del 1969 e alla stra­ge di piazza Fontana.

È doveroso chiedersi, di conseguenza, per quali recondite ragioni Marco Pozzan e Giovanni Ventura abbiano con tanta insistenza obbligato il Sid a fare il suo nome e, soprattutto, perché questo oscuro personaggio abbia sentito il bisogno, in accordo con Stefano Delle Chiaie, di fuggire in Sud America e di restarci per diversi anni, senza che a suo carico fosse stato formulato un atto di accusa, avanzato un sospetto, richiesta una sua testi­monianza.

Quattro storie identiche per quattro militanti “nazional-rivoluzionari” che denunciano il loro coinvolgimento nell’operazione del 1969, se non di­rettamente negli attentati stragisti del 12 dicembre, a Milano e a Roma, che vanno inserite fra le domande ancora senza risposta relative a quel periodo e a quegli eventi.

Il 28 aprile 2005, in una dichiarazione all’agenzia Ansa, pubblicata sot­to il titolo “Calvi: Andreotti sbaglia a pensare male”, il senatore dei De­mocratici di sinistra, Guido Calvi, in merito ai depistaggi sulla strage di piazza Fontana, afferma:

“Concentrammo la nostra attenzione esclusivamente sulle responsabilità del Sid. Con il senno di poi, credo che avremmo dovuto prestare maggiore at­tenzione alle responsabilità e alle condotte depistanti dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’interno e sul dottor Umberto Federico D’Amato”;

Non condividiamo, pur riconoscendo intellettualmente onesta la dichiarazio­ne del senatore Guido Calvi, la tendenza a concentrare le responsabilità dell’operato del servizio segreto civile, come di quello militare, in una sola persona, in questo caso su Umberto Federico D’Amato.

Il questore Umberto Federico D’Amato è stato certamente uno dei maggiori protagonisti della guerra politica in Italia, uno dei promotori, come abbia­mo visto, delle operazioni “sporche” che hanno visto in azione la manovalan­za dell’estrema destra italiana, dall’affissione dei “manifesti cinesi” alla infiltrazione di Mario Merlino fra gli anarchici, ma non era in grado di fa­re tutto da solo e, tantomeno, all’insaputa di colleghi e superiori.

In un mondo senza pace, in permanente stato di guerra sia pure “non orto­dossa”, la stampa è lo strumento di battaglia più adeguato per condizionare l’opinione pubblica, per informarla di ciò che fa comodo, per disinformarla su ciò che al potere non conviene far sapere in modo corretto.

In Italia, il compito della propaganda e della contropropaganda, per sco­pi difensivi ed offensivi, è affidato al ministero degli Interni che può assolverlo non solo facendo circolare “veline”nelle redazioni giornalistiche ma contando su giornalisti al suo servizio ricambiati con agevolazioni di carriera e, spesso, con versamenti finanziari.

Non è difficile al ministero degli Interni ed al servizio segreto civile far pubblicare sulla stampa notizie atte a favorire il raggiungimento di scopi segreti nell’ambito delle operazioni che conduce.

Una di queste, a prescindere della buona fede del giornalista che l’ha pubblicata, la troviamo sul settimanale “L’Espresso” del 20 aprile 1969, dove, all’interno di un articolo a firma di Giuseppe Catalano, si cita il circolo “XXII marzo” dell “‘ex ordinovista ed ex fascista” Mario Merlino addirittura come “il più noto dei gruppi anarchici giovanili”.

Dopo aver ricordato il congresso anarchico svoltosi a Carrara dal 31 ago­sto al 3 settembre 1968, Catalano aggiunge:

“Poi, in un altro congresso tenutosi a Milano il 13 aprile Valpreda ade­rì anche lui al ’22 marzo’…”.

È, questa, la classica “notizia del diavolo”, come si definisce nell’am­biente giornalistico, perché, difatti, sappiamo che Mario Merlino aveva fon­dato il circolo “XXII marzo”, senza qualificarlo come anarchico, alla fine di maggio del 1968, con i militanti di “Avanguardia nazionale” che abbiamo citato nelle pagine precedenti, che il circolo “anarchico” “22 marzo” sarà costituito nel mese di ottobre del 1969 e sarà necessaria un’altra operazio­ne di “intossicazione” giornalistica per accreditarlo in questa veste, come vedremo, e che, infine, Pietro Valpreda per usare le parole degli autori del volume “La strage di Stato” all’epoca non era “nessuno”, quindi l’inserimen­to del suo nome, accanto a quello di Mario Merlino, è un tentativo di accre­ditamento pubblico per entrambi i protagonisti del futuro circolo “22 marzo” e della tragica vicenda del 12 dicembre 1969.

L’operazione, compiuta attraverso il settimanale “L’Espresso” e l’incon­sapevole Giuseppe Catalano, non coglie il suo obiettivo, tanto che l’operazione deve essere ribadita, questa volta utilizzando il settimanale “Ciao 2001” e con giornalisti che sanno bene quello che fanno.

Il circolo “22 marzo”, a Roma, viene ufficialmente aperto il 17 ottobre 1969, quando Emilio Bagnoli ritira le chiavi della cantina di via Governo Vecchio dove è stabilita la sede del gruppo.

Quanti, fra amici e nemici, a Roma, possono credere alla conversione al­l’anarchia di Mario Merlino, pochi, forse nessuno. Così, parte un’operazione di intelligente ed accorta disinformazione che inizia con un attacco.

Il 22 ottobre 1969, il giornalista Tonino Scaroni, capo dell’ufficio stam­pa del cabaret di destra “Il Giardino dei supplizi” e caporedattore per gli spettacoli del quotidiano democristiano “Il Tempo”, dove lavora il capo di “Ordine nuovo” Pino Rauti, pubblica sulla rivista “Ciao 2001” un articolo, intitolato “Le guardie bianche di Hitler”, dedicato ai gruppi dell’estrema destra romana, fra i quali colloca “il gruppo anarcoide guidato da Mario Merlino, i cui adepti debbono farsi crescere la barba e farla poi spiove­re sulle camicie nere”.

Un duro colpo al tentativo di presentarsi come anarchici di Mario Merlino e compagni almeno in apparenza, perché il 19 novembre 1969 “Ciao 2001” pub­blica un secondo articolo dal titolo “A come anarchia”, che contiene un’in­tervista a Mario Merlino e si conclude con il riconoscimento per lui e per gli aderenti al circolo “22 marzo” di essere autentici anarchici.

Articolo, intervista e conclusioni, ovviamente, erano preventivamente con­cordate fra 1′”anarchico” Mario Merlino e i giornalisti di destra di “Ciao 2001”.

Abbiamo segnalato in precedenza l’azione depistante degli uffici politici delle Questura di Padova e di Milano per impedire che si potesse giungere al­l’identificazione degli acquirenti delle borse utilizzate per gli attentati del 12 dicembre 1969 e, da costoro, a quella degli autori materiali e degli organizzatori.

Ma c’è di peggio.

Difatti, nel corso delle indagini sulla strage di piazza Fontana condotte dal giudice istruttore di Milano, Guido Salvini, due “collaboratori di giu­stizia, entrambi appartenenti al gruppo veneto di “Ordine nuovo”, Martino Siciliano e Carlo Digilio, quest’ultimo fiduciario della Cia a Venezia con il criptonimo di “Erodoto”, indicano come autore materiale della strage di piazza Fontana, a Milano, il 12 dicembre 1969, tale Delfo Zorzi.

