Giuseppe Pinelli: la denuncia della vedova per omicidio volontario

Dal libro di Marco Sassano “Pinelli: un suicidio di stato”[1] (i grassetti sono miei):

LA DENUNCIA DELLA VEDOVA PER OMICIDIO VOLONTARIO

Ill.mo sig. Procuratore Generale di Milano

La sottoscritta Rognini Licia ved. Pinelli, res. a Milano, assistita dall’Avv. Prof. Carlo Smuraglia e dall’Avv. Domenico Contestabile e domiciliata nello studio del primo in Milano, Piazza Belgioioso 2, espone quanto segue.

Nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969, il marito della esponente – Giuseppe Pinelli – precipitava da una finestra della Questura di Milano e poco dopo decedeva.

L’istruttoria svolta dalla Procura della Repubblica di Milano si concludeva con la richiesta di archiviazione; e in tal senso provvedeva il Giudice Istruttore del Tribunale di Milano, Dott. Amati, con suo decreto del 3 luglio 1970 (procedimento 2659/70 R. G. istr.).

Le conclusioni cui erano pervenuti i Magistrati inquirenti apparvero a tutti non solo scarsamente convincenti, ma anche arbitrarie e illegittime per lo stesso modo con cui era stata condotta l’istruttoria. Si era infatti giunti al punto di non accettare l’intervento della parte civile costituita e di non ammetterla a svolgere alcuna attività, col pretestuoso argomento che non si trattava di una vera istruttoria, sia pure contro ignoti, ma di semplici «atti preliminari». Si era così creata una nuova figura processuale, certamente respinta da tutta la dottrina e da tutta la giurisprudenza, poiché non è davvero concepibile che non sia una vera istruttoria quella che consta dell’interrogatorio di vari testi e soprattutto dell’espletamento di una perizia medico-legale.

In realtà, se l’istruttoria compiuta non appariva degna di questo nome, non era per ragioni processuali, ma per ragioni sostanziali, data la superficialità dell’indagine compiuta, il rifiuto di svolgere accertamenti anche di natura tecnica che pur apparivano indispensabili, il rifiuto deliberato di cogliere gli spunti che il processo offriva e di approfondirli in qualche modo.

Del resto, basta leggere il provvedimento di archiviazione per rilevare subito come non si sia voluta approfondire in alcun modo l’indagine, come non si sia esitato a compiere una serie di nullità (basterebbe la mancata partecipazione della parte civile, il mancato avviso di procedimento ai possibili indiziati, e così via) e come, alla fine, si sia stati costretti a motivare in modo veramente incredibile la decisione di archiviazione. Chi legge quel provvedimento, di ben 55 pagine, non stenta ad accorgersi che in realtà tutto si riduce a riassumere le varie deposizioni ed i vari elementi raccolti, senza un’ombra di motivazione reale. Così, il G. I. arriva ad accettare l’ipotesi del suicidio, sulla base di un movente assolutamente ridicolo (il timore di perdere il posto). Vivaci furono le reazioni di tutta l’opinione pubblica contro il provvedimento di archiviazione (basta guardare la stampa dell’epoca). E che la decisione non avesse tranquillizzato nessuno risultò poi con chiarezza, quando davanti al Tribunale di Milano, Sez. I penale, fu chiamato il procedimento a carico di Baldelli Pio, imputato di diffamazione a mezzo stampa, perché nel giornale da lui diretto erano apparsi degli articoli in cui si indicava il Commissario Calabresi come colpevole di omicidio nei confronti del Pinelli.

Il Tribunale, infatti, con una serie di successivi provvedimenti, decise di ripercorrere il cammino che solo in parte il P. M. e il G. I. avevano seguito. Furono risentiti i testi, fu fatta un’ispezione nei locali della Questura da cui precipitò il Pinelli, furono disposti altri accertamenti, anche di natura tecnica. Dimostrazione evidente che tutto questo era stato fatto solo in parte ed in modo sommario, nel corso delle cosiddette indagini preliminari svolte dal Dott. Caizzi.

