Germar Rudolf: Prefazione al libro di Steffen Werner “La seconda cattività babilonese”

PREFAZIONE AL LIBRO DI STEFFEN WERNER “LA SECONDA CATTIVITÀ BABILONESE”

Di Germar Rudolf, 10 aprile 2019

Secondo la storiografia ortodossa, che è imposta dalla legge penale in molti paesi europei, circa tre milioni di ebrei europei vennero uccisi in camere a gas omicide tra il dicembre 1941 e l’autunno 1944. Si sostiene che queste camere siano state erette in sei campi in Polonia, nei combinati “campi di concentramento e di sterminio” di Auschwitz-Birkenau e di Majdanek (Lublino) e nei “campi di puro sterminio” di Bełżec, Chełmno (Kulmhof), Sobibór e Treblinka.

Ma gli storici revisionisti contestano tutto ciò. Essi sostengono che non vi sono prove documentarie o materiali per questa asserzione. In una serie di studi, essi hanno fornito prove basate sulla documentazione come pure sulle prove archeologiche-forensi e tecniche

  • Che le presunte camere a gas omicide non sono mai esistite in questi campi,
  • Che sarebbe stato tecnicamente impossibile bruciare le presunte quantità di cadaveri, come è stato asserito, nei crematori o su pire,
  • Che non vi sono tracce delle necessarie fosse comuni della necessaria grandezza,
  • Che le presunte vittime di questi campi furono, e sono ancora oggi, grandemente esagerate, e
  • Che l’esistenza di un piano nazionalsocialista per l’omicidio sistematico degli ebrei europei non può essere provata[1].

In sostanza, non vi è discussione riguardo al fatto che ben oltre due milioni di ebrei siano stati deportati nei campi suddetti. Se si presume, come ipotesi di lavoro, che i deportati in questi campi non vennero uccisi, sorge la questione: cosa altro successe loro?

I revisionisti ipotizzano che i sei campi menzionati funsero parzialmente (Auschwitz, Majdanek), o esclusivamente, come campi di transito, dove la massa degli ebrei deportati rimaneva per un periodo di tempo molto breve e poi veniva deportata più lontano, all’est. Questa è anche la prima ipotesi di Werner, come egli spiega proprio all’inizio. Nel corso degli anni, diversi revisionisti hanno cercato di dimostrare questa tesi[2]. Essi hanno mostrato che questa ipotesi dei campi di transito è pienamente in linea con le politiche documentate del Terzo Reich verso gli ebrei, come si riflettono nei rapporti ufficiali e interni, nei documenti sui trasporti ebraici, ed anche negli scambi classificati tra i membri dirigenti delle SS.

Tuttavia, gli storici ortodossi insistono che i termini che dominano in questi documenti – quali “campi di transito”, “migrazione all’est”, “reinsediamento”, ed “evacuazione” – erano semplicemente parte di un linguaggio in codice usato dalle autorità del Terzo Reich per evitare di documentare l’inquietante, se non altamente criminale, realtà degli stermini, per non creare prove contro sé stessi. Sebbene tali tattiche verrebbero probabilmente usate da ipotetici sterminatori, l’assenza di prove documentarie dello sterminio non è certamente una prova per la sua esistenza, ma piuttosto contro di essa.

Mentre gli storici ortodossi lottano per spiegare dove i cadaveri, o i loro resti, si trovino come risultato dello sterminio che essi postulano, i revisionisti affrontano la sfida di dimostrare dove gli ebrei andarono.

Non vi possono essere dubbi che la deportazione di milioni di persone avrebbe lasciato tracce accertabili. Anche se si presume che gli archivi, specialmente nell’ex Unione Sovietica, siano stati ripuliti da ogni sorta di documenti “scomodi”, ci si dovrebbe aspettare che altre tracce documentarie si siano conservate. Inoltre, vi dovrebbe essere una moltitudine di testimonianze attestanti l’arrivo e la presenza degli ebrei deportati nei territori orientali occupati. Ci si dovrebbe aspettare anche che queste attività di insediamento abbiano lasciato delle tracce materiali.

In tre lunghi articoli pubblicati negli anni 2010-2011, il revisionista svedese Thomas Kues ha messo insieme tutte le prove trovate a sostegno della tesi revisionista, aggiungendo una lunga lista di nuove prove a questa lista già considerevole.