Zorzi – premettiamolo subito –  è stato assolto dall’accusa con formula dubitativa e con sentenza passata ormai in giudicato, come già prima di lui Franco Freda e Giovanni Ventura.

Però rimane una figura interessante perché i suoi rapporti con il ministe­ro degli Interni sono emersi già nel corso del processo per l’attentato di Peteano di Sagrado del 31 maggio 1972, svoltosi a Venezia dal 23 marzo al 25 luglio 1987.

Il nome di Zorzi è risultato, in modo documentato, collegato a quello del prefetto Antonio Sampaoli Pignocchi, all’epoca capo dell’ufficio stampa del ministero degli Interni, e a quello di Elvio Catenacci, già questore di Ve­nezia, poi direttore della divisione Affari riservati del ministero degli Interni, infine vice capo della polizia, da taluno indicato come amico per­sonale del padre dello stesso Delfo Zorzi.

Il nome di Delfo Zorzi era tutt’altro che sconosciuto anche al prefetto Umberto Federico D’Amato che, nel corso della sua deposizione dinanzi al­la Corte di assise di Venezia, nell’aprile del 1987, si ricorderà perfettamente di lui per averlo incontrato, a suo dire, nel 1971, nell’ufficio del suo collega Antonio Sampaoli Pignocchi che non si occupava solo di “veli­ne” da mandare ai giornali ma era abilitato a trattare “fonti informative”, in altre parole era organico al servizio segreto civile.

Fra le sue qualità, il prefetto D’Amato avrà potuto annoverare una memo­ria di ferro, ma nemmeno lui avrebbe potuto ragionevolmente indurre qualcu­no a credere che, a distanza di ben sedici anni, serbava memoria di uno studente universitario (questo era Zorzi nel 1971) incontrato qualche vol­ta nell’ufficio di Sampaoli Pignocchi.

Non si può concludere questa breve analisi del ruolo del ministero degli Interni nelle vicende del 1969 e, in maniera specifica, degli attentati stra­gisti a Roma e a Milano del 12 dicembre 1969, senza ricordare che Pietro Valpreda è stato assolto anche grazie al contributo fornitogli, nel corso del processo di Catanzaro, da un ex brigadiere di Ps, già in forza all’ufficio politico della Questura di Milano, Vito Panessa.

Costui era stato, insieme ad un collega e ad un carabiniere, il protagoni­sta del “fermo” di Pietro Valpreda, a Milano, alle 11.30 del 15 dicembre 1969. 

Panessa, a posteriori, affermerà di aver redatto un appunto informale ri­portando la dichiarazione di Pietro Valpreda di essere stato malato tre giorni.

L’appunto non verrà mai consegnato alla magistratura, per ragioni che sfuggo­no alla comprensione, alla logica umana e anche a quella riferita ai doveri d’ufficio del brigadiere Vito Panessa, dei suoi colleghi e dei suoi superio­ri .

Comunque, due giorni prima dell’interrogatorio di Pietro Valpreda dinanzi alla Corte di assise di Catanzaro, il brigadiere Vito Panessa si ricorda del­l’appunto informale da lui redatto quel mattino del 15 dicembre e lo fa per­venire alla Corte d’assise che ne tiene debito conto perché conferma le di­chiarazioni difensive di Pietro Valpreda.

La leggenda di piazza Fontana, vuole che la polizia abbia incastrato Pie­tro Valpreda, innocente anarchico, ma dimentica opportunamente che è stata sempre la polizia a determinarne l’assoluzione per insufficienza di prove.

Questo, in breve sintesi, il ruolo ricoperto dal ministero degli Interni sia nella fase preparatoria degli attentati del 12 dicembre 1969, sia in quella successiva dei depistaggi per evitare l’identificazione e la condan­na degli organizzatori e degli esecutori materiali.

Sul conto del servizio segreto militare, a differenza di quello civile, molto è stato detto ma, come al solito, restringendo il suo ruolo alle per­sone di Guido Giannettini, agente “Zeta” del Sid, del generale Gianadelio Maletti, capo dell’ufficio “D” del Sid, e del suo collaboratore, capitano Antonio Labruna.

Il servizio segreto militare sa tutto perché partecipa, alla pari di quel­lo civile, all’operazione che dovrà concludersi il 14 dicembre 1969.

Guido Giannettini collabora, in ragione del suo ruolo di agente del Sid, all’opera di infiltrazione fra i marxisti leninisti condotta, a Padova, da Franco Freda e Giovanni Ventura, non per scelta personale. E di quanto fa ri­ferisce ai suoi superiori gerarchici.

La nota del 16 dicembre 1969 è redatta da persone che hanno un patrimonio conoscitivo ben superiore a quello del confidente Stefano Serpieri. I nomi di Yves Guerin Serac, Stefano Delle Chiaie e Robert Leroy non sono inseri­ti in modo superficiale o per leggerezza, hanno il sapore di una chiamata in correità nei confronti dei servizi segreti esteri per i quali i due fran­cesi lavorano e per il servizio segreto civile con il quale collabora Stefa­no Delle Chiaie.

Sul conto di Robert Leroy, il giudice istruttore milanese, Guido Salvini, nella sua ordinanza del 3 febbraio 1998, potrà scrivere:

“La prova che Robert Leroy, alla fine degli anni Sessanta, si sia infiltra­to nei gruppi filocinesi italiani è densa di significato. Testimonia infatti che gli uomini dell’Aginter press agivano direttamente nel nostro paese, uno dei paesi più a rischio nel conflitto non dichiarato fra l’occidente e il mondo comunista, e che anche in Italia doveva essere sperimentato quel tipo di protocollo di intervento che prevedeva, prima di ogni altra cosa e prima della difesa preventiva mediante il terrore, creare le condizioni affinché la responsabilità fosse attribuita alle forze ‘sovversive’.

Esattamente la stessa strategia preparatoria che…sarebbe stata utilizza­ta da Mario Merlino a Roma e da Giovanni Ventura a Padova, rispettivamente negli ambienti anarchici e filocinesi, per costruire un paravento di sini­stra a quanto si stava progettando”.

Esattamente, aggiungiamo noi, la stessa strategia che, già nel mese di apri­le del 1966, il Sifar imponeva agli uomini della struttura clandestina “Gla­dio” e che il servizio segreto civile aveva cominciato a rendere operativa con l’affissione dei “manifesti cinesi” a cura dei militanti di “Avanguar­dia nazionale” nel gennaio dello stesso anno.

Gli autori della nota del 16 dicembre 1969 sapevano, pertanto, perfetta­mente quello che stavano scrivendo sul conto di personaggi la cui attività conoscevano in maniera molto approfondita.

Per quella nota che può essere considerato il primo, raffinato, depistaggio posto in essere dal Sid non sarà chiamato a rispondere nessuno degli uf­ficiali superiori del servizio, tantomeno il suo direttore, ammiraglio Euge­nio Henke.

