Vittorio Emanuele Orlando: contro il Trattato di pace (1947)

Vittorio Emanuele Orlando: contro il Trattato di pace (1947)

VITTORIO EMANUELE ORLANDO
Dai discorsi parlamentari[1]: Per il rinvio dell’ approvazione del disegno di legge
relativo al Trattato di pace[2]
(Assemblea costituente, seduta pomeridiana del 30 luglio 1947)
ORLANDO[3]. La dichiarazione fatta dall’onorevole Saragat mi crea un caso di coscienza, perché l’onorevole Saragat ha detto che, non potendo osservare il limite di venti minuti, preferisce rinunciare ora alla parola e parlar dopo per dichiarazione di voto: il che fa supporre che la dichiarazione di voto non abbia limiti di tempo. (Commenti).
Ora, io mi trovo in condizioni perfettamente simmetriche: quindi, o rinuncio alla parola, riservandomi di parlare in sede di dichiarazione di voto…
Voci. No! No!
ORLANDO. … oppure parlo ora, ma non in venti minuti.
Voci. Parli! parli!
PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, io mi permetto di fare alcune osservazioni. Problemi di questo genere si risolvono in via di consenso; ma evidentemente non in via di un accordo di carattere personale, a meno che non restiamo d’intesa che il Regolamento non vale per nessuno. È evidente che io non desidero –  e l’ho dimostrato – restare nell’orbita del tempo rigidamente stabilito, ma suppongo che, se la chiusura è stata chiesta e votata, ognuno che l’ha chiesta e specialmente ognuno che l’ha votata sapeva ciò che essa avrebbe significato.
Di fronte alla dichiarazione dell’onorevole Saragat, l’onorevole Orlando a sua volta ha tratto delle conseguenze. Se l’onorevole Orlando parlasse – come egli ha diritto di parlare – ma molto al di fuori di quell’ambito di comprensione che ognuno di noi ha sempre dimostrato, specialmente nei confronti dei nostri colleghi che chiamerò maggiori, è evidente che si porrebbe a me personalmente il problema di coscienza di fronte alla dichiarazione dell’ onorevole Saragat.
E vorrei precisare a questo proposito che è evidente che non si può fare, in sede di dichiarazione di voto, ciò che non si può fare in sede di svolgimento di un ordine del giorno. La dichiarazione di voto è ancor più
stringata e riassuntiva che non lo svolgimento di ordini del giorno. È evidente che la dichiarazione di voto è uno svolgimento che ha altro tipo di struttura che non lo svolgimento dell’ ordine del giorno, ma proprio quel
suo tipo di svolgimento dev’essere contenuto in un limite minore che non lo svolgimento dell’ ordine del giorno.
Ciò ho voluto dire perché – l’onorevole Orlando Vittorio Emanuele me lo insegna – la legge che il Parlamento si dà per il suo funzionamento ha una sua ragione d’essere e, come ogni legge più ampia, ha un valore impegnativo.
Detto questo, do facoltà di parlare all’onorevole Orlando Vittorio Emanuele per svolgere il suo ordine del giorno.
ORLANDO. Da parte mia, prendo impegno di contenermi entro quel tempo in cui si usa o si tollera che si vada al di là dei limiti fissati. (Si ride. Applausi).
E allora, secondo il titolo di un famoso monologo, condensiamo.
Argomenti di esordio ne avrei parecchi. Per esempio, vorrei spiegare come, a proposito del Trattato di Versaglia, avesse ragione Nitti quando diceva che poteva firmarlo e non volle, e avevo ragione io
quando, alla mia volta, dicevo che potevo firmarlo e non volli. Ed ecco. Io, come Presidente del Consiglio, provocai la crisi il 19 giugno del 1919 e mi succedette il Ministero Nitti, costituitosi il 23 giugno. Or il 29 giugno, a Parigi si firmava il Trattato di pace colla Germania. Io avrei dovuto firmarlo come Presidente della Delegazione, poiché rappresentavo l’Italia alla Conferenza non per la mia qualità di Presidente del Consiglio, ma per le credenziali che mi affidavano la Presidenza nella Delegazione. Nitti, nuovo Presidente del Consiglio, poteva, e normalmente avrebbe dovuto, esonerarmi senz’altro da questo mandato specifico per assumerlo egli stesso col suo Ministro degli esteri. Preferì correttamente di lasciare a noi il compito della firma conclusiva, dato che noi avevamo operato e, direi, sofferto, durante tutto il periodo della preparazione; la sostituzione come delegati avvenne subito dopo la .firma. In questo senso, dunque, è giusto dire che egli preferì di non firmare. In conseguenza di ciò, io, alla mia volta, avrei dovuto firmare come Presidente della Delegazione, qualità che avevo serbata sia pure per quei pochi giorni. Or io ero a Roma, dove ero venuto per la crisi; ma l’apporre la firma a un documento storico di così enorme importanza avrebbe indotto a sacrifici di gran lunga maggiori del viaggio che sarebbe occorso per recarmi a Parigi. Invece, io preferii non
muovermi da Roma e in questo senso può dirsi che non volli firmare quel Trattato. Il che indica pure che non l’ammiravo affatto; ma se, a questo punto, spontanea viene la suggestione del confronto di esso con
l’attuale documento, di quanto si avvantaggia il primo! Non sarebbe però questo un momento adeguato per tali discussioni. Meglio è parlarne in altra sede.
Avrei pure voluto, in questa occasione, parlare a proposito di quella famosa frase «la guerra continua» del manifesto badogliano, la cui origine mi è stata attribuita, dapprima in maniera obiettiva, poi con commenti
estensivi di una disapprovazione, necessariamente vaga, perché dietro quelle tre parole non c’era altro. Or io riconosco alla stampa, in tutte le sue forme, come giornale, come diario, come storia, come politica, ricono-
sco il diritto di ricostruire fatti e di esprimere giudizii come meglio o peggio creda. Non riconosco però il diritto di chiamare davanti a sé l’uomo politico come un incolpato che debba giustificarsi. Di fronte a tutto quanto si è potuto dire a proposito di tutta la grande storia cui ho partecipato, io rispondo, se lo credo, quando lo credo, e, soprattutto, in quella sede che mi appare legittima. Nel caso attuale, il momento storico cui si riferiva quel mio intervento era estremamente delicato; complessi e formidabili erano gli argomenti che vi si collegavano. Posso oggi, ma solo oggi, discorrerne qui, al cospetto di un’Assemblea che rappresenta il Paese e in una discussione attinente al tema. Non altrove, né altrimenti.
Con quella brevità imposta dall’ora, dirò dunque che, in sostanza, io non ebbi più rapporti politici col Re dopo quello che fu il vero colpo di Stato del 3 gennaio 1925; avevo mandato l’ultima avvertenza, nel dicembre del 1924. E diceva quel mio messaggio: finora può il Re riprendere la situazione in mano, e dominarla; d’ora in poi non lo potrà più; prima d’ora sentivo che del mio consiglio si sarebbe fatto a meno, ma senza danno irreparabile; dopo di ora, il consiglio non sarebbe più utile poiché l’autorità della Corona verrà a cessare costituzionalmente, col cessare dell’autorità del Parlamento. Tutti sanno quel che seguì. Non ebbi altri rapporti politici col Capo dello Stato. Con le mie dimissioni nel 1925[4], dopo la magnifica battaglia antifascista di Palermo, dichiarai di ritirarmi da ogni forma di attività politica, poiché, dissi, la forma di regime non. consentiva ad un uomo della mia fede di restare nella vita pubblica, neanche all’opposizione.                                                 
Questa lunghissima interruzione dei miei rapporti con la Corona ebbe una parentesi quando si preparava il 25 luglio 1943[5]. Allora fui richiesto di consiglio. In generale, chi dà un consiglio per accondiscendere ad una
richiesta, dovrebbe aspirare a questa garanzia minima: che non si cerchi, dopo gli eventi, di riversare sul consigliere una quota di responsabilità di un’azione cui questi non ha partecipato; il che vale tanto più, quando il dare un consiglio costituisce un dovere verso il rappresentante della sovranità dello Stato. Ci fu chi non osservò questo dovere. Comunque, i consigli che diedi non furono seguiti. Non furono seguiti nel modo con cui l’intervento ebbe luogo. Poiché il trionfo del fascismo si era affermato con un colpo di Stato contro il Parlamento contro la libertà e contro gli organi costituzionali, io pensavo che vi dovesse corrispondere un colpo di Stato inverso, diretto alla reintegrazione dello stato giuridico violato, e quindi attraverso un intervento della Corona, che sotto la sua esclusiva iniziativa e responsabilità restituisse al Paese quelle garanzie parlamentari e quella libertà statutaria che gli erano state tolte.
Non mi fu detto, né io pensavo, che si sarebbe ricorso ad una forma pseudo parlamentare di un voto di sfiducia, come sarebbe stata la votazione del 24 luglio in Gran Consiglio, famosa votazione, poi tragica. Gli
eventi dimostrarono come l’uso di una tal forma fosse un grave errore, anche a parte ogni riflesso interno, soprattutto nei rapporti internazionali, poiché si determinò un dubbio sulla sincerità della rottura definitiva con il fascismo, essendo il mutamento avvenuto sulla base di un voto dato dai gerarchi e che poteva supporsi derivato da una loro persistente autorità.
Or per 1’appunto, in quel momento, la questione più essenziale, questione di vita o di morte, e nel tempo stesso la più delicata e la più pericolosa, era di sciogliersi dall’alleanza nazista e di liberarsi da quella guerra
sciagurata: il quale argomento, dunque, era compreso ed anzi dominava nelle conversazioni cui presi parte e per cui preparai, sempre richiesto, bozze di atti o proclami che sarebbero potuti occorrere. Or su quel punto
il mio consiglio fu questo: prima fase, prima dichiarazione, «la guerra continua e l’Italia non manca agli impegni contratti». Come poteva essere diversamente? Era una questione di onore, che si poneva al di sopra di tutti
gli interessi politici e di tutti i pericoli paventati; era anche una questione di tecnica militare, a causa della impossibilità materiale di una immediata separazione fra due eserciti, che avevano combattuto e combattevano insieme. Pensate! In quel momento, combattevano fianco a fianco, proprio nella mia Sicilia, truppe tedesche e truppe italiane. Come potevano, immediatamente, rompersi l’unità del fronte e l’unità del comando?
Prima dichiarazione, dunque: la guerra continua. Ma questa prima fase doveva superarsi rapidissimamente, nelle prime 24 ore. Nelle seconde 24 ore, doveva iniziarsi una seconda fase con questa comunicazione al-
l’Ambasciatore tedesco: «L’Italia non è in condizione di andare avanti; l’Italia deve chiedere l’armistizio. Lo chiederà per voi, non per sé, sacrificando, se occorre, se stessa per tener fede all’alleanza contratta». Come?
Chiedendo agli alleati di concedere il tempo tecnicamente necessario, alle truppe tedesche, per ritirarsi: lealtà elementare, necessità militare. Ricordo che indicai un precedente da me vissuto, per dimostrare che gli alleati
non potevano rifiutare il loro consenso, poiché l’avevan già dato un’ altra volta in condizioni eguali: il precedente dell’armistizio chiesto dall’esercito bulgaro nel settembre del 1919, in cui la Bulgaria avea curato di stipulare un termine di 15 giorni per dar modo alle due divisioni austriache e tedesche, impegnate nel fronte macedone, di ritirarsi. Termine che fu accordato, proprio da quelle medesime nazioni cui ora si doveva chiedere. Vi era poi un’altra questione, che dovea trattarsi nelle condizioni dell’armistizio: l’occupazione interalleata avvenuta. Noi tenevamo dei territori.anche per conto della Germania e così reciprocamente. Questa comunicazione costituiva la seconda fase nelle seconde 24 ore.