E tuttavia anche questo presenta degli aspetti incredibili: in sostanza, l’istruttoria sulle cause della morte del Pinelli si svolge in un processo diverso, con un imputato diverso ed ancora una volta senza alcuna partecipazione degli aventi diritto e particolarmente della vedova. Bisogna riconoscere che di rado si è visto qualcosa di più aberrante. Ma non basta: gli accertamenti svolti dal Tribunale in pubblico dibattimento hanno reso ancora più evidenti le stridenti contraddizioni che già in parte erano note, hanno dimostrato con certezza che il Pinelli – al momento del cosiddetto «incidente» — era ristretto illegittimamente presso la Questura di Milano, che gli interrogatori che si svolsero furono arbitrari, illegittimi ed abusivi anche per le stesse modalità con cui furono condotti, che l’indagine compiuta anche sul piano tecnico era largamente incompleta e inattendibile.

Fu così che il Tribunale si indusse a trasmettere gli atti al G. I. affinché procedesse:

a. All’indagine sugli indumenti indossati dal Pinelli al momento della morte;

b. All’esumazione del cadavere e conseguente esame radiologico-scheletrico;

c. All’esperimento di perizia medico-legale per accertare le modalità di precipitazione del Pinelli e le cause della morte del medesimo, nonché per stabilire l’eventuale preesistenza di lesioni rispetto alla caduta.

L’indagine era veramente doverosa, data – appunto – la superficialità e l’incompletezza dei precedenti accertamenti. Ma essa dovette apparire così «pericolosa» alla parte civile Calabresi ed al suo difensore da indurli a compiere un atto gravissimo, quale la ricusazione del Presidente del Tribunale.

Il resto è cronaca, tristissima e desolante, di questi giorni, e non occorre fare commenti. Gioverà solo rilevare come dalla motivazione del provvedimento emesso dalla Corte di Appello di Milano in data 27 maggio 1971 risulti che – secondo il ricusante (ma la sua versione dei fatti è stata integralmente accolta dalla Corte) – il Dr. Biotti, a seguito dell’indagine dibattimentale avrebbe dichiarato testualmente: «con i giudici siamo convinti che il colpo di karatè sia stato dato ed abbia colpito il bulbo spinale»; che è come dire che il Collegio giudicante era sostanzialmente pervenuto alla stessa conclusione cui da tempo aderiva la maggior parte dell’opinione pubblica, che cioè il Pinelli non si fosse affatto suicidato, ma fosse stato ucciso. Il che, del resto, costituisce la conclusione logica e irrefutabile di un ragionamento che ormai è divenuto intuitivo: se è impossibile, inverosimile, inaccettabile la tesi del suicidio, se coloro che erano presenti nella tragica stanza non hanno fatto che incorrere in una serie di stridenti contraddizioni, se sussiste perfino il timore evidente di un’esumazione del cadavere e di un esame completo degli indumenti, ciò significa che si trattò di un vero e proprio omicidio. Non spetta alla esponente di qualificarlo ulteriormente: è certo, però, in linea di stretto diritto, che se un uomo viene gettato da una finestra, magari dopo essere stato sottoposto ad atti di violenza, ed a seguito di ciò si verifica la sua morte, non è lecito neppure di parlare di omicidio preterintenzionale, ma si tratta solo – secondo anche l’insegnamento costante del Supremo Collegio – di omicidio volontario, per il quale è tempo che si proceda con la necessaria severità, come del resto è strettamente obbligatorio per il Magistrato del Pubblico Ministero, il quale non ha solo il potere, ma anche il dovere di promuovere l’azione penale.

Ma, sia a questi fini, sia per altri reati che in quella tragica occasione sono stati sicuramente commessi, appare opportuno ripercorrere brevemente il cammino delle emergenze più salienti e più significative, tratte dalla istruttoria svolta dal P. M. e da quella dibattimentale svolta dal tribunale nel processo Baldelli.

  1. Il Pinelli fu trattenuto in Questura abusivamente e arbitrariamente.

Sappiamo ormai che a suo carico non c’era alcun valido indizio; ed oggi questo è riconosciuto da tutti, come risulta dalla stessa requisitoria e dalla sentenza del G. I. nel processo per diffamazione a carico del Questore Guida, come risulta altresì dalla sentenza del G. I. nel processo a carico di Valpreda ed altri, come infine emerge dal fatto che anche per i precedenti attentati (quelli ferroviari) si sta procedendo contro persone di origine e di idee ben diverse, da parte dell’Ufficio istruzione del Tribunale di Treviso [i neo-fascisti Ventura e Freda (ndr)]. E questo sarebbe già più che sufficiente a far ritenere ingiustificato il trattenimento del Pinelli nei locali della Questura.

