Il caso Moro fu un’operazione di guerra psicologica. Anche grazie ai giornali italiani

Ieri, ho parlato dei tromboni della carta stampata che imperversarono all’epoca del caso Moro.

Di questi tromboni, almeno uno bisogna ricordarlo.

Nel 1978, il più fanatico di tutti, nel cosiddetto “fronte della fermezza”, fu Indro Montanelli.

Le notizie su di lui le traggo dal libro di Alessandro Silj, BRIGATE ROSSE-STATO – Lo scontro spettacolo nella regia della stampa quotidiana, che venne pubblicato nel settembre 1978, quindi a ridosso dei fatti.

Silj sottopose ad un’analisi comparativa l’approccio al caso Moro tenuto dai cinque principali giornali italiani – il Corriere della Sera, la Repubblica, la Stampa e il Giornale e l’Unità – durante i 55 giorni del sequestro.

Scrisse Silj all’epoca (p. 81):

“Montanelli è il solo giornalista italiano che durante l’intera durata del caso Moro, scrive in chiare lettere, e a più riprese, con sfumature appena diverse a seconda delle circostanze, di desiderare la morte di Moro. Anche altri affermano la stessa cosa, sostanzialmente, quando dicono che la liberazione di Moro non può avere, come contropartita, misure che contrastino con le leggi e l’etica di uno Stato di diritto. Ma si parla allora di ineluttabilità, deprecata, della morte del leader DC, mentre per Montanelli questa morte sarebbe non solo ineluttabile, bensì auspicabile. E laddove altri ipotizzano «cedimenti» o «debolezze» dello Stato, Montanelli parla perentoriamente di «capitolazione»”.

E infatti, in un’intervista alla Tiroler Tageszeitung di Innsbruck (citata da la Repubblica il 29 marzo 1978), Montanelli dichiara che la liberazione di Moro «con l’aureola di martire» significherebbe un governo con i comunisti e l’uscita dell’Italia dal Patto Atlantico (p. 95). Quindi la liberazione di Moro, nell’ottica di Montanelli, sarebbe equivalsa ad un’autentica iattura.

E il 22 aprile 1978, per stigmatizzare un eventuale scambio tra Moro e alcuni brigatisti detenuti, Montanelli arriverà a dire che:

“lo stesso Moro, se il baratto si facesse, «sarebbe più morto che se ne avessero trovato il cadavere in fondo al lago Duchessa…Ecco perché preferiamo pensare a lui come se fosse già morto»” (pp. 131-132).

Addirittura, commentando il messaggio in cui le Brigate rosse chiedevano lo scambio, Montanelli ammise persino che:

«questo settimo messaggio delle brigate rosse, lungi dal procurarci sollievo [per il fatto che Moro era ancora vivo e non, come si era vociferato, già assassinato], aggrava le nostre angosce» (p. 132): nel senso che, con Moro defunto, la DC non si sarebbe trovata a dover scegliere tra difesa dello Stato e resa alle Br.

Moro quindi doveva essere lasciato al suo destino, e che nessuno si sognasse di salvarlo.

Montanelli non rinunciò neppure a infierire pubblicamente, durante il sequestro, sulla moglie di Moro (e sulla famiglia tutta), colpevole, a suo dire, di essersi attivata per salvare la vita al proprio congiunto. Ecco cosa scrisse Montanelli il 3 maggio 1978:

«E qui bisogna parlarci chiaro. Al momento del sanguinoso agguato di via Fani la signora Moro aveva tenuto un contegno esemplare…Tanta compostezza aveva suscitato la generale ammirazione, ma sfortunatamente non ha retto alla distanza» (p. 71).

Questo era Indro Montanelli: bastonare il cane che affoga era la morale di questo presunto ”principe dei giornalisti”.

L’anticomunismo di Montanelli era talmente virulento che costui avrebbe preferito per l’Italia una dittatura alla Pinochet piuttosto che un governo democratico con i comunisti: questo emerge dalle comunicazioni diplomatiche americane relative all’anno 1978 pubblicate nel 2015 da Wikileaks. Per questo fu ferocemente contrario alla trattativa con le Brigate rosse.