Doveva poi seguire la terza fase, con la stessa rapidità. A queste dichiarazioni del Governo italiano doveva darsi pubblicità e diffusione larghissime. Con l’aiuto della radio tutto il mondo doveva conoscerle. Si determinava così per l’Italia una situazione di una lealtà perfetta e, in pratica, la più favorevole, relativamente alle formidabili difficoltà. La Germania, infatti, o poteva aderire, e noi ci saremmo trovati nella più onorevole
maniera a trattare con gli alleati un armistizio in quelle chiare condizioni; o la Germania, come per verità io pensavo, si sarebbe orgogliosamente rifiutata, ed allora era la guerra immediata fra noi e la Germania, per una causa nobilissima di perfetta lealtà italiana. E questa guerra noi avremmo combattuta quando in Italia le divisioni tedesche erano cinque o sei, in luogo delle 27, che Hitler vi concentrò, poi, fra luglio. e settembre! E ci saremmo trovati spontaneamente accanto agli Alleati; e non avremmo avuto la vergogna e la rovina dell’armistizio!                        ..
Questo era il contenuto della mia frase: «La guerra continua». Beninteso: io non intendo trarre da questi ricordi alcuna gloria o semplicemente alcun merito: so bene che altro è un consiglio astratto, altro un’azione
concreta. E ne avrei taciuto certamente, come è mio costume, se non fossi stato costretto da una pubblicazione proveniente da una fonte che ignoro e che riferiva quelle parole in forma tronca, interpretata poi da altri in un senso diverso ed anzi difforme dal mio pensiero.
Ma lasciamo stare queste vecchie storie e veniamo al solenne tema odierno.
L’onorevole Togliatti, ieri, nel considerare la situazione italiana, diceva: «Dove andiamo?». È un problema angoscioso. Poi egli rispose, che andare bisogna con la visione di una politica estera da fare, con un sistema
di politica estera da seguire. Vi corrisponde il discorso di oggi dell’ onorevole Nenni. «Dove andiamo?». Onorevoli colleghi, è certamente un problema, questo, che può essere di vita o di morte per l’Italia nostra, ma è problema che io non mi pongo; mi giova in ciò la mia vecchiezza, poiché mi mancherà il tempo di godere del meglio o di soffrire del peggio.
Ma la questione del «dove andiamo?» è preceduta da quest’ altra: «Dove siamo?». E la questione «dove siamo» è preceduta da quest’altra: «Come ci siamo arrivati?». Problemi non scindibili; quando sapremo bene «dove siamo?» avremo necessariamente conosciuto «come ci siamo arrivati?».
Questo secondo problema è per se stesso storico, ma in un certo senso si collega con tutta la politica attuale; però, in questo secondo senso, quando alludo ai nessi della politica passata con quella attuale, vogliate credere, colleghi tutti, in qualunque settore sediate, e voi particolarmente che siete al banco del Governo e che non avete mai potuto concepire dubbi sulla mia lealtà politica, e oso aggiungere anche sul mio perfetto disinteresse: vogliate credere che io non intendo menomamente ricercare le colpe o i torti di questo o quel Gabinetto, o Partito, o Ministro, né sollevare dai ricordi delle azioni od omissioni nella storia politica di questo triennio, il problema delle responsabilità. Io penso che sia un ben piccolo argomento, in confronto di
così grande tragedia, l’attribuire questa o quella colpa all’onorevole Tizio o all’onorevole Caio. Ma l’esame di tali questioni, se si eleva dalle persone alle cose, ha un’importanza che non si può trascurare senza una leggerezza imperdonabile, e questa importanza si pone sotto due aspetti: l°) per trarre dal passato il più realistico insegnamento per il futuro; 2°) per servire di guida nella giusta comprensione della situazione attuale. Come ci siamo arrivati?
Sono tre anni di vita vissuti, e quali anni! Per il 1870-71, la Francia trovò e mantiene l’espressione: l’année terrible; per noi sono, invece ben tre questi anni terribili. Cos’è avvenuto in questo periodo così denso di
storia, come mai, incomparabilmente, alcun altro periodo? E più particolarmente, cos’è successo che ci riguarda, che ci tocca?
Ahimè! Per varie ragioni, vere e proprie discussioni di politica estera non sono mai in questa Assemblea avvenute. Tutti gli eventi che si sono seguiti, tutti i problemi che vi si collegano – e son tanti e così complessi e così formidabili! – possono dirsi affatto nuovi – non voglio dire ignoti – in questa Assemblea in cui dovrebbe manifestarsi la massima espressione del pensiero politico d’Italia. Ognuno intende come sia impossibile l’esa-
minare oggi quei problemi anche di sfuggita. E allora ho pensato di trattarne uno solo, semplicemente come un esempio, cioè come mezzo di dimostrazione di un assunto, come un caso che serve ad una dimostrazione.
Non ho assolutamente nessun secondo fine, che mi abbia indotto a scegliere questo fra i vari momenti storici attraversati. Non so e non m’importa di sapere chi fosse il Presidente del Consiglio e chi il Ministro degli
esteri: mi potrebbero solo interessare quei chiarimenti di fatto, che potesse darmi l’attuale Ministro, non come persona, che non c’entra, ma come capo dell’ufficio rappresentativo della diplomazia italiana. Purtroppo però vi è da ritenere che nulla gli risulti, come implicitamente apparirà dalla stessa esposizione del precedente.
Or, dunque, il 27 luglio 1944 il New York Times (voi sapete l’autorità di questo giornale, il quale non pubblicherebbe notizie di questa importanza senza un sicuro controllo) riprodusse una notizia che proveniva dall’Associated Press, fonte per se stessa autorevole, che diceva: «Washington, 26 luglio. Si è appresa oggi una proposta britannica nel senso che gli Alleati stipulino una pace provvisoria con l’Italia, la quale ha
ora la condizione combinata di nemica sconfitta e di cobelligerante. Questa proposta è nelle mani delle autorità militari. Il piano prevede la discussione con la Russia e con gli altri Paesi interessati alla sistemazione italiana. Ciò servirebbe a regolare le relazioni dell’Italia con le Nazioni Unite e a chiarire la posizione dei prigionieri di guerra italiani, che furono tanto tempo e così ingiustamente trattenuti.
«Il Governo d’Italia ha chiesto che l’armistizio degli Alleati con l’Italia sia pubblicato, presumibilmente in vista del fatto che la reazione pubblica ai suoi termini forzerebbe una revisione».
Su questa notizia sopravvenne un articolo pubblicato nei giornali del tempo (credo nel Giornale d’Italia) da Don Luigi Sturzo, che si trovava allora in America, nel quale egli diceva: «Mi ricordai allora che alla fine di
giugno o al principio di luglio era stato riferito da Londra che il Gabinetto britannico aveva discusso la richiesta del Governo italiano del riconoscimento dell’Italia come alleata, e questo formava il substrato di quella proposta».
Volli profittare della presenza qui dell’insigne uomo ed ho avuto con lui un lungo colloquio proprio in questi giorni. Egli mi ha dato tutti i particolari dei passi da lui allora fatti, recandosi espressamente a Washington,
ricorrendo a fonti della cui autorità nessuno vorrà dubitare. La conclusione cui si perviene è sicura: vi fu quella proposta britannica e fu accolta dal dipartimento di Stato americano. E badate alla coincidenza cronologica con altri eventi, onde si può risalire alle cause determinanti. La notizia è data dall’Associated Press il 27 luglio; il 5 giugno 1944 avviene lo sbarco a Cherbourg; il 15 agosto lo sbarco in Provenza; nella stessa estate coincide il risoluto inizio della marcia in avanti degli eserciti sovietici per la cacciata dei Tedeschi dal territorio nazionale[6].
Quale il rapporto causale fra questi eventi coincidenti nel tempo? Evidente. Quegli sbarchi in Francia erano stati richiesti dalla Russia, che faceva valere verso gli Alleati gli impegni da essi assunti dell’ apertura di un
secondo fronte in Europa. Il nuovo ingente sforzo militare richiesto dagli Alleati doveva determinare quel rallentamento delle operazioni militari in Italia, il quale culminò nel famoso arresto dell’autunno del 1944, sulla linea gotica. Il fronte italiano era in certo senso abbandonato a se stesso: tragica situazione, cui corrisposero le dichiarazioni di Alexander, tremende, quando disse che la campagna d’Italia aveva ormai il solo scopo di attirare e mantenere in Italia truppe tedesche. Tremende parole, per le quali facilmente poteva prevedersi la sensazione di dolore e di pena, che doveva destare in Italia l’attribuire al nostro fronte la missione di trattenere qui quanti più tedeschi fosse possibile, con un prolungamento, presentato come indefinito, di quella crudele separazione delle due Italie, che virtualmente era guerra civile. Sempre con quel suo proclama, Alexander dichiarò che i partigiani dovevano considerarsi in stato di «smobilitazione». Come si smobilita il partigiano sulla montagna, che è il suo fronte di battaglia? Come può egli tornare a casa se non per consegnarsi al plotone di esecuzione? Tremendo proclama, che dava il senso immediato di un sacrificio immane, che si chiedeva all’Italia, a quell’Italia in cui pur si combatteva, in cui pur sostavano corpi d’armata alleati, che non potevano restare ìndifesi, tanto più quanto meno potevano essere protetti dall’invio di altre
truppe.
Ecco, dunque, il nesso causale che lega quegli eventi: il bisogno, avvertito dagli Alleati, di dare un compenso all’Italia in un momento in cui esso doveva sopportare un così immane sacrificio per una causa che, per ciò solo, diventava più che mai comune. Questo compenso, che spontaneamente prendeva le mosse dalla concessione dell’inestimabile beneficio dell’alleanza, si concretò alla fine nel comunicato di Hyde Park del 26 settembre 1944[7], dopo un Incontro Roosevelt-Churchill che faceva all’Italia le seguenti concessioni:            
l°) la Commissione alleata di controllo si sarebbe chiamata semplicemente «Commissione alleata». Si levava la parola «controllo». Questo fu il primo beneficio. Cospicuo, come ognun vede;
2°) uno scambio di rappresentanti diretti sarebbe avvenuto tra Roma Londra e Washington; Mosca non aveva aspettato e aveva consentito reciprocità di rappresentanza diplomatica, gratuitamente, sin dal 14 marzo. In ottobre avvenne, con Inghilterra e Stati Uniti, lo scambio degli ambasciatori che non presentarono però credenziali, come del resto non le hanno presentate sinora;
3°) aiuti sanitari e rifornimenti essenziali all’Italia mediante l’UNRRA[8];
4°) modifica della legge per il commercio col nemico, in guisa da permettere all’Italia la ripresa dei rapporti commerciali con gli Alleati.
Si aggiungeva che tutti questi provvedimenti avevano lo scopo essenziale di «gettare nella lotta – parole testuali – tutte le risorse dell’Italia e del popolo italiano per la sconfitta della Germania e del Giappone». Quale abisso fra la prima forma (l’alleanza conteneva tutto) e quella finale!
