Vincenzo Vinciguerra: Nemici della patria II

Vincenzo Vinciguerra: Nemici della patria II

L’APPARATO
POLITICO-MILITARE
Alla fine della
Seconda guerra mondiale, l’8 maggio 1945, tutti i partiti
politici, dalle Alpi alla Sicilia, mantengono in armi le proprie strutture che,
man mano, dovrebbero essere disarmate ma che, in realtà, consegnano solo quel
che basta per dare agli al­leati la sensazione di aver provveduto alla
smobilitazione delle formazioni partigiane di partito, comuniste, azioniste,
democri­stiane, liberali.
Le Forze armate, dal canto loro, sono
impegnate in prima linea in due punti della penisola: la Sicilia, dove si
trovano a dover fronteggiare il movimento separatista, in forma ufficiale; e il
confine orientale con la Jugoslavia, dove non hanno alcuna possi­bilità
d’intervento perché tutto il Friuli Venezia Giulia permane sotto rigida
occupazione militare alleata.
Non ci sarà
guerra fra le potenze anglo-sassoni e la Jugoslavia perché quest’ultima non è
assolutamente in grado di sostenerla. Ne sono consapevoli i diplomatici
americani e britannici.
Il 17 giugno 1946, l’ambasciatore britannico
a Mosca invia al Foreign office il resoconto di un colloquio avuto con il suo
collega, americano, Walter Bedell Smith:
“È convinto – scrive – che Tito, a
Mosca, abbia proposto ai russi di attaccare Trieste, e che questi abbiano
respinto il piano. Secondo il generale, i russi si rendono conto meglio di
chiunque al­tro, dei limiti delle armate partigiane; di conseguenza sono al
corrente della precarietà dell’attuale situazione jugoslava, so­prattutto da un
punto di vista militare. A suo dire, in nessuna circostanza Mosca incoraggerà
Tito a rischiare uno scontro armato con le truppe alleate nella Venezia Giulia.
Sa benissimo che ciò porte­rebbe a un conflitto fra le truppe sovietiche e
l’esercito angloa­mericano che è ottimamente equipaggiato. I russi non desiderano in alcun
modo affrontare una simile situazione: non sarebbero così for­ti da scatenare
una guerra totale, anche se disponessero di un’ini­ziale superiorità
numerica”.
Il giorno successivo, 18 giugno, il suo
collega a Belgrado, in­via a Londra una relazione nella quale non esita a
scrivere:
“L’Urss spera di riguadagnare la
fiducia dell’Italia sostenendo le richieste jugoslave in una certa fase delle
trattative, e quelle di Roma in un momento successivo. Mosca non si cura degli
effet­ti di questo doppio gioco sulla Jugoslavia, che è già un paese a
influenza sovietica. Al contrario, l’Italia è fuori dal blocco russo e assume
quindi, sul lungo periodo, un’importanza maggiore nelle mire moscovite”.
Non ci sarà guerra al confine orientale,
ma il contenzioso con la Jugoslavia che ha pesantissimi riflessi sul piano
interno per­ché il Partito comunista italiano, diretto da Palmiro Togliatti, in
base alle direttive ricevute da Josip Stalin, sostiene le pre­tese del
maresciallo Josip Broz, detto “Tito”, su Trieste e  Gorizia, consente al governo italiano,
presieduto da Alcide De Gasperi, ed allo Stato maggiore dell’esercito di
iniziare la costituzione di gruppi paramilitari clandestini in Friuli Venezia
Giulia.
La difesa dell’italianità delle terre
irredente permette al go­verno ed all’esercito di anticipare quanto sarà, poi,
fatto negli anni successivi su tutto il territorio nazionale: inquadrare nei
gruppi clandestini, a fianco dei partigiani “bianchi”, i reduci della
Repubblica sociale italiana, che fanno fronte comune contro gli iugoslavi ed i
comunisti italiani, loro alleati, cementando una alleanza che si era già
formata, riservatamente, nel corso del con­flitto quando i soli ad opporsi
