Apocalisse di Giovanni: la bestia che sale dalla terra

Oggi vorrei provare a mettere a fuoco uno dei personaggi-chiave dell’Apocalisse: la bestia che sale “dalla terra” (Apocalisse 13, 11-17). Chi rappresenta questo temibile personaggio? Innanzitutto, leggiamo la descrizione di Giovanni[1]:

E vidi un’altra fiera che saliva dalla terra. E aveva due corna simili a quelle di un agnello, e parlava come un dragone. E l’autorità della prima fiera, la esercita tutta davanti ad essa; e fa sì che la terra e gli abitanti in essa adorino la prima fiera, di cui è stata risanata la ferita mortale. E fa portenti grandi, al punto che fa anche scendere fuoco dal cielo sulla terra davanti agli uomini, e inganna gli abitanti sulla terra mediante i portenti che le fu dato di fare davanti alla fiera, dicendo agli abitanti sulla terra di fare un’immagine alla fiera che ha la ferita della spada e rivisse. E le fu dato di dare uno spirito all’immagine della fiera, sicché l’immagine della fiera perfino parlasse e facesse che quanti non adorassero l’immagine della fiera fossero uccisi. E fa sì che tutti, i piccoli e i grandi, i ricchi ed i poveri, i liberi e gli schiavi, ricevano un marchio sulla loro mano destra o sulla loro fronte, e che nessuno possa comprare o vendere all’infuori di chi ha il marchio, che è il nome della fiera o il numero del suo nome”.

La bestia che sale dalla terra compare anche in altri due passi del libro di Giovanni, dove viene definita come “pseudoprofeta”: Ap. 16, 13-14 e Ap. 19 19-20. La maggior parte dei commenti da me consultati sono sostanzialmente d’accordo: la bestia in questione rappresenta le autorità giudaiche del I secolo dopo Cristo: quelle che pretesero da Pilato la crocifissione di Gesù e che perseguitarono aspramente i cristiani nei decenni successivi.

La bestia che sale dalla terra rappresenta (o rappresenterebbe):

“le autorità religiose e civili del popolo ebraico” (Eugenio Corsini)[2];

“la corruzione del giudaismo, vendutosi agli interessi del mondo pagano” (Edmondo Lupieri)[3];

“il giudaismo apostata concentrato nella sua leadership religiosa rappresentata dall’aristocrazia dei Sommi Sacerdoti” (Kenneth Gentry)[4].

Giovanni presenta la bestia “dalla terra” come un’entità che esercita il proprio potere non indipendentemente dalla prima bestia bensì “davanti ad essa”. Sotto la sua supervisione e sotto i suoi vincoli. È dunque una potenza subordinata. Occorre a questo punto ricordare che l’establishment religioso ebraico nella Palestina del I secolo era sottoposto all’autorità di Roma. Roma riservava gelosamente a sé stessa lo ius gladii, il potere di emettere le sentenze capitali. È l’autorità secolare designata da Roma che decide la nomina dei Sommi Sacerdoti ebrei: sappiamo, ad esempio, che sotto il comando di Erode “vennero nominati in trentatré anni non meno di sette Sommi Sacerdoti”[5]. Lo storico ebreo Flavio Giuseppe ci ricorda che il tribunale supremo ebraico, il Sinedrio, non poteva legalmente riunirsi senza il consenso delle autorità romane[6]. I Romani (o i loro fiduciari) controllavano e gestivano persino i paramenti liturgici indossati dal Sommo Sacerdote.

Ma perché la bestia parla “come un dragone”? A questo proposito Gentry fa un’acuta osservazione:

“Apprendiamo che il dragone è discacciato dalla corte celeste di Dio (Ap. 12, 7) dove egli accusava i fratelli davanti al trono di Dio (Ap. 12, 10). Osservate anche che costui ha due nomi, e che entrambi significano “calunniatore”: “diavolo” e “Satana” (Ap. 12, 9). Questa seconda bestia è subordinata alla prima bestia (Ap 13, 12) che possiede un’autorità satanica datagli dal dragone (13, 2b) per fare la guerra contro i santi (Ap. 13, 5, 7). Di conseguenza, il parlare della seconda bestia “come un dragone” riguarda le sue mortifere calunnie giudiziarie (Ap. 2, 9; 3, 9; 13, 1, 5, 6; 17, 3) mentre inganna e mente… La missione della seconda bestia è di ricorrere a calunnie mortifere continuando l’opera giudiziaria accusatoria del dragone (Ap. 12, 10c), sebbene costui non stia più in cielo (Ap. 12, 10)”.