Per molti storici ortodossi, l’ipotesi revisionista dei campi di transito è una tremenda provocazione che essi di solito ignorano accuratamente. Nel dicembre 2011, tuttavia, cinque ricercatori ortodossi pubblicarono una risposta di 570 pagine alla tesi revisionista (Harrison e altri). Questa, a sua volta, scatenò una massiccia risposta da parte dei criticati ricercatori revisionisti, che venne pubblicata due anni dopo, nell’ottobre 2013, in un’opera in due volumi di quasi 1.400 pagine (Mattogno/Kues/Graf).

In questo contesto, è di particolare interesse che in questa occasione Thomas Kues e Carlo Mattogno precisarono i loro argomenti già espressi nei libri e negli articoli scritti in precedenza, e li corroborarono in 140 pagine con ulteriori argomenti e prove (Ivi, capitolo 7: “Dove andarono: la realtà del reinsediamento”, vol. 1, pp. 561-703).

Nel leggere queste opere revisioniste sull’argomento si capisce che il destino di questi deportati che vennero deportati all’Est non fu molto roseo. Sebbene essi non possono essere stati uccisi (“gasati”) a Bełżec, Chełmno, Sobibór e a Treblinka, la loro sorte in Bielorussia e in altre destinazioni non fu necessariamente molto migliore, poiché alloggiare queste masse in condizioni umane in queste zone in un periodo di tempo così breve e sotto le condizioni dell’epoca di guerra era logisticamente impossibile. Il numero delle vittime deve perciò essere stato terribilmente alto anche in questo scenario.

A dispetto di tutto questo, gli storici ortodossi ancora rifiutano l’ipotesi revisionista dei campi di transito. Alcuni di loro sfidano i revisionisti a mostrare loro un ebreo, un singolo ebreo, che venne deportato in uno dei “campi di sterminio”, che sopravvisse e che poi comparve ancora più ad est. Io risposi a questa sfida con un articolo che, a mio avviso, rispondeva a questo criterio: un singolo ebreo. No, in realtà due (Rudolf 2017). Entrambi questi casi non furono scoperti da me, ma da Carlo Mattogno e da Jean-Marie Boisdefeu. Ecco i due casi:

Caso numero 1, scoperto da Carlo Mattogno

Una certa Minna Grossova, che era nata il 20 settembre 1874, venne deportata a Treblinka il 19 ottobre 1942 all’età di 68 anni, in un’epoca in cui si presume che venissero uccisi e seppelliti in media 5.000 ebrei al giorno. Ma invece di essere uccisa lì, ella semplicemente passò attraverso Treblinka e da lì venne inviata a Auschwitz, tra tutti i posti. Alla sua età, ella venne certamente classificata come “inabile al lavoro” mediante la solita selezione all’arrivo e avrebbe dovuto essere perciò inviata alle camere a gas, se la tesi ortodossa fosse corretta. Ma non è questo che accadde, perché ella venne adeguatamente registrata nel campo e morì lì solo 14 mesi dopo, il 30 dicembre 1943 (Mattogno 2016, p. 165).

Se la signora Grossova venne risparmiata dalle camere a gas a Treblinka e a Auschwitz all’età di 68 anni, allora perché molti altri non dovrebbero aver condiviso lo stesso destino? Questo destino sottolinea parimenti che Treblinka venne in realtà utilizzata come campo di transito in cui nemmeno gli ebrei vecchi e infermi venivano uccisi. In ogni caso, è improbabile che la signora Grossova fu la sola deportata trasferita da Treblinka a Auschwitz. Singoli trasporti per ebrei in autovetture non esistevano all’epoca.

Caso numero 2, scoperto da Jean-Marie Boisdefeu

Questo caso è basato su un registro mortuario pubblicato da un’agenzia governativa tedesca. Riguarda l’ebreo berlinese Siegmund Rothstein, nato nel 1857, che venne deportato nel ghetto di Theresienstadt nell’agosto 1942. Tuttavia, solo un mese dopo, il 26 settembre, egli venne deportato a Treblinka all’età di 75 anni. Ma questa non fu ancora la sua fine, perché le autorità tedesche registrarono un altro segno della sua vita ancora più ad est: essi accertarono che Rothstein era morto a Minsk, la capitale della Bielorussia. Questa città è ubicata 286 chilometri ad est di Treblinka (Boisdefeu 2009, pp. 133-136).