all’avanzata del IX Corpus, in mo­do necessariamente diverso per la militanza
in campi avversi, era­no stati i partigiani della divisione
“Osoppo-Friuli” al comando di Candido Grassi, “Verdi”, e i
battaglioni della Repubblica so­ciale italiana, in particolare quelli della
divisione di fanteria di marina “Decima” agli ordini di Junio Valerio
Borghese.
La lotta contro
il nemico esterno (gli jugoslavi) si coniuga con quella contro il nemico
interno (i comunisti italiani) e il fronte interno anticomunista si salda e si
unisce dimenticando la passata contrapposizione politica ed ideologica.
Nel tempo che intercorre fra la caduta
del governo presieduto da Ferruccio Parri (24 novembre 1945) e la costituzione
del primo go­verno presieduto dal democristiano Alcide De Gasperi (10 dicembre
1945) , a Gorizia, il locale Comitato di liberazione nazionale co­stituisce la
formazione paramilitare clandestina, denominata “Divisione Gorizia”, forte
di 1.200 uomini, collegata con il 5° Comiliter di Udine.
L’11
dicembre 1945, il giorno successivo all’insediamento di Al­cide De Gasperi al
governo, sempre a Gorizia, a cura di Primo Cre­sta, del capitano Barba, di
Bruno Cocianni e con la collaborazio­ne di Candido Grassi, comandante della,
divisione partigiana “Osoppo-Friuli”, è costituita 1’Associazione
partigiani italiani (Api).
Ufficialmente,
l’Api è un’associazione politica composta da re­duci partigiani ma rientra a
pieno titolo nel novero delle forma­zioni paramilitari perché è dotata di una
struttura armata clan­destina anch’essa in contatto con gli ufficiali
dell’esercito.
Nel
mese di gennaio, a Udine, i comandanti della divisione “Osoppo”
riarmano i reparti dandone notizia al capo di Stato maggio­re dell’esercito,
generale Raffaele Cadorna.
Il
28 aprile 1946, il comandante generale dell’Arma dei carabi­nieri, generale
Brunetto Brunetti, informa personalmente il presi­dente del Consiglio, Alcide
De Gasperi, che in Friuli è stato co­stituito il gruppo paramilitare
“Fratelli d’Italia”.
A
Gorizia, l’11 giugno 1946, è creato, il “Gruppo Brigate Venezia
Giulia”, composto da partigiani anticomunisti.
Prima
ancora della costituzione del 3° Corpo volontari della li­bertà, che può essere
considerata un’unità ausiliaria dell’eserci­to ufficialmente riconosciuta e
pubblicamente nota, tutti gli altri gruppi clandestini sono dipendenti e
coordinati dallo Stato maggio­re dell’esercito che mette a disposizione
ufficiali, armi e soste­gno logistico ben consapevole che il loro impiego
contro la Jugo­slavia rientra nel novero delle possibilità, mentre è certo quello
contro i comunisti italiani.
Se
la presenza delle Forze armate nei gruppi paramilitari costi­tuiti fin dal
novembre 1945 a ridosso della
frontiera orientale è da tutti accettata ed ampiamente documentata, sfuma fino
ad apparire pressoché inesistente nei gruppi che sono stati creati, sul territorio
nazionale, nel corso del 1946 e, via via,
fino alla prima­vera del 1948.
L’anticomunismo che si arma non può
prescindere dall’autorizza­zione delle autorità politiche che, a loro volta,
demandano a quelle militari l’incarico di coordinare le attività dei vari gruppi
tramite l’Arma dei carabinieri ed i servizi segreti.
Il 3 marzo 1946, a Milano, con
l’approvazione dello statuto e del regolamento provvisorio, la Chiesa
ambrosiana ricostituisce la propria formazione paramilitare, il Movimento
dell’avanguardia cattolica (Maci), che ha come requisito primo la segretezza
anche nei confronti delle forze di polizia.
Lo dimostrano le istruzioni impartite ai
militanti, il 27 marzo 1947, che impongono, nel caso di domande da parte di