Dalla montagna quale piccolo topo era nato! Come avvenne un mutamento così disastrosamente radicale? Temo che di questa storia si siano perdute le tracce e che lo stesso Ministro degli esteri ed il Presidente del
Consiglio non ne siano informati. Ma, a parte l’ enigma che tormenterà gli storici futuri, vi è una materia viva che qui interessa, come lezione da trarre dalle cose; e a tal fine può bastare un semplice processo induttivo. È certo che la situazione dianzi descritta determinava negli alleati la spontanea suggestione di dare all’Italia un compenso, e quello cui pensarono pure spontaneamente era di un valore inestimabile. Dunque, essi, in quel momento avevano bisogno dell’Italia. Questo proposito in seguito svanisce; dunque, un’altra forza si oppose e prevalse. Ma come si può non pensare che, se da parte dell’Italia fosse stata opposta una resistenza più risoluta, più energica, piu decisa a tutto (per esempio, le dimissioni in massa del Governo, con conseguente impossibilità di sostituirlo) la forza che si oppose a quella prima proposta, sarebbe potuta essere superata? Ecco l’utilità dell’insegnamento che deve trarsi dalle stesse delusioni sofferte: la nostra politica è stata sempre quella di accondiscendere; è stata politica di assoluta remissività. Il motto, per cui il rispetto verso un’autorità si circonda di misticismo: Parum de principe, nihil de deo, si rovesciò: parum de deo, nihil de principe … alleato! Se in quel momento si fosse osato e si fosse detto: non possiamo restare in questa condizione di abbandono militare senza che la solidarietà del popolo non ne resti turbata e scossa; occorre una concessione che sia di conforto e di incitamento insomma, se si fosse mostrata allora la decisione energica di chi non vuol soffrire un torto, proprio in un momento in cui gli stessi alleati lo ammettevano spontaneamen-
te, si deve riconoscere che le cose sarebbero potute andare altrimenti. Invece, si è ceduto e questa è stata la politica dell’Italia per tre anni. (Commenti al centro).
Venne assunta e mantenuta un’aria di umiltà, sino a vedere i Ministri d’Italia deferire a funzionari relativamente modesti. Del resto, e da un punto di vista più generale, governare sotto il controllo straniero, mai! (Commenti e interruzioni al centro) Eh! sì, lo so che c’era l’armistizio, ma non è pensabile una clausola che obbligasse i Ministri italiani ad essere organi sovrani ed uffici subordinati nel tempo stesso! (Rumori al centro). Resistere si poteva e si doveva, anche sotto l’aspetto dell’utilità. Io non escludo, che la politica in una grande storia imponga, nell’interesse dello Stato, atti di remissione, e persino di umiliazione. Per ciò ho detto che non intendo qui far questioni di responsabilità contro alcuno. Ci sono momenti in cui l’uomo di Stato si deve umiliare e se obbedisce a questo imperativo, è quello un momento di grandezza per lui. Io verso il mio paese non ho nessun titolo che sia di credito da parte mia … (Interruzioni
al centro
). Ripeto: non ho verso il mio Paese nessun credito, perché la Patria ha tutti i diritti sopra i suoi figli sino al sacrificio della vita. Eppure, poiché l’onore vale più della vita, per una sola cosa, dico la verità, mi sento creditore verso il mio Paese: l’umiliazione, che consapevolmente dovetti soffrire quando tornai a Parigi dopo la partenza determinata dal famoso proclama di Wilson …
Voci al centro. Eravamo vincitori allora!
ORLANDO. Eravamo vincitori; ma quando si tratta di accettare un’umiliazione, vuol dire che le condizioni, in quell’atto stesso, sono simili a quelle dei vinti, non dubitate! (Vivi commenti al centro). Se con queste
interruzioni dimostrate di non aver il senso di quella fierezza e di quella dignità che, soprattutto in certi momenti, un buon uomo di Stato, rappresentante di un grande Paese, deve imporsi, il resto del mio discorso non è per voi. (Applausi prolungati a sinistra e a destra). Or questa politica di
continua remissione … (Interruzione del deputato Aldisio).
GIANNINI. Ma non si può più parlare in questa Assemblea! (Commenti e rumori a sinistra).
ORLANDO …. io ho il diritto e il dovere di denunziarla. (Interruzioni del deputato Villani). Ho detto e ripeto che non cerco di accusare alcuno né di fare questioni di responsabilità. Aggiungo che considero come un’ offesa fatta a me stesso il credere che io, per la vita spesa al servizio dello Stato, pretenda di crearmi una situazione di privilegio fra voi. No, interrompete pure quanto volete, ma, almeno, interrompete con intelligenza! (Applausi a sinistra e a destra).
[…]
ORLANDO. Ora, questa attitudine remissiva si è sempre mantenuta come si mantiene tutt’ora nella forma e nel tempo e nel modo con cui si chiede questa ratifica. Badate, ogni spirito o intento di partito è da me
ben lontano. Sono politicamente un solo; ma nel tempo stesso nessuno più di me anela all’unione di tutti gli Italiani. Nella mia opera, nei miei discorsi, purtroppo inascoltati, ho sempre detto: verso lo straniero, unio-
ne; la divisione in partiti è privilegio di un popolo libero. Il mio attuale dissenso con molti di voi non infrange questa unità, poiché dopo la discussione, dopo il contrasto, e la critica, indispensabili ad un giusto giudi-
zio, l’unita si ricompone nell’unità della coscienza collettiva, come avviene nell’unità della coscienza individuale, dopo l’urto di motivi contrastanti nell’individuo stesso. In un certo senso, si può dire che, in ognuno di noi, nel suo foro interno, esista ed agisca un’assemblea parlamentare simile a
questa nostra. Di fronte ad una decisione individuale da prendere, noi abbiamo interiormente partiti in contrasto, si agitano discussioni, vi sono perplessità, incertezze; infine, le decisioni di un uomo si prendono per la prevalenza dei motivi, come qui con un voto di maggioranza. Io vi prego di ritenere che da questo momento io sono una parte di voi, così come voi, che mi interrompete, siete una parte di me; qui discutiamo insieme perché dai nostri contrasti sorga una decisione la quale ritrovi la sua unità nella comunione dell’intento: che questa decisione sia la migliore possibile per la salvezza del nostro Paese, per la resurrezione, per la grandezza di esso. Dicevo che vi è questo senso di pavidità quando si parla … de principe, cioè degli alleati. Io non so se Nitti se ne sia andato. (Voci: È qua). Ebbene, quando egli parlava, l’altro giorno, io avvertii un particolare stato d’animo in una parte dell’Assemblea che l’ascoltava; lo avvertii con quella
specie di sesto senso, che l’oratore acquista nei rapporti col pubblico: e fra gli oratori mi classifico per quel lungo corso della mia vita che mi ha fatto parlare tante volte a pubblici così diversi e da così varie tribune. Ed
io, dunque, avvertii che quando egli fece delle allusioni alla sconfitta francese, vi fu un bisbiglio sommesso, come in un’assemblea di religiosi una frase che desse scandalo. Sì, una sconfitta ci sarà stata, ma il dirlo è un’indiscrezione; si tratta di vincitori e bisogna usare forme riguardose. Badate, i francesi che sono gente di spirito sono essi stessi i primi a riconoscere la gravità di quella loro disfatta e a dedicare tutta una ricca bibliografia sulle cause di essa. Riprendendo il tema di Nitti, dirò anche io che, insomma, i nostri soldati si sono battuti in una guerra ingiusta, infame quanto volete, ma per l’onore della bandiera si sono battuti e sono caduti da valorosi, cui va tutta l’ammirazione e tutto il rispetto, anche dell’avversario. (Applausi a destra).
E il nostro collaborazionismo, effetto puro della coazione nazista, fu molto più limitato per tempo e per spazio; e in quanto ai personaggi più rappresentativi, al nostro Farinacci[9] si contrappone un cardinale Baudrillart[10], membro dell’Accademia, grande storico e grande patriota, e a Starace[11] si contrappone Charles Maurras![12], anch’egli dell’Accademia, uno dei più grandi scrittori francesi contemporanei. Lasciamo stare; la Francia è vittoriosa e noi abbiamo tradito la causa della libertà e dobbiamo essere
rieducati alla scuola della democrazia. Cosa volete? La storia ha di questi paradossi. Ma egli è che una vera superiorità della Francia su di noi può riconoscersi nella fierezza dei suoi rappresentanti, per cui l’ipotesi di una Francia come grande Potenza fu ed è sempre una pregiudiziale che si deve ammettere se si vuole conversare con un francese. Nessuno, e tanto meno io, contesterà la opportunità dell’adesione nostra all’invito di concorrere al piano Marshall; ma il «sì» pronunciato dall’ onorevole Ministro Sforza a Parigi fu, con il colore e il calore della sua parola, lumeggiato dallo stesso conte Sforza come pronto, fervido, immediato[13]. È sempre così: nei rapporti con l’estero noi ci dobbiamo sempre precipitare; noi
sentiamo sempre l’urgente bisogno di dar prova al mondo che siamo dei ragazzi traviati, i quali avendo demeritato e non bastando la tremenda espiazione sofferta, ammettono la loro indegnità e non aspettano altro di meglio che di riabilitarsi e di essere ripresi in grazia. Ebbene, in quell’ occasione dell’invito a Parigi, l’onorevole Sforza, in sede di Commissione dei Trattati, pronunciò una frase particolarmente felice e giusta, a proposito della quale si verificò uno di quelli che io chiamo plagi involontari, e cioè quando due persone, indipendentemente l’una dall’ altra, e reciprocamente ignorandosi, coincidano in un medesimo pensiero e lo esprimano con una medesima frase[14]. Io, infatti, onorevole Sforza, avevo per l’appunto pensato ciò che lei disse e nella forma stessa. Ella disse: ma insomma, a Parigi, valsero assai più che qualunque mia parola, a darmi autorità come Ministro d’Italia, l’Esposizione ferroviaria di Roma e la Fiera Campionaria di Milano. Perfettamente! Ma che cosa significa ciò? Significa che l’Italia vale per quel che è, non per le finezze, le astuzie, l’abilità di una diplomazia flessibile. Or l’Italia è grande, perché è l’Italia: quia nominor leo. Ma
bisogna averne il sentimento.
Così io mi avvicino al problema che per 1’abito della remissività pesa su molti qua dentro come un incubo: cosa succederebbe se non si ratificasse? Or la migliore risposta a questa domanda consiste nel ritorcerla:
cosa credete che possa succedere di peggio della ratifica stessa?