Quindi, la seconda bestia parla come un dragone perché le autorità religiose ebraiche, nel corso del I secolo, perseguitano i cristiani trascinandoli come imputati non solo nelle sinagoghe ma anche nei tribunali. Gesù lo aveva previsto. Ecco come si rivolge ai suoi nemici scribi e farisei nel Vangelo di Matteo (23, 34-36):
“Perciò, ecco che io vi mando profeti, sapienti e scribi: ne ucciderete e crocifiggerete, ne flagellerete nelle vostre sinagoghe e ne perseguiterete di città in città, affinché ricada su di voi tutto il sangue innocente sparso sulla terra, dal sangue del giusto Abele fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachia, che avete assassinato fra il santuario e l’altare. In verità vi dico: tutte queste cose ricadranno su questa generazione”.

La predizione di Gesù contro gli scribi e i farisei si realizzò anche per quanto riguarda il loro castigo: Gerusalemme e, con essa, l’aristocrazia sacerdotale ebraica, caddero nel 70 d.C. quando le truppe romane distrussero la città e il suo tempio.

Occorre però dire che la persecuzione delle autorità ebraiche contro i cristiani, testimoniata dalle fonti storiche, a cominciare dagli Atti degli Apostoli, per alcuni decenni non venne condivisa dai Romani. È solo con Nerone, il primo grande persecutore romano dei cristiani, che le accuse ebraiche trovano finalmente il favore delle autorità imperiali. Ma in cosa consistevano queste accuse? Come erano calunniati i cristiani dalla bestia “che sale dalla terra”? Almeno in un caso è possibile precisarlo con sicurezza. La prima accusa contro i cristiani fu quella di aver trafugato il corpo di Gesù. Ne parla innanzitutto il Vangelo di Matteo (28, 11-15). Leggiamolo:

Mentre esse [le pie donne] erano in cammino alcuni della guardia vennero in città ad annunziare ai gran sacerdoti l’accaduto e costoro, dopo essersi radunati con gli anziani e aver tenuto consiglio, diedero ai soldati una forte somma, dicendo: «Dite così: “I suoi discepoli sono venuti di notte e lo hanno trafugato mentre noi dormivamo”. E se il governatore viene a sapere la cosa noi lo calmeremo e vi toglieremo dagli impicci». Ricevuto il denaro, quelli si attennero alla lezione loro fatta e così questa diceria si è diffusa fra i Giudei fino a oggi”.

La diceria in questione per alcuni decenni rimase lettera morta ma divenne una spada di Damocle contro i cristiani quando venne recepita dall’Editto di Nazareth. L’Editto di Nazareth è un’iscrizione in lingua greca, rinvenuta a Nazareth nel 1878 e conservata a Parigi, con la quale si commina la pena capitale, con effetto retroattivo, per chi sottrae un cadavere dalla tomba.

Due illustri antichiste, Marta Sordi[7] e Ilaria Ramelli[8] hanno datato l’Editto di Nazareth precisamente all’epoca neroniana. Secondo entrambe, l’editto in questione è collocabile cronologicamente tra il 62 (l’anno in cui gli stoici, favorevoli ai cristiani, cadono in disgrazia presso Nerone) e il 64 (l’anno in cui inizia la persecuzione anticristiana, originata dall’incendio di Roma). Scrive la prof. Sordi:

“Erhard Grzybek ha dimostrato, con argomentazioni stilistiche, che l’autore del διάταγμα cosiddetto di Nazareth è con ogni probabilità Nerone e ha proposto un’interpretazione in gran parte nuova e, a mio avviso, molto interessante delle l. 13ss. dello stesso διάταγμα: l’adorazione di uomini (εἰς τὰς τῶν ἀνθρώπων θρησκείας) è empietà verso gli dèi e sarà giudicata come una colpa di natura religiosa. Questo vale a spiegare, fra l’altro, l’inusitata gravità della pena (la morte) per una colpa, la violazione dei sepolcri (tymborychia), che in generale comportava solo pene pecuniarie. L’identificazione di Nerone come l’autore del διάταγμα e la natura religiosa del reato colpito dall’editto permettono di riproporre con maggior forza l’interpretazione «cristiana» del διάταγμα stesso. Tale interpretazione è a mio avviso confermata dal carattere retroattivo della colpa e della pena: dopo aver enunciato il principio generale che le tombe devono rimanere ἀμετακεινήτους τὸν αἰῶνα (l. 1-6), inamovibili per sempre, l’imperatore prosegue dicendo (l. 6-13) che se qualcuno denuncia che uno ha distrutto o, in qualsiasi altro modo, ha tirato fuori defunti o con inganno li ha trasferiti in altro luogo con offesa ai defunti, ho ha spostato le biette o le pietre tombali, chi ha commesso queste colpe deve essere condannato a morte. Solo alla fine ribadisce la norma per il futuro (l. 19-20). L’uso dei participi perfetti e l’invito alla denuncia rivela chiaramente che il διάταγμα vuole colpire un atto preciso, che si è verificato nel passato e che si aspetta delle denunce in proposito contro persone precise”[9].

