Vincenzo Vinciguerra: Neofascisti? No, carabinieri

Vincenzo Vinciguerra: Documento del 1987 - Andrea Carancini

NEOFASCISTI? NO, CARABINIERI

Di Vincenzo Vinciguerra, 4 agosto 2001

La sinistra diessina ha cautamente sollevato il problema rappresentato dalla presenza di Gianfranco Fini, segretario di Alleanza nazionale e vice presidente del Consiglio, nella sede del Comando provinciale dei carabinieri di Genova mentre infuriavano nelle strade della città gli scontri tra le forze di sicurezza e i manifestanti anti-globalizzazione. Fini non era solo: ben quattro parlamentari del suo partito erano installati nella sala operativa dei carabinieri di Genova, evidentemente per seguire in diretta gli avvenimenti ed incitare i militi dell’Arma ‘benemerita’ a compiere il loro ‘dovere’ di reprimere la rivolta anti-globalizzazione.

Ipocrita lo stupore di una certa sinistra nell’assistere all’ostentato sostegno offerto da un partito di governo alla sola Arma dei carabinieri. Fasulla meraviglia viene espressa in un articolo de “La Repubblica” che, sotto il titolo “Tra An e gli uomini in divisa un feeling che parte da lontano”, inizia il racconto di questo rapporto dal 1999! Cosa dice il quotidiano borghese del miliardario Eugenio Scalfari e del cognato di Gianni Agnelli, che dal 1976 ha sostenuto il Partito comunista italiano, poi Pds e infine Ds? Ci informa che Filippo Ascierto, deputato di An, è un sottufficiale dei carabinieri; che il senatore Mario Palombo, sempre di An, è un ex generale dei carabinieri; che, infine, il generale dei carabinieri Clemente Gasparri è fratello dell’esponente di An Maurizio Gasparri, oggi ministro delle Comunicazioni. Troppo poco per giustificare gesti gravissimi come quelli compiuti da Fini e dai suoi colleghi a Genova, con la loro presenza nei comandi dei carabinieri per fornire una copertura politica alla repressione condotta, con l’usuale durezza, dagli uomini dell’Arma.
La verità che il miliardario Eugenio Scalfari ed il cognato dell’avvocato Agnelli, Carlo Caracciolo, hanno sempre tenuta accuratamente occultata ai loro lettori in linea con la politica del silenzio e della disinformazione seguita dalla sinistra italiana borghese, comunista e perfino antagonista, è un’altra, che affonda le radici negli anni fra il 1943 ed il 1945.

Si chiamava Giuseppe Polosa, capitano dei carabinieri, fedele al Regno del sud, subalterno del maresciallo d’Italia Pietro Badoglio e, contemporaneamente, del maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani, ministro della Difesa della Rsi e comandante in capo dell’esercito di Salò. Polosa difatti era distaccato presso il Quartiere generale di Graziani e, in un secondo tempo, si occupò di mantenere i rapporti con Junio Valerio Borghese, comandante della Decima Mas. Finita la guerra, ovviamente, Polosa proseguì la sua carriera nell’Arma divenuta repubblicana senza essere sottoposto ad alcuna inchiesta giudiziaria. È solo un esempio, su migliaia che se ne potrebbero portare.
Se i fascisti richiedevano a Mussolini lo scioglimento dei carabinieri fedeli al re; se ad essi attribuivano l’assassinio di Ettore Muti nella pineta di Fregene; se diverse migliaia di militi venivano deportati in Germania con l’autorizzazione del duce, altri carabinieri continuavano ad operare all’interno della Rsi, assumendo posizioni di rilievo nella Guardia nazionale repubblicana e dirigendo il Servizio informazioni difesa (Sid) della Rsi, in obbedienza a direttive precise impartite dal Comando generale installato al sud, con l’assenso riservato dei vertici militari della Repubblica sociale italiana rappresentati da Rodolfo Graziani.