Riconosco spontaneamente che a questa maniera di considerare la politica estera corrisponde un sentimento che sembra di scarso interesse nel Paese: corrispondenza che giustifica in parte l’Assemblea in quanto organo rappresentativo di questo stesso Paese. In questo momento, si riscontra nel popolo nostro come uno squilibrio fra il senso che l’italiano ha di se stesso come individuo in rapporto ad altri individui e il senso che egli ha dello stato della sua Patria come unità collettiva, di cui sente di esser parte. Normalmente tra quei due sensi si stabilisce un equilibrio, come liquidi che si livellano in vasi comunicanti. L’individuo comprende, nel suo complesso psicologico, il senso di grandezza o di miseria dello Stato cui appartiene. Il romano antico, anche se era un proletario, avvertiva con fierezza la potenza della sua Patria: civis romanus sum. L’italiano del 1943 aveva la tragica visione della disfatta e come rovina individuale e come disfacimento dello Stato. Ma in questi anni successivi questa correlazione è venuta man mano scomparendo. Per le sue qualità, onde nei secoli è stato educato a lottare contro le avversità, l’italiano è venuto migliorando il complesso delle sue condizioni di vita, mentre quelle del Paese, come unità di Stato, son rimaste le stesse: cioè senza effettiva indipendenza e con autorità quasi nulla; e sono precisamente le condizioni che questa cosiddetta ratifica riassume, riconosce e consacra. È umano il desiderio di non esser turbati da ammonimenti penosi e così l’italiano preferisce ignorare in quali condizioni questo orrendo Trattato ponga l’Italia. Da parte sua, il
Governo fa il possibile per nasconderle. Da ciò la relativa indifferenza che il popolo dimostra verso questo epilogo della sua tragedia, onde i giornali, che sono i termometri dell’interesse del pubblico verso i vari argomenti, riservano il maggiore spazio della loro prima pagina (e non ne hanno che due) a qualche delitto o processo celebre, al campionato di calcio o al giro ciclistico di Francia. Ma in verità vi dico, o colleghi: diffidate di questa apparente indifferenza, diffidate. Il cervello di questo nostro organismo collettivo è ancora «shoccato» [sic], per usare un neologismo brutto, ma espressivo, degli psichiatri; è ancora sotto il colpo tremendo della catastrofe sofferta. Ma guai se si risveglia. Le collere del popolo, quando ha attraversato vicende così atroci, possono essere terribili, specie perché il fondo dell’anima italiana è profondamente patriottico e l’esasperazione di questo sentimento può dar vita a quel nazionalismo, che è la degenerazione del patriottismo. Ne soffrimmo per ventidue anni e i mali attuali ne sono la conseguenza.
Badate, ripeto. Il popolo attualmente non ha l’idea giusta delle condizioni cui è ridotta l’Italia da questo Trattato, che stiamo discutendo, per ratificarlo senza necessità! E bisogna illuminarlo e soprattutto non fargli
credere (e non credere voi stessi) che il resistere all’ingiustizia ci esponga a chissà quali oscuri pericoli, poiché oltre i danni estremi che ci sono stati inflitti, non si potrebbe andare, senza destare l’opposizione invincibile delle stesse gelosie e rivalità internazionali. Anche di ciò posso portare un esempio di un’efficacia incomparabile, di cui dirò le fonti a tutti accessibili, senza che occorra che io le convalidi con altre da me raccolte in Sicilia, che non derivano dalla pubblica sicurezza e che anzi con essa non han nulla di comune, ma che come valore di informazioni non lasciano nulla a desiderare.
Or, nell’Umanità dell’11 luglio 1947, recentissimo dunque, c’era un articolo non firmato – in generale gli articoli vi sono firmati – non firmato, ma scritto da persona di primo piano, che sapeva bene quello che diceva.
Ebbene, questo articolo conteneva un singolare ricordo storico – ripeto che l’autore aveva tutta l’aria di essere bene informato, specialmente di cose inglesi – diceva ad un certo punto: «L’abbandono da parte inglese della volontà di controllare la Sicilia e Pantelleria … ». Notate il significato profondo di questo ravvicinamento della Sicilia con Pantelleria. Piccola isola questa, cara al mio cuore ed a quello di Maffi, che vi fu relegato – ma ne parla con memore ammirazione ed affetto – cara, bella isola, ma pur piccola isola in confronto della massima isola mediterranea. Che, dunque, si parli di un controllo sopra Pantelleria, abbinandolo con uno sulla Sicilia, ha un significato eufemistico che fa fremere.
Bene, l’articolo diceva: «L’abbandono da parte inglese della volontà di controllare la Sicilia e Pantelleria fu dovuto sostanzialmente ad un’azione informativa condotta sull’ opinione pubblica, quando a Londra non esisteva ancora ombra di diplomazia italiana».
Dunque, stando a questo autorevole scrittore, ci sarebbe stata quell’intenzione, sì però, una indagine condotta sull’ opinione pubblica, persuase che era meglio abbandonarla. Quale opinione pubblica? Quella dell’Italia
no, perché l’Italia era divisa in quattro o cinque compartimenti fra loro non comunicanti. L’eufemismo è trasparente, lo si vede come attraverso un vetro, anche per quanto riguarda questa curiosa «azione informativa» condotta su di un’ opinione pubblica non altrimenti identificata, che poteva anche
essere quella … americana, francese, russa; e allora l’eufemismo significa che questo «controllo» che si sarebbe esteso su tutto il Mediterraneo, non piaceva alle altre … opinioni pubbliche! Fu grazie a questa azione informativa che l’Italia sfuggì ad una minaccia: che sarebbe stata la più grave fra quante han-
no pesato su di noi. Ecco, dunque, dove sta una garanzia, forse più forte di tutte e che sostituisce le carte che mancano. Ecco la risposta alla domanda: che cosa succede se rifiutiamo la ratifica? Succede che resta l’Italia, alla quale ben può dirsi che sia capitato il peggio sotto forma di questo Trattato, che è feroce, ma che segna pur tuttavia un limite al di là del quale ogni ulteriore pretesa straniera viene contenuta dallo stesso gioco delle aspirazioni, delle gelosie, delle rivalità internazionali.
Ma, riprendendo nei suoi sviluppi l’accennato episodio così significativo, esso ha pure delle coincidenze con un articolo, di cui non ho conservato la data, ma è qui presente l’autore. È un mirabile articolo nella Voce
Repubblicana
di Randolfo Pacciardi’[15], il quale articolo cominciava così: «Un membro della Commissione Alleata di controllo – si chiamava ancora di controllo, non c’era venuta come concessione graziosa la soppressione di queste parole, il che riporta l’articolo ad una data anteriore al settembre del 1944 – ha affermato pubblicamente che la Sicilia non è matura per un regime democratico». Io vorrei conoscerlo questo membro, dico la verità (ilarità), e avere con lui un contraddittorio davanti a dei neutrali, perché io lo devo convincere che o è un ignorante o è uno sciocco! (Applausi generali).
PACCIARDI. Non ricordo bene.
ORLANDO. Ma guardi che c’è. L’articolo continua: «Molti hanno rilevato l’errore di questa affermazione. Ma che cosa significa essa dal punto di vista internazionale? – diceva giustamente Pacciardi – La Sicilia è
parte integrante dello Stato italiano, e quando lo straniero stacca una regione italiana dal complesso nazionale e ci dice che quella regione non è matura per un regime democratico, abbiamo diritto di domandarci che
cosa significa. Il Texas non ha lo stesso sviluppo politico dello Stato di Nuova York, ma gli Americani troverebbero assai curioso che noi dicessimo che il Texas non è maturo per la democrazia». E continua (è molto bello tutto l’articolo, ma io debbo qui limitarmi a citarne solo quest’altra parte): «I nostri confini meridionali non si discutono; bisognerebbe occupare militarmente non soltanto la Sicilia, ma tutta l’Italia per un secolo, per impedire che la generosa isola, da cui partì la falange garibaldina per l’unità nazionale, sia unita nella forma che gli Italiani stessi desidereranno di dare alla Nazione italiana».
Per un secolo avrebbero dovuto occupare l’Italia! Non poteva dirsi né più energicamente, né più nobilmente. Ma oggi, per evitare la firma spontanea di un Trattato disonorante, io non le chiedo che di aspettare soltan-
to un mese, onorevole Pacciardi! (Applausi a destra e a sinistra).
Occorrerebbe ora considerare – io la prego, – signor Presidente, di scusarmi se mi dilungo…
ROMITA. Non glielo ricordi!
ORLANDO. No, no, verso l’autorità del Presidente io sono sempre disciplinato; se egli trova che io troppo ecceda, desisto.
Occorrerebbe dunque considerare come sia venuto formandosi questo singolare Trattato, del quale, pur sempre con esclusione rigorosa, quando non fu anche scortese, dell’Italia da ogni negoziato, le condizioni nei nostri riguardi ebbero questo carattere: di diventare sempre più dure. Soprattutto a Parigi, dove era avvenuta la effettiva definizione di tutte le clausole per la volontà assoluta dei quattro Grandi, ricordate in qual modo? Il pubblico italiano veniva a conoscere attraverso indiscrezioni di stampa, sapientemente manovrate, che si era discussa una data questione e, dopo varie alternative di timore e di speranza, veniva a sapere che fra le
varie tesi era prevalsa la peggiore. Ma dopo qualche tempo apprendeva che la questione era stata ripresa e che la soluzione finale era… ancora peggiore. All’italiano, col solito sistema ottimistico, si era fatto vagamente
sperare, dopo il disastro di Parigi, che a Nuova York qualcuna delle più dure clausole fosse potuta essere migliorata. Nessun miglioramento avvenne; ma le modificazioni non mancarono del tutto: alcune ne furono introdotte, ma tutte in senso peggiorativo per noi! Insomma tutto questo lungo procedimento è stato per l’Italia una via crucis; sempre di male in peggio.
Questa constatazione paradossale ha trovato non solo una conferma ma una espressione particolarmente incisiva proprio nella relazione della maggioranza della Commissione, affidata (rivolgendosi al centro) ad uno dei vostri migliori, a quell’ onorevole Gronchi’[16], verso cui io provo una simpatia particolare, perché egli è un Toscano intellettualmente fine come i Toscani sanno essere, anche se la finezza è qualche volta sottigliezza. Or fra i Toscani egli è forse il più sottile di tutti; e la frase di cui si è servito questa volta, si risolve in un tale epigramma che vien fatto di domandarsi: «Ma, l’ha fatto apposta?». (Ilarità). Non lo credo; sinceramente, non lo credo. Ma direi quasi che quanto più quel senso dell’ espressione non fosse stato voluto ma gli fosse stato invece suggerito dal subcosciente, tanto maggior valore acquisterebbe, perché tanto più spontaneo. Nella relazione, dunque, della maggioranza della Commissione, l’onorevole Gronchi ha avuto cura di enumerare in forma sistematica le ragioni per cui convenga ratificare subito. E viene così un numero 2° in cui si dice: «Lontana è da noi ogni idea di speculare sui dissensi altrui od ogni speranza di trarne
qualche profitto …».
Consentite, onorevoli colleghi, che a proposito di quest’ultima frase, io apra qui una parentesi. il tempo stringe e posso accennare solo per incidenza ad un argomento di una tale autonomia logica e politica che si dovrebbe considerarlo adeguatamente in una sede propria: si tratta infatti, dello spirito generale che dovrebbe animare la nostra politica estera. Io qui mi pongo all’estremo, in una posizione intransigente, poiché dissento profondamente dai mezzi con cui è stata sin ora condotta questa nostra politica, la quale culmina nell’ atto che oggi ci si richiede: di accettare un Trattato disonorante senza almeno la scusa della necessità. Ma non dissento sugli scopi essenziali. Assicurare la pace: ma chi è quel pazzo delinquente che in Italia possa in questo momento non desiderare la pace? Io più di ogni altro, perché nessuno più di me ha presenti i tremendi lutti, che sarebbero riservati al Paese proprio per questo Trattato costruito appositamente in vista di un’Italia destinata ad essere il campo di battaglia di una guerra futura. Ed è pure il mio augurio più fervido, se anche affidato ad una opera pur troppo modesta, che si raggiunga l’unione, l’accordo fra Oriente e Occidente, che si crei una salda unione internazionale per la pace; tutte queste cose sono anche per me sommamente desiderabili, ed hanno, se mai, questo solo difetto: che tendono a divenire degli slogan ripetuti in maniera automatica senza più penetrarne il profondo significato.
