Disponibili su internet i registri mortuari di Auschwitz

Ho ricevuto nei giorni scorsi da un utente che desidera restare anonimo il seguente contributo:

I registri dei morti (“Sterbebücher”) di Auschwitz nella prospettiva del revisionismo storico

Gli “Sterbebücher” di Auschwitz, restituiti nel 1989 dall’Unione Sovietica alla Germania, sembrano ancora destare, sebbene editi da tempo (Saur, München-New Providence 1995), un certo taciuto imbarazzo nella storiografia ufficiale; tanto che ad essersene occupata è stata principalmente quella revisionista (si veda il fondamentale articolo di Mark Weber “Pages From The Auschwitz Death Registry Volumes”, http://www.ihr.org/jhr/v12/v12p265_Weber.html, nonché Robert Faurisson, “Combien de morts à Auschwitz?”, http://robertfaurisson.blogspot.com/1995/12/combien-de-morts-auschwitz.html).

Essi non si sono conservati (o almeno non sono finora stati pubblicati) integralmente, ma solo per il periodo dal 29 luglio 1941 al 31 dicembre 1943, e non senza qualche lacuna. Dato che il campo fu aperto il 20 maggio 1940 ed evacuato il 18 gennaio 1945, la documentazione copre all’incirca la metà della vita del lager.

Vista la non facile accessibilità di questi dati, ritengo utile riportare l’elenco complessivo delle generalità delle vittime annoverate dagli “Sterbebücher”.

Stando a questi registri, ad Auschwitz morivano più cattolici che ebrei (il 46,8% contro il 42,8%). Un dato che varrebbe da solo a sollevare qualche dubbio circa la volontà di sottoporre gli Ebrei (pur innegabilmente oggetto di misure speciali) ad uno sterminio sistematico e completo.

Si è capziosamente obiettato (https://www.hdot.org/debunking-denial/ab2-death-books/) che questi registri si riferivano solo ai detenuti abili al lavoro, mentre gli ebrei in essi non menzionati sarebbero stati inviati direttamente allo sterminio, senza alcuna registrazione. Ma la dettagliata analisi di Weber mostra che i certificati riguardavano anche vecchi e bambini (addirittura infanti). Peraltro, come Carlo Mattogno ha dimostrato in più sedi (ad esempio qui: https://codoh.com/library/document/5021/?lang=it), e come è stato documentato anche da Jürgen Graf (https://dagobertobellucci.wordpress.com/2012/03/29/cosa-accadde-agli-ebrei-che-vennero-deportati-ad-auschwitz-ma-che-non-furono-li-registrati-di-jurgen-graf/), non tutti i detenuti non immatricolati ad Auschwitz furono “gasati”: molti furono smistati altrove.

Il caso della stessa Anna Frank, e dei suoi compagni di sventura, dovrebbe essere emblematico: giunti tutti ad Auschwitz il 6 settembre del 1944 (più di due mesi prima della sospensione delle presunte gasazioni: ancora il 30 ottobre, quasi due mesi dopo, in occasione di un trasporto da Theresienstadt, la grande maggioranza dei deportati sarebbe stata “gasata all’arrivo”), Auguste Van Pels affrontò un’odissea di otto mesi tra Auschwitz, Bergen-Belsen, Buchenwald, Theresienstadt (dove giunse il 9 aprile 1945, prima che se ne perdessero definitivamente le tracce), Peter Van Pels fu deportato a Mauthausen, dove morì, Fritz Pfeffer a Sachsenhausen, Buchenwald, Neuengamme (dove morì il 20 dicembre 1944), Anna e Margot (non certo abili al lavoro) rimasero un mese ad Auschwitz senza essere “gasate”, prima di essere trasferite a Bergen Belsen, dove morirono di tifo.

Sorprende, in questi registri, la totale assenza di ebrei italiani. Questi ultimi furono deportati in massima parte proprio ad Auschwitz, a partire dall’inizio di ottobre del 1943. Benché lacunosi, gli “Sterbebücher” si arrestano, come detto, al 31 dicembre del 1943. Gli ebrei italiani non furono, evidentemente, tutti “gasati all’arrivo” ad Auschwitz, ma almeno per larga parte trasferiti in altri campi. Certo la maggior parte dovette trovare la morte nei mesi successivi, anche e soprattutto a causa dell’aggravarsi delle condizioni sanitarie dovuto al generale tracollo della Germania. “Vi erano molte deficienze, alcune forse insormontabili come la mancanza di medicinali e la scarsità di materiale da medicazione, data la grave situazione in cui già fin da allora si trovava la Germania, premuta da una parte dall’infrenabile avanzata delle valorose truppe russe e dall’altra quotidianamente bombardata dall’eroica aviazione anglo-americana”. Queste le parole di Primo Levi (“Rapporto sulla organizzazione igienico sanitaria del campo di concentramento per Ebrei di Monowitz”, “Minerva Medica”, XXXVII, II, 47, 24 novembre 1946, pp. 535-544, https://codoh.com/library/document/5066/?lang=it).