Secondo la prof. Sordi, fu Poppea a ispirare probabilmente l’editto di Nazareth. A detta di Flavio Giuseppe, Poppea era giudaizzante ed era intervenuta nel 63/64 a favore di alcuni sacerdoti ebraici e di Agrippa II. Allude a Poppea, in quanto ostile a San Paolo, che si era reso “colpevole” di aver abbandonato il giudaismo, anche l’epistolario fra Seneca e Paolo, giudicato apocrifo dalla maggioranza degli studiosi, ma che le predette Sordi[10] e Ramelli[11] considerano in massima parte autentico (a parte due lettere sicuramente false).

La tesi secondo cui furono Poppea e i giudei a istigare Nerone contro i cristiani (e a incolpare questi ultimi dell’incendio di Roma) è stata ultimamente reiterata dal noto storico e archeologo Andrea Carandini nella sua biografia di Nerone (scritta sotto forma di “autobiografia”)[12]. Ma quali erano le altre accuse, oltre a quella di violare i sepolcri (e di aver incendiato Roma), che venivano rivolte contro i cristiani? Sicuramente quelle di rifiuto del culto imperiale[13] e di odio del genere umano[14].

Riassumendo, secondo Marta Sordi, la svolta anticristiana di Nerone nacque dall’accettazione delle posizioni più estremiste e intransigenti del giudaismo[15]. Sappiamo dallo storico Paolo Orosio che la persecuzione di Nerone contro i cristiani non ebbe luogo solo a Roma ma che fu generalizzata: “infatti per primo a Roma colpì i Cristiani con supplizi e con la morte e ordinò di perseguitarli ugualmente in tutte le provincie”[16].

Ma la bestia che sale dalla terra possiede un’altra perturbante caratteristica: la caratteristica di operare “prodigi”. Come quello di far “scendere fuoco dal cielo” e quello di dare uno “spirito” e di far “parlare” l’immagine della prima bestia. Queste parole di Giovanni per lungo tempo mi hanno lasciato sconcertato. A me, che nel corso degli anni ho verificato la sensatezza della lettura preterista dell’Apocalisse, i portenti della bestia lasciavano nella mente un angolo di dubbio, come se forse avessero ragione gli esegeti futuristi ed escatologisti, che identificano le due bestie con le apparizioni anticristiche della fine del mondo. Ma forse, anche qui è possibile dare delle bestie un’interpretazione che le riconduca al I secolo dopo Cristo: ai contemporanei di Giovanni.

A questo proposito ho letto infatti delle interessantissime considerazioni nel commento all’Apocalisse del prof. Daniele Tripaldi. Secondo Tripaldi, “animare” ritualmente una statua insufflandovi uno spirito “divino” è una tipica operazione di magia. In particolare della magia egiziana tardoantica[17]. Tripaldi richiama a tal proposito le pratiche oracolari del culto di Glicone[18] e del colosso di Memnone[19]. A Tripaldi non è sfuggita l’impronta polemica con cui Giovanni tratteggia la figura della seconda bestia. Ma, osservo, non è riuscito a vedere che il bersaglio polemico di Giovanni è proprio il potere religioso giudaico corrotto: quello che aveva fatto uccidere il Messia. Se la Gerusalemme storica è la nuova Sodoma e il nuovo Egitto (Ap. 11, 8), non c’è nulla di più coerente che raffigurare la seconda bestia alla stregua dei maghi egizi che stavano al seguito del Faraone nel libro dell’Esodo. O alla stregua dei maghi caldei che stavano al seguito di Nabucodonosor ricordati nel libro del profeta Daniele. La bestia che sale dalla terra può anche compiere dei prodigi ma, nell’ottica di Giovanni, rappresenta il degrado supremo in cui era finito il sacerdozio ebraico segnato dal pervicace rifiuto di Cristo. Era diventato una potenza vicaria destinata a soccombere non solo metafisicamente, nello stagno di zolfo e di fuoco, ma anche fisicamente: sappiamo infatti, da Flavio Giuseppe, che alla fine dell’assedio di Gerusalemme da parte delle truppe romane, i sacerdoti ebrei superstiti vennero fatti uccidere per ordine di Tito[20].

