Sì, negli anni ’60 del primo secolo c’erano già le Lettere Pastorali di Paolo e il Vangelo di Luca

Quando sono stati scritti i testi del Nuovo Testamento? Secondo l’esegesi oggi dominante – non solo nelle università ma anche nei seminari – i testi del Nuovo Testamento sono stati scritti tutti (o quasi) dopo l’anno 70 del primo secolo dell’era cristiana. Ad esempio, come ricordava qualche anno fa il noto giornalista e scrittore Antonio Socci nel suo bellissimo libro “La guerra contro Gesù” (pubblicato nel 2011),

“oggi, nei manuali circolanti in ambiente cattolico, come il volume Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli del Corso di studi biblici (edizioni Elledici) usato nei seminari, o nei testi divulgativi, si afferma che il periodo di redazione dei Vangeli va dal 70 al 100 d.C. (Marco nel 70, Matteo e Luca dopo l’80 e Giovanni fra 90 e 100 d.C.)”[1].

Dunque, a dar retta a queste pubblicazioni, i Vangeli sarebbero stati scritti dopo l’anno 70, l’anno, ricordiamolo, in cui Gerusalemme e il suo Tempio vennero distrutti dalle truppe romane.

Ma non è stato sempre questo l’orientamento della Chiesa cattolica. Infatti, come ricorda sempre Socci, nella Sacra Bibbia pubblicata nel 1962 dai padri gesuiti del Pontificio istituto Biblico di Roma, “frutto di lunghi e complessi studi”, viene affermato che la traduzione greca di Matteo fu fatta attorno all’anno 50 (mentre l’originale aramaico è all’incirca del 40), il Vangelo di Marco è databile dopo l’anno 54 e prima del 61 e Luca scrisse prima del 60[2].

Ho ripensato a tutto questo nei giorni scorsi, mentre leggevo le Lettere Pastorali di San Paolo e, in particolare, la Prima lettera a Timoteo.

La Bibbia da me utilizzata è quella pubblicata nel 1966 dall’editore Marietti e per la cura di Mons. Salvatore Garofalo. Nella Prima lettera a Timoteo c’è un passo che mi ha molto colpito. Il passo corrisponde ai versetti 17 e 18 del capitolo 5:

“I presbiteri che presiedono bene siano ritenuti degni di doppia ricompensa, specie quelli che faticano nella parola e nell’insegnamento. Dice infatti la Scrittura: Al bue che trebbia non mettere il morso e: L’operaio merita il suo salario”.

Nella relativa nota a piè di pagina possiamo leggere:

“Citazione di Deut 25, 4 (cfr. 1 Cor 9, 9) e Lc 10, 7 messo nel rango delle Scritture sacre”.

Il versetto 10, 7 del Vangelo di Luca infatti recita:

“Restate in quella casa, mangiando e bevendo ciò che vi sarà dato: l’operaio, infatti, è degno della sua mercede. Non passate di casa in casa”.

Quello che mi ha colpito, nel predetto passo della Prima lettera a Timoteo è proprio il fatto che San Paolo cita un passo di Luca ponendolo nel rango di scrittura sacra, e questo già negli anni 60 del primo secolo (la Bibbia di Garofalo assegna la lettera di San Paolo agli anni 64-65).

Quindi, negli anni ’60 del primo secolo il Vangelo di Luca c’era già, al contrario di quanto viene oggi insegnato nelle università e nei seminari.

Ricordavo però che l’autenticità della lettera era stata rifiutata da alcuni studiosi moderni e allora sono andato a controllare sulla relativa pagina di Wikipedia, e lì infatti ho trovato la seguente informazione:

“Secondo la maggioranza degli studiosi moderni si tratta invece di una lettera pseudepigrafica, scritta da un autore diverso da Paolo tra la fine del I e l’inizio del II secolo”.

A questo punto mi sono ricordato anche che sempre Socci, nel predetto libro, ha affrontato l’argomento dell’autenticità delle Lettere Pastorali. L’autore, citando gli studiosi Manlio Simonetti ed Emanuela Prinzivalli, ricorda un episodio storico importantissimo e che dovrebbe far riflettere:

“«Quando [la Chiesa ufficiale, N.d.A.] scoprì che l’autore dei popolarissimi Atti di Paolo e Tecla (seconda metà del II secolo) era stato un presbitero asiatico di nome Lucio, anche se si mise in chiaro la sua buona fede in quanto il testo era immune da errori dottrinali, egli fu rimosso dalla sua funzione». Costui infatti «aveva composto l’opera ponendola sotto il nome di Paolo, convinto di farlo a gloria dell’apostolo» e infatti fu «destituito per falso, non per eterodossia». Questi esempi davvero significativi, considerati raramente dai critici della Chiesa e solo per segnalarne l’aspetto di chiusura disciplinare, provano invece l’estrema, rigorosa fedeltà della Chiesa, fin dall’inizio, nel conservare la verità dei fatti e nel rifiutare ogni fantasia e alterazione (anche a fini propagandistici) e ogni uso falso dei nomi degli apostoli per accreditare un testo[3].

Chiosa poi Socci nella relativa nota a piè di pagina n°166:

“Questo episodio è prezioso anche per capire quanto sia inverosimile ciò che afferma la critica moderna secondo cui vi sarebbero epistole di Paolo, come quelle a Timoteo o a Tito, che in realtà sarebbero state scritte da discepoli di Paolo, dopo la sua morte e a lui (falsamente) attribuite. L’episodio del presbitero Lucio mostra che è del tutto impossibile che una simile operazione falsificatrice sarebbe stata avallata e coperta dalla Chiesa di quei primi decenni”.