Ma c’è molto di più: dal dibattimento del processo Baldelli è risultato con assoluta certezza che dal 12 al 14 il Pinelli fu trattenuto senza neppure essere considerato come «fermato» (v. deposizione Allegra, resa all’udienza del 27.10.1970), che la convalida del presunto fermo fu chiesta con ritardo rispetto ai termini di legge (v. registro delle «permanenze» in Questura ed ulteriore documentazione allegata agli atti del processo Baldelli), che la convalida sarebbe stata trasmessa alla Questura quando già il Pinelli era deceduto (v. doc. ivi allegati e comunicazione della Procura Generale).

Dunque, un uomo fu trattenuto in Questura e sottoposto a ripetuti interrogatori, senza che esistesse un fermo giustificato e tanto meno convalidato nei termini. Tutto ciò contro il chiaro disposto dell’art. 229 C. P. P., che detta norme rigorose sia per il fermo, sia per la traduzione nelle carceri, sia per la convalida da parte del Procuratore della Repubblica. È chiarissimo che nessuna delle regole dettate dalla norma in questione è stata rispettata, ponendosi quindi in essere un’abusiva e illegittima restrizione della libertà personale del Pinelli.

Se un’azione del genere la compisse un cittadino qualsiasi, si parlerebbe di violenza privata e soprattutto di sequestro di persona. E non ci risulta che sia prevista una speciale esimente, nel Codice penale, per atti consimili compiuti da agenti o ufficiali di pubblica sicurezza.

Ma a noi il fatto interessa non solo ai fini dell’evidente reato commesso, ma anche come preparazione logica e naturale al più grave evento che successivamente doveva verificarsi.

  1. Il Pinelli fu sottoposto a stringenti interrogatori, con modalità assolutamente non consentite e tali da configurare forme di abuso penalisticamente rilevanti.

È noto che dagli interrogatori, sia del magistrato che – a maggior ragione – della polizia, deve essere bandita ogni violenza; ma alla stessa stregua va trattata anche ogni forma di insidia o di fraudolenza, oltre che di violenza morale (da ultimo, v. De Filippo, La polizia giudiziaria, pp. 104 ss.). Se da tempo è stata posta al bando la tortura, non c’è dubbio che uguale trattamento va riservato anche alla cosiddetta tortura morale, che consiste nell’usare un trattamento psicologico fatto sostanzialmente di coercizione, di callidità, di violenza morale.

Orbene, risulta dagli atti: che il Pinelli fu trattenuto a lungo in Questura e sottoposto a ripetuti interrogatori con modalità quanto meno eccezionali, data la gravità dei fatti sui quali si stava indagando; che il Dr. Calabresi contestò al Pinelli che il Valpreda aveva parlato, sapendo perfettamente di dire una falsità; che il Dott. Allegra gli contestò che era lui l’autore dell’esplosione all’ufficio cambi della stazione, avvenuta il 25.4.1969 e che aveva già le prove di tale fatto, anche lui sapendo perfettamente di mentire.

Dunque, è certo che il Pinelli fu tenuto in stato di privazione di libertà e sottoposto a violenze ed insidie morali che ad un Magistrato non sarebbero state consentite. Eppure, i funzionari della Questura di Milano non esitarono a ricorrere a queste forme di violenza morale, pur dovendo sapere che stavano commettendo una serie di gravi abusi, perseguibili penalmente, oltreché sul piano disciplinare (art. 229 C. P. P.).

  1. Quando si arriva alla narrazione di ciò che avvenne nella famosa stanza della Questura, nella tragica notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969, tutto diventa confuso, contraddittorio, incredibile. Coloro che erano presenti, prima o dopo, nella stanza, si contraddicono clamorosamente, danno versioni dei fatti tra loro contrastanti e sempre inverosimili.

Si spostano le ore con estrema facilità; la famosa contestazione mossa al Pinelli dal Calabresi (che il Valpreda aveva detto tutto) si sposta dalle 22 alle 21 e poi alle 19,30; e lo stesso accade per la contestazione fatta dall’Allegra (ore 23 – 23,30 – 23,45, a seconda delle varie versioni).