A chiamare in causa quest’ultimo, sarà in modo aperto il solo giornalista Mino Pecorelli che su “O.P.”, il 19 settembre 1974, scrive:

“Come tutti gli agenti che si rispettano anche Henke canta democratico ed opera totalitario. È nei fatti del 1969 che la leggerezza del passato si tra­sforma in colpa e responsabilità gravissima…Mentre tutti i protagonisti u­sciranno dalla vicenda Giannettini quanto meno con la bocca amara, l’unico ad averne tratto un vantaggio abnorme è stato proprio l’ammiraglio delle acque interne, l’amico esclusivo di se stesso, lo scopritore di talenti dei giornalisti da Giannettini a Simeoni, il cui caso è tutto da chiarire nelle sedi più opportune”.

Si è detto e scritto che gli attentatori non volevano compiere una stra­ge, che non sapevano che la Banca dell’Agricoltura di Milano restava aperta al pubblico anche nel pomeriggio di venerdì, che l’attentato doveva essere solo dimostrativo, come tanti altri, ma la testimonianza della figlia del­l’avvocato Matteo Fusco di Ravello, agente della struttura segreta denomi­nata “Anello”, li smentisce, confermando che i nostri (e si fa fatica a scrivere nostri) servizi di sicurezza sapevano quello che stava accadendo.

L’avvocato Fusco di Ravello, difatti, si trovava all’aeroporto di Fiumici­no per recarsi in aereo a Milano ed impartire l’ordine di annullare gli at­tentati, quando apprende che si sono già verificati.

Telefonerà alla figlia, Anna Maria, dicendole che si sarebbe tenuto questo “gravissimo cruccio per tutta la vita”.

Ancora oggi c’è chi contesta che la strage di piazza Fontana possa essere definita di “Stato”.

Ma non esiste Paese al mondo in cui imputati di strage chiedano ed ot­tengano dai servizi segreti militari un intervento a loro favore.

Invece, il 9 gennaio 1973, tramite Guido Giannettini, Giovanni Ventura chiede l’intervento chiarificatore del Sid.

Il servizio segreto militare, ovviamente, non può “chiarire” un bel nien­te ma si attiva per sottrarre gli imputati alla magistratura.

Il 15 gennaio 1973, il maresciallo Esposito del Sid accompagna Marco Pozzan a Madrid, in Spagna.

Contestualmente, uomini del Sid forniscono a Giovanni Ventura una bomboletta di gas soporifero la chiave del portone del carcere di Monza dove si trova rinchiuso in modo che possa evadere.

Alcuni mesi dopo, verrà programmata anche l’evasione di Franco Freda, per­ché gli stragisti padovani non accettano di essere i capri espiatori, dopo tutto quello che hanno fatto per lo Stato.

I due ufficiali che si attivano per aiutare Giovanni Ventura e colleghi, non erano nel Servizio segreto militare nel 1969, non hanno pertanto alcuna responsabilità diretta od indiretta in quegli eventi né sono ricattabili da­gli imputati di strage.

Gianadelio Maletti e Antonio Labruna intervengono perché devono fare gli interessi dell’apparato nel quale lavorano il quale, a sua volta, ha il do­vere istituzionale di proteggere le autorità politiche e militari dalle qua­li dipende.

Prova ne sia che il capitano Antonio Labruna, nonostante la condanna defi­nitiva per favoreggiamento personale nei confronti di Marco Pozzan, finirà la sua carriera nel servizio segreto militare dal quale nessuno, ministro della Difesa, capo di Stato maggiore della Difesa o presidente del Consi­glio dei ministri riterrà necessario allontanarlo.

Un modo implicito ma chiarissimo per dire che, per i vertici politici e militari, il capitano Antonio Labruna non ha commesso alcun illecito pena­le perché ha agito nell’interesse dello Stato e del regime.

Si è fatta e si continua a fare, specie oggi che si vuole portare agli altari del regime democratico il defunto segretario nazionale del Msi-Dn Giorgio Almirante, come il fondatore della “destra moderna”, la differen­za fra destra parlamentare ed extra-parlamentare per ribadire che il parti­to di Arturo Michelini e Giorgio Almirante è stata cosa ben diversa da “Avanguardia nazionale”, da “Ordine nuovo”, dallo stesso “Fronte nazionale” che pure era diretto dall’iscritto al Msi, Junio Valerio Borghese.

La realtà storica, ovviamente, si colloca all’esatto opposto di questa ricostruzione appartenente a storici che, nei casi migliori, di storia sanno poco e di quelli che invece appartengono alla categoria dei “quanto mi paghi”.

Uomini del Movimento sociale italiano li troviamo coinvolti in tutti gli episodi più oscuri della storia italiana dagli anni Sessanta fino ai primi anni Ottanta.

Sono presenti, accanto a Mario Tedeschi, nell’operazione “manifesti cinesi” del gennaio 1966; ancora prima sono missini che agiscono per conto del Sifar in Austria compiendo attentati; Pino Rauti, capo dell’organizzazione che sa­rà chiamata in causa per buona parte delle stragi italiane è stato sempre un uomo del Msi nel quale, dopo alcuni anni di ufficiale e strumentale separa­zione, è rientrato il 16 novembre 1969 per divenirne parlamentare, prima, e se­gretario nazionale, dopo; senatore del Msi-Dn è stato anche Mario Tedeschi che qui, per la prima volta, sulla base delle dichiarazioni di Serafino Di Luia, indichiamo come la “cinghia di trasmissione” fra Avanguardia nazionale ed il ministero degli Interni; parlamentare missino è stato Sandro Saccucci, impli­cato nel tentato golpe del 7-8 dicembre 1970 e collaboratore del servizio se­greto militare; missino era Augusto Cauchi, confidente del Sid e “bombarolo” che faceva capo, anche durante la latitanza, al federale missino di Arezzo; missini erano i componenti delle “Squadre d’azione Mussolini”(Sam), indicati nominativamente in una nota del Sid del 9 agosto 1969, tutti inseriti nella “Giovane Italia” con sede in Corso Monforte n°13; missini erano i Valerio Fioravanti, le Francesca Mambro e tutta la banda dei cosiddetti “Nar” dei primi anni Ottanta; missini, infine, ben tre capi del servizio segreto mili­tare: Giovanni De Lorenzo, Vito Miceli e Luigi Ramponi.

Sono i vertici nazionali del Msi, guidati in entrambi i casi da Giorgio Al­mirante ad organizzare le manifestazioni nazionali del 14 dicembre 1969, a Ro­ma, e del 12 aprile 1973, a Milano, che nei loro progetti devono rappresentare la “bomba”innescata dalle stragi che le precedono, in funzione di detonatore, per fare intervenire le Forze armate, ovvero per giungere al tanto agognato “stato di emergenza” dal quale una forza d’ordine anticomunista come il Msi ha tutto da guadagnare e niente da perdere.

La strage o le stragi, sia pure indiscriminate, non bastano per far procla­mare lo “stato di emergenza”, come avrà modo di accorgersi il presidente del­la Repubblica Giuseppe Saragat il 12 dicembre 1969.

Per ottenere l’effetto voluto serve che il sangue scorra nelle strade, co­me nel mese di luglio del 1948 dopo l’attentato al segretario nazionale del Pci, Palmiro Togliatti, e nello stesso mese del 1960 a seguito della prete­sa del Msi di svolgere il suo congresso nazionale a Genova, città partigiana, perché il disordine raggiunga il suo culmine, si estenda a macchia d’o­lio in tutto il Paese e giustifichi l’intervento repressivo delle Forze ar­mate chiamate a ristabilire quell’ordine pubblico che le forze di polizia, da sole, non sono più in grado di controllare.