Dubito che il settantacinquenne Rothstein saltasse giù dal treno prima di arrivare a Treblinka e che arrivasse da solo nella Minsk occupata dai tedeschi. Perciò, egli deve essere arrivato lì con il treno. Dubito anche che le autorità tedesche riservassero un treno solo per lui o che semplicemente lo portassero a Minsk con un treno militare. Egli deve aver fatto questo viaggio con centinaia o migliaia di deportati da Theresienstadt su un treno per deportati.

Questo non è affatto un caso isolato, perché Boisdefeu afferma che nessuno delle migliaia di ebrei deportati da Theresienstadt sono elencati nel registro mortuario tedesco come uccisi a Treblinka, ma che essi sono tutti elencati come morti o come abbiano lasciato il loro ultimo segno di vita in luoghi differenti prima che tutte le tracce di costoro scomparissero. Questo caso indica anche che migliaia di ebrei vennero deportati attraverso Treblinka come campo di transito verso l’”Est”.

Ma vi furono anche deportazioni all’ovest che passarono attraverso Treblinka. Su questo, esistono diverse testimonianze oculari di sopravvissuti che vennero registrate dalle organizzazioni ortodosse (Hunt, 6 min. 18 sec.). Questi testimoni confermano che essi, insieme a centinaia di altri deportati, transitarono davvero attraverso il campo di Treblinka. Sebbene questi sopravvissuti vennero inviati nel campo di lavoro di Majdanek invece che all’Est, essi confermano che Treblinka, almeno in questi casi, funse come campo di transito per migliaia di ebrei.

Ne consegue che Treblinka deve in realtà aver avuto la logistica che rendesse temporaneamente possibile – per poche ore o per pochi giorni – ospitare, nutrire e pulire centinaia, se non migliaia, di individui.

I desiderata della ricerca

“Questi sono solo casi isolati”, affermano i nostri avversari. Certo, ma finora nessuno ha sistematicamente esplorato questa questione. Ma questi casi isolati sono tutto quello che ci vuole per minare irreparabilmente il dogma dei campi di puro sterminio. A quanto pare, Treblinka e perciò probabilmente anche Bełżec, Chełmno e Sobibór furono qualcosa di più che solo campi di sterminio. Cosa rimane da fare?

  • Le migliaia di dichiarazioni dei sopravvissuti prese da varie istituzioni dovrebbero essere sistematicamente esaminate in cerca di brevi riferimenti alle permanenze nei “campi di puro sterminio”.
  • Gli archivi dei governi, gli archivi digitali, i musei e altre collezioni storiche in città e centri nelle aree di destinazione delle deportazioni dovrebbero essere setacciati in cerca di prove documentarie sui preparativi per le attese deportazioni o per gli arrivi e l’alloggiamento dei deportati o su ogni altro differente trattamento.

Qualche anno fa, Thomas Kues decise di intraprendere un più lungo viaggio di ricerca nella zona delle deportazioni per affrontare il secondo dei predetti desiderata. Ma egli incontrò un’inaspettata resistenza, cosicché egli non solo dovette rinunciare a questo tentativo, ma fu anche costretto a ritirarsi completamente dalla ricerca storica, almeno temporaneamente. Finora, egli non ci ha inviato informazioni più dettagliate.

Nel presente libro, Steffen Werner ha avuto un approccio differente per svelare almeno parzialmente il mistero del destino degli ebrei deportati all’Est. Egli scrisse questo libro quando l’Unione Sovietica era in caduta libera. Werner espresse la speranza che la politica della Glasnost e della Perestroika iniziata da Gorbaciov avrebbe portato molti file e archivi che erano stati in precedenza inaccessibili ad essere liberamente accessibili. Questo, egli sperava, avrebbe reso possibile corroborare ulteriormente la sua tesi che gli ebrei deportati all’Est vennero in realtà inviati “nella palude” della Bielorussia, come Hitler aveva detto.

Purtroppo, la primavera archivistica della libera Russia durò solo pochi anni. A causa in parte della pressione del governo tedesco, i russi e altri paesi dell’Europa orientale chiusero di nuovo i loro archivi verso la fine degli anni 1990. Da allora, i ricercatori indipendenti non possono più accedere a questi archivi. Dal 2014, è inoltre potenzialmente punibile fino a 5 anni di imprigionamento in Russia, come lo è in Germania, diffondere pubblicamente tesi come quelle qui esposte e argomentate.