Cessate le ostilità, i carabinieri raccolgono i frutti del doppio gioco condotto nell’Italia repubblicana, raccattando nelle campagne e nelle città tutti quei neofascisti che avevano aderito alla Rsi perché non avevano avuto altra alternativa (anche per andare in montagna con i partigiani ci vuole coraggio), per ragioni emotive e non ideologiche, per opportunismo, non per scelta di campo. Tutti costoro, per forza di cose, identificavano la Rsi non nella figura di Benito Mussolini e tantomeno in quella dell’ultimo segretario del Pfr Alessandro Pavolini, ma in quella del maresciallo Rodolfo Graziani, il ‘soldato’ che aveva mantenuto ‘apolitiche’ le forze militari della Rsi e che aveva aderito alla repubblica di Salò per ‘spirito di sacrificio’ e sottrarre l’Italia centro- settentrionale alla vendetta tedesca. Sono i ‘neofascisti della Resistenza tricolore’, concetto che viene affermato negli ambienti militari, per rivendicare il merito di aver aderito per sabotare lo sforzo della Rsi e del suo alleato germanico, ‘proteggendo’ la popolazione civile esposta, invece, alle rappresaglie dagli attacchi che i partigiani comunisti (la resistenza rossa) conducevano contro i reparti fascisti e tedeschi.

La nascita del Movimento sociale italiano, nel dicembre 1946, rappresenta la concretizzazione del concetto di ‘resistenza tricolore’ che viene esteso a tutti coloro che hanno combattuto ‘per l’Italia’, al nord come al sud, nei reparti regolari delle forze armate e nelle bande partigiane autonome od anticomuniste. Uno l’obiettivo imposto ai fondatori del Msi dal Vaticano, Democrazia cristiana, servizi segreti alleati ed italiani, ministero dell’Interno e carabinieri: unire in un soggetto politico ma non partitico, in un movimento di opinione i combattenti dell’una e dell’altra parte, elevando a propri simboli i soldati apolitici rappresentati da Rodolfo Graziani e Junio Valerio Borghese. La ottusa e cieca propaganda della sinistra che si affretta ad identificare il Msi come la riedizione del Partito fascista repubblicano, favorisce la nascita di un equivoco, alimentato strumentalmente dalla stessa dirigenza missina, che finirà solo nel 1994, trasformando sul piano mediatico un gruppo di servitori dei poteri forti dello Stato in un manipolo di fascisti fanatici votati alla rivincita. Saranno migliaia i giovani che, incolpevolmente, cadranno in questo equivoco e aderiranno al Movimento sociale italiano convinti di indossare la camicia nera per ritrovarsi, viceversa, con la divisa del carabiniere.

I rapporti fra Movimento sociale italiano e carabinieri si rafforzano via via che viene alimentato il ‘pericolo comunista’ da parte americana e vaticana. L’inesistente pericolo rosso comporta la creazione di solide e segrete strutture di difesa dello Stato e del regime, all’interno delle quali il Movimento sociale ha un ruolo primario come riserva di uomini da utilizzare in caso di necessità. Saranno i carabinieri a creare la prima struttura segreta composta da civili inquadrati sotto il loro comando, che farà la sua prima – e ancora oggi negata – esercitazione nel corso delle elezioni politiche del 1948. Saranno le forze armate ed in particolare i carabinieri a distribuire armi e bombe a mano, fucili e mitragliatrici ai ‘neofascisti’ del Movimento sociale il 18 aprile 1948. Finita l’emergenza, le armi saranno ritirate e conservate nelle caserme dell’Arma o, addirittura, nelle case dei sottufficiali per essere redistribuite il più velocemente possibile in caso di necessità. La rete di resistenza anticomunista dei carabinieri, presente su tutto il territorio nazionale, forte di migliaia di uomini, limiterà la propria attività per tutti gli anni Cinquanta a compiti informativi. A partire dagli anni Sessanta vi è una pagina intonsa, relativa al ruolo ricoperto dall’Arma della ‘Gladio in alamari’, nella strategia della tensione. Perché nessuno, politico, magistrato, giornalista, storico ha avuto il coraggio di leggerla nonostante le innumerevoli prove che si sono accumulate nel tempo a carico della ‘Benemerita’ e del suo Comando generale. Eppure, basta scorrere gli atti che una riottosa e recalcitrante magistratura ha dovuto registrare per rendersi conto che non c’è evento sanguinoso in Italia in cui, insieme ai neofascisti, non appaiono ufficiali e sottufficiali dei carabinieri.

Nella capitale delle stragi, in questa Milano insanguinata, i rapporti fra la dirigenza missina e il comando della divisione carabinieri ‘Pastrengo’ sono consacrati in migliaia di pagine processuali, contenenti testimonianze anche interne all’Arma. Lo stesso Giancarlo Rognoni, condannato per la strage mancata del 7 aprile 1973 sul treno Torino-Roma ed ora per quella di piazza Fontana, era assiduo frequentatore della caserma di via Moscova. Carlo Maria Maggi poteva dare ai suoi fidi l’indirizzo di una caserma dei carabinieri di Mestre nella quale rifugiarsi in caso di pericolo. Il documento dei servizi di sicurezza greci del 15 maggio 1969 fa riferimento al ruolo della ‘gendarmeria’ italiana nella strategia che porterà poi alla strage della Banca dell’agricoltura, dove per ‘gendarmeria’ s’intende proprio l’Arma dei carabinieri. E fondamentale sarà il ruolo dei carabinieri nel tentato ‘golpe’ del 7/8 dicembre 1970, fatto fallire da Giorgio Almirante per gelosia nei confronti di Junio Valerio Borghese. Tutti fatti ai quali si potrà continuare ad opporre silenzio e reticenza, mai smentite.