L’unica cosa di cui mostra preoccuparsi costantemente il Calabresi è di escludere la propria presenza dalla stanza nel momento in cui si verificò il tragico evento; ma anche tale fatto appare smentito dal rapporto iniziale (steso il 16.12.1969) del Dr. Allegra.

Quanto alla «caduta» del Pinelli dalla finestra, è sintomatico il fatto che alcune delle persone coinvolte (anche quelle più qualificate) talvolta vedano tutto e talvolta si «distraggano» un istante, proprio nell’esatto momento in cui accade il fatto (vedansi le varie deposizioni del Lo Grano). E la finestra non si capisce se fosse aperta o socchiusa e da quanto tempo; e così anche la porta della stanza.

E nessuno fa nulla per impedire la «caduta»; o meglio, il Panessa – tanto per fare un esempio – lo afferra per un piede, ma poi è costretto a «mollarlo» (deposizione al Dr. Caizzi, vol. III, § 1); ma in una successiva versione (dibatt. Baldelli) arriva appena a sfiorarlo. Ed è lo stesso Panessa che dichiara al P. M. di aver assistito alla famosa contestazione da parte del Calabresi; ma poi, smentito dal Caracuta, riconosce di essersi sbagliato e di aver solo sentito parlare di tali contestazioni. In seguito, tornerà alla primitiva versione e collocherà il fatto verso le 22, ma il Lo Grano lo smentirà affermando che il tutto accadde verso le 21,15; e il Caracuta parlerà invece delle 19,30 (f. 5, vol. III).

E che dire delle risultanze dell’ispezione effettuata dal Tribunale nel corso del processo Baldelli? Ne risulta che la stanza era di così modeste dimensioni, tenuto conto anche dei mobili, da rendere veramente impossibile che un individuo – in presenza di cinque persone tutte collocate intorno a lui, a brevissima distanza – potesse prendere una qualsiasi iniziativa.

Dunque, un coacervo di menzogne, da cui abbiamo estratto solo quelle più salienti; ma si potrebbe continuare a lungo; e del resto la difesa Baldelli ha prodotto – ed è tuttora allegato agli atti di quel processo – un completo prospetto delle contraddizioni e dei contrasti che ricorrono tra le varie deposizioni dei singoli funzionari della P. S. presenti quella sera. Se si trattasse di un episodio normale, da quanto tempo sarebbero stati arrestati tutti coloro che si trovavano in quella stanza, con l’accusa di omicidio?

Ma non basta ancora: neppure sull’ora della «caduta» si è riusciti a mettersi d’accordo. E la ragione è evidente: è stata registrata l’ora di chiamata dell’autoambulanza ed essa risulta antecedente a quella della precipitazione. Come si deve intendere un fatto del genere? Una semplice omissione o trascuratezza nel guardare l’orologio (ma allora perché darne atto in termini perentori, nei rapporti?), oppure la prova decisiva che in quella stanza accadde qualcosa di molto grave e preoccupante prima ancora che si verificasse la precipitazione del corpo di Pinelli dalla finestra? La logica e il collegamento con tutte le altre circostanze già evidenziate impongono, di tutta evidenza, la scelta della seconda alternativa.

  1. Dall’esame necroscopico condotto dai primi periti risultano due elementi di singolare rilievo e precisamente: L’esistenza di un segno di agopuntura, alla piega del gomito;                                                  L’esistenza, alla base del collo, di un’area grossolanamente ovulare di circa cm. 6 x 3.

Ebbene, su questi due elementi non si conduce nessun accertamento e neppure un ragionamento serio. Eppure, essi possono assurgere ad un livello di importanza determinante. Se Pinelli, com’è certo, non faceva endovenose e se una puntura del genere non risulta essere stata fatta nel tentativo di rianimarlo, non si deve dedurre che essa gli fu fatta prima? E di cosa si trattava?

Quanto all’area grossolanamente ovalare alla base del collo, è pacifico che essa mal s’accorda con la precipitazione, e gli stessi periti nominati nel dibattimento Baldelli, in sede di dichiarazioni orali all’udienza hanno dovuto riconoscerlo. Ed allora? Se non si tratta di contusioni o lesioni da caduta, se sono da escludere altre cause (come pure riconoscono i periti) l’unica ipotesi che resta è quella di atti di violenza commessi mentre il Pinelli era ancora nella famosa stanza e tuttora in vita. Non è forse quella ipotesi del colpo di karatè, che era stata avanzata ripetutamente dalla stampa e che – a quanto pare – sarebbe stata accolta dallo stesso Collegio giudicante del processo Baldelli?