Ma chiudiamo la parentesi.
Continua la relazione della maggioranza: «Se un simile modo di concepire il ruolo dell’Italia non dovesse essere respinto per molte e validissime ragioni morali e politiche, sarebbe pur sempre contro di esso una constatazione amara: che cioè la nostra pace, da Potsdam in poi» (e Potsdam[17] — osservo io – succede al famoso periodo che si concluse così ironicamente ad Hyde Park) «la nostra pace, da Potsdam in poi, ha conosciuto soltanto peggioramenti e aggravamenti, e che ogni transazione successiva fra i Grandi si è risolta con un ulteriore crescente nostro danno. Il ratificare, dunque, vale a segnare una linea di arresto sul pericoloso piano inclinato di patteggiamenti rinnovantisi senza di noi e contro di noi».
Una voce a destra. È un bell’elogio per il vostro Ministro degli esteri!
 
ORLANDO. Per carità, ratifichiamo subito! Guai se si ritarda, guai! Chissà dove ci porta ogni nuova attesa! È una rovina di più che ci aspetta! Questo dice Granchi con spietata chiarezza. Per ciò io vi dicevo che questo giudizio, pronunziato in sede così solenne, si risolve in un epigramma, sia pure involontario. E tanto più s’impone la ricerca del modo con cui si è pervenuti a questo incomparabile paradosso storico, la quale ricerca, come ho detto e ripeto, non serve per attribuire responsabilità politiche ma per trarre insegnamenti che ci proteggano dalla persistenza in un sistema fallito, così miseramente fallito. Se, per riferirmi a quanto diceva ieri Togliatti, ha sempre fatto difetto nell’azione di Governo una decisione ferma e risoluta, un
senso di fierezza e di dignità, non dovrebbe esser questa una ragione sufficiente per la condanna del sistema? Per raggiungere questo scopo io, nel silenzio degli altri, mi sono dovuto assumere il compito duro e amaro di precisare con franchezza, anche se dovesse sembrare brutale, come il Trattato cui siamo pervenuti, attraverso un triennio di questa politica, ferisca la libertà, l’indipendenza e l’onore stesso dell’Italia.
Nell’accingermi a questa dimostrazione, necessariamente rapida, non mi soffermerò sull’angoscia delle mutilazioni sofferte. Esse aprono nel corpo della Patria ferite che non potranno mai rimarginarsi senza una restaurazione. Trieste, travestita in uno Stato ridicolo, se non fosse anche tragico, che manca di tutto, a cominciare dalla sovranità per finire con l’acqua da bere, e Pola e Fiume e Zara: nomi di città che ricapitolano tutte le ansie e tutte le speranze, tutti i dolori e tutte le gioie della storia d’Italia dal 60 al 1919, redente dal sangue di seicentomila caduti, fiore della giovinezza italiana; città, che danno al mondo la lezione eroica di un plebiscito in cui il voto è espresso col sacrificio supremo dell’abbandono in massa della propria terra e di ogni cosa diletta più caramente; la feroce amputazione di questa Venezia Giulia, che da secoli difende la sua italianità contro tutte le invasioni di tutti i barbari calati in Italia in tutti i tempi, onde, fucinata in queste prove, è quella, fra tutte le altre Regioni, dove l’italianità è più profonda, più intima, più pura. Questa inaudita violenza contro una giustizia, che pure gli stessi Alleati avevano riconosciuta e proclamata, superò le peggiori aspettative, e tuttavia non bastò; anche al confine di occidente è stata imposta una mutilazione in cui l’arbitrio prescinde da ogni ipocrisia con cui giustificarsi. Sia pure per un ingiusto crudele destino, l’Istria nei secoli è stata la posta di un gioco tremendo. Perduta, ripresa, riperduta; auguriamo, speriamo, di riprenderla. Ma il Moncenisio? Ma la Val di Roja? Chi ne ha mai contestata I’italianità nel nostro versante? E il Col di Tenda[18]? L’Alpe, questa cintura che separa l’Italia, ma nel tempo stesso la protegge contro l’invasione, tende, attraverso quel colle ad addolcirsi verso l’Appennino, così puramente, così esclusivamente italiano. Con
pensiero commovente quei due sindaci montanari, e per ciò incorruttibili, il sindaco di Tenda e il sindaco di Briga, issavano la bandiera tricolore sul loro Municipio; ed è proprio notizia di ier l’altro quella del reclutamento militare: si sono presentati alla leva tutti gli iscritti, quasi tutti validi. Bella, brava gente! È magnifico! Onde oggi il dolore e le proteste del vecchio Piemonte, pilone dell’ estremo Nord, trovan la loro espressione accorata in una voce di Sicilia, pilone dell’estremo Sud, congiunto all’altro, attraverso
il grande ponte d’Italia.
Ma ogni rimpianto per questi brani di carne, anzi di organi vitali, strappati alla Patria, viene dai cinici, che si dicono realisti, qualificato come rettorica nazionalista. Procediamo oltre.
Ho detto che questo Trattato toglie all’Italia quella indipendenza che non sopporta altri limiti che non siano comuni a tutti gli altri Stati sovrani. Or bene, approvando questo Trattato, voi approvate un articolo 15, il
quale dice: «L’Italia prenderà tutte le misure necessarie per assicurare a tutte le persone soggette alla sua giurisdizione, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione, il godimento dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ecc.».
Questo articolo si collega con quella rieducazione politica di cui sembra che abbisogni l’Italia, e cioè la Nazione del mondo che arrivò per la prima all’idea di Stato, e l’apprese a tutti i popoli civili. Dovevamo proprio noi ricevere lezioni di tal genere! E meno male se fosse soltanto un corso di lezioni: ma si tratta di un umiliante limite alla nostra sovranità. Voi capite che qualunque degli Stati che figurano vincitori – anche l’Etiopia, che è compresa tra questi ed è tra i firmatari del Trattato – può sollevare la questione se le libertà fondamentali siano state rispettate a proposito di una qualsiasi legge italiana, per esempio di una legge per l’istruzione, come quella che potrebbe presentare l’onorevole Gonella (si ride Commenti) e che fosse da alcuni, anche in Italia, considerata come lesiva della libertà di coscienza, che è libertà fondamentale. Un Paese che nell’esercizio del più sovrano dei diritti, che è il potere legislativo, sia soggetto a tali controlli, non è più un Paese indipendente! Qualche cosa di simile poteva forse avvenire nell’antico impero Ottomano, la vecchia Turchia; ma la nuova Turchia ha superato questa possibilità d’interventi. L’Italia l’ammette con questo articolo 15, che vorreste approvare d’urgenza, senza necessità, ma bensì come un’accettazione, sia pure rassegnata, ma pur sempre volontaria.                                                         .
Poi c’è l’articolo 16, il quale si presenta a prima vista semplicemente privo di senso, perché dice:
«L’Italia non incriminerà né altrimenti perseguiterà alcun cittadino italiano, compresi gli appartenenti alle Forze armate, pel solo fatto di avere, durante il periodo di tempo corrente dal giugno 1940 all’entrata in vigore
del presente Trattato, espressa simpatia o d’aver agito in favore della causa delle Potenze alleate od associate».
Salvo l’oscura allusione agli «appartenenti alle Forze armate», l’articolo manca di serietà quando dispone che l’onorevole De Gasperi non potrebbe incriminare me o l’onorevole Pacciardi o – persino – se stesso, per
avere espresso simpatia alla causa degli alleati! E c’è poi l’articolo 17 che dice:
«L’Italia, la quale, in conformità dell’ articolo 30 della Convenzione di armistizio, ha preso misure per sciogliere le organizzazioni fasciste in Italia, non permetterà, in territorio italiano, la rinascita di simili organizzazioni, siano esse politiche, militari o militarizzate, che abbiano per oggetto di privare il popolo dei suoi diritti democratici».
Or ecco. Non c’è nessuno che sia stato più intransigente di me contro il fascismo. Nessuno più di me avverte l’inesorabile nesso causale, che lega la nostra presente catastrofe a quel terribile fenomeno verso cui non abbiamo neanche il conforto di una immunizzazione, come c’è stata negli altri Paesi. Perché non è vero che il fascismo sia stato un fenomeno esclusivamente italiano. Gli stessi inglesi hanno avuto qualche anticipazione di
metodi fascisti verso la fine del Governo di Cromwell: lord Protettore è affine, anche nel significato della parola, a Duce o a Führer. Certamente, egli fu un grand’uomo; e fu fortuna dell’Inghilterra, che quella parentesi nella grande storia delle libertà di essa non abbia nociuto ma giovato alla sua potenza. Eppure il ricordo di questo Protettore fu così esecrato da arrivare sino alla profanazione di una tomba e ad atti feroci contro un cadavere. La Francia ebbe il suo secondo Impero, che rassomiglia al fascismo come due gocce d’acqua. E finì nel disastro, come fu per l’Italia. Il ricordo però, direi l’orrore per quel regime, per quel periodo, si perpetuò talmente che a Milano, dove si era preparata una statua equestre per Napoleone III artisticamente assai bella, non si poté farla uscire dal magazzino dov’era custodita, perché discretamente il Governo italiano era avvertito che l’impressione in Francia sarebbe stata penosa…                      .
Il fascismo è come il vaiuolo: chi lo ha avuto ha almeno il vantaggio che non lo avrà più. (Ilarità). In Italia, purtroppo, dobbiamo sentire parlare di neofascismo; temo che, in gran parte ciò si debba agli errorì dell’im-
mediato antifascismo.
Non è già, dunque, che l’articolo 17 mi dispiaccia per sé stesso, ma mi ripugna come un’offesa intollerabile alla sovranità del nostro Stato. Qualunque atto di Governo può prestarsi ad una interpretazione che dia luo-
go all’accusa della violazione dell’ articolo 17. Intanto, tutte le espressioni in esso usate sono elastiche, atte a favorire ogni punto di vista soggettivo. Una organizzazione dei così detti giovani esploratori potrà essere considerata come mìlitarizzata; e del resto, le organizzazioni di cui si vieta la rinascita sono anche quelle politiche: ogni associazione, la stessa organizzazione dei partiti può esservi compresa. Che cosa sono, poi, questi «diritti democratici» la cui privazione violerebbe l’articolo 17? Vorrei conoscere il collega che ha inventato frasi così bislacche. Certo è che vi è qui un vastissimo campo, a proposito del quale il nostro Ministero degli esteri potrà bruscamente ricevere da parte di un diplomatico etiopico o lussemburghese una protesta formale perché un qualsiasi provvedimento avrebbe violato l’articolo 17. E badate che le censure contro provvedimenti od atti accusati aver carattere fascistico, sono continue e reciproche anche in questa
Aula: in discussioni di politica interna sono forme polemiche quasi ordinarie. Quante volte non abbiamo inteso noi un deputato di quei settori (accenna all’estrema sinistra) accusare di fascismo questo o quell’atto di Governo, questa o quell’ altra opinione e quante volte la stessa accusa è stata ritorta dai settori opposti! Lo straniero, pertanto, che vorrà sollevare una questione di quel genere, potrà sempre fondarsi sull’ autorità di ammissioni italiane, ed anche autorevoli, a favore del suo assunto!
