LE COSE NON ACCADONO IN UN VUOTO[1]
Di Gilad Atzmon
Uno dei fatti più affascinanti della storia ebraica è la sua assenza. Gli ebrei non hanno scritto storia per la maggior parte del loro passato collettivo. Non vi sono testi scritti storici ebraici tra Flavio Giuseppe (A.D. 37-100) e Heinrich Graetz (1817-1891). Gli ebrei non hanno scritto storia perché non ne hanno visto il bisogno. Il giudaismo ha il suo metodo peculiare per affrontare la temporalità. Esso implica modelli biblici e talmudici preconfezionati per gli eventi mentre essi accadono. L’inquisizione, i pogrom o l’Olocausto, i recenti scontri di Amsterdam per esempio, sono esattamente quello che gli ebrei si aspettano dagli Amaleciti. Chiunque, ovviamente, è un amalecita potenziale o, nella terminologia moderna, un antisemita potenziale. Nel giudaismo, vi è un ordine divino per le cose, e il tentativo di narrare il passato mentre ci muoviamo (conosciuto anche come storia) non è auspicabile, anzi talvolta è persino proibito. Se la storia viene compresa come un discorso aperto che permette al passato di cambiare, di riscrivere sé stesso, di essere rivisto nel mentre la nostra visione del mondo sta cambiando, nell’universo ebraico gli eventi storici – e, in particolare, i loro significati – devono rimanere immutati e, vorrei dire, sigillati a tenuta d’aria. Nell’universo giudaico il passato è intoccabile: la sua fattualità non è negoziabile e il suo significato è sacro. Ecco naturalmente perché l’Olocausto abbisogna delle sue leggi. Ecco anche perché la discussione sulla Nakba è proibita per legge nello Stato ebraico. Nella sfera giudaica, per lo più la storia si trasforma in religione. Il grande filosofo israeliano Yeshayahu Leibowitz commentò negli anni Settanta che “gli ebrei credono in molte cose differenti, ma tutti gli ebrei credono nell’Olocausto”. Fu Leibowitz a capire per primo che l’Olocausto è diventato la prima religione ebraica. Se la storia è l’arte della revisione, nella religione il ripensare è un atto di eresia. La religione dell’Olocausto non permette revisioni.
Il sionismo primitivo, tuttavia, aveva un piano differente per gli ebrei. Esso aveva progettato di “civilizzare” il popolo, di fare di esso “un popolo come tutti gli altri popoli”, per citare Herzl.
Questo significava, innanzitutto, “inventare una storia”. Inventare un passato e imparare ad afferrare il presente e il futuro nel contesto della comprensione del passato. Lo storico israeliano Shlomo Sand ebbe questa intuizione nel suo fenomenale best seller “L’invenzione del popolo ebraico” (del 2010). Nella narrazione del sionismo primitivo (per come è stata espressa dall’opera di Dov Borochov, AD Gordon, Bernard `Lazar, Ben Gurion e molti altri) gli ebrei della Diaspora erano in effetti responsabili delle loro sofferenze. I primi sionisti erano d’accordo con gli antisemiti. Gli ebrei della Diaspora, ai loro occhi, non erano un popolo molto simpatico. Agli occhi dei primi sionisti, costoro erano capitalisti, metropolitani, sfruttatori, asociali, intenti a cercare la vicinanza dei corridoi del potere. Ma non era colpa degli ebrei, proclamavano i primi sionisti. Tutto questo succedeva perché gli ebrei si trovavano in esilio, perché erano stati “rimossi forzosamente” dalla “loro terra”, e cioè da Sion (Sand, dovrei dire, sfida questo racconto. Egli correttamente fa notare che l’esilio ebraico fu un mito).
Il sionismo ai suoi albori promise di cambiare gli ebrei. Di farli diventare dei Nuovi Ebrei: stiamo parlando della rinascita di una nazione. I Nuovi Ebrei furono un “movimento laburista rivoluzionario”: una nazione proletaria, costituita da persone che lavoravano nei campi e dietro catene di montaggio, da persone che amavano i loro vicini (e da cui erano riamate, almeno in teoria). Ma, soprattutto, i primi sionisti volevano che gli ebrei diventassero persone con una storia. Persone che agiscono in armonia con un destino storico. Persone che capiscono la temporalità, persone che agiscono nel presente in armonia con una visione chiara del passato e delle responsabilità, così da creare un presente ed un futuro migliori per loro stessi e anche in mezzo agli altri. Dentro il sogno del sionismo primitivo, gli ebrei riconoscevano I loro torti. Volevano cambiare, opporsi alle caratteristiche della Diaspora. Nella visione dei primi sionisti, gli ebrei avevano un problema ma questo problema poteva essere risolto da una metamorfosi mediante il lavoro a Sion, in Palestina.