Il piano non è nuovo.

Lo ritroviamo in una nota informativa americana del 25 giugno 1964 inviata al comandante delle truppe americane in Europa:

“Abbiamo avuto informazione – è scritto – da fonte molto attendibile, il cui nome non viene fornito in ragione dell’esplosiva natura dell’informazio­ne, che nel prossimo futuro è possibile che in Italia avvenga un colpo di Sta­to. Economisti e uomini di destra, cioè liberali, monarchici e membri del Mo­vimento sociale italiano, stanno preparando un piano per l’attuazione nei prossimi mesi di una manifestazione nazionale. Lo scopo è quello di portare a Roma forti gruppi di reduci, invalidi ed ex prigionieri di guerra, col pretesto di risvegliare sentimenti patriottici nel popolo italiano, creare un’atmosfera favorevole all’inversione dell’attuale tendenza politica in Italia ed installare un nuovo ordine politico fondato sui tradizionali valori morali e politici della Nazione…Se la manifesta­zione dovesse provocare una contromanifestazione di estrema sinistra, i cara­binieri sarebbero immediatamente chiamati ad intervenire con l’appoggio delle Forze armate. Le Forze armate si preoccuperebbero poi di mantenere l’ordine e la legge in Italia”.

I riscontri, sia pure indiretti, non mancano.

Il generale Giovanni De Lorenzo, all’epoca comandante generale dell’Arma dei carabinieri, rientrato a casa dopo una riunione con i vertici della Democra­zia cristiana, tenutasi nell’abitazione del senatore Tommaso Morlino, dirà alla moglie:

“Vogliono fare di me un nuovo Bava Beccaris, ma non ci riusciranno”.

Se ricordiamo che il generale Bava Beccaris aprì il fuoco con l’artiglieria contro i cittadini milanesi in rivolta, ben si comprende la ritrosia del ge­nerale Giovanni De Lorenzo a passare alla storia come massacratore di inermi cittadini per conto di Aldo Moro, Mariano Rumor e cristianissimi colleghi di partito.

Il secondo proviene dall’interno stesso della direzione nazionale del Msi, da Giulio Caradonna, per anni ai vertici del partito nonché confidente della divisione Affari riservati con il criptonimo di “Stanislao”.

L’11 marzo 2008, il quotidiano “Libero”, nell’articolo intitolato “Il ’68 nero: Almirante guidò gli scontri all’Università”, riporta una dichiarazione di Giulio Caradonna che conferma le intenzioni e le responsabilità del parti­to nel quale ha militato e dei suoi dirigenti:

“Forse la verità è che si voleva portare alle estreme conseguenze lo scon­tro tra i ragazzi per poi far arrivare l’esercito”.

Se il piano descritto nella nota informativa del 25 giugno 1964 si basava su una manifestazione nazionale, contestata dai militanti comunisti, quello del dicembre del 1969 lo reiterava alla lettera con una sola variabile: una o più stragi “rosse” (la distinzione fra anarchici, “cinesi”, marxisti-leni­nisti, comunisti ortodossi non esisteva per l’opinione pubblica) contro obiettivi borghesi e l’oltraggio al simbolo stesso dell’unità nazionale e del sacrificio dei suoi combattenti, il monumento al Milite ignoto, ovvero all’Al­tare della patria, che avrebbero infiammato la piazza di destra e ne avrebbero giustificato l’aggressività se l’adunata nazionale fosse stata contestata dai sovversivi “rossi”.

La strage di piazza Fontana a Milano, con 16 morti e 90 feriti, e quella mancata alla Banca nazionale del lavoro, dove comunque 14 feriti ci sono stati, precedono di due giorni l’adunata nazionale indetta dal Msi contro la quale il Partito comunista, secondo le successive dichiarazioni di Enrico Berlinguer pubblicata da “Panorama” il 25 dicembre 1969, aveva già predispo­sto un “cordone sanitario”: esattamente quello che speravano e volevano gli organizzatori della manifestazione e i fautori della proclamazione dello “stato di emergenza”.

Non è un’ipotesi.

Il 7 aprile 1973, un militante del Movimento sociale italiano di Milano, Nico Azzi, dopo aver passeggiato per i corridoi del direttissimo “Torino-Roma” leggendo in modo ostentato il quotidiano “Lotta continua”, si reca in una toilette del convoglio ferroviario per innescare un ordigno destinato a fare una strage.

Per fortuna degli ignari ed innocenti passeggeri, Azzi si fa esplodere il detonatore nella mani ed è l’unico a restare ferito.

La ragione della strage, fallita per l’imperizia dell’attentatore, va ri­cercata nella manifestazione nazionale che i vertici del Msi hanno indetto a Milano per il 12 aprile 1973.

Organizzatore della strage fallita, risulterà essere per chiamata di cor­reità diretta dello stesso Nico Azzi, Giancarlo Rognoni, militante del Msi, impiegato alla Banca commerciale di Milano il 12 dicembre 1969, legato al gruppo veneto di “Ordine nuovo”, infine imputato – poi assolto – per con­corso nella strage di piazza Fontana.

Milano non era una “piazza” di destra, al contrario ribolliva di militan­ti di sinistra di tutte le tendenze e formazioni pronti a mobilitarsi per impedire ai “fascisti” di parlare e sfilare in corteo.

Una “piazza” ideale per chi cercava i morti in numero sufficiente per in­vocare il ripristino dell’ordine specie se gli animi fossero stati infiamma­ti da una strage “rossa”, questa volta non più anarchica ma di “Lotta conti­nua” .

Come si sono presentati gli attivisti missini in piazza, quel 12 aprile 1973 (perché erano tutti missini, non extraparlamentari) è storia anche giu­diziaria visto che una bomba a mano scagliata da loro ha ucciso un agente di polizia e che il tentativo di attribuirla ad “infiltrati” del Pci, come scri­verà il quotidiano del partito “Il Secolo d’Italia” il giorno successivo, 13 aprile, era fallito sul nascere per la delazione di uno o più missini che avevano fornito ai funzionari dell’ufficio politico della Questura, in tempo reale, i nomi dei due missini lanciatori delle bombe a mano.

La logica è la stessa, identica, del piano predisposto nel dicembre 1969: prima la strage “rossa”, poi la manifestazione patriottica di una piazza che invocava il ritorno dell’ordine di uno Stato forte contro la “sovversione rossa”.

Il Movimento sociale italiano nasce, il 26 dicembre 1946, come forza poli­tica esclusivamente anticomunista, destinata ad essere la punta di lancia di uno schieramento molto più vasto che va dai socialdemocratici ai monar­chici per contrastare anche fisicamente i comunisti.

Nel 1969, ai militanti del Movimento sociale italiani si sommano quelli che fanno parte di altre organizzazioni, ufficialmente distinte dal parti­to-padre, come “Avanguardia nazionale”, “Ordine nuovo”, “Europa Civiltà”, il “Fronte nazionale”.

Sia il Movimento sociale italiano sia queste organizzazioni sono collega­te ai vertici con i servizi di sicurezza militari e civili, che possono co­sì disporre a loro piacimento di una manovalanza che può essere usata per destabilizzare l’ordine pubblico senza compromettere i partiti di governo verso i quali questa massa di manovra ostenta avversione ed ostilità ideolo­giche, perché si presentano come “fascisti” che agiscono all’interno di un sistema antifascista, e politiche, perché accusano la Democrazia cristiana ed i partiti collegati di cedimento di fronte al comunismo.

