Gian Pio Mattogno: Monaldo Leopardi e gli ebrei

Gian Pio Mattogno 

«PIUTTOSTO CHE VIVERE A QUESTO PREZZO, MEGLIO SAREBBE MORIRE».

COME IL CONTE MONALDO LEOPARDI SVENTÒ UN POSSIBILE TENTATIVO DEGLI EBREI DI IMPADRONIRSI DEL PATRIMONIO DELLA CHIESA

 

Non si può dire che il conte Monaldo Leopardi (1776-1847), padre dell’assai più celebre Giacomo Leopardi, goda in generale d’una buona reputazione nelle nostre scuole e università.

Il Croce (La storia come pensiero e come azione, Bari, 1965, p. 80, n. 2) lo bollò come «il fanatico reazionario, padre di Giacomo».

Altri lo hanno definito ultrareazionario, cattolico radicale nemico delle idee liberali, uomo di punta della cultura clerico-reazionaria e via cantando, ma la sostanza non cambia: tutta la critica laicistica è appiattita su questo giudizio, che nella terminologia della cultura dominante “progressista” vorrebbe essere inappellabile.

A tutti noi, imberbi studenti alle medie, meno imberbi ma egualmente sprovveduti alle superiori, e poi magari goliardi clerici vagantes all’università, il docente d’italiano di turno col testo di letteratura di turno ha trasmesso la convinzione che la causa di tutte le sofferenze del povero Giacomo fosse proprio il padre, senza parlare di quella mezza arpia della madre, la contessa Adelaide Antici.

In realtà, il conte Monaldo Leopardi fu solo un cattolico intransigente, fieramente ostile alle idee rivoluzionarie del suo tempo, fedele al Papa e alla tradizione cattolica, apologeta del trono e dell’altare, cui era totalmente estranea qualunque mentalità capitalistico-borghese e che mostrava di conoscere perfettamente i meccanismi perversi dell’indebitamento.

A ragione la rivista dei gesuiti lo definì «benemerito e rettissimo uomo» (Gli asili d’infanzia nei loro inizii in Italia, «La Civiltà Cattolica», Anno sesto. Seconda serie. Vol. duodecimo, 1855, p. 24).

Se poi aggiungiamo che non fu tenero neppure verso gli ebrei, questo basta ed avanza per annoverarlo, assieme al padre Jabalot, autore del «famigerato studio» (sic) “Degli ebrei nel loro rapporto colle nazioni cristiane” (1825), «fra gli antisemiti più in vista» (N. Samaja, La situazione degli Ebrei nel periodo del Risorgimento. Antisemitismo e filosemitismo, «La Rassegna Mensile di Israel», 23 (1957), p. 412).

Ma in verità sotto questo riguardo Giacomo non fu da meno del padre, in quanto nello Zibaldone egli non si peritò di denunciare i sentimenti d’odio «verso chiunque non era Giudeo», che credette di rinvenire tanto nella Bibbia quanto nell’ebraismo rabbinico (cfr. Sinai, Sinah, Horeb. Le genesi dell’odio rabbinico-talmudico contro i popoli del mondo, Effepi, Genova, 2020, pp. 109-139, con note storico-bibliografiche sul padre Jabalot e sugli ebrei nello Stato Pontificio nell’età rivoluzionaria e napoleonica, e all’indomani della Restaurazione).

La concezione del conte Monaldo era quella della teologia cattolica tradizionale dell’ebraismo.

I profeti dell’antica alleanza e Gesù profeta della nuova legge, scrive, predissero «all’ostinato e sconoscente Isdraello» la distruzione di Gerusalemme e del Tempio, la strage e la servitù del suo popolo, e «gli ebrei errano tutt’ora fra le genti avviliti e dispersi manifestando a tutte le età l’ira dell’Eterno che fulminò la Sinagoga (…) Poiché non vollero ascoltare la voce del Messo del Signore vanno raminghi e abbandonati da lui; non sono più il suo popolo ed egli non è più il loro Iddio; e il padre della misericordia non vuol essere più pietoso con essi e li ha scordati e rigettati per sempre.

     «Così per la morte del Redentore la casa d’Isdraello con tutta la sua gloria è prostrata senza speranza che risorga giammai; e colla morte del Redentore il sacrificio della legge antica è cessato, alla vittima sanguinosa è succeduta l’ostia di pace (…)».

(Istoria Evangelica scritta in latino con le sole parole dei sacri evangelisti spiegata in italiano e dilucidata con annotazioni. Opera del conte Monaldo Leopardi di Recanati. Parte prima, Pesaro 1832, pp. LII-LIV).

Chiosando Giov. 8,41, scrive:

«Forse gli Ebrei chiamavano i Gentili figliuoli di fornicazione, e forse con queste parole intendevano insultare Gesù bestemmiando sopra il mistero della sua natività» (Parte seconda. Note al capitolo XXXII, n. 10, p. 4).

Il conte Monaldo mostrava di conoscere perfettamente gli ebrei del suo tempo.