La seconda tesi di Werner è che gli ebrei deportati durante la guerra all’est “nella palude” dovrebbero trovarsi lì ancora oggi (vale a dire nel 1990). Io penso che questa tesi è un po’ naïve, per diverse ragioni:

  1. Gli Einsatzgruppen

Come Werner ha detto diverse volte, le truppe tedesche all’Est furono coinvolte in una brutale guerra partigiana. Quelle che Werner non menziona sono le contro-misure tedesche, specialmente le operazioni degli Einsatzgruppen e delle unità tedesche a loro associate. Werner presenta qui un sorprendente punto debole, perché egli non menziona il termine Einsatzgruppen nemmeno una volta in tutto il suo testo.

Secondo la narrazione ortodossa, gli Einsatzgruppen commisero dei massacri nell’Est tra gli ebrei baltici, ucraini, bielorussi e russi sin dall’inizio della campagna di Russia, e almeno un milione di ebrei caddero loro vittime. Si ritiene che anche gli ebrei deportati all’Est da altre parti d’Europa siano stati coinvolti in questi eccidi.

I testi revisionisti su questo argomento vedono le attività degli Einsatzgruppen in una luce in qualche modo differente, ma anche da questa prospettiva diventa chiaro che gli ebrei all’Est furono i capri espiatori dell’escalation della guerra (vedi le “Osservazioni conclusive” di Rudolf a Siegert, pp. 550-555, come pure Mattogno 2018).

In tali condizioni, è da pensare che alcuni degli ebrei deportati all’Est presto o tardi finirono in fosse comuni, o perché essi si erano uniti ai partigiani e vennero giustiziati come tali dai tedeschi, o perché vennero giustiziati durante uccisioni effettuate per rappresaglia a crimini perpetrati dai [partigiani] – anche queste sarebbero state legali in base alla legge marziale, se condotte in forma non eccessiva (vedi Siegert) – o perché furono “preventivamente” uccisi con amici e parenti come presunti portatori di bolscevismo e potenziali contributori della guerra partigiana. A prescindere dalla valutazione legale delle azioni individuali, rimane il fatto che gli ebrei deportati all’Est non erano affatto al sicuro lì, come minimo.

  1. La politica di Stalin verso i deportati

Dopo che queste aree erano state riconquistate dall’Armata Rossa, gli ebrei deportati all’Est non erano ancora fuori pericolo. Innanzitutto, bisogna tenere presente che tra coloro che erano stati conquistati dall’Armata Rossa nessuno fu liberato. Il cambiamento degli eserciti dominanti portò solo un cambiamento del sistema oppressivo, non una liberazione. In realtà, gran parte delle popolazioni temporaneamente occupate dai tedeschi fecero capire molto chiaramente con i loro piedi cosa pensavano della propaganda sulla liberazione effettuata dall’Armata Rossa: quando le unità tedesche iniziarono a ritirarsi, molti dei locali vollero unirsi ai tedeschi per andare all’ovest ma si dovette impedirglielo, perché una spedizione di milioni di migranti o rifugiati verso l’ovest avrebbe reso le operazioni militari tedesche impossibili.

Sebbene gli ebrei, come capri espiatori dei nazionalsocialisti, si sentirono probabilmente liberati dall’Armata Rossa, Stalin non era affatto amico degli ebrei in quanto tali. La sua diffidenza verso tutte le parti della popolazione che erano state sotto l’influenza tedesca era così grande (e per lo più giustificata) che la caccia alle streghe colpì gli ex collaboratori in tutte le zone riconquistate. Parti significative dei gruppi etnici che avevano collaborato in modo particolarmente intenso con i tedeschi scomparvero in Siberia. I detenuti dei campi liberati non rimasero esenti da tutto ciò, sia che fossero prigionieri di guerra, nei campi di concentramento o persino nei ghetti. In particolare, elementi stranieri con un background occidentale-liberale all’epoca erano considerati sospetti.

Dopo il ritiro dei tedeschi, le persone che erano sopravvissute non solo alla stessa deportazione ma anche alle azioni degli Einsatzgruppen e alle condizioni di vita certamente miserabili “nella palude” videro sé stesse una volta di più come bersagli della persecuzione e dell’oppressione. Si può perciò ritenere che il numero dei deportati sopravvissuti che vivevano ancora “nella palude” quando l’Unione Sovietica crollò non era alto.