Si obbietterà forse che la precedente perizia nulla ha detto, in proposito. Ma è stato già ampiamente osservato come ai periti i quesiti fossero stati mal posti, nel senso che si dava già per accreditata la versione fornita dalla polizia e si chiedeva un giudizio di semplice compatibilità tra tale versione e l’evento. Ed occorre altresì rilevare come quella perizia fosse così carente, da indurre il Tribunale di Milano a disporre prima un parziale accertamento tecnico ed in seguito un’indagine completa, su tutte le cause della morte del Pinelli, anche al fine di stabilire se egli avesse subito violenze quando ancora era in vita e se inoltre nel precipitare fosse ancora cosciente oppure già esanime, anche se vivo.

  1. Non si riferisce direttamente a fatti accaduti nella notte tra il 15 e il 16 dicembre, ma è oltremodo sintomatica un’ulteriore circostanza, relativa al comportamento tenuto da alcuni funzionari di P. S., in precedenza, nei confronti del Pinelli.

È stato riferito da varie persone (Vurchio Cesare, Guarneri Ivano, Zoppi Anita) che sia l’Allegra che il Calabresi ebbero a minacciare il Pinelli, in termini oltremodo precisi, in occasione in cui egli era apparso come un personaggio «scomodo».

Naturalmente, le due persone suindicate negano; ma i testi incalzano, senza ricevere altra smentita che quella, ovviamente interessata, dai due predetti signori.

È così che si deve spiegare allora il particolare trattamento usato al Pinelli, non «fermato», ma trattenuto contro la sua volontà, sottoposto a stringenti interrogatori, non rilasciato come i tanti altri «fermati» di quei giorni, ma dimesso solo quando ormai stava perdendo la vita?

Ora, se un uomo muore, se risulta che altri erano con lui subito prima della morte, se questi incorrono in gravi contraddizioni, se infine risulta che lo avevano seriamente minacciato in precedenza, quali conclusioni se ne traggono? Nei casi «normali», è certo che queste persone sarebbero state già da tempo arrestate e incriminate per omicidio. Per Calabresi e Allegra, basta – a quanto pare – la loro negativa.

  1. A questo punto, non occorrerebbe davvero andare oltre.

Ma è doveroso soffermarsi un istante anche sulla famosa ipotesi del suicidio, prontamente avvallata dalla Questura di Milano.

Il fatto è, però, che questa ipotesi non è neppure tale, perché non si accorda con nulla, né con la obiettiva risultanza dell’esame necroscopico, né con le molteplici versioni rese dai funzionari e agenti di P. S., né con la stessa personalità del Pinelli.

Intanto, il suicidio non s’accorda né col segno di agopuntura, né con la ricordata zona ovolare alla base del collo; in secondo luogo, essa non concorda con le contraddizioni più volte ricordate e non la spiega minimamente; in terzo luogo, è totalmente priva di movente.

Ed invero, se la contestazione più grave fu fatta alle 19,30 e – dopo – il «colloquio» si svolse in modo disteso, non può collocarsi la stessa come movente di un fatto che si verifica oltre quattro ore dopo.

L’altra contestazione (quella relativa agli attentati ferroviari) fu accolta, è pacifico, con un sorriso, come in realtà meritava. D’altronde, la povertà delle spiegazioni è tale da indurre il G. I. (nel decreto di archiviazione) ad inventarne un’altra, davvero risibile e consistente nel timore di perdere il posto. Non c’è davvero da meravigliarsi che a una cosa del genere non creda nessuno; per «suicidarsi» per un motivo simile, ci vuole uno squilibrato. E il Pinelli non era davvero tale, posto che tutti lo descrivono come uomo pacato, sereno, fermo, convinto delle sue idee, solido, resistente.