Fu per tale ragione che, presentatasi l’occasione, scrisse l’opuscolo: Sul progetto di colonizzare l’Agro romano e di rendere abbondante la moneta nello Stato della Chiesa. Osservazioni del conte Monaldo Leopardi di Recanati, Recanati, 1829.

La questione viene così riassunta da Alessandro Avòli, curatore dell’autobiografia di Monaldo Leopardi.

Il conte Monaldo, scrive, «non fece che combattere una proposta che si faceva al Governo pontificio. La proposta consisteva in questo. Una società di finanzieri estera prenderebbe in enfiteusi perpetua tutto l’Agro romano e tutte le maremme dai confini della Toscana a quelli del regno napoletano, obbligandosi di bonificare e popolare quelle terre; per render poi più abbondante la moneta nello Stato che ne pativa scarsezza, darebbe in prestito per venticinque anni sei milioni di scudi coll’annuo frutto del quattro e mezzo per cento.

     «Monaldo combatte l’una cosa e l’altra come rovinosa allo Stato, e tanto più calorosamente la combatte in quanto teme che la Società proponente sia tutta o in gran parte composta di ebrei i quali egli vedrebbe ben volentieri lontani cento mila miglia dallo Stato, e, se possibile, dalla faccia della terra» (Autobiografia di Monaldo Leopardi con Appendice di Alessandro Avòli, Roma, 1883, p. 399, n. 2).

Lo Stato Pontificio – esordisce il conte Monaldo – sotto tanti rapporti è felice, ma lo sarebbe ancor di più se fossero rimossi due gravissimi ostacoli che ne impediscono la prosperità: nelle province meridionali le campagne sono incolte perché scarse di abitanti, mentre in altre province il popolo sovrabbonda smisuratamente, e, non trovando suolo bastante su cui impiegare il proprio lavoro, vive nella povertà.

«Una Società forastiera di ricchi speculatori, rilevando queste penose circostanze sulla di cui esistenza bisogna convenire necessariamente, ha proposto di eliminarle, ed ha esibito all’amato Principe nostro un progetto analogo, e ragionato» (p. 3).

Dopo aver esposti i termini già ricordati del contratto, il conte Monaldo si affretta però a sottolineare come «queste proposizioni ancorché dimostrino un’apparenza lusinghevole siano in sostanza fatali, e ritengo fermamente che il Sovrano prudente e saggio non sarà mai per ammetterle» (p. 4).

La condizione di un debitore «è sempre una condizione infelice».

È vero che uno Stato, che è come una famiglia, se si trova in una condizione di straordinaria calamità ed ha bisogno di numerario, potrà utilmente ricorrere ad un imprestito, ma «purché abbia, o prepari contemporaneamente i modi per liberarsene» (p. 6).

Ma se lo Stato in cui scarseggia la pecunia non per effetto di straordinaria emergenza, ma perché l’introito annuale è minore della sortita, si indebita, anche se conosce un rinvigorire passeggero, questo alla fine ne uscirà «tutto rotto e spossato» (p. 7).

Ora, osserva, è certo che lo Stato Pontificio soffre per la penuria della moneta, ma tale penuria non si può attribuire ad alcuna straordinaria calamità, anche se lo Stato è reduce dalle spoliazioni ed estorsioni praticate dalla Repubblica Francese e dal Governo del Regno Italiano.

Per questi e per altri motivi, la soluzione proposta dalla Società di forestieri non è per nulla soddisfacente, poiché tra l’altro «a noi resterebbe il debito di Sei Milioni, e 750 mila Scudi di frutti, e con la impossibilità quasi assoluta di estinguere mai più questo debito ci resterebbe l’essere perpetuamente schiavi della Società imprestatrice, la quale intende forse con buona fede di offrirci un fiore, ma per la verità altro non ci offre che un laccio» (p. 12).

Una società che tramite ipoteche agogna alla proprietà di intere province, comanderà direttamente a migliaia e migliaia di contadini, e potrà esercitare sopra una gran parte dei sudditi l’influenza più severa, poiché «il debitore è sempre ligio del creditore, e questo è il vero Padrone di quello» (p. 13).

Una tale Società sarà per lo meno parte essenziale del Governo pontificio, ed avrà una influenza indiretta nell’esercizio della sua sovranità.

«Il Principe, volere, o non volere, dovrà sempre patteggiare con essa», e si dovrà vedere l’autorità sovrana «inceppata, degradata, e ligia di un Gigante estero, e potente, che essa medesima avrà incautamente fatto nascere nel proprio seno. Diciamolo con parole sincere; il Sommo Pontefice aderendo al progetto della Società, venderà alla medesima alcuni scalini del proprio Trono» (p. 13).

Vi è però un’altra ragione, ancora più importante.

«Ma che si direbbe da noi se i nomi onorati, e cristiani che si presentano in fronte di questa Società cuoprissero altri nomi di augurio meno fausto, e sotto il velo della fraterna pietà si nascondesse la mano della figliuola riprovata di Giuda?