Giorgio Almirante, nel periodo della Repubblica sociale italiana, ha con­dotto un doppio gioco che gli ha garantito un’assoluta impunità al termine del conflitto.

Junio Valerio Borghese, com’è noto, ha mantenuto rapporti di collaborazio­ne con il servizio segreto della regia Marina durante la guerra civile e, dal mese di maggio del 1945, ha collaborato con i servizi segreti americani ed i­taliani.

Sul conto di Pino Rauti la conferma definitiva dall’intervista del gene­rale Gianadelio Maletti, trasmessa da Giovanni Minoli nel corso della pun­tata de “La storia siamo noi” del 7 dicembre 2009, che ha affermato come Or­dine nuovo abbia mantenuto un rapporto stabile con il Sid fino al 1974.

Per quanto riguarda Stefano Delle Chiaie, dopo anni di smentite, silenzi, reticenze, sottufficiali di Ps già in servizio presso l’ufficio politico della Questura di Roma hanno esplicitamente dichiarato che era un informa­tore.

Ancora più devastante per l’immagine del capo di “Avanguardia nazionale”, la testimonianza resa, il 15 maggio 1997, al giudice istruttore veneziano Carlo Mastelloni dall’ispettore generale di Ps, in congedo, già in forza alla divisione Affari riservati del ministero degli Interni, il quale ha dichiarato :

“Ricordo Delle Chiaie il quale veniva sempre da D’Amato sia quando questi aveva l’incarico di vice-direttore che anche nei tempi successivi. Si tratteneva nell’ufficio di D’Amato e qualche volta ho assistito anch’io ai collo­qui” .

Testimonianza autorevole sul rapporto personale e diretto che è esistito fra Stefano Delle Chiaie ed Umberto Federico D’Amato, non viziata da ranco­ri personali e da secondi fini, perché nulla di personale poteva avere 1’ispettore generale di Ps, Guglielmo Carlucci, nei confronti del capo di Avanguardia nazionale.

Nel raffinato “gioco degli specchi” l’immagine riflessa di questi uomini, dei loro collaboratori e delle loro organizzazioni ci appare come quella di forze politiche ed ideologiche neofasciste, avverse ad un regime politi­co imposto dai vincitori della Seconda guerra mondiale, ma quella reale ci propone quella di uomini e gruppi ben decisi a riguadagnarsi uno spazio po­litico svolgendo per lo Stato ed il regime politico anticomunista servigi di ogni genere, anche i più degradanti.

E non è chiaro quale significato attribuire al fatto che contestualmente alla scarcerazione di Pietro Valpreda e Mario Merlino, il 29 dicembre 1972, giunga al commissario capo di Ps, Antonino Allegra, capo dell’ufficio poli­tico della Questura di Milano, la promozione a vice-questore.

Ad “incastrare” Pietro Valpreda, la sera del 15 dicembre 1969, mostrando la sua foto al taxista Cornelio Rolandi era stato il questore di Milano, Marcello Guida, non il capo dell’ufficio politico.

Quella promozione giunta lo stesso giorno della scarcerazione di Pietro Valpreda e Mario Merlino, rappresenta la gratifica consolatoria per un fun­zionario di Ps che credeva nella colpevolezza dei due imputati o, di conver­so, il riconoscimento di meriti rimasti sconosciuti per averli favoriti?

Forse, non lo sapremo mai ma l’interrogativo va posto perché coincidenze in un mondo come quello degli apparati segreti dello Stato impegnati in una guerra “sporca” non ce ne sono, tanto più che da tre mesi Allegra era sotto inchiesta per concorso nella “copertura” dei componenti della “cellula nera” di Padova insieme al commissario di Ps, Bonaventura Provenza,capo dell’uffi­cio politico della Questura di Roma e al vice-capo della polizia, Elvio Ca­tenacci .

Comportamenti che non erano passati inosservati, tanto da sollevare l’indi­gnazione del democristiano Carlo Fracanzani che sull’operato di Antonino Al­legra e dei suoi colleghi, il 25 settembre 1972, aveva presentato un’interro­gazione parlamentare.

Il 1969 è iniziato con i gravissimi incidenti dinanzi al locale “La Busso­la” di Viareggio, nel corso dei quali rimane gravemente ferito Soriano Ceccan­ti, destinato poi a restare paralizzato.

Non si è mai appurato chi abbia sparato rovinando per sempre la vita del giovanissimo Soriano Ceccanti, ma una nota informativa di Armando Mortilla, indirizzata alla divisione Affari riservati del ministero degli Interni, l’11 gennaio 1969, afferma testualmente:

“Da parte sua Ordine nuovo sta intensificando il lavoro organizzativo in alcune zone ‘calde’ della penisola utilizzando a questo fine simpatizzanti e iscritti che compiono il servizio di leva. Si è appreso che il primo esperimento di questa attività è avvenuto in Ver­silia, esattamente in occasione degli incidenti alla Bussola”.

Non serve commentare ancora.

Ci limitiamo a constatare che la carriera politica del “nazista” Pino Rauti, già segretario nazionale del Msi-Dn e suocero dell’attuale sindaco di Roma, l’antifascista Gianni Alemanno, è costellata di”meriti” del genere ora evi­denziato e che sarebbe il caso di renderli pubblici.

Il 27 febbraio 1969, giunge in visita ufficiale a Roma il presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon.

Il quotidiano missino, “Il Secolo d’Italia”, lo saluta pubblicando nell’ul­tima pagina, a caratteri cubitali, in italiano ed in inglese, la scritta:

“Attenzione Nixon! L’Italia si prepara a tradire gli impegni atlantici e a portare i comunisti al potere”.

Il giorno successivo, 28 febbraio, “Il Secolo d’Italia”, nell’articolo in­titolato “I giovani del MSI impegnati in duri scontri con i comunisti”, ri­vendica per il partito il merito di aver impegnato i giovani militanti missi­ni in scontri fisici con quanti contestavano la visita del presidente ameri­cano in Italia.

Il mondo anticomunista, di cui il Msi e i gruppi collegati sono parte inte­grante, attende proprio dalla venuta di Richard Nixon un segnale che indichi, in maniera esplicita, la volontà della potenza egemone di risolvere il caso italiano con la liquidazione politica del Partito comunista e dei gruppi di sinistra.

Alla testa di questo mondo composito ed eterogeneo politicamente ed ideolo­gicamente, unito solo dall’odio nei confronti del comunismo, si trova il pre­sidente della Repubblica, il socialdemocratico Giuseppe Saragat.

Nel corso del colloquio ufficiale con il presidente americano, secondo gli appunti presi dal generale Vernon Walters, Giuseppe Saragat pronuncia una au­tentica filippica contro il Partito comunista italiano:

“Agli occhi degli italiani – dice – il Pci si fa passare per un partito so­cialista attivista e rispettabile ma è dedito agli interessi del Cremlino; il suo capo, Luigi Longo, è a tutti gli effetti un funzionario sovietico. I comunisti hanno condannato l’invasione della Cecoslovacchia e la nostra stam­pa e quella internazionale, vi hanno visto un distacco dall’Urss. È un errore, lo hanno fatto perché gli italiani sono indignati, e per essere liberi di de­nunciare la Nato; la vogliono distruggere, rendere prima l’Italia neutrale e poi allinearla con Mosca”.