E non mi sento di andare oltre. C’è tutta una collezione di articoli, mortificanti quando non sono umilianti. Quelli sul disarmo sono orribili. Si potrà entrare in ogni casa italiana per vedere se c’è nascosto un ordigno più progredito, utile all’offesa e difesa militare. Le poche truppe che ci lasciano devono avere un armamento ridotto, che può dirsi primitivo in questa epoca dei carri armati e dei cannoni a grande portata. Al Paese di Galileo, di Volta, di Marconi è vietato persino di fare scoperte che valorizzino di più il proprio esercito. È già una prepotenza odiosa; ma chi può dire se e sino a qual punto una scoperta in qualsiasi campo possa avere applicazioni militari? In conclusione anche i gabinetti delle nostre Università potrebbero essere assoggettati ad un controllo, capace di impedire il proseguimento di uno studio scientifico!
Or questa non è più indipendenza. La sovranità italiana non.è più completa, e, in questa .materia delicatissima, un limite qualunque si pone per sé come una ncgazione totale. Anche grammaticalmente, sovrano è un superlativo; se se ne fa un comparativo, lo si annulla.
L’indipendenza sovrana del nostro Stato vien dunque meno formalmente, cioè come diritto. Ma che dire dell’indipendenza come fatto? Argomento forse ancor più doloroso. Non è più un segreto l’intervento degli stati maggiori e degli ammiragliati nella formazione di questa camicia di forza, che toglie all’Italia ogni possibilità di difendersi. Questa imposizione di pace è fatta in maniera da trasformare immediatamente l’Italia nel campo di battaglia della guerra futura, fra Occidente ed Oriente, se questo orrore non sarà evitato. Peggio ancora, l’Italia è stata considerata come un territorio alla mercé degli eserciti combattenti, tanto di oriente che di occidente.
Tutto ciò è stato fatto consapevolmente, con quello scopo preordinato. Aperta la frontiera orientale, dove avevamo la chiusura delle Alpi culminante al monte Nevoso, l’eventuale esercito dall’Oriente è già in territorio italiano e si è assicurata la demolizione delle nostre fortificazioni per venti chilometri. Quindi il giorno – Dio non voglia – (nessuno più di me può presentirne l’angoscia) in cui avvenisse l’irruzione, noi sappiamo che essa non potrà essere arrestata ma solo contenuta ritardandone l’afflusso in quella Valle Padana che è stata nei secoli, e tornerebbe ora ad essere, campo di battaglia in tutte le guerre europee. Si ripeterà quella che è stata la storia dei mille cinquecento anni seguiti alla caduta di Roma. E gli stati maggiori dell’altra parte han facilmente previsto l’evento di un insuccesso in pianura ed han pensato alle Alpi. Così si arriva alla frontiera occidentale: Briga e Tenda.
Appena si intese parlare di Briga e Tenda, nessuno poté credere che lo scopo fosse di annettersi quelle poche migliaia di montanari italianissimi. Vero è che vi è un tesoro di energia elettrica. Non so a questo proposito se l’onorevole Ministro Sforza, quando mise a disposizione del piano Marshall tutta la forza derivante dalle acque delle nostre Alpi, si sia astenuto per cortesia verso il collega Bidault[19], dall’includervi anche quelle della Roia e quelle del Moncenisio. Ad ogni modo prescindiamo dal lato economico; a titolo
di riparazioni si potevan dare le ore di energia desiderate. Ma il passo del Col di Tenda dato alla Francia significa il punto di arresto dell’invasioni orientali. Le Alpi non servono più a difendere l’Italia, ma gli altri paesi dopo il sacrificio dell’Italia!
Quello che accade poi, a proposito del disarmo navale, rappresenta un mistero inspiegabile o, peggio, profondamente conturbante, quando si pensa alle spiegazioni possibili, poiché qui l’incredibile è che le limitazioni sarebbero state richieste proprio dagli Stati che hanno rispetto a noi una schiacciante superiorità navale. Perché ci hanno portato via tutte le motosiluranti e tutti i sommergibili e ci hanno vietato di costruirne o di acquistarne? Non sono queste per eccellenza armi difensive? Chi dunque poteva avere interesse che l’Italia non potesse neanche difendersi? Si dice che siano stati gli Inglesi. Ma, almeno, a Parigi si erano salvati gli antisommergibili. A Nuova York però, davanti ai 21, sarebbe stata la Francia a rilevare che una tale
concessione fosse eccessiva. E fu così che ci furono definitivamente negati anche gli antisommergibili! 
Questo è l’atto che per beffarda antifrasi si chiama Trattato di pace; con cui l’Italia perde l’indipendenza in diritto, la perde in fatto, perche non può più difenderla; e perde l’onore. Perde l’onore! Tutto il testo e
tutto il contesto, ma soprattutto lo spirito del Trattato consiste in questo, o signori, nel dare il più duro, il più inesorabile rilievo a questo punto: che durante la guerra e dopo, sinora, sempre, noi siamo stati considerati
come nemici. Ce l’hanno detto in tutti i toni: nemici! Ed allora i partigiani che si sono battuti ed il corpo di liberazione e gli aviatori veramente eroici che hanno volato con i loro apparecchi vecchi, logori e stanchi, perché non davano loro quelli nuovi e buoni e partivano senza sapere se avrebbero fatto ritorno, tutti questi per chi si sono dunque battuti? Per un nemico?
Quale maggiore offesa? E noi dobbiamo tollerarla: intendo non in quanto ci venga imposta per legge di necessità, ma per atto volontario e in certo senso spontaneo? Quei nostri soldati, partigiani, aviatori, marinai
sarebbero considerati peggio dei mercenan guidati dal condottieri, da un Alberigo da Barbiano o da un Muzio Attendolo Sforza (ilarità) o da un Giovanni delle Bande Nere, perché quelli almeno si battevano per un compenso; onestamente e, in generale, valorosamente si battevano per colui che li aveva ingaggiati. Ma questi nostri, secondo la definizione del Trattato, si sarebbero battuti per un nemico!
E ancora ancora, minore sarebbe l’offesa rapporto agli uomini. Ordinati essi in unità militari, di queste, quando sono disciolte, non rimane che un nome; e l’onore dei morti e dei vivi dipende dalla causa per cui si
sono battuti, giudicata secondo quella giustizia ideale, che è ben più grande di tutti i quattro Grandi messi insieme.                                    .
Ma la questione dell’onore rimane invece ed è ardente per la Marina. Qui, l’uomo si fonde con la cosa: la nave. E la nave continua ad esistere con la sua bandiera e voi intendete quel che ciò significhi per il marinaio,
il quale deve morire, prima della sua nave o con essa. E si sono battute queste navi, infaticabilmente, in tutti i mari, ed hanno corso tuttti i rischi; hanno tutta la legione eroica dei loro morti. Ed ora si viene a dir loro: queste vostre navi debbono esserci consegnate come bottino di guerra, cioè come navi nemiche; come quelle che battendosi per noi, alleati, si sarebbero battute per un nemico. Si può dare ingratitudine più atroce? 
Queste navi si trovavano nel porto di Spezia o altrove; ricevono l’ordine di sottrarsi ai Tedeschi di raggiungere Malta per mettersi a disposizione dell’Ammiragliato inglese. La flotta francese si trovò in una situazione simile, quando il 27 novembre 1940 Tolone fu occupata dai Tedeschi; le navi furono autoaffondate: bel gesto, in quanto imposto dalla impossibilità dei movimenti. Ma la nostra uscì senza alcuna protezione aerea e sapendo a quali rischi si esponeva. E la nave ammiraglia, la bella corazzata Roma, affondò sotto bombe di aeroplani tedeschi col suo Ammiraglio, coi suoi 1800 marinai[20]. Queste navi, dicevo, hanno continuato a battersi ed ora sono bottino di guerra, e debbono ora esser consegnate come se fossero state vinte e prese! E noi, per secondare il piano Marshall o per contendere alla Bulgaria l’onore di entrar prima nell’ONU, approviamo tali iniquità, senza almeno la scusa di una urgenza improrogabile.
Badate! non domandate ai nostri marinai – i quali hanno fatto prodigi di disciplina, che è coraggio morale, oltre che di coraggio fisico – non domandate loro di ammainare la loro bandiera, per farla sostituire da un’ altra, come dei vinti. Essi non lo tollererebbero, non potrebbero tollerarlo; vi è qualcuno, qua dentro, che darebbe loro torto? Evitatelo. Non so; credo che ci siano forme da studiare capaci di togliere alla nave la sua qualità di militare e di combattente. Credo che si dica: rendere le navi borghesi. Tra le altre cose, il Trattato impone all’Italia non solo la consegna delle navi, ma anche che esse siano rimesse in efficienza, cosa che non si chiese alla Germania, nel 1919. Il Trattato di pace con la Germania fu allora incomparabilmente più mite di questo nostro attuale. L’Italia deve spendere alcuni miliardi per mettere in efficienza le navi danneggiate nella lunga campagna fatta a favore degli stessi alleati. Così perdiamo le nostre navi migliori: le ammirabili Italia e Vittorio Veneto; nomi così cari ad ogni cuore d’italiano. Pensateci! I nostri marinai han meritato che il loro onore, per quanto possibile, sia salvo.
Ma è ormai tempo di avviarmi alla conclusione. La critica da me fatta al cosiddetto Trattato, per quanto prolungata anche troppo, resta sempre inferiore a tutto quello che si potrebbe e dovrebbe dire per un’analisi appena adeguata. Ma l’ora non lo consente. Or la conclusione è in forma di questo dilemma: dare o negare l’approvazione? Parecchi oratori, l’onorevole Gasparotto[21], l’onorevole Corbino ed altri hanno avuto per me un pensiero affettuoso e deferente, quando hanno riconosciuto che la storia da me vissuta, 1’avere avuto la fortuna e 1’onore di legare il mio nome alla vittoria della Patria, vittoria che ci diede quello che ora perdiamo, costituiscono per me un titolo quasi personale, che mi consenta di rifiutare 1’approvazione. In altri termini, l’approvazione per sé è cosa amarissima, ma a cui non ci si può sottrarre; a me questa esenzione è consentita. Ringrazio del pensiero, ripeto, affettuoso e deferente; ma dico subito che se pure avessi questo titolo di immunità non vorrei servirmene in via pregiudiziale. Un’umiliazione che io riconoscessi necessaria alla salvezza del Paese dovrebbe essere accettata da me come dagli altri: nel rifiuto a priori io
troverei i segni di quel nazionalismo, che è la degenerazione del patriottismo e di esserne immune io lo dimostrai in memorandi eventi. Che se lo storico futuro volesse riconoscere in quegli eventi un titolo di merito per me, penso che dovrebbe riscontrarlo nell’essere io stato sempre al centro di due estremi, esposto al fuoco incrociato dell’una parte e dell’altra, in questa Italia sulla quale – o almeno su alcune regioni di essa –  pesa la sciagurata tradizione delle divisioni estreme ed irriconciliabili: Guelfi e Ghibellini. Così io ebbi contro con pari veemenza, non meno i rinunciatari che i nazionalisti. Quanto a questi ultimi, se qualcuno pensasse che io con il mio atteggiamento di intransigenza contro il trattato, riveli tendenze nazionalistiche, lo pregherei di andare alla Biblioteca della Camera a consultare il giornale, organo di quel partito: L’Idea Nazionale[22]. Se mai vi fu un uomo cui nessun oltraggio fu risparmiato, fui io quello. Ci fu un famoso articolo che aveva questo titolo abbastanza significativo: «Tagliategli la lingua». Se quindi gli antinazionalisti vogliono tagliarmi qualche altro organo, mi rimetto alla loro discrezione. (Ilarità). Per ciò, ho detto e ripeto che se ritenessi necessario un atto di umiltà per la salvezza della Patria, chiederei di essere io stesso il primo a compierlo. Ma, per 1’appunto, mi sono soffermato sulla storia di questa politica triennale fatta di sottomissione e di umiltà, perché sia a tutti presente il rapporto con lo stato cui quella politica ci ha ridotti; stato di così estrema miseria da giustificare l’atto inverso, cioè di una ribellione che si ponga, non foss’altro, come una sfida al destino, quando tutto è perduto e non resti che salvare l’onore.