L’Arma che per antonomasia si continua a chiamare ‘benemerita’ è stata la sola ad avere per dieci anni, dal luglio 1967 a quello del 1977, una continuità di comando nella persona del generale Arnaldo Ferrara, capo di Stato maggiore dell’Arma. Nominato a questa carica con il grado di colonnello, Ferrara, fratello di un deputato repubblicano, israelita, diverrà generale di corpo d’armata senza mai muoversi dal suo posto, in spregio ad ogni regolamento militare che esige un periodo di comando operativo ad ogni passaggio di grado. Il mistero di questa permanenza decennale al comando effettivo dei carabinieri, di questa carriera anomala da parte di Arnaldo Ferrara rimane ancora oggi tale. Nessuno ha mai inteso approfondire l’argomento. Nessuno ha mai osato chiedere spiegazioni ai ministri della Difesa, ai presidenti del Consiglio, ai capi di Stato maggiore dell’Esercito e della Difesa, o allo stesso interessato. Un muro di silenzio è stato eretto da tutti, nessuno escluso, politici di destra, di centro e di sinistra, compreso ‘Manifesto’ ecc. attorno a quest’uomo che la magistratura non ha mai osato interrogare, sia pure come testimone, perché venisse chiarito come mai si è ritenuto di dover dare all’Arma dei carabinieri nel periodo più sanguinoso della storia recente una unicità di comando per l’arco di dieci anni concentrata nelle sole mani di un colonnello che ha asceso, per meriti sconosciuti, tutti i gradi della carriera militare senza mai muoversi dalla sua poltrona di capo di Stato maggiore dell’Arma ‘benemerita’. Nessuno ha osato chiedere ad Arnaldo Ferrara perché tanti ufficiali e sottufficiali dei carabinieri sono rimasti, a vario titolo, coinvolti in episodi ‘eversivi’ che hanno avuto come protagonisti ‘eversori’ di destra.
Al solo che da 17 anni senza interruzione pone questo quesito, si è risposto con un linciaggio morale che vede in prima fila magistrati, politici e giornalisti di ogni coloritura politica.

La mancata risposta alle domande relative alla struttura segreta dei carabinieri, operante in Italia fin dagli anni dell’immediato dopoguerra; il rifiuto di considerare possibile l’intervento politico dell’Arma, con metodi militari ed operazioni ‘belliche’ al fianco delle strutture dei servizi segreti (vedi ‘Gladio’) del ministero degli Interni, della Nato, degli Usa e di Israele ha determinato la cancellazione nella memoria collettiva delle responsabilità dell’Arma nella strategia della tensione.

Invece di uscire ridimensionata dall’accertamento della verità, l’Arma dei carabinieri è stata rafforzata dagli ex comunisti che l’hanno elevata a quarta forza armata dello Stato. Le responsabilità gravissime dei D’Alema, Veltroni, Rutelli ecc., ora improvvisatisi sagrestani e carabinieri di complemento, nella cancellazione della verità sulla strategia della tensione e sul ruolo degli uomini e degli apparati dello Stato, primi i carabinieri, ha consentito agli uomini del Msi, poi Alleanza nazionale, di non rispondere a loro volta di quanto hanno fatto, o fatto o lasciato fare, negli anni Sessanta e Settanta nell’ambito della strategia della stabilizzazione politica da ottenere mediante la destabilizzazione dell’ordine pubblico. La verità si poteva – e si potrebbe ancora – raggiungere indagando sul conto dell’Arma per scoprire la sua struttura segreta nella quale il Movimento sociale ha avuto magna pars; o viceversa, svolgendo finalmente accertamenti sui vertici del Msi per giungere fino al Comando generale dell’Arma dei carabinieri. Non è mai stato fatto, nessuno intende farlo oggi e, se non costretto dalla pressione dell’opinione pubblica, vorrà farlo in futuro.