Ma anche coloro cui fu permesso di rimanere nelle aree della deportazione e che in seguito non seguirono la tendenza generale di trasferirsi all’Ovest o in Israele per emigrare, alla fine erano diventati prigionieri dell’Unione Sovietica, come tutte le altre persone di questo impero totalitario. Sia che fossero ebrei oppure no, sia che fossero deportati, profughi o membri delle popolazioni locali, la pressione per essere assimilati nell’Unione Sovietica a quell’epoca era grande, e non c’era nessuna possibilità per certi gruppi – in questo caso gli ex deportati – per organizzarsi fuori della supervisione dello stato.

In queste circostanze, sarebbe quasi impossibile senza l’aiuto delle autorità o almeno del loro consenso rintracciare i sopravvissuti di quell’epoca o i loro discendenti di oggi. E con il passare degli anni, tutto questo diventa sempre più difficile.

In realtà, non solo non c’è nessun aiuto o tolleranza da parte delle autorità per questi ipotetici progetti di ricerca, ma nel migliore dei casi si rischia una visita del pubblico ministero, vedi sopra.

Non sorprende perciò che le precedenti edizioni di questo libro vennero confiscate nel 1993 per ordine della Corte Distrettuale di Tubinga ed in seguito bruciate in impianti di incenerimento della spazzatura[3]. Di fronte a tali condizioni dittatoriali, l’erudizione storica può produrre risultati attendibili in questo campo di studi solo con il massimo sforzo e con sacrifici.

I nostri pensieri sono liberi, i nostri pensatori sono in prigione o in esilio.

Germar Rudolf,

Red Lion, PA, 10 marzo, 2019

Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale è disponibile all’indirizzo: http://germarrudolf.com/en/2019/04/foreword-to-s-werners-the-second-babylonian-captivity/#_ftn2

 

 

 

 

 

 

 

[1] Il primo, cauto passo in questa direzione è stato il libro di Rassinier Il dramma degli ebrei europei, che oggi presenta solo un interesse storico. Per sforzi di ricerca più recenti si vedano i molti volumi della serie Holocaust Handbooks elencati alla fine di questo libro.

[2] Cf. Enrique Aynat, Estudios sobre el “Holocausto, Graficas Hurtado, Valencia 1994;  Jean-Marie Boisdefeu, La Controverse sur L’Extermination des Juifs par les Allemands; 2 Vols., Vrij Historisch Onderzoek, Antwerpen 1996; Carlo Mattogno, Jürgen Graf, Treblinka: Extermination Camp or Transit Camp?, Castle Hill Publishers, Uckfield 2016; Carlo Mattogno, Thomas Kues, Jürgen Graf, The “Extermination Camps” of “Aktion Reinhardt”: An Analysis and Refutation of Factitious “Evidence,” Deceptions and Flawed Argumentation of the “Holocaust Controversies” Bloggers, Castle Hill Publishers, Uckfield 2013; 2nd ed. ibid., 2015.

[3] Verdetto della Corte di Tubinga, Ref. 15 Js 1608/93, riguardo a Werner Steffen Werner, Die zweite babylonische Gefangenschaft: Das Schicksal der Juden im europäischen Osten, Selbstverlag, Pfullingen 1990/Grabert, Tübingen 1991.

5 Comments
    • MDA
    • 22 Aprile 2019

    Non mi convince la parte riguardante la politica di Stalin verso i deportati.
    O meglio non credo che TUTTI gli ex prigionieri passarono dai campi tedeschi a quelli russi. Penso che ci furono dei trattamenti speciali per una parte di essi, del resto sappiamo chi controllava l’Urss….

    Rispondi
    • a.carancini
    • 22 Aprile 2019

    E chi è che controllava l’URSS?

    Rispondi
      • MDA
      • 30 Aprile 2019

      chi è che controllava l’URSS?
      A dare retta a Preziosi, Nylius o Solgenitsin, certamente non i Russi…

      Rispondi
        • a.carancini
        • 30 Aprile 2019

        Alla fine degli anni ’30, certamente non gli ebrei, che erano stati eliminati dalle grandi purghe.

        Rispondi
    • a.carancini
    • 22 Aprile 2019

    Io invece trovo ottima tutta la prefazione di Germar.

    Rispondi

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