agenti e fun­zionari della Pubblica sicurezza, di “dire che trattasi di
orga­nizzazione cattolica con scopi culturali e divulgazione dei prin­cipi
cristiani; che non esiste alcun registro e che non siamo in grado di fornire
altri elementi”.
Ma non esistono dubbi sul fatto che il
Maci sia stato un gruppo paramilitare predisposto, sotto la guida di vescovi e
monsignori, a partecipare ad una guerra civile.
Nel mese di febbraio del 1948, ad
esempio, il gruppo “Ariberto” comunica ai propri dirigenti di avere 70 uomini, con una squadra di
pronto impiego di 15 uomini, 2 mitra, 8 pistole e 5 bombe a ma­no ma, specifica, che
in caso di bisogno può contare su vari grup­pi armati dell’Opc a Origgio.
Il gruppo “Garcia Moreno”
informa di essere privo di munizioni di riserva, e delinea la situazione dei
trasporti, l’ubicazione delle fabbriche, indicando gli obiettivi da difendere
fra i quali la chiesa, l’oratorio, il cinema, la sede delle Acli ed altri an­cora.
Un terzo gruppo, infine, lamenta di aver
poche pistole ma segna­la di intrattenere ottimi rapporti con i carabinieri.
Il 1° aprile 1948, a Milano, il maggiore
dei carabinieri Antonio Di Dato consegna ai propri subalterni, fra i quali il
capita­no Aldo Altomare, comandante della compagnia di Milano suburbana, un
promemoria a titolo di “orientamento” relativo all’inquadramen­to,
armamento ed impiego di volontari civili cattolici da parte dell’Arma.
Al promemoria è allegato un elenco di
persone “affidabili” del Maci, fra le quali spicca Adamo Degli Occhi
che, nei primi anni Settanta, sarà a Milano uno dei protagonisti
dell’anticomunismo politico e sarà, infine, grottescamente accusato di
“golpismo”.
Non c’è, in campo cattolico, solo il
Maci.
Il
27 febbraio 1948, a Torino. Renato Foietta, responsabile del­l’organizzazione
paramilitare cattolica “Vedette” in Piemonte, scrive a tale Pozzati
per informarlo che “il Cs (controspionag­gio – Ndr) è disposto a
permettere che qualcuno di voi indossi la divisa di carabiniere…Il Cs è
disposto a mettere in contatto personale uno di voi; e pensavo a te (vedi tu)
con il comando dei carabinieri locale e agire sempre assieme. Mi pare che
questa – con­clude Foietta – sia una buona cosa”.
L’8 febbraio 1948, su ordine
personale di Pio XII, è stato co­stituito il “Comitato civico”
diretto da Luigi Gedda, che sarà l’organizzazione politica con la quale il
Vaticano contrasterà i social-comunisti del “Fronte popolare”, ed
accanto ad essa, dis­simulata e segreta, ci sarà 1’organizzazione paramilitare
pronta ad intervenire con le armi contro i “senza Dio”, anch’essa
debitamente collegata alle Forze armate ed al suo Stato maggiore.
Nel
mese di aprile del 1946, a cura del colonnello Ugo Corrado Musco, è fondata
1’Armata italiana della libertà (Ail) che si pro­pone di difendere le
“quattro libertà” proclamate dalla Carta atlan­tica.
Il
colonnello Ugo Corrado Musco è fratello del colonnello Etto­re Musco,
comandante dei servizi segreti militari, così che nono­stante la speculazione
fatta sul conto di questa organizzazione che, alla pari di tutte le altre
annoverava fra i suoi gregari numerosi reduci fascisti, l’Ail può essere considerata
una formazione politico-militare governativa.
Ne fa testo l’elenco dei componenti del
suo comitato centrale, depositato presso l’ambasciata americana dal colonnello
Ugo Corrado Musco, il 23 ottobre 1947.
Il vertice dell’Armata di liberazione è
composto da 35 persone, delle
quali 10 sono generali, 4 ammiragli e 3 colonnelli, tutti componenti di
quelle gerarchie militari che, l’8 settembre 1943, si erano
schierate con gli alleati.
Vi sono, difatti, l’ammiraglio Alberto
Da Zara che aveva con­dotto le