Ringrazio vivamente l’onorevole Gasparotto del pensiero, che ha avuto, di citare oggi qui quel mio telegramma a proposito della decisione di quella che fu la battaglia di Vittorio Veneto[23]. Or mi importa di precisare che la copia di quel telegramma egli non la ebbe da me; io non me ne sono mai vantato, ed anzi di quel mio intervento non ho mai parlato.
GASPAROTTO. Ho ben il diritto di farlo sapere.
ORLANDO. Certamente; voglio solo dire che la rivelazione di quello storico episodio non proviene da me. Ma una volta che essa è avvenuta, ho bene il diritto di metterne in rilievo il significato, in quanto abbia rapporto col solenne momento storico attuale. E il significato è questo: che come ci sono momenti in cui bisogna umiliarsi e sottomettersi, ci sono pure i momenti in cui bisogna osare. L’uomo di Stato si rivela proprio in questi momenti, quando si tratta di assumere le grandi responsabilità dell’azione, e non già di abbandonarsi a quella sostanziale fuga da ogni responsabilità che è la sopportazione. Ed io dissi che l’episodio di quel mio telegramma dell’ottobre del 1918 poteva avere un rapporto con la discussione odierna, sotto questo aspetto: che la responsabilità da me allora assunta fu così grave che se Vittorio Veneto fosse stato una sconfitta io avrei dovuto essere mandato in Alta Corte di Giustizia e condannato forse anche alla fucilazione. Certamente, io ritenevo e continuo a ritenere che il Capo del governo civile, nelle guerre di popolo e non solo di eserciti come le due recenti, ha il diritto ed il dovere di ingerirsi in ciò che riguarda l’andamento della guerra anche dal lato puramente militare; da qui il mio insanabile dissenso con il generale Cadorna. Ma non è men vero che anche quel diritto ha dei limiti ed io confesso che con quel telegramma
avevo quei limiti sorpassati, esponendomi con ciò a quelle estreme conseguenze, che, qualora l’evento fosse stato avverso, avrebbero comportato un giudizio ed una severa condanna.
Per ciò, dunque, pur rinnovando i miei ringraziamenti ai colleghi che han voluto attribuire a me una specie di asilo spirituale per sottrarmi ad un voto amarissimo, dico che non intendo servirmi di questo titolo. Se io
sono risolutamente, irriducibilmente ostile all’approvazione che ci si chiede, egli è perché sento come una morale impossibilità, superiore ad ogni utilità (se pure ci fosse!) di dare un consenso, sia pure coatto, ad un documento che, in fatto di iniquità e di ingiustizia, raggiunge una delle vette più elevate fra le tante prepotenze ed arbitri onde è contaminata la storia dei rapporti internazionali. Ma tanto più poi e tanto peggio per il momento e per il modo onde il voto ci si chiede, pregiudicando dinanzi alla storia l.’unica scusa e cioè di aver ceduto ad una legge di necessità. Questo sentimento ha carattere ideale: ma trova altresì conforto in una ragione d’ordine pratico, la quale avverte di essere ormai venuto il momento di interrompere il sistema di cedere ed accondiscendere finora seguito e di compiere finalmente un atto di fierezza e di dignità. Per tre anni ci siamo sottomessi continuamente, e ne vedete i risultati. Ora, basta.
Non mi soffermo sulla causa specifica della ratifica che manca. Per me basta l’articolo 90, così brutale per noi, poiché quanto all’esecuzione dell’atto prescinde totalmente dalla nostra volontà; ma, per ciò stesso, ci fa
sapere che. sino a quando le quattro ratifiche non siano depositate, l’atto non entra in vigore e noi non siamo obbligati a subirlo e tanto meno a riconoscerlo. Se dunque quella condizione manca, il nostro consenso si presenta libero e volontario e ciò determina la mia ribellione. Che poi la potenza la cui ratifica sinora manchi, sia la Russia o l’America o la Gran Bretagna o la Francia, mi è perfettamente indifferente. I colleghi Nenni e
Togliatti, che mi furono compagni nella Commissione dei Trattati mi han dato atto di ciò ed uno di essi ha ripetuto una mia frase detta allora e cioè che per me la ratifica che manca basta che sia attribuita ad una po-
tenza X.
Quanto alla Russia, peraltro, vi fu un curioso documento che l’ANSA diramò come proveniente da un portavoce di Palazzo Chigi e secondo il quale la ratifica della Russia era lì lì per venire e sarebbe arrivata fra pochi giorni. Sono ora invece passate varie settimane e non se ne vede il principio. Ah, questi portavoce! Ad ogni modo, ripeto, a me che sia la Russia a non ratificare non importa nulla e si dovrebbe aggiungere che
anche per la Russia non vi è nessun rapporto fra la sua astensione e la ratifica che pur hanno fatta alcuni degli Stati che si dicono satelliti di essa. Il mio intento è puramente obbiettivo: il Trattato per ora è ineseguibile.
Perché, dunque, questa fretta di approvarlo spontaneamente, proprio noi, i sacrificati e gli offesi?
Tutto ciò assorbe la questione della utilità poiché la soverchia di gran lunga. Ma, ad ogni modo, in che consisterebbe questa utilità? Prima ci si disse, in Commissione dei Trattati, che occorreva la ratifica per l’ammissione dell’Italia al convegno di Parigi per il piano Marshall; l’evento dimostrò che non era così. Ora ci si dice che occorre per l’ammissione all’ONU. Ma dove è la disposizione che subordina l’ingresso nell’ONU alla ratifica? Dove è? Ho qui lo Statuto, dove si parla dell’ ammissione dei nuovi membri e se ne stabiliscono le condizioni; nulla, in esse, che si colleghi con la ratifica. Se sbaglio, mi si interrompa e mi si dica quale sia
l’articolo, il capoverso, la parola che importi una tale conseguenza. Dunque, questa ragione non sussiste.
Non è vero nemmeno – l’hanno ingannata, onorevole Ministro –  quando si dice che se passa il 10 agosto non potremo avere questa fortuna di essere ammessi e perdiamo l’anno. Neanche ciò è vero, perché l’anno
scorso il Siam fu ammesso a novembre. La procedura è la seguente. In agosto avviene un esame preliminare da parte di una Commissione, che nei suoi membri riproduce le undici potenze del Consiglio di sicurezza.
Quando si trattò del Siam, siccome pendeva una contestazione con la Francia per i confini con l’Indocina, la Francia chiese ed ottenne che la domanda del Siam non fosse ammessa. Senz’altro. In seguito, il dissidio si
compose e il Siam fu ammesso, come ho detto, in novembre.     .
A voler chiamare le cose col loro nome e senza ipocriti infingimenti, la verità è che per l’ammissione all’ONU tutto dipende dall’accordo delle cinque Potenze che hanno il seggio permanente e quindi il diritto di veto.
L’opposizione di una sola di esse basta a fermare l’ammissione. D’altro lato, per il noto contrasto fra i due gruppi di Potenze, avviene che se non si arriva ad un compromesso, l’uno impedirà l’ammissione favorita dall’altro, e reciprocamente. Così, l’anno scorso, la Russia ha messo il veto all’ammissione del Portogallo e dell’Irlanda, dando per ragione che non avevano curato di avere rappresentanza diplomatica a Mosca e quindi non davano nessuna garanzia di essere amici della pace. Allora, per evidente contraccambio, gli Stati anglosassoni misero il veto all’ammissione dell’Albania voluta dai Sovietici. Il Governo britannico ha ora fatto sapere che non darà l’assenso neppure alla Romania, per i recenti episodi che voi conoscete[24].
Quindi, è tutto un gioco di veti. Lascio poi stare, per l’ora che urge, l’altra indagine più sostanziale per cui si pretende che l’ammissione nell’ONU sia un così grande beneficio da valere come una giustificazione di
questa sciagurata ratifica. Io non solo contesto risolutamente che vi sia un vantaggio qualsiasi, ma ritengo invece che si tratti di cosa non desiderabile e mi asterrei, nonché dal chiederla, dall’accettarla, considerandola come un’ altra mortificazione inflitta al nostro Paese. Il posto che esso prenderebbe lo graduerebbe dopo Stati minuscoli; diciamolo francamente: sarebbe come una firma apposta alla nostra rinuncia alla qualità di grande Potenza. Ammetto che questa sia purtroppo la situazione attuale; ma perché andare verso il riconoscimento di questa nostra decadenza con così premurosa e soddisfatta sollecitudine? Ma anche a parte tutto ciò, lo Statuto dell’ONU contiene quei due famosi articoli, 53 e 57, che non leggo, ma il cui senso, per quanto poco chiaro, importa che, mentre la garanzia essenziale per i membri dell’ONU è che nessuno possa essere aggredito senza violare solenni impegni dando luogo all’immediato soccorso di tutte le nazioni unite, a questa regola si introduce con quegli articoli un’eccezione pel caso che l’iniziativa provenga da uno degli Stati alleati ed associati contro uno Stato ex nemico. In altri termini, la Jugoslavia o l’Etiopia potrebbero aggredirci senza che noi fossimo protetti dalle garanzie che proteggono gli altri Stati dell’ONU!
Il Ministro si rende conto della enormità di queste disposizioni e dice di aver avuto l’affidamento che saranno soppresse, poiché tutte le repubbliche del Sud America si son dichiarate contrarie. Sì, ma gli debbo ricordare il veto che, da solo, annulla tutte le maggioranze. In ogni caso io vorrei che quei due articoli fossero già soppressi, prima di accettare la situazione che ne deriva, la quale ci mette in uno stato di inferiorità verso
gli altri membri dell’Associazione, sin dal momento in cui entreremmo a farne parte.
. Nessuno, dunque, dei vantaggi che si fanno sperare come conseguenza di questa approvazione anticipata può dirsi sussistente ed effettivo; la stessa condizione armistiziale continua formalmente immutata, perché il termine dei 90 giorni fissato per la cessazione di essa, non comincia a decorrere se non dal deposito delle quattro ratifiche. Ma ci fossero pure dei vantaggi, nulla essi varrebbero, per me, in confronto dei sacrifici estremi che ci si vogliono imporre, come ho dimostrato in questo mio discorso, incompleto se pur lungo. Perciò io sono, in ogni caso e in ogni tempo, contrario alla approvazione, perché non vale vivere quando si perdono le ragioni di vivere. L’Italia non può opporre al disfacimento cui l’atto la vorrebbe condannare che il fatto della sua esistenza come grande e gloriosa Nazione; e questo fatto è insopprimibile, malgrado ogni iniquità. Che se, però, questa mia decisione estrema la maggioranza di voi non crede di consentire, io posso rispettare codesta perplessità. Ma considerate almeno questo lato della decisione odierna, il significato di questa accettazione, che avviene in un momento in cui essa non è necessaria; onde il vostro voto acqui-
sta il valore di un’accettazione volontaria di questa che è una rinuncia a quanto di più caro, di più prezioso, di più sacro vi è stato confidato dal popolo quando vi elesse: l’indipendenza e l’onore della Patria. Vi prego,
vi scongiuro, onorevoli colleghi, al di là e al di sopra di qualunque sentimento di parte – quale stolto potrebbe attribuirmelo?— non mettete i vostri partiti, non mettete voi stessi di fronte a così paurosa responsabilità.