Cento anni dopo la prima grande ondata migratoria in Palestina (negli anni Venti) è facile confermare che il sionismo, nonostante la grande promessa, non ha risolto il problema ma lo ha praticamente trasferito in un altro luogo fino a trasformarlo in un disastro cosmico.
Tuttavia, il fatto a mio avviso più significativo in questo fallimento è stato l’incapacità di adottare il pensiero storico. L’incapacità di capire che la temporalità è modellata dalla causalità. Gli eventi non accadono in un vuoto. La settimana scorsa, gli israeliani sono stati subito pronti a bollare gli scontri post-partita di Amsterdam come un “pogrom”, come una nuova “Notte dei Cristalli”. Essi hanno fondamentalmente riproposto lo schema ebrei contro Amalek. I Guardiani della Giudea hanno raccolto l’appello come fanno sempre, ma poi la verità è emersa. I video dei comportamenti teppistici dei tifosi israeliani hanno iniziato a spuntare sui social.
È emerso chiaramente che prima del “pogrom” gli israeliani avevano fatto di tutto per rendersi colpevoli. Purtroppo, lo fanno sempre. Lo stesso è accaduto il 7 ottobre. Ci è stato chiesto di accettare il pensiero ridicolo che Hamas aveva agito inaspettatamente e che aveva scatenato un massacro “non provocato” di persone innocenti. Si pensava che dovessimo chiudere un occhio sui 70 anni di pulizia etnica, su di un secolo di violenze razzistiche e ci è stato chiesto di non ricordare il fatto che gli insediamenti nell’Anello di Gaza hanno partecipato attivamente a 20 anni di un brutale assedio militare. Si pensava che dovessimo chiudere un occhio sul fatto che il Rave Party Nova Sex & Drugs aveva avuto luogo nelle vicinanze di un campo di concentramento e che faceva parte della guerra psicologica israeliana in atto contro il popolo palestinese sotto assedio. Eppure, ancora una volta, gli israeliani sono ricorsi alle loro narrazioni dissennate, abnormi, illusorie, totalmente ipocrite e fantomatiche che riguardavano 40 infanti decapitati, e a storie ammorbanti, infondate e ora largamente confutate riguardanti multipli “crimini sessuali”.
Il mondo, e con questo termine intendo chiunque tranne Biden, Boris Johnson e Piers Morgan, non l’ha bevuta. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite è stato lesto a ricordare agli israeliani la regola numero uno quando si tratta di storia: “le cose non accadono in un vuoto”. Israele è responsabile dei propri disastri.
Se il sionismo è stato il tentativo di insegnare agli ebrei che la storia comporta il principio di causalità, la trasformazione di Israele in uno Stato ebraico costituisce letteralmente il rifiuto collettivo di questa comprensione basilare. La trasformazione di Israele nello “Stato ebraico” costituisce la riemersione del paradigma giudaico contro la storia; gli ebrei sono sempre le vittime e i Goyim, dovunque essi siano, non sono nient’altro che gli aggressori Amaleciti. Nella cultura ebraica, la “storia” è fondamentalmente una cronaca di eventi che inizia nel momento in cui un dolore ebraico viene rilevato. Si tratta fondamentalmente della negazione sistematica dei principi di responsabilità e di causalità.
Detto questo, dovrei aver finito, ma c’è qualcosa che ancora richiede la nostra viva attenzione. Va notato che non importa quanto orribile e tragico un evento critico ebraico possa essere: nella rappresentazione giudaica dell’evento in questione (per esempio l’Olocausto, i pogrom, il 7 ottobre, Amsterdam) la storia orrifica viene moltiplicata e amplificata speciosamente – e contro la fattualità – in un mito catartico. In un futuro molto prossimo prometto di spiegare il ragionamento che sta dietro questa bizzarra tendenza culturale collettiva.
[1] Traduzione di Andrea Carancini.
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