     «Gli Ebrei spogliati della pristina gloria, scancellati per sempre dal novero delle Nazioni, e condannati ad una esistenza avvilita e raminga per testificare ad ogni gente la enormità dello sleale loro peccato e la verità della nostra sostituzione, agognano tuttavia, ed ottengono sino ad un certo segno l’impero dell’universo con l’oro.

«I Cristiani che essi detestano con odio implacabile e contro cui nudriscono i desiderii più micidiali, dovrebbero tollerarli per corrispondenza alle scritture divine, e per istinto di umanità; ma ristretti in un Lazzaretto perpetuo come esseri contaminati, e perigliosi; esclusi non solo da ogni pubblico ufficio, ma anche dell’accesso ai Tribunali che avrebbero solo a garantirli contro il delitto, limitati a vivere col travaglio giornaliero, e con la piccola contrattazione manuale, dovrebbero tenersi permanentemente in una tranquilla bassezza acciocché le idee di dominazione, e di vendetta non potrebbero troppo dilatarsi in quelle dure cervici.

«Però la filosofia corrotta del secolo, e gli interessi male intesi della politica congiurano secoloro contro di noi, e favoriti nello smisurato loro commercio, si eriggono a poco a poco a veri dominanti delle Nazioni. Intenti a questo oggetto solo né arrestati da nessuna memoria [recte: remora] onesta; possessori di qualsivoglia numerario reale, o fittizio; arbitri del credito degli Stati, estendono la loro prepotente influenza fino agli angoli più remoti della Società, e dal Trono alla Capanna, dal Foro all’Altare, tutto oggimai obbedisce alla Sinagoga, perché tutti nell’uno, o nell’altro modo siamo debitori de’ figliuoli d’Isdraello.

«L’oro onde era formato lo scettro infranto di Giuda si è convertito in catene che avvincono l’intiera cristianità, e dobbiamo ragionevolmente temere che li Sei Milioni esibitici sieno una frazione di quello scettro.

«Sarà dunque possibile che andando una sera al riposo sudditi onorati, e lieti del Papa, dobbiamo risvegliarci degradati, e vili mancipii di Giuda? Sarà possibile che il Pontefice Sommo dei Cristiani diventi in qualche modo il Ministro, e il satellito de’ figli prevaricati di Giacobbe? Sarà possibile che il Patrimonio della Sposa di Gesù Cristo debba vendersi per denaro contante alla progenie de’ suoi crocifissori?

«Nessuna fronte battezzata potrìa sostenere l’aspetto di tanta inverecondia, e piuttosto che vivere a questo prezzo meglio sarebbe morire» (pp. 14-15).

Avòli (op. cit., pp. 399-400, n. 2) scrive di aver rinvenuto fra le Miscellanee economiche e politiche del conte Monaldo uno scritto inedito del 1828 dal titolo: Gli politicati di Messere Odoardo degli Nampelli (Odoardo Nampelli è l’anagramma di Monaldo Leopardi), dove tra l’altro, nel cap. Gli Retici et gli Giudei, possiamo leggere:

«Possono conservarsi le immondizie … ma è meglio gittarle … lontano dalla magione. Così ponno tollerarsi gli Ebrei negli Ghetti, ma è meglio purgare lo Reame da una birbaglia, la quale non può fargli altro che male».

Avòli precisa di aver riportato solo le parole meno inurbane ed acerbe.

One Comment
    • a.carancini
    • 7 Luglio 2025

    Citazione:
    “Ma in verità sotto questo riguardo Giacomo non fu da meno del padre, in quanto nello Zibaldone egli non si peritò di denunciare i sentimenti d’odio «verso chiunque non era Giudeo», che credette di rinvenire tanto nella Bibbia quanto nell’ebraismo rabbinico (cfr. Sinai, Sinah, Horeb. Le genesi dell’odio rabbinico-talmudico contro i popoli del mondo, Effepi, Genova, 2020, pp. 109-139, con note storico-bibliografiche sul padre Jabalot e sugli ebrei nello Stato Pontificio nell’età rivoluzionaria e napoleonica, e all’indomani della Restaurazione)”.
    Dunque, secondo Giacomo Leopardi (e, a quanto pare, secondo Gian Pio Mattogno), la Bibbia professerebbe solo sentimenti di odio nei confronti di chiunque non sia giudeo. Mi dispiace, ma non sono d’accordo. L’ebraismo dei profeti in realtà è un UNIVERSALISMO: nella prospettiva messianica gli ebrei e le genti finiranno per professare lo stesso culto e per adorare lo stesso Dio. Prospettiva ribadita all’inizio del Vangelo di Luca (2, 29-32): “Adesso congeda il tuo servo, Padrone, secondo la tua parola, in pace; poiché hanno visto i miei occhi la tua salvezza, che hai preparato a vantaggio di tutti i popoli: luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele”. E’ il giusto Simeone che parla (sta parlando del Messia). Inoltre, la futura conversione del popolo ebraico è stata profetizzata da San Paolo. Quindi, la prospettiva biblica (sia dell’Antico che del Nuovo Testamento) è ben diversa dalla prospettiva del giudaismo rabbinico, questo sì razzista e suprematista.

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