Aldo Moro e Indro Montanelli

Oggi, a oltre 40 anni di distanza dai fatti, sappiamo che una trattativa per liberare Moro ci fu ma venne pesantemente ostacolata proprio dal “fronte della fermezza”. L’allora Presidente della Repubblica Giovanni Leone, ad esempio, era disponibilissimo a firmare un provvedimento di grazia ad una brigatista ma venne circondato da un muro di ostilità.

Ma allora, se è vero che il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro fu “un’operazione di guerra psicologica” (per annientare non solo la persona Moro ma la sua politica), come ha detto lo storico Miguel Gotor[1], l’operazione fu così efficace perché il messaggio che Moro doveva morire venne veicolato in modo incessante dai principali quotidiani italiani.

È proprio così: i giornali all’epoca, funsero di fatto da cassa di risonanza a quell’operazione.

Moro doveva essere “sacrificato” (questo il termine usato all’epoca) perché altrimenti lo Stato avrebbe “capitolato”.

Questo fu il messaggio fatto entrare nella testa degli italiani dal “fronte della fermezza”.

Ma come ricordò a suo tempo il giornalista d’inchiesta Giuseppe De Lutiis, durante la presentazione del suo libro Il golpe di via Fani, durante i 55 giorni del sequestro di “fermezze” ve ne furono due: la fermezza del Partito Comunista (“con le Br non si tratta”) e la fermezza dei piduisti, che all’epoca guidavano tutti i servizi di sicurezza.

La fermezza della P2 consisteva in questo: stiamo fermi che tutto andrà bene, e cioè Moro muore (si volle escludere anche l’opzione militare di un’eventuale irruzione nel covo dove l’ostaggio era recluso).

E che Moro morisse andava bene non solo ai piduisti ma anche ai giornalisti come Montanelli.

A questo punto dobbiamo ricordare che Montanelli non infierì solo su Moro in procinto di essere ucciso: 16 anni prima, nel 1962, aveva pesantemente attaccato Enrico Mattei, anche lui in procinto di essere ucciso!

Persino un lettore del Giornale (il quotidiano fondato nel 1974 proprio da Montanelli) ebbe a stigmatizzare l’opaco ruolo esercitato da Montanelli nel caso Mattei: il cosiddetto “principe dei giornalisti” fece sempre finta di credere a una morte accidentale di Mattei, denigrando chi sosteneva con fatti precisi che Mattei era stato assassinato.

Moro e Mattei: gli uomini che rappresentavano rispettivamente la libertà politica e la libertà energetica dell’Italia. Quelle libertà che ci sono state tolte e che non abbiamo più saputo riconquistare.

Abbiamo quindi visto che, seguendo la ricostruzione di Alessandro Silj, durante i 55 giorni del sequestro Moro, i principali quotidiani italiani martellarono l’opinione pubblica con il messaggio che una trattativa per liberare l’ostaggio sarebbe stata un’eventualità assolutamente scandalosa e rovinosa.

Eppure, trattare con i terroristi per liberare uno o più ostaggi è prassi comune, da parte dei governi dei paesi occidentali. Ne ha dato conto recentemente anche la rivista Limes, in un suo articolo. In particolare, Stati Uniti e Regno Unito, pur non accettando di pagare riscatti, sono aperti a scambi di prigionieri. Scambi di prigionieri, come quello proposto nel 1978 dai brigatisti e rifiutato dal governo Andreotti.

Ora poniamoci la domanda: ma gli opinionisti dei principali quotidiani che nel 1978 lavorarono per fare terra bruciata a ogni ipotesi di trattativa erano tutti in buona fede?

Il dubbio, almeno per alcuni di loro, è più che lecito, anche alla luce di un libro come quello di Udo Ulfkotte, recentemente tradotto e pubblicato in Italia, GIORNALISTI COMPRATI. Come i politici, i servizi segreti e l’alta finanza dirigono i mass media tedeschi.

Il libro di Ulfkotte è dedicato alla situazione dei giornalisti in Germania ma i giornalisti italiani non brillano certo per una maggiore rettitudine e indipendenza: ne parlai una decina di anni fa nel mio post Il bosco di betulle, metafora dell’odierno giornalismo italiano.

Ripropongo quindi l’interrogativo: quanti erano nel 1978, e quanti sono oggi, i giornalisti italiani comprati?

 

[1] Citato in: Giovanni Fasanella, Il puzzle Moro, Chiarelettere editore, Milano 2018, p. 339.

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