navi italiane, con i segni della resa, da Taranto a Mal­ta; il generale Renato
Sandalli, ministro dell’Aeronautica nel pri­mo governo Badoglio; Gustavo
Reisoli Mathieu; il generale dei ca­rabinieri, Luigi Sabatini, solo per citarne
alcuni.
Ad ulteriore
smentita di quanti continuano a presentare l’Ail come un’organizzazione
“neofascista”, e a confermare la matrice militare delle sue origini
vi è la nota inviata al Dipartimento di stato dall’ambasciatore americano a
Roma, James Clement Dunn, il 5 settembre 1947.
In questa Dunn segnala
che “esiste una forza anticomunista
or­ganizzata su scala nazionale nota come Armata italiana di libera­zione (Ail)
che venne creata nella primavera del 1946. Le domande di
arruolamento sono state 200.000 anche se il dato
viene consi­derato
ottimistico. Il comitato
centrale dell’Ail ha sede a Roma, opera attraverso alti comandi regionali,
provinciali, comunali. Formata dall’esercito, dalla Marina e dai carabinieri, è
un’organizzazione – scrive Dunn – ancora non bene armata ma potrebbe essere
equipaggiata se da parte dei comunisti ci fossero minacce di violenza attiva”.
Come
prassi e logica vogliono, l’ambasciata americana ufficial­mente non partecipa
all’attività dell’Ail, ma una lettera inviata dal massone Frank Gigliotti all’assistente
segretario di Stato, Nor­man Armour, il 26 settembre 1947, conferma
l’intervento americano.
Gigliotti
scrive:
“Sono di
origine italiana e…conosco come lavorano i comunisti da quando sono stato
commissario all’Assistenza pubblica del mio paese e ho potuto vedere le loro
cellule segrete in azione. Non possiamo acconsentire che ciò avvenga in Italia,
ma è proprio questo che avverrà se non faremo qualcosa per i gruppi che sono
all’’immedia­ta sinistra del centro’. Tutti i gruppi liberali e sinceramente de­mocratici,
anticomunisti quanto il nostro stesso governo, si sentono terribilmente
scoraggiati e delusi. Sentono che li abbiamo dimen­ticati dono averli messi in
piedi, specie quando li abbiamo aiuta­ti a costruire 1’Armata italiana della libertà. E
non possiamo la­sciare che succeda questo, perché se dovesse capitare un’altra guerra,
e Dio non voglia
che capiti, allora finiremmo per guadagnarci in Italia la stessa reputazione
che adesso abbiamo in Jugoslavia per aver permesso che Mihajlovic venisse
impiccato da Tito”.
L’appartenenza alla massoneria, di Frank
Gigliotti come degli ufficiali che fanno parte del comitato centrale dell’Ail,
la sua di­pendenza dai vertici militari, la sua funzione di forza d’urto con­tro
i comunisti, fanno di questa organizzazione l’esempio al quale si sono ispirati
quanti hanno fatto della loggia Propaganda 2 del Grande Oriente d’Italia, negli
anni Sessanta, e Settanta, una struttu­ra atlantica operante all’interno della
massoneria.
La sola differenza fra 1’Armata italiana
di liberazione e 1a loggia P2 risiede nel fatto che la prima si proponeva di
organizzare un esercito nell’esercito, ovvero una forza paramilitare in grado
di affiancare le Forze armate contro i comunisti, mentre la secon­da, mutati i
tempi e le condizioni, ha proceduto ad un arruolamen­to selettivo dei propri
elementi chiamati a svolgere compiti poli­tici ad alto livello, sul piano
interno ed internazionale, con lo obiettivo dichiarato di impedire al Pci
l’ingresso in una maggio­ranza governativa.
Massoneria e Forze armate si stagliano
apertamente anche alle spalle del “Fronte italiano anticomunista”, la
cui imminente co­stituzione è segnalata in un rapporto del 20 maggio 1946 che attribuisce
l’iniziativa all’ammiraglio Raffaele De Courten, al genera­le Roberto
Bencivenga e al senatore Alberto Bergamini.


