Apocalisse di Giovanni: le divergenze di S. Ireneo di Lione e di S. Agostino

 

Apocalisse di Giovanni - Wikipedia

Mons. Francesco Spadafora aveva a suo tempo fatto notare come, per quanto riguarda il cosiddetto “discorso escatologico” di Gesù (quello riportato dagli evangelisti nei capitoli Matteo 24, Marco 13 e Luca 21), durante l’età patristica dominasse “la più grande divergenza nell’interpretazione”[1].

Un esempio di questa difformità di vedute è dato dalle posizioni, rispettivamente, di S. Ireneo di Lione (vissuto tra il II e il III secolo) e di S. Agostino (vissuto tra i IV e il V secolo). Per S. Ireneo il capitolo 24 di Matteo riguarda la fine del mondo, mentre per S. Agostino riguarda solo la fine di Gerusalemme. Ma tale difformità non si limita solo al predetto “discorso escatologico”: riguarda anche l’Apocalisse di Giovanni.

Ireneo era un millenarista: egli intendeva il “regno millenario di Cristo”, di cui parla Giovanni, in senso materiale e letterale. Riteneva cioè che dopo la sconfitta inflitta all’Anticristo, Gesù sarebbe venuto a regnare fisicamente sulla terra per mille anni insieme ai beati risorti nella carne. S. Ireneo computava il periodo totale della vita degli uomini sulla terra, dalla creazione fino alla fine del mondo, in settemila anni: seimila senza Cristo e mille con Cristo, inframmezzati dal regno dell’Anticristo, che sarebbe durato tre anni e mezzo.

Inoltre, S. Ireneo legge la “prima risurrezione” di cui parla Giovanni come un riferimento alla resurrezione dei corpi che precederà il “regno millenario”. E non si limita a questo: anche le parole che Gesù pronuncia al momento della fondazione dell’eucarestia (“Prendete questo e dividetelo fra voi; poiché vi dico che ormai non berrò più del frutto della vite finché non sia venuto il regno di Dio”[2]) egli sostiene che si realizzeranno qui, sulla terra[3], quando verrà il predetto regno dei Mille anni, e non in cielo, come ha sempre ritenuto la maggioranza degli esegeti.

Tutt’altra prospettiva in S. Agostino: secondo costui, il “regno millenario di Cristo” dell’Apocalisse non è altro che il tempo della Chiesa militante su questa terra, dalla Pentecoste fino al Giudizio Universale, un tempo dalla durata indefinita, su cui non è possibile azzardare previsioni cronologiche. Poco prima della fine del mondo, verrà l’Anticristo e il suo regno durerà tre anni e mezzo. Quindi, se per S. Ireneo viene prima l’Anticristo e poi il regno millenario (che dovrà durare esattamente mille anni), per S. Agostino è esattamente il contrario: prima viene il regno millenario (dalla durata indefinita ma comunque lunghissima) e poi, poco prima della fine del mondo, verrà l’Anticristo. Precisazione importante: secondo S. Agostino, il regno millenario di Cristo non verrà meno durante i tre anni e mezzo in cui infurierà l’Anticristo: il “regno millenario” è infatti un regno spirituale che non avrà mai fine. Quindi, dopo la sconfitta dell’Anticristo vi saranno la resurrezione dei morti e la vita eterna: per i beati in cielo (non sulla terra) e per i dannati all’inferno.

Inoltre, per S. Agostino, la “prima resurrezione” di cui parla Giovanni non riguarda la resurrezione dei morti, come l’aveva intesa S. Ireneo, ma la vita della grazia che sperimentano su questa terra i peccatori ogniqualvolta si convertono a Cristo: grazie ad essa i peccatori convertiti sfuggiranno alla “seconda morte”, che colpirà alla fine del mondo gli impenitenti, già morti in peccato mortale, quando la loro anima si riunirà al corpo per la dannazione eterna.

Non è tutto. Come scrivevo in un precedente articolo, per S. Agostino, a differenza di S. Ireneo, l’Anticristo non è identificabile nella prima bestia dell’Apocalisse (quella che “viene dal mare”) e non è nemmeno sicuro che coincida con la seconda bestia (quella che “viene dalla terra”): come si può constatare, su queste questioni escatologiche l’esegesi dei Padri della Chiesa diventa personale e divergente, come aveva fatto notare Spadafora.

Insomma, su questa materia (e, in particolare, sulla questione dell’anticristo escatologico) non bisogna appellarsi ad una tradizione dottrinale. Non lo dico io, lo dice il maestro di Spadafora, mons. Antonino Romeo, curatore della voce “Anticristo” per l’Enciclopedia cattolica (grassetti miei):

“Parrebbe che il coagularsi della concezione dell’Anticristo in un’unica persona sia avvenuto nella tarda apocalittica giudaica (sec. I), donde passò ai cristiani. Dal sec. II ad oggi la quasi unanimità dei cattolici, oltre distinti esegeti protestanti (Th. Zahn, G. Wohlenberg), ammise l’Anticristo come persona individuale; F. Suárez (De mysteriis vitae Christi, disp. 54, sect. I, n. 7) dichiara ciò «res certissima et de fide», e recentemente B. Rigaux ha ampiamente sostenuto la tesi dell’Anticristo individuale concludendo (p. 397): «Nel Nuovo come nel Vecchio Testamento, l’opposizione finale al regno di Dio, benché collettiva, si concreta in un individuo». Non bisogna, comunque, appellarsi ad una tradizione dottrinale; «In questi argomenti escatologici non esiste tradizione alcuna» (D. Buzy)”.

S. Agostino

[1] Francesco Spadafora, La fine di Gerusalemme e l’escatologia in San Paolo, edizione 2017 a cura di Andrea Carancini, p. 109.

[2] La Sacra Bibbia, a cura e sotto la direzione di mons. Salvatore Garofalo, Marietti, Casale Monferrato 1966, pp. 154-155.

[3] S. Ireneo di Lione, Contro le eresie, V, 33, 1, Edizioni Cantagalli, Siena 2019, p. 251.

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