Appena sei, in tutto, fra i morti registrati negli “Sterbebücher”, i Testimoni di Geova. Inizialmente, si pensava che sessantamila fossero stati i Testimoni di Geova uccisi dai Nazisti. Oggi si tende a riconoscere che essi non furono più di qualche centinaio. In ciò, le ricerche del revisionista Ditlieb Felderer hanno forse avuto un ruolo (http://www.zundelsite.org/archive/harwood/dsmrd/dsmrd13felderer.html). Sebbene non altrettanto drastica, sarebbe forse opportuna una seria revisione numerica anche dello sterminio degli Ebrei.

Va certo tenuto presente, come detto, che questi registri si sono conservati solo parzialmente. Ma va anche notato che la parte conservata contiene, in tutto, circa 69000 nomi, meno della metà dei quali appartenenti ad Ebrei. La discrepanza fra questo dato e il milione circa di morti (in massima parte Ebrei) imputato ad Auschwitz dalla storiografia ufficiale pare davvero abissale.

Ma forse la domanda fondamentale è un’altra, e a porsela è stato non uno storico, ma un opinionista, Josh Marshall, dopo che la moglie aveva scoperto che la morte del nonno non era avvenuta (come ella aveva sempre saputo) nel 1940 per mano degli Einsatzgruppen, ma due anni dopo, per malattia, ad Auschwitz, e là regolarmente registrata. (Il certificato di morte, peraltro, risultava firmato proprio dal dottor Kremer, medico ad Auschwitz dall’agosto al novembre del 1942, il cui celebre Diario viene considerato una prova schiacciante delle “gasazioni” – sebbene, come notò il solito, solerte Faurisson, fin dal celebre articolo uscito su “Le Monde”, http://robertfaurisson.blogspot.com/1979/01/lettera-d-robert-faurisson-pubblicata.html, il contesto non consenta affatto di interpretare univocamente in tal senso l’espressione “Azione Speciale” lì usata).

“Why even keep death certificates? Auschwitz was after all a network of concentration and extermination camps. I’m not even talking about the fear of possible punishment after the war, though that’s another significant question.. Just simply, why? These are people, a whole people, being sent into oblivion, to be erased from the earth and from memory” (https://talkingpointsmemo.com/edblog/shards-of-memory-revisited?ref=fpblg). Se l’intero popolo ebraico era destinato comunque allo sterminio, che senso aveva tenere registri dei morti (anche di persone che con tutta evidenza non venivano impiegate in attività di lavoro)? Registri che per di più avrebbero anche potuto costituire prove di colpevolezza – se non altro di “negligenza criminale” nella gestione sanitaria? Il paradosso permane.

Donde si era originata la diceria del nonno fucilato dagli Einsatzgruppen? Dalla vaghezza della memoria storica locale, dalle affabulazioni dei racconti di villaggio, ipotizza Marshall. “These kinds of eyewitness accounts can be rushed, misunderstood, incomplete, broken. Often simply unreliable. That seems to have been the case here”. La memoria affidata alle testimonianze orali (alle quali si è certo dato troppo credito nel ricostruire la storia del cosiddetto Olocausto) è spesso fallace. Un attento studio dei documenti d’archivio (oggi di accessibilità e consultazione ben più agevoli che in passato) è utile e necessario.

I registri mortuari di Auschwitz sono consultabili al seguente indirizzo:

https://archive.org/details/CertificatiAuschwitz

4 Comments
    • Teufelsdroeck
    • 7 Aprile 2019

    A ciò si aggiunga che complessi calcoli statistici effettuati sui registri tramite strumenti informatici ( http://www.whatreallyhappened.info/decrypts/death_books_auschwitz.xlsx ) fanno risaltare un’impennata dei decessi proprio fra la primavera e l’estate del 1942, periodo di grandi epidemie di tifo (che, fra l’altro, indussero ad ampliare i crematori).
    Ciò confermerebbe l’attendibilità dei pur parziali e mutili Sterbebücher. E chiarisce anche il contesto in cui fu redatto il famigerato “Diario di Kremer”, solitamente addotto come prova delle gasazioni omicide, ma forse spiegabile (come notò il compianto Faurisson) proprio nel quadro di quella terribile emergenza sanitaria. Il Diario fu redatto ai primi di settembre del 1942; gli Sterbebücher registrano 6.181 morti nell’agosto, 4.446 nel settembre, di quell’anno: i picchi assoluti della mortalità del campo. Per questo il campo era “anus mundi”, “campo dell’annientamento”. (Minuziosa l’interpretazione, in una chiave che oggi si direbbe “negazionista”, che del Diario dava, quando il dibattito non era ancora stato silenziato da leggi liberticide, Jean-Gabriel Cohn-Bendit, controverso intellettuale ebreo e di sinistra: “Mon analyse du ‘Journal de Kremer”‘, Saint-Nazaire 1985).
    C’è però un dato più difficile da interpretare: la percentuale di morti ebrei, nel 1942, fu quasi doppia rispetto a quella dei cattolici; mentre nel 1941 quella dei secondi fu più di otto volte maggiore rispetto a quella dei primi, nel 1943 più che doppia. Per calcolare il tasso di mortalità fra gli uni e fra gli altri, si dovrebbe disporre di dati sulla composizione della popolazione del campo per le diverse categorie etnico-religiose.
    Si suole ipotizzare che la bassissima percentuale di morti ebrei registrati nel 1943 dipenda dal fatto che quasi tutti erano “gasati all’arrivo” senza registrazione. Ma tale percentuale è bassissima anche per il 1941, si impenna nel 1942, torna bassa nel 1943, indipendentemente (pare) dalla frequenza delle gasazioni (iniziate, a quanto risulta, fra il luglio e il settembre del 1941, mentre le deportazioni sistematiche degli Ebrei cominciarono proprio nell’ottobre dello stesso anno).
    Una possibile spiegazione potrebbe essere data dal fatto che, vista la politica di progressivo ricollocamento ad Est degli Ebrei ai fini della creazione di una vasta riserva ebraica (forse nella Rutenia Bianca), nel 1943 Auschwitz fungesse sempre più da campo di transito verso altre destinazioni. Aspetti, questi, su cui non c’è molto da aggiungere alle imponenti ricerche di Mattogno e Graf (ma il quadro generale era già chiarissimo, nel corso degli eventi, ad un grande demografo, Eugene M. Kulischer, “The Displacement of Population in Europe”, Montreal 1943).

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      • Al81
      • 9 Aprile 2019

      Complimenti, devi essere qualcosa in più di un semplice appassionato, a differenza di me che, purtroppo, ho una conoscenza aneddotica della questione. E, tuttavia, cerco almeno di averla una seppur minima conoscenza.
      Mi permetto di domandarti se hai seguito anche la polemica di Vincent Reynouard sui fatti di Oradour del giugno ’44 e, in caso affermativo, se ritieni che possa avere ragione e si possa innescare un dibattito serio. Dibattito che forse c’è anche stato,ma di cui ho trovato poca traccia e di cui non conosco i risultati ad oggi 2019.
      Grato se mi vorrai rispondere.

      Rispondi
        • a.carancini
        • 9 Aprile 2019

        Gentile lettore,
        a suo tempo non lessi il libro di Reynouard su Oradour ma ritengo inaccettabili le misure interdittive emesse a suo tempo dal governo francese contro quel libro. Da quello che mi ricordo le tesi di Reynouard vennero riprese da un lettore che volle rimanere anonimo ma che scrisse a sua volta una interessante pubblicazione sull’argomento.
        Ricordiamo che comunque il libro di Reynouard è disponibile qui:
        http://aaargh.vho.org/fran/livres2/orad.pdf
        cordiali saluti,
        andrea carancini

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    • Larvatus
    • 9 Aprile 2019

    Il revisionismo per me è una segreta ossessione. Ma devo restare anonimo per via del lavoro che faccio. Ad ogni modo, credo che il revisionismo non debba in nessun caso accompagnarsi al discorso d’odio; che al veleno dell’intolleranza sionista non si debba rispondere con uguale moneta, ma con un pacato argomentare. (Certo se fossi Palestinese o Libanese non sarei altrettanto placido).
    Il caso di Reynouard è comunque vergognoso. Mi domando come si possa accettare che alcune persone finiscano anni (anni) in carcere per aver scritto (in alcuni casi solo tradotto) libri. Surreale. Ciò non fa che confermare quanto il revisionismo spaventi. E quanto sia necessario.
    La questione di Oradour può essere risolta – credo – solo da un esperto di esplosivi. Si dovrebbe sottoporre la documentazione raccolta da Reynouard a un esperto siffatto senza dirgli, però, a quale evento essa si riferisce, in modo tale che egli non sia condizionato. L’esperto potrebbe dire se la chiesa fu minata dall’esterno o distrutta da un’esplosione interna.

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