Un secondo rapporto americano del 17
giugno 1946 afferma che “un gruppo di personalità politiche e militari
legate agli ambienti della destra, incoraggiate e perfino finanziate da centri
di osservazione stranieri, hanno iniziato consultazioni con l’obiettivo di
creare un movimento politico di stampo massonico conosciuto co­me il Fronte
italiano anticomunista…il suo programma politico non è ancora pienamente noto.
È sintomatico, comunque, che il mo­vimento sia aperto a tutti i nemici del
comunismo, specialmente ai circoli militari e agli ex fascisti”.

Due note informative dell’anno successivo
confermano che il Fronte italiano anticomunista è stato effettivamente,
costituito e ne chiariscono le finalità.

La prima dell’8 luglio 1947, rileva che i capi
dell’organizzazione si riunirebbero nella sede della Lux Film, a Roma, e che ad
essa aderirebbero molti ufficiali dei carabinieri.

La seconda, risalente al 15 luglio 1947,
specifica che il “Fron­te italiano anticomunista”, fondato
dall’ammiraglio Raffaele De Courten nella primavera del 1946, avrebbe
assunto la denominazio­ne di “Truppe nazionali anticomuniste” e sarebbe in grado di
in­tervenire in caso di disordini di piazza.

L’attivismo militare in campo politico
produce anche la creazio­ne di un altro gruppo paramilitare, il “Fronte
antibolscevico”, i cui promotori sono il colonnello dell’Esercito, Oete
Blatto, in servizio presso lo Stato maggiore; il colonnello dell’Aeronautica, ex
responsabile del Sia, Ugo Fischietti, il colonnello del Sia, Angelo Crocetta.

Il
Fronte antibolscevico è occultato sotto la copertura dell’As­sociazione per il
turismo aereo internazionale (Atai), e giunge ad annoverare fino a 2.500 uomini per
essere, ufficialmente, di­sciolto nell’estate del 1948.

Il
luogo comune sull’apoliticità delle Forze armate italiane, sul loro distacco
dalle contese politico-ideologiche trova nella storia delle formazioni
paramilitari del secondo dopoguerra la migliore e la più netta delle smentite.

Non c’è gruppo di estrazione
anticomunista che, quando non sia stato promosso da ufficiali delle Forze
armate, rappresentanti di tutte e tre le Armi (Esercito, Marina ed
Aeronautica), non sia in stabile contatto almeno con i carabinieri,
onnipresenti ed onni­scienti .

In due anni, dal 1946 al 1948,
l’anticomunismo italiano si ar­ma sotto il controllo del governo e dei suoi
organismi militari e di polizia per fare fronte ad una minaccia che appare solo
ipote­tica.

All’elenco delle formazioni già citate
si possono aggiungere, a titolo di esempio, il “Movimento anticomunista
repubblicano ita­liano” (Macri), forte, secondo una nota informativa del
31 dicem­bre 1946, di undicimila uomini e in contatto con il mafioso Salva­tore
Giuliano; mentre, nel mese di giugno del 1947, a Roma, è creata 1′”Unione
patriottica anticomunista” (Upa) che fa capo direttamente all’Arma dei
carabinieri.

L’apparato clandestino del Partito
comunista italiano si trova a dover fronteggiare una miriade di gruppi ed organizzazioni
pa­ramilitari non ufficiali, magari slegate fra esse, prive cioè di
collegamenti orizzontali, ma verticalmente dipendenti, sotto il pro­filo del
coordinamento, dallo Stato maggiore della Difesa, in for­ma occulta.

Una conferma indiretta viene dall’autorevole
testimonianza del generale Ambrogio Viviani, secondo il quale, nel 1947,
nell’ambito dell’Ufficio operazioni dello Stato maggiore dell’esercito risulta­va
operante una “sezione informazioni” che non s’identificava con
l’Ufficio informazioni e, nell’ambito del 1° Reparto dello Stato maggiore
dell’Aeronautica risultava in funzione una sezione infor­mazioni distinta dal
Servizio informazioni aeronautica (Sia).

Il 10 maggio 1947, con Ddl n. 306, viene
emanato l’ordinamento del ministero della Difesa e, nell’ambito del Gabinetto
del mini­stro, viene istituito un “Ufficio affari riservati” con compiti che non vengono
specificati.

Una risposta all’esistenza di questo
misterioso ufficio si può forse trovare in un memorandum redatto
dall’ambasciatore britannico in Italia, Victor Mallet, relativo ad un colloquio
fra il pre­sidente del Consiglio Alcide De Gasperi, il ministro degli Esteri
Carlo Sforza ed il suo omologo britannico Anthony Eden, del 30 di­cembre 1947.

De
Gasperi, difatti, informa Eden di aver “incaricato il signor Pacciardi,
uno dei nuovi vicepresidenti del Consiglio e leader del Partito repubblicano,
di agire in qualità di presidente di una sorta di comitato per la difesa
civile”.

Non
ci sono solo le formazioni paramilitari create dallo Stato maggiore
dell’esercito in forma più o meno occulta o, comunque, per iniziativa di alti
ufficiali delle tre Armi e dei carabinieri.

La
lotta politica italiana, infatti, si militarizza ma in for­ma clandestina perché
è ufficialmente tornata la pace ed i parti­ti ideologicamente nemici convivono
nello stesso governo, mentre i sostenitori della Repubblica si preparano ad
abbattere la mo­narchia ed i monarchici a difendere Casa Savoia.

Fino
al 2 giugno 1946, la necessità
di restare con le armi in pugno risponde ad una logica ambivalente: da un lato
quella del­la possibilità dello scontro fra anticomunisti e comunisti, dal­l’altro,
quella di una guerra civile fra monarchici e repubblica­ni .