E veniamo infine alla menzione, da parte di Giovanni, del “marchio” della bestia, quello senza il quale nessuno può “comprare o vendere” (Ap. 13, 16-17). Daniele Tripaldi ha descritto, peraltro brillantemente, le implicazioni socio-politiche della visione di Giovanni nella società greco-romana del I secolo[21]. Tripaldi rileva che nel mondo antico la politica, l’economia e la religione si compenetravano in profondità. La vita economica si articolava nelle corporazioni dei mestieri e queste corporazioni avevano dei vincoli religiosi e prevedevano dei riti (e dei banchetti, in cui si mangiavano le carni sacrificate agli idoli). In sostanza, erano strettamente legate al culto imperiale. Secondo Tripaldi, rifiutarsi di partecipare alla vita religiosa, nella società pagana dell’epoca, equivaleva a condannarsi alla morte civile.

A me sembra però che, riguardo ai problemi di emarginazione dei cristiani nella società del I secolo, il prof. Tripaldi non abbia colto il peso specifico rappresentato dalla persecuzione neroniana: è solo a partire dall’anno 64, quando Nerone decide di dare corso al senatoconsulto dell’anno 35, quello che decretava essere il cristianesimo una superstitio illicita, che il rifiuto di aderire al culto imperiale da parte dei cristiani equivale come minimo alla morte civile e che, di conseguenza, i vincoli religiosi delle corporazioni diventano una costrizione totalitaria.

 

[1] La traduzione da me utilizzata è quella de La Sacra Bibbia tradotta dai testi originali e commentata, a cura e sotto la direzione di mons. Salvatore Garofalo, Marietti editore, 1966, p. 470.

[2] Eugenio Corsini, Apocalisse di Gesù Cristo secondo Giovanni, SEI – Società Editrice Internazionale, Torino 2002, p. 271.

[3] L’Apocalisse di Giovanni, a cura di Edmondo Lupieri, Fondazione Lorenzo Valla – Arnoldo Mondadori Editore, 1999, p. 211.

[4] Kenneth Gentry, Navigating the Book of Revelation, GoodBirth Ministries, South Carolina 2010, p. 130.

[5] Ivi, p. 129.

[6] Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche, XX, IX, 1.

[7] Marta Sordi, I Cristiani e l’impero romano, Jaca Book, Milano 2006. Vedi il capitolo terzo: “I Cristiani e Nerone: dalla tolleranza alla persecuzione”.  

[8] Ilaria Ramelli (con don Ennio Innocenti), Gesù a Roma, Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe, Roma 2006, Seconda parte: un quindicennio di studi sulla prima diffusione dell’annuncio cristiano e la sua prima ricezione in ambito pagano, a Roma e nell’Impero romano. Vedi il capitolo secondo: “L’età neroniana e la presenza di possibili allusioni al cristianesimo in due romanzieri pagani”.

[9] Marta Sordi, op. cit., pp. 58-59.

[10] Ivi, pp. 51-55.

[11] Ilaria Ramelli, op. cit., pp. 409-448.

[12] Andrea Carandini, Io, Nerone, Editori Laterza, Bari-Roma 2023, p. 114.

[13] Ilaria Ramelli, op. cit., p. 297.

[14] Andrea Carandini, op. cit., p. 144.

[15] Marta Sordi, op. cit., p. 61.

[16] Ivi, p. 63.

[17] Apocalisse di Giovanni, Introduzione, traduzione e commento di Daniele Tripaldi, Carocci editore, Roma 2018, p. 182.

[18] https://it.wikipedia.org/wiki/Glicone

[19] https://it.wikipedia.org/wiki/Colossi_di_Memnone

[20] Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, VI, 6, 1.

[21] Daniele Tripaldi, op. cit., pp. 180-181.

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