Ma, prima di questa conversazione ufficiale, Saragat e Nixon, hanno un bre­ve incontro, senza testimoni.

Alcuni storici hanno voluto negare la circostanza, ma la testimonianza del­l’ambasciatore Egidio Ortona non lascia adito al dubbio che, viceversa, i due presidenti hanno avuto un colloqui privatissimo:

Ortona annota nel suo diario:

“Al Quirinale Nixon e Saragat si ritirano per un incontro a quattr’occhi: de­plorevole dispregio dei diplomatici…”.

Non sapremo mai cosa si siano detti Richard Nixon e Giuseppe Saragat nel loro colloquio a “quattr’occhi”, ma la venuta del presidente americano se­gna l’inizio della campagna di attentati che si concluderà solo il 12 dicem­bre 1969.

Il 28 febbraio, difatti, viene compiuto il primo attentato, a Roma, contro l’ingresso secondario del Senato, in via della Dogana vecchia.

Nel mese di giugno del 1974, alla domanda rivoltagli su chi fossero stati a sua conoscenza gli organizzatori della strage di piazza Fontana, Gaetano Orlando, risponde senza esitare: “I socialisti”.

Stefano Delle Chiaie, presente all’interrogatorio del dirigente del Mar, a Madrid, cambia subito argomento.

Ma, i dirigenti di “Avanguardia nazionale” non possono cancellare il fatto che, nell’ottobre del 1974, accanto a quello del senatore Mario Tedeschi, l’unico nome fatto da Adriano Tilgher e Felice Genoese Zerbi, nella loro conferenza stampa per evitare lo scioglimento dell’organizzazione, è stato quello dell’ex ministro della Difesa, il socialdemocratico Mario Tanassi.

Quali “carte” avessero in mano gli avanguardisti per ricattare Tanassi, manco a dirlo, le hanno tenute ben nascoste anche dopo che sono finiti in carcere per sei mesi e che “Avanguardia nazionale” è stata sciolta, con il parere difforme di Amintore Fanfani.

Rapporti oscuri, intessuti in un contesto che oggi appare storicamente chiaro, fra “neofascisti” e socialdemocratici in un periodo in cui il più accanito sostenitore della necessità di liquidare il Partito comunista ita­liano era il presidente della Repubblica, il socialdemocratico Giuseppe Saragat.

Poche ore sono passate dall’eccidio di piazza Fontana, a Milano, e dagli attentati stragisti di Roma, ed il presidente della Repubblica convoca al Quirinale un vertice al quale prendono parte il ministro degli Interni, Franco Restivo, quello della Difesa, Luigi Gui, il comandante generale del­l’Arma dei carabinieri, Luigi Forlenza, il capo della polizia, Angelo Vica­ri ed altri rappresentanti delle forze di sicurezza.

Giuseppe Saragat propone agli intervenuti la dichiarazione dello stato di “pericolo pubblico”, in base agli articoli 214 e seguenti del Testo unico di pubblica sicurezza.

È questo che i promotori dell’operazione che dal 28 febbraio al 12 dicem­bre 1969 si proponevano di ottenere utilizzando tutti i mezzi per dare a chi ha il potere per farlo la possibilità di un intervento radicale.

L’Italia, però, è una democrazia parlamentare e non presidenziale, in cui il partito di maggioranza relativa al potere dal 1945 non intende farsi sca­valcare dai socialdemocratici, così il democristiano Franco Restivo respinge la richiesta del presidente della Repubblica facendo presente che questa decisione spetta al governo ed al presidente del Consiglio, il democristia­no Mariano Rumor, il cui parere non è stato richiesto e che non è presente alla riunione.

Il giorno successivo, 13 dicembre 1969, il governo imporrà il divieto su tutto il territorio nazionale di manifestare pubblicamente.

È anche questa una misura eccezionale, che preclude però ai “congiurati” la possibilità di portare a compimento il piano mettendo a ferro e a fuoco la Capitale,e  ne determina il fallimento.

Come abbia potuto naufragare un disegno portato innanzi con tenacia, abili­tà tattica, spregiudicatezza portata alle estreme conseguenze come i morti di piazza Fontana possono testimoniare, è un segreto ben custodito nella memoria e nella coscienza di quanti hanno vissuto, al vertice, quei giorni e quegli eventi.

Un’inaspettata retromarcia americana? Un veto del Dipartimento di stato contrapposto a quello della Difesa? A Washington, come a Roma, il segreto è ben tutelato.

La paura dei democristiani di essere scavalcati dal Partito socialdemocra­tico di Giuseppe Saragat e di perdere la leadership politica, sul piano in­terno, ed il prestigio su quello internazionale?

Il timore di non essere sostenuti dagli Stati Uniti, preoccupati di non compromettere il dialogo avviato con l’Unione sovietica?

Un indizio in tal senso, che cioè la decisione di bloccare, in extremis, la macchina del “colpo di Stato” istituzionale sia interna e non estera è dato da quanto scrive Edgar­do Sogno in una lettera inviata al ministero degli Esteri da Rangoon (Birma­nia) dov’era ambasciatore al ministero degli Esteri, il 19 giugno 1967.

“La sicurezza europea – scriveva Sogno – è per ora basata soltanto ed e­sclusivamente sulla credibilità della garanzia americana né si può dimenti­care che l’unico colpo di Stato che ha veramente e seriamente minacciato le istituzioni democratiche in Italia è stato fatto rientrare a metà strada dalla sua esecuzione, già favorevolmente avviata, soltanto perché chi lo dirige­va ritenne (a torto o a ragione, la storia non ha ancora deciso) che gli Stati Uniti non avrebbero accettato una simile alterazione violenta dello status quo nella loro area di influenza”.

Non specifica il futuro “golpista” Edgardo Sogno il periodo temporale così che si può pensare al luglio del 1960 o a quello del 1964; in entrambi i ca­si chi guida e, poi, blocca l’operazione può essere ragionevolmente un uomo solo: Aldo Moro.

Il 12 dicembre 1969, Aldo Moro è all’estero, ma certamente un colloquio telefonico con il suo collega di partito e presidente del Consiglio Mariano Ru­mor lo ha avuto, ma, come al solito, il suo contenuto è rimasto ignoto.

La responsabilità di bloccare la macchina “golpista” ad un passo dalla conclusione della sua marcia vittoriosa, questa volta l’assume, dinanzi al­la storia, Mariano Rumor.

Decisione, la sua, non gradita sul piano interno ed internazionale se do­po quasi due anni di preparazione, viene fatto rientrare in Italia da Israe­le dove si trovava per motivi ignoti e nel quale era entrato con documenti ufficialmente falsi, Gianfranco Bertoli perché lo ammazzi dinanzi alla Que­stura di Milano, il 17 maggio 1973.

I conti con Aldo Moro saranno fatti il 9 maggio 1978, quando sarà ucciso dal brigatista rosso Mario Moretti in ottemperanza di una decisione assunta nel corso di una riunione svoltasi a Firenze, a casa dell’israelita Igor Markevitc.

Quanti conoscono, in Italia, la verità sull’operazione del I969 e la stra­ge di piazza Fontana del 12 dicembre 1969?