Non basta. Negli anni ’70 del Novecento c’è stata la clamorosa scoperta del frammento di papiro 7Q4. È sempre Socci a ricordarlo:

“Sennonché nei primi anni Settanta è avvenuto un colpo di scena imprevisto. Dalle grotte di Qumran, piene di manoscritti che di certo furono redatti prima dell’anno 68 d.C., è saltato fuori proprio un frammento della Prima lettera a Timoteo (7Q4), riconosciuto come tale nei primi anni Settanta dal grande papirologo José O’Callaghan. Il frammento di rotolo papiraceo riporta il brano 1Tim3,16; 4,3. Questa identificazione – c’informa Thiede – «ha resistito a tutte le critiche, per quanto esse siano state marginali»[4]”.

Questa straordinaria scoperta è stata però silenziata dagli esegeti modernisti e infatti su Wikipedia il 7Q4 è citato solo en passant.

Risulta quindi definitivamente dimostrata la datazione tradizionale della Prima lettera a Timoteo, e quindi anche il fatto che negli anni 60 del primo secolo il Vangelo di Luca già esisteva (ed era considerato scrittura sacra).

Ma il Vangelo di Luca, nel primo secolo dell’era cristiana, non è stato citato solo da San Paolo. Anche gli Atti degli Apostoli, come si sa, ne parlano:

“Il mio primo volume, o Teofilo, trattava di quel che Gesù iniziò a dire e a compiere fino al giorno in cui, dopo avere per virtù di Spirito Santo dato ordini agli apostoli da lui eletti, fu elevato al cielo”[5].

Ricordiamo che gli Atti degli Apostoli terminano prima della conclusione del primo processo di San Paolo, ultimato agli inizi degli anni ’60. Come si fa allora a datare il Vangelo di Luca agli anni ’80, posticipando la conclusione degli Atti di oltre venti anni?

Non c’è dubbio: gli esegeti modernisti e gli studiosi “razionalisti” rifiutano l’origine apostolica dei libri del Nuovo Testamento e lo fanno per partito preso, non per ragioni scientifiche.

Osserva al riguardo il noto papirologo e storico Carsten Peter Thiede:

“Contro la scelta speculativa del rifiuto dell’origine apostolica dei Vangeli c’è anche il riferimento inserito all’interno del Nuovo Testamento: gli Atti degli Apostoli, il secondo libro di Luca, terminano prima dell’assassinio di Giacomo, narrato da Giuseppe Flavio e avvenuto nel 62 d.C. Non si fa accenno neanche all’esecuzione capitale di Pietro e Paolo (64/65 d.C. o 67 d.C.); al contrario: il libro termina con la descrizione di Paolo che insegna a Roma, circa 59/60 d.C. (At 28, 30-31). Lo storico, studioso dell’Antico Testamento, cosciente degli strumenti del suo lavoro vi può solo dedurre che gli Atti degli Apostoli sono stati terminati prima della morte di Giacomo, di Paolo e di Pietro. Pertanto, stando così le cose, il Vangelo di Luca deve essere stato scritto ancora prima, e di conseguenza i Vangeli che egli presuppone – Marco e Matteo – ancora prima. I tentativi talvolta stravaganti di alcuni studiosi del Nuovo Testamento di sottrarsi a questa ammissione con varie ipotesi e congetture non possono modificare nulla di tutto ciò”[6].

Paolo VI affermò a suo tempo di avere la sensazione che “da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio”. Lo disse giusto 50 anni fa, nel 1972. Già all’epoca infuriava l’esegesi modernista. Ma il papa non fece nulla per fermarla, anzi la favorì, come l’illustre esegeta Mons. Francesco Spadafora ha documentato nel suo libro La «nuova esegesi»[7].

I sostenitori di tale “esegesi”, per giustificare la propria opera demolitrice, parlano di “metodo storico-critico” ma l’espressione è impropria. Si dovrebbe piuttosto parlare di pregiudizio ideologico e di (cattiva) teologia.

Il (vero) metodo storico-critico è invece quello di cui si sono avvalsi illustri studiosi come i predetti Spadafora e Thiede, e come le antichiste Marta Sordi e Ilaria Ramelli. In questi decenni, nuovi scenari si sono aperti (anche grazie a scoperte come quelle dei papiri cristiani di Qumran). Fortunatamente, per chi voglia cercare la verità con animo disinteressato, non ci sono solo le macerie della “nuova esegesi”.

Edizioni Amicizia Cristiana - Francesco Spadafora: Bio-Bibliografia

Francesco Spadafora

 

[1] Antonio Socci, La guerra contro Gesù, Rizzoli, 2011, p. 292.

[2] Ivi, pp. 288-289.

[3] Ivi, pp. 114-115.

[4] Ivi, pp. 338-339.

[5] La Sacra Bibbia, Marietti 1966, p. 212.

[6] Postfazione di Carsten Peter Thiede a: Hans-Joachim Schulz, L’origine apostolica dei Vangeli, Gribaudi, Milano 1996, p. 435.

[7] Mons. Francesco Spadafora, La «nuova esegesi» – Il trionfo del modernismo sull’esegesi cattolica, 1996.

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