Il risultato della complicità fra la classe politica e le forze di sicurezza, di cui il Msi-Alleanza nazionale e i carabinieri sono comunque una parte, ha prodotto la prima tragedia degli anni 2000, con l’uccisione di Carlo Giuliani. Era dal 7 gennaio 1978 che i carabinieri non uccidevano un manifestante. Quel giorno lo fecero a Roma, durante una manifestazione di giovani del Msi: un capitano dei carabinieri aprì il fuoco e uccise Stefano Recchioni. Segretario giovanile del Msi era Gianfranco Fini. Né lui né Almirante chiesero giustizia per la giovane vita stroncata. Il capitano venne trasferito e la vicenda finì nel dimenticatoio. Se mancò la pietà per uno dei suoi, potrebbe mai Giancarlo Fini avvertire un sentimento di rammarico per Carlo Giuliani? Sempre e soltanto con i carabinieri, il ‘piantone onorario’ divenuto vice presidente del Consiglio si toglie la soddisfazione di sedersi al tavolo con i generali e colonnelli dell’Arma padrona, mentre i suoi colleghi si installano nella sala operativa per seguire in diretta gli interventi repressivi compiuti dagli amati militi della ‘Benemerita’.
È la tragedia di un paese senza libertà, senza verità e senza giustizia che prosegue senza che nessuno abbia avuto fino a questo momento la lucidità ed il coraggio di comprendere che si può bloccare individuando le responsabilità di quanti l’hanno avviata in anni lontani, eppure sempre presenti perché l’impunità stimola l’arroganza e produce l’inebriante sensazione di poter fare qualsiasi cosa ricevendo in cambio il premio del consenso elettorale, dell’avanzamento di grado, del maggior potere come movimenti politici e corpi armati dello Stato.

Se oggi al governo del Paese, votato dalla maggioranza degli italiani, abbiamo un uomo che aderì alla P2 e condannato per corruzione, affiancato da quel Msi-Alleanza nazionale che vanta fra i suoi nomi illustri quelli del generale Giovanni De Lorenzo, direttore del Sifar e comandante generale dell’Arma dei carabinieri, del generale Vito Miceli, direttore del Sid, del generale Luigi Ramponi (vivente), direttore del Sismi, lo dobbiamo anche a quel Partito comunista che ha creato le premesse per la loro vittoria; così come ha predisposto i piani per difendere il G8 a Genova, e che oggi finge di indignarsi e procede a plateali quanto simboliche proteste contro i ‘fascisti’ al governo e un presidente del Consiglio pluricondannato e pluri-imputato. Salvo poi tradirsi esprimendo a Pier Ferdinando Casini, giustamente contestato a Bologna nella ricorrenza della strage di Stato del 2 agosto 1980, la propria solidarietà per bocca di Massimo D’Alema.

Il generale Guglielmo Cerica, comandante generale dei carabinieri, l’8 settembre scappò, travestito con una tuta da meccanico nella macchina di Rodolfo Graziani, capo dell’esercito di Salò. Un gesto di fraternità che, mutatis mutandis, si è ripetuto fino ad oggi fra carabinieri effettivi e carabinieri ausiliari, ‘neofascisti’ prima ed oggi uomini della ‘destra democratica’ italiana. A Genova, il padre onorario di Gianfranco Fini, Giorgio Almirante e tutta la banda del Msi scappò nel luglio 1960, lasciando i carabinieri a sbrigarsela da soli con la folla inferocita. Quarantuno anni più tardi i missini sono tornati, nascosti dietro 20 mila poliziotti, carabinieri e finanzieri per prendersi una rivincita che è mancata, nonostante il massacro dei manifestanti fermati e la uccisione di Carlo Giuliani. E non sarà Gianfranco Fini ad avere la dignità di assumersi la responsabilità politica di quanto fatto da carabinieri e polizia a Genova, come sarebbe giusto per un vice presidente del Consiglio che s’installa nella sede del Comando provinciale dei carabinieri durante due giornate di disordini. Come sempre, saranno i carabinieri a proteggere Fini ed i suoi presentandoli come commensali ed ospiti dell’Arma. In fondo, nell’Italia dei carabinieri, nonostante le apparenze i subalterni non sono divenuti padroni…Purtroppo, sempre subalterno sarà anche il ruolo dell’Italia fino a quando non troverà la forza e la determinazione di liberarsi di questa classe dirigente e dei suoi difensori armati. E lo può fare utilizzando le sole armi della verità e della giustizia. Avremo allora un’Italia di uomini liberi, la stessa per cui sono morti in tanti, compreso Carlo Giuliani.

Vincenzo Vinciguerra

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