La conosce l’ex ministro della Difesa e ex presidente del Consiglio Arnal­do Forlani che, il 5 giugno 1975, sarà informato personalmente dal diretto­re del Sid, ammiraglio Mario Casardi, della crisi di un confidente padovano del servizio, Gianni Casalini, che pare voglia fare rivelazioni su “gr.Padovano+Delle Chiaie+Giannettini”.

La conosce l’ex ministro della Difesa e ex presidente del Consiglio Giulio Andreotti, sul quale pesa il legittimo sospetto di aver indirizzato il suo amico personale, giudice istruttore a Treviso, Giancarlo Stiz, il primo e per diversi mesi, il solo a percorrere la “pista nera” indicata da un democristia­no – Guido Lorenzon – per la strage di Milano.

Del resto, che Giulio Andreotti sia un esperto nell’uso politico delle in­chieste giudiziarie, da lui stesso promosse direttamente o per interposta per­sona, lo provano i processi sul “tentato golpe” del 7-8 dicembre 1970, sul­l’attentato di Peteano di Sagrado del 31 maggio 1972 e, ultimo in ordine di tempo, sulla struttura “Gladio”.

La conosce Mario Moretti al quale l’ha raccontata personalmente Aldo Moro ma che,    invece di farla conoscere al popolo, l’ha usata, insieme ad altro, per avere benefici di legge,  lavoro ben retribuito e pensione assicurata per la sua serena vecchiaia.

La conoscono i protagonisti ancora in vita, i vertici dei servizi di sicu­rezza e dei corpi di polizia, i politici democristiani da Giulio Andreotti ad Arnaldo Forlani: in tanti se il loro numero lo rapportiamo all’ambiente politico, in pochissimi se lo confrontiamo con 60 milioni di italiani che ascoltano i telegiornali e leggono i quotidiani, secondo i quali le stragi italiane, a partire da quella di Milano del 12 dicembre 1969, le hanno fat­te i “fascisti” rimasti impuniti per la protezione avuta dai “servizi segreti deviati”.

Ma è sufficiente vedere l’operato della magistratura italiana, fatti sal­vi casi individuali sporadici ed eccezionali, per comprendere che la via giudiziaria per giungere alla verità non è percorribile in questo nostro Paese.

Dei magistrati che si sono occupati della strage di piazza Fontana e degli attentati stragisti di Roma negli anni Settanta ed Ottanta, non uno ha avuto la capacità di percepire la realtà di quegli eventi.

Tutti si sono impegnati a cercare verità parziali che venissero incontro alle esigenze degli apparati di Stato, come a Roma dove i colpevoli doveva­no essere solo gli anarchici, o di partito, come a Milano, dove i responsa­bili dovevano essere individuati esclusivamente nei “fascisti” padovani e nell’agente del Sid, Guido Giannettini, già dirigente giovanile del Msi e giornalista de “Il Secolo d’Italia”.

Patetica la dichiarazione resa dall’allora giudice istruttore Gerardo D’Am­brosio il 29 marzo 1972, quando ricevette per competenza territoriale gli at­ti delle indagini sulla strage di piazza Fontana compiute fino a quel momento dal giudice istruttore di Treviso, Giancarlo Stiz:

“Se è vero che i mandanti delle bombe di Milano sono quelli indicati nel­la sentenza Stiz, mi sembra evidente che gli esecutori non possono essere Valpreda e gli anarchici, ma devono essere rintracciati in altra sfera”.

Monsieur De La Palisse non avrebbe saputo dire di meglio.

Solo che, alla fine di marzo del 1972, l’opera di “infiltrazione” a sinistra, la strumentalizzazione di uomini e gruppi di sinistra da parte di servizi se­greti e gruppi di destra collegati, non era più un segreto.

Sarà lo stesso Gerardo D’Ambrosio a constatare che il gruppo padovano aveva infiltrato i propri elementi, da Aldo Trinco a Paolo Romanin allo stesso Giovanni Ventura, negli ambienti marxisti-leninisti: perché mai “Avanguar­dia nazionale” non avrebbe potuto fare altrettanto fra gli anarchici?

Domanda troppo ardua per un individuo che aveva già deciso che non esiste­va una pista internazionale da seguire e neanche una nazionale, ma solo quel­la della “cellula nera” padovana per ragioni che Gerardo D’Ambrosio non è mai stato in grado di comprendere e di spiegare.

Quale verità poteva giungere da magistrati che accertati, loro malgrado, i reati compiuti dalla divisione Affari riservati del ministero degli Interni, e dai capi degli uffici politici delle Questura di Roma e di Milano per impe­dire l’identificazione degli acquirenti delle borse utilizzate per gli atten­tati del 12 dicembre 1969, il 18 marzo 1974 li proscioglie pur scrivendo nel­la relativa ordinanza che “è pacifico che i pubblici ufficiali commisero i fatti loro addebitati nei capi di imputazione”, ma “ritenuto che le omissio­ni, da una parte non furono rilevanti, e dall’altra non avvennero con la pie­na coscienza della illiceità del fatto, stima questo giudice istruttore non doversi procedere”?

Quale verità poteva essere raggiunta da chi aveva eletto come proprio col­laboratore quel questore Umberto Federico D’Amato che aveva organizzato la operazione “manifesti cinesi”, l’infiltrazione di Mario Merlino fra gli anar­chici e ben si ricordava, dopo sedici anni, di Delfo Zorzi che la procura del­la Repubblica sarà costretta ad accusare di concorso nella strage di piazza Fontana alla fine degli anni Novanta?

Una magistratura che non ha mai indagato sul conto di Guido Paglia: è lui, secondo l’accusa di Alfredo Sestili a dare i soldi per la benzina agli “anar­chici” di Avanguardia nazionale che si recano al congresso della Fai, a Carra­ra, il 31 agosto 1968; è lui che Stefano Delle Chiaie chiama in causa per con­fermare il suo alibi per il pomeriggio del 12 dicembre 1969, è sempre a lui che, il 10 gennaio 1970, viene ritrovato un elenco di nominativi e numeri telefonici del circolo anarchico “Bakunin” di via Baccina n°35, e un elenco di saponette esplosive, rotoli di miccia, detonatori e capsule elettriche con, al fianco di ogni voce, indicata la quantità di materiale presente, scritto con una grafia che Mario Merlino riconoscerà, in sede giudiziaria, come pro­pria.

Quale verità potrà mai essere divulgata dalla televisione italiana di cui, oggi, Guido Paglia è vicedirettore generale?

La stessa che diffonde il TG3, dove lavora come giornalista la moglie di Felice Casson, l’ex magistrato che ha cercato in tutti i modi di bloccare le indagini del giudice istruttore di Milano, Guido Salvini, in concorso con certi suoi colleghi della procura della Repubblica milanese, che puntavano diritte sugli ordinovisti veneti.

Una verità, cioè, che è una  menzogna.

Si dice che in Italia esista una democrazia, imperfetta certo, ma sempre ri­spettosa dei diritti dei cittadini garantiti dalla Costituzione repubblica­na, fra i quali spicca quello ad un’informazione corretta.

In realtà, il nostro è un Paese che vive nella prigione della disinforma­zione le cui sbarre solidissime sono costruite con la carta dei giornali e delle veline dei telegiornali.

Siamo un Paese al quale i patti di Jalta garantivano la certezza che il Par­tito comunista non avrebbe mai potuto ipotizzare di giungere al potere con atto di forza.