Questi sono voti di cui si risponde dinanzi alle generazioni future; si risponde nei secoli di queste abiezioni fatte per cupidigia di servilità. (Vivissimi applausi a sinistra e a destra. Proteste vivaci al centro e al banco del Governo. Rumori vivissimi. Scambio di epiteti fra sinistra e centro. Ripetuti richiami del Presidente. Nuovi prolungati applausi a sinistra e a destra. Proteste e rumori vivissimi al centro. Scambio di apostrofi fra il centro e le sinistre. Viva agitazione).
[ .. ]
ORLANDO. Mi dispiace di dover dare spiegazioni, e le do solo per rispetto a lei! (Vivi applausi a sinistra. Commenti e vivaci proteste al centro).
[ .. ]
PRESIDENTE. Onorevole Orlando, mi perdoni, io le sono grato della deferenza particolare che mi vuole dimostrare, ma sarei lieto che le sue parole fossero non soltanto udite da tutta l’Assemblea, ma fossero dirette a tutta l’Assemblea. La prego di parlare.
ORLANDO. Io, rispettando il Presidente, rispetto l’Assemblea! (Commenti al centro).
La parola «servilità» qualifica l’atto, e non le persone. Io stesso, proprio in questo mio discorso, ho detto di me di aver compiuto un atto di umiliazione, che credetti necessario, nell’interesse del Paese. L’atto in sé è
servile, ma poiché, non vi risponde l’intenzione di compierlo come tale, nessuno può restarne offeso. Ma, ad ogni modo, poiché come vi dicevo, ritengo che sia l’ultimo discorso che io pronunzierò in quest’Aula …
Voci. No. No!
ORLANDO …. io voglio che, come mi è sempre accaduto nella mia lunga vita parlamentare, il mio appello sia per la concordia o, almeno, contro l’esasperazione dei contrasti inevitabili e riunisca l’animo di tutti. E
dico ai colleghi di tutte le parti dell’Assemblea: convenite con me, obiettivamente, indipendentemente da ogni giudizio politico, indipendentemente da ogni preferenza verso questa o quella linea di condotta, convenite con me, tutti, che questo Trattato di pace è una solenne ingiustizia?
Voci da molti banchi. Sì!
ORLANDO. Ed allora non ho null’altro da aggiungere. (Vivissimi prolungati applausi a sinistra e a destra. Molte congratulazioni. Commenti al centro).
[…]
DE GASPERI, presidente del Consiglio. Onorevole Orlando, avrei aspettato dalla sua lealtà che ella avesse dichiarato che le parole «cupidigia di servilità» non si riferivano a coloro che propongono in buona fede e con retta coscienza d! ratificare il Trattato. Avrei preferito che lo avesse dichiarato.
ORLANDO. L’ho detto.
DE GASPERI, presidente del Consiglio. Se questa è la sua dichiarazione, io sono lieto di accettarla, quantunque il linguaggio altrimenti doveva Essere interpretato. Tuttavia sono lieto di accettarla per questo: perché la situazione è molto difficile, la tensione degli animi è grave, senza dubbio; ma quello che non si puo negare all’avversario è il coraggio, e molto meno si può negare a chi come me e il Governo sostiene in questa difficile situazione una posizione che esige maggior coraggio civile di qualsiasi rinvio e la sostiene perché crede di doverla sostenere nell’interesse del Paese, della pace e della collaborazione Internazionale! (Vivissimi prolungati applausi al centro. Commenti).

[1] In questa riproduzione del testo di Orlando si seguono le note a piè di pagina dell’edizione dei Discorsi pubblicata da il Mulino nel 2002 nella COLLANA DEI DISCORSI PARLAMENTARI.
[2] L’intervento di Orlando si colloca nelle ultime fasi del dibattito parlamentare sulla ratifica del Trattato di pace, che fu approvato il 31 luglio 1947. Nel corso della discussione furono votati e respinti l’ordine del giorno Orlando e quello Corbino. Furono invece approvati l’ordine del giorno Ruini e l’ordine del giorno Perassi che, pur lamentando l’onerosità delle condizioni di pace imposte all’Italia, ritenevano che la ratifica fosse necessaria.
[3] Orlando aveva presentato un ordine del giorno così formulato: L’Assemblea costituente, non essendo il Trattato diventato esecutivo per il difetto delle condizioni richieste dall’articolo 90, delibera di rinviare l’approvazione del disegno di legge.
[4] Orlando rassegnò le dimissioni da deputato per protestare contro il progressivo smantellamento dello Stato di diritto. Il 18 novembre 1925, la Camera dei deputati accettò le dimissioni.
[5] Orlando ebbe diversi contatti con collaboratori del Re, come Pietro d’Acquarone, nel luglio 1943, mentre si preparava il colpo di stato e la defenestrazione di Mussolini. L’attribuzione ad Orlando del «proclama Badoglio» è tuttora discussa.
[6] Orlando riepiloga qui le vicende belliche dello sbarco in Normandia e dello sbarco in Provenza, nei loro riflessi sulla situazione italiana. Il rallentamento delle operazioni sul fronte italiano, già evidente nell’estate 1944, fu definitivamente sancito dal cosiddetto «proclama Alexander» (13 novembre 1944), con cui il comandante delle truppe alleate in Italia invitò i partigiani a desistere da grosse operazioni offensive ed a limitarsi a raccogliere informazioni per conto degli alleati.
[7] Nel settembre 1944 Winston Churchill si recò in America ed ebbe un vertice con Roosevelt a Quebec, nel corso del quale i due statisti elaborarono alcuni progetti per la risistemazione dell’Europa. Il Primo Ministro del Regno Unito fu poi ospite di Roosevelt ad Hyde Park (N. Y.).
[8] La sigla sta per United Nations Relief and Rehabilitation Administration.
[9] Roberto Farinacci (1892-1945), segretario del PNF nel 1925, esponente dell’ala oltranzista del Fascismo, durante la seconda guerra mondiale capeggiò la fazione filo-tedesca del partito.
[10] Alfred Baudrillart (1859-1942), cardinale e professore di storia, collaborò col regime di Vichy.
[11] Achille Starace (1889-1945), a lungo segretario del PNF (1931-1939).
[12] Charles Maurras (1868-1945), pubblicista nazionalista, fondatore dell’Action française, ammiratore di Mussolini e Franco, salutò con favore la creazione del regime collaborazionista di Vichy.
[13] Il 5 giugno 1947, il segretario di Stato americano, generale Marshall, propose l’«European Reconstruction Program» (ERP), un piano di aiuti economici agli Stati europei. Il 17 giugno 1947, si aprì a Parigi una Conferenza internazionale per l’applicazione del piano Marshall, a cui parteciparono, in rappresentanza dell’Italia, Alcide De Gasperi e Carlo Sforza. Nell’ambito della Conferenza, Sforza avviò trattative per un’intesa doganale italo-francese.
[14] La Commissione dei Trattati internazionali fu nominata dal Presidente il 19 luglio 1946. Ad essa il Governo riferì sulle trattative in corso con le potenze europee.
[15] Randolfo Pacciardi (1899-1991), militante antifascista sin dagli anni ’20, fu membro dell’Assemblea costituente e deputato nelle prime quattro legislature repubblicane. Fu inoltre Ministro della Difesa nel quinto, sesto e settimo Governo De Gasperi dall’8 maggio 1948 al 24 giugno 1953.
[16] Giovanni Gronchi (1887-1978), Sottosegretario all’Industria e Commercio nel primo governo Mussolini dal 1922 al 1923, Ministro dell’Industria w Commercio nel secondo e terzo governo Bonomi dal 18 giugno 1944 al 21 giugno 1945, nel primo governo Parri dal 21 giugno 1945 a 10 dicembre 1945 e nel primo governo De Gasperi dal 10 dicembre 1945 al 13 luglio 1946, fu membro della Costituente, fu Presidente della Camera nella prima e seconda legislatura repubblicana. Il 29 aprile 1955 fu eletto Presidente della Repubblica. La Commissione dei Trattati internazionali espresse due relazioni, una di minoranza (rel. Nitti) ed una di maggioranza (rel. Gronchi).
[17] Nel luglio-agosto 1945 i leader politici delle potenze vincitrici si riunirono a Potsdam (berlino) per discutere della sistemazione dell’Europa e dei mezzi per costringere il Giappone ad una resa immediata.
[18] A seguito del trattato di pace l’Italia fu costretta a cedere alla Francia una piccola area delle Alpi marittime (i paesi di Briga e Tenda con gli impianti idroelettrici allocati nella zona).
[19] George Bidault (1889-1983), Ministro degli esteri del Governo provvisorio francese (1944), poi Primo Ministro (1946 e 1949-1950) e Ministro degli esteri (1947-1948).
[20] Il 9 settembre 1943, giorno successivo alla proclamazione dell’armistizio, la Forza Navale da Battaglia, al comando dell’Ammiraglio Carlo Bergamini, fece rotta verso Malta. Nel corso dell’operazione la flotta fu attaccata da formazioni di bombardieri tedeschi e la corazzata Roma fu affondata. Perirono tutto lo Stato Maggiore e una grande quantità di graduati e marinai, in tutto 1.253 uomini.
[21] Luigi Gasparotto (1873-1954), deputato dal 1913 al 1923, rieletto nel 1924, esule durante la dittatura, fu Ministro della guerra nel Governo Bonomi, dal 4 luglio 1921 al 26 febbraio 1922. Rientrato in Italia nel 1943, fu Ministro dell’auronautica nel secondo Governo Bonomi, dal 14 gennaio al 19 giugno 1945, Ministro dell’assistenza post-bellica nel primo Governo De Gasperi, dal 10 dicembre 1945 al 1° luglio 1946, Ministro della difesa nel terzo Governo De Gasperi dal 2 febbraio al 13 maggio 1947.
[22] Il periodico nazionalista fondato da Enrico Corradini nel 1911.
[23] Il 14 ottobre 1918 Orlando, avendo avuto notizie di uno sfaldamento del «fronte interno» tedesco ed austriaco, inviò un telegramma riservato al comandante supremo dell’esercito italiano, Armando Diaz, per invitarlo a passare risolutamente all’offensiva. Di fronte alle esitazioni di Diaz, Orlando inviò un nuovo telegramma il 18 ottobre 1918, ordinando di passare immediatamente all’attacco. Il 21 ottobre Orlando raggiunse il quartiere generale italiano per conferire con i vertici militari. Nei giorni successivi si aprì la battaglia di Vittorio Veneto, che segnò la definitiva sconfitta dell’esercito austro-ungarico.
[24] Probabilmente Orlando si riferisce all’arresto del leader del partito nazionale dei contadini, Julius Maniu, che segnò l’inizio dell’instaurazione del regime comunista in Romania.
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