Ora, la scienza moderna ha acquisito ormai elementi piuttosto importanti anche sul suicidio: ed essa ci dice che il suicida è sostanzialmente un «predestinato», che rivela in qualche modo gli elementi che poi lo condurranno all’insano gesto. Si tratta cioè di individui con personalità chiaramente definibile, di tipo schizoide, che sicuramente, nel corso della loro esistenza, presentano sintomi di deviazioni apparentemente caratteriologiche, ma in realtà già rivelatori di una situazione patologica sottostante. Orbene, ricostruendo tutta la personalità del Pinelli, attraverso i suoi scritti, il suo comportamento, la descrizione delle persone che gli furono vicine, non risulta assolutamente nulla. Anzi, se c’è una figura di uomo per la quale appare impossibile pensare al suicidio, questa è proprio quella del Pinelli, così come appare non solo dalle deposizioni dei suoi amici, ma anche dalle dichiarazioni dei suoi antagonisti. Ed allora, è veramente assurdo ed inutile insistere ulteriormente su questo punto e pretendere di farci considerare come ipotesi quella che è stata, e resta, soltanto una versione di comodo, per fuorviare il corso della giustizia.

Se il sillogismo ha ancora un significato, come figura fondamentale della logica, le conclusioni che scaturiscono dalle citate premesse sono quelle cui ormai si è più volte accennato.

Esclusa la cosiddetta ipotesi del suicidio, dimostrato che il Pinelli fu sottoposto ad un trattamento che è tutto una escalation di illegalità, di arbitri, di reati, l’evento che si è poi verificato (morte del Pinelli) non può che essere ascritto a tutti quei comportamenti che ne costituirono l’antecedente necessario.

Certo, c’è un anello della catena causale che non emerge in tutta la sua ampiezza ed è precisamente ciò che avvenne nella famosa stanza della Questura, ed è logico che sia così perché tutti i protagonisti sono inesorabilmente costretti al silenzio, anche se non riescono a superare le più stridenti contraddizioni.

Ma non si tratta di un anello essenziale, perché – quali che siano state le specifiche modalità del fatto – si deve concludere che il Pinelli non precipitò dalla finestra per cause che andassero al di là della volontà dei citati protagonisti.

L’abbiamo detto e lo ripetiamo, prima di concludere: in un caso normale, sarebbe bastato assai meno perché ci si inducesse alla incriminazione per omicidio volontario di tutti coloro che contribuirono in qualche modo, con maggiore o minore partecipazione all’evento.

Ciò che, dunque, è lecito aspettarsi è che si agisca finalmente per il «caso Pinelli» come per qualsiasi altro fatto sottoposto all’esame della giustizia. È con questi intendimenti che la sottoscritta chiede formalmente la S. V. voglia esercitare l’azione penale, ai sensi dell’art. 74 C. P. P. per tutti i reati che scaturiscono dalla suesposta narrativa (omicidio volontario, violenza privata, sequestro di persona, abuso di ufficio, abuso di autorità), nei confronti di tutti coloro che col proprio comportamento contribuirono in maniera più o meno determinante alla realizzazione delle condotte materiali previste dalle varie fattispecie ed alla produzione del più grave evento (Calabresi, Allegra, Lo Grano, Panessa, Caracuta, Mainardi, Mucilli).

Il tutto a prescindere dall’esercizio di quel particolare potere che compete appunto alla Procura generale e che è specificatamente previsto dall’art. 229 C. P. P.

La sottoscritta ha voluto compiere, col presente atto, un estremo tentativo di ottenere giustizia, nel nome del marito tragicamente privato della vita e nell’interesse delle bambine che hanno diritto almeno di vedere restituita al padre quell’integrità morale e quella saldezza che conobbero in lui. Spera soltanto che ancora una volta l’attesa – che ormai non è più soltanto sua, ma dell’intera collettività – non vada delusa.

Milano, giugno 1971.

FINE DEL TESTO DELLA DENUNCIA PRESENTATA DA LICIA PINELLI

Mio commento personale:

la denuncia di Licia Pinelli all’epoca fece scalpore ma la sua richiesta di giustizia venne ulteriormente (e definitivamente) frustrata dalla sentenza, emessa nel 1975, del giudice Gerardo D’Ambrosio (quella passata alla storia per la definizione di “malore attivo”).

Vedi il mio articolo:

D’Ambrosio e Pinelli: un “malore” attivo da quarant’anni

Licia Pinelli

 

 

[1] Marsilio Editori, Padova 1971, pp. 162-170.

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