Così, il 13 febbraio 1946, l’agente JK23
dell’Oss, nel rapporto intitolato “Attività politiche clandestine”,
scrive che al “coman­do di Pacciardi, i repubblicani hanno probabilmente
nascosto gran­di quantità di armi e organizzato forze militari
clandestine”.

Lo stesso giorno, un altro rapporto
dello stesso Oss, relativo ad “Organizzazione monarchica Raam-Reparti
antitotalitari antimar­xisti monarchici”, segnala:

“La Raam è
una organizzazione anticomunista pro monarchica ope­rante all’interno delle
forze armate italiane e al comando del maresciallo Messe. È formata da piccoli
gruppi di sei o sette per­sone
guidati da ufficiali dell’esercito, della marina e dei cara­binieri. Si contano
anche molti civili…Si dice che prepari in segreto un’insurrezione armata con
l’aiuto di partiti politici e lei legati. I suoi principali centri si trovano a
Roma, a Milano, Napo­li, Cesano, Aurelia e Alto Adige”.

Ancora il 30
maggio 1946, Corrado Bonfantini e Carlo Andreoni distribuiscono armi ai
militanti socialisti in previsione di un colpo di Stato monarchico.

Anche i servizi segreti americani paventano
la possibilità di un colpo di mano, in questo caso comunista, in caso di
vittoria monar­chica al referendum del 2 giugno 1946.

La valutazione che ne fanno, il 17
aprile 1946, in risposta ad una richiesta avanzata dal presidente del
Consiglio, Alcide De Gasperi, appare realistica:

“Eccetto che per le province dell’Emilia
Romagna, si ritiene improbabile il ricorso alla forza se non con tentativi
sporadici e limitati localmente. Nessuna prova di preparativi di colpi di Sta­to.
I comunisti risultano meglio armati ed organizzati degli altri partiti, ma
anche questi perlomeno a certi livelli risultano arma­ti. Se la monarchia
dovesse vincere il referendum con una maggioranza minima, allora questo
potrebbe costituire lo spunto per un pos­sibile colpo di Stato di
sinistra…”

Il
2 giugno 1946 vince la Repubblica.

Viene
così evitato un possibile scontro fra repubblicani e monar­chici che avrebbe
affiancati fra i primi, spalla a spalla, gran par­te dei reduci della
Repubblica sociale e partigiani delle brigate “Garibaldi” con
conseguenze imprevedibili per la successiva sto­ria italiana.

Viceversa, nessuno si muove. L’Esercito
accetta il risultato, l’Arma dei reali carabinieri fa altrettanto, la regia
Marina militare si limita ad accompagnare la regina Maria José e la sua
famiglia, il 5 giugno 1946, ad Oporto (Portogallo), a bordo dell’incrociato­re
“Duca degli Abruzzi”.

La partenza per Oporto di Umberto II, il
13 giugno 1946, dall’ae­roporto di Ciampino scongiura definitivamente il
pericolo di uno scontro fra le due opposte fazioni, ma le armi non vengono
riposte.

L’esito delle votazioni per l’elezione
dell’Assemblea costi­tuente ha, difatti, posto in evidenza la forza elettorale
dei partiti dell’estrema sinistra italiana.

La Democrazia cristiana, si è affermata come
il primo partito italiano con 8.101.404 voti, alle sue spalle però il Partito
socialista conta 4.758.129 voti e quello comunista 4.356.686, per un totale per
i due partiti di 9.114.818 voti, un numero
tale che sgomenta l’anticomunismo italiano ed internazionale.

Scongiurato il pericolo dello scontro
fra monarchici e repubbli­cani, dinanzi all’evidenza dei risultati elettorali
sia gli anticomunisti che i comunisti non escludono la possibilità di fare ri­corso
alla forza per giungere al potere in Italia.

Stati uniti e Gran Bretagna sanno
perfettamente che non sarà Josip Stalin ad autorizzare il Pci, diretto da un
uomo di sua fidu­cia come Palmiro Togliatti, a tentare la conquista del potere
in Italia per via insurrezionale perché lo vietano gli accordi di Jalta, la cui
violazione nella sfera d’influenza occidentale po­trebbe autorizzare gli
anglo-sassoni ad intervenire all’interno dei paesi dell’Europa dell’est, in cui
i partiti comunisti non hanno ancora consolidato il loro potere.