Dove la sola strada percorribile per arrivare al governo da parte della “quinta colonna sovietica” in Italia era quella elettorale.

Per bloccare l’avanzata del Pci, quindi, sarebbe stata sufficiente una po­litica saggia, accorta, giusta, in grado di venire incontro alle esigenze dei cittadini ed ai loro bisogni elementari.

La classe dirigente cattolica e laica che ha governato il Paese non è sta­ta in grado di confrontarsi con il comunismo sul piano delle riforme e delle idee, così che per garantirsi la permanenza al potere ha fatto ricorso ad al­tri mezzi.

Alle origini della guerra politica in Italia, di conseguenza, non c’è so­lo la speranza del Partito comunista di favorire gli interessi sovietici nel Mediterraneo e di allinearla su posizioni di neutralità in politica interna­zionale, ma anche quella di quanti hanno sfruttato il “pericolo rosso” per il loro tornaconto politico e perfino personale.

Dalla battaglia ad oltranza contro il comunismo, la destra estrema spera­va di ricavare il premio della borghesia, “dalla congenita vigliaccheria”, che avrebbe dovuta riportarla ai fasti del governo e del potere per ricambiare il suo impegno sul campo contro la “sovversione rossa” che minacciava i suoi privilegi ed i suoi capitali.

La Democrazia cristiana ne ricavava sostegno da parte degli Stati Uniti, dal “quarto partito” che non controlla voti ma banche e denaro e, naturalmen­te, dal Vaticano di cui per anni è stato il braccio politico.

I partiti laici anticomunisti, privi di un significativo seguito elettora­le, facevano da supporto in una battaglia di cui, ad un certo punto, i social­democratici guidati da Giuseppe Saragat hanno ritenuto di poter essere i prota­gonisti, scavalcando i democristiani.

Ognuno concentrato sui propri particolari interessi che traevano forza ed alimento dallo scontro fra Est ed Ovest, ha ritenuto che quelli del popolo italiano dovevano essere subordinati ai propri.

Non c’è protagonista politico, dal Partito comunista al Movimento sociale italiano, passando per tutti gli altri partiti, che non abbia ignorato gli interessi del popolo italiano.

Anzi, tutti hanno ritenuto che fosse questo popolo a dover pagare il prezzo di uno scontro che il malgoverno dell’anticomunismo, da un lato, e la servile obbedienza all’Unione sovietica dell’italico comunismo, dall’altro, rendevano inevitabile.

La negazione della verità, pertanto, non deriva soltanto dalla specifica compromissione nel “terrorismo” di singoli personaggi politici ed alti espo­nenti militari o di selezionati ed agguerriti gruppi di potere e di “pressio­ne”, ma dalla necessità di non essere costretti a riconoscere pubblicamente che la guerra italiana deriva dal fallimento di una intera classe politica che già il 19 aprile 1948, Giuseppe Prezzolini definiva non dirigente ma “digerente” contrapposta a dirigenti di un Partito comunista che mai si so­no riconosciuti in una Patria che non fosse quella sovietica.

La Democrazia cristiana avrebbe potuto, in qualsiasi momento, utilizzando le informazioni reperite dai servizi segreti sui finanziamenti sovietici, la rete spionistica, l’apparato paramilitare, mettere fuori legge il Parti­to comunista avvalendosi delle leggi ordinarie che puniscono il tradimento, il sabotaggio industriale, lo spionaggio politico-militare a favore di una potenza straniera ed ostile.

Non ha inteso farlo, perché la presenza del Pci sulla scena politica era funzionale al mantenimento dello status quo che vedeva in essa la diga contro il comunismo, la garanzia che l’Italia sarebbe rimasta nel campo occidentale, la certezza che i valori della civiltà cristiana sarebbe stati difesi ad ol­tranza.

La Democrazia cristiana si è servita del “pericolo rosso” per mantenersi al potere, con la benedizione di una Chiesa cattolica indifferente al malco­stume, alle ruberie, allo squallore morale dei suoi rappresentanti sulla sce­na politica, così come, a partire, dai primi anni Settanta il dialogo fra i due partiti di massa si è basato sulla lotta al “pericolo fascista” ed al “terrorismo”, che, negli anni Ottanta, saranno rimpiazzati dall’emergenza mafia trasformata da forza ausiliaria dello Stato nell’anti-Stato.

La liquidazione della Democrazia cristiana, già presa in considerazione nel 1975 e poi sospesa per fronteggiare l’avanzata elettorale del Pci, è stata imposta dagli Stati Uniti che così hanno saldato il conto ad un partito che ha incassato miliardi di dollari in quasi mezzo secolo senza assolve­re a quel compito che gli era demandato di neutralizzare, sul piano politi­co, la minaccia comunista.

Al grido di “ladri, ladri”, i baciapile del Vaticano hanno dovuto abbando­nare il potere, ma la potenza egemone non può andare oltre fornendo le pro­ve che sono stati anche assassini perché emergerebbero, in questo caso, an­che le sue responsabilità e quelle dell’Alleanza atlantica.

Questa classe dirigente tutta composta di ex di qualcosa e di qualcuno non può, quindi, consentire che emerga la verità sulla “guerra politica” in Italia, perché segnerebbe la sua fine.

Deve, viceversa, vigilare perché la pavida stampa italiana non trovi mai il coraggio e la libertà di scrivere qualcosa di vero sugli “anni di piombo”, così che l’oligarchia politica si è sostituita perfino alla sua magistratura, decidendo per proprio conto dell’innocenza e della colpevolezza di quanti, per ragioni recondite o per capacità di ricatto, devono essere salvati.

Così è stato per Pietro Valpreda, per consentire la scarcerazione del quale è stata approvata la prima legge “ad personam”; così è accaduto per Adriano Sofri ed amici; così per Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Lui­gi Ciavardini, colpevoli per la magistratura che li ha giudicati, innocenti per la politica che non s’identifica con la Nazione.

La storia della strage di piazza Fontana è solo un capitolo, certamente fra i più importanti, di quella Repubblica che è nata nel sangue ed è vissuta ali­mentandosi di sangue la cui responsabilità si cerca, con un cinismo senza pa­ri, di far ricadere su coloro che, negli anni Sessanta, avevano venti anni e tanti sogni.

Ma ne rimane uno di sogno, l’ultimo degli ultimi, quello di riuscire a da­re verità a questo paese e di rendergli la libertà perduta.

E l’ultimo degli ultimi sogni non potrà che morire con noi, non prima.

Opera, 23 agosto 2011



Il servizio fotografico realizzato dalla rivista “Ciao 2001” citato da Vinciguerra nel suo saggio (pubblicato in rete da: http://sroedner.over-blog.it/article-un-documento-straordinario-valpreda-e-merlino-intervistati-da-ciao-2001-102953073.html )

2 Comments
  1. La nota di Maurizio Barozzi al saggio di Vinciguerra:
    http://fncrsi.altervista.org/1969_Piazza_Fontana_ed_oltre.htm

    Rispondi
  2. Barozzi mette opportunamente i puntini sulle "i" sul Fronte Nazionale di Borghese e sul neofascismo. Ciò dimostra, tra l'altro, il carattere tendenzioso (e oltraggioso) della qualifica di "neofascista" attribuita dallo storico di regime (peraltro eruditissimo) Miguel Gotor a Vinciguerra:
    http://miguelgotor.italianieuropei.it/2012/04/1319/

    Rispondi

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