Ma, se il
Partito comunista italiano insieme a quello sociali­sta fosse in grado nel giro
di pochi anni di ottenere la maggio­ranza relativa dei voti, acquisendo il
diritto di formare il go­verno, come potrebbero le democrazia anglo-sassoni
contestare un potere raggiunto per via elettorale, democratica, basata sul con­senso
di gran parte dell’elettorato italiano?

Si materializza, in questo modo, la
grande paura dell’anticomu­nismo, quella dell’aggiramento dei patti di Jalta
per via eletto­rale da parte del Pci e dei suoi alleati, che condizionerà in
modo tragico tutta la vita italiana fino ai primi anni Ottanta.

Quali contromisure adottare per
scongiurare questo pericolo?

La
costituzione, in forma permanente, di un apparato militare se­greto rientra
certamente nel novero delle misure prese dai gover­ni democristiani in accordo
con lo Stato maggiore della difesa, per fronteggiare tre eventualità:


– la possibilità che il Partito comunista tenti un colpo di ma­no per
impadronirsi del potere.


– La possibile reazione armata dei comunisti dinanzi alla sconfitta elettorale
del 18 aprile 1948, considerata
certa, e al­la loro successiva estromissione dal governo;


– una possibile vittoria elettorale del Pci al quale bisognerà impedire di
formare il nuovo governo e, comunque, di governare.

L’apparato politico-militare avrà,

quindi, compiti difensivi ed offensivi ma, nel corso degli anni, naufragate le
ipotesi di una insurrezione comunista per impadronirsi del potere o per reagire
ad una sconfitta elettorale, all’estromissione del partito dal go­verno o alle
provocazioni dei governi democristiani, resteranno va­lidi solo questi ultimi
che, via via, saranno i soli ad essere con­siderati ed attuati fino al 1979, quando per la
prima volta nella storia del dopoguerra il Partito comunista inizierà a perdere
con­sensi elettorali e cesserà di rappresentare una minaccia per l’an­ticomunismo
interno ed internazionale.

L’esistenza di un apparato
politico-militare occulto diretto dallo Stato maggiore della difesa, sotto il
controllo dei governi de­mocristiani non è una mera ipotesi.

Nel mese di ottobre del 1947, il
segretario nazionale della De­mocrazia cristiana, Attilio Piccioni, affida a
Paolo Emilio Taviani l’incarico di coordinare le attività delle formazioni
paramili­tari clandestine che fanno capo al partito, e che sono composte nella
quasi totalità da ex partigiani.

Il 7 novembre
1947, l’argomento relativo alla struttura parami­litare viene affrontato nel
corso di una riunione della direzione nazionale.

Giuseppe Dossetti osserva che i comunisti
“sono in grado di massacrare tutti i nostri quadri periferici con pochi
uomini”, e chiede di “inserire il nostro piano nel piano generale del
governo”. Mario Scelba, ministro degli Interni, afferma che occorre
“mettere il partito in assetto di difesa” perché “il governo non può
fronteggiare tutto e dappertutto” e che, inoltre, “bisogna met­tersi
d’accordo con i partiti che intendono difendere decisamen­te le libertà
democratiche”.

Fra questi ultimi si colloca il
Movimento sociale italiano.

Non
doveva il “neofascismo”, secondo la strategia delineata da Pi­no
Romualdi nel luglio del 1946, riguadagnare i favori della bor­ghesia italiana
“dalla congenita vigliaccheria”, ponendosi alla avanguardia della
battaglia contro il comunismo?

L’eventualità di uno scontro armato con
i comunisti esalta Gior­gio Almirante che in vita sua non ha mai combattuto, ma
sa di po­ter contare su diverse migliaia di reduci della Repubblica socia­le
addestrati militarmente e disponibili alla battaglia.

Già il 1° febbraio 1947, Giorgio
Almirante aveva scritto a Fran­co De Agazio, direttore de “Il Meridiano
d’Italia”, a Milano, per richiedere il suo intervento presso il cardinale di
Torino, Fossa­ti :

“Caro De Agazio, a nome del
Movimento ti prego di una missione urgente ed importantissima. Abbiamo avuta
notizia sicura che il cardinale Fossati di Torino ha convocate parecchie
persone e personalità allo scopo di addivenire alla fondazione in Piemonte di
squadre di resistenza anticomunista. Tu capirai cosa significa e cosa può
significare ciò. Affidiamo quindi a te la missione di an­dare a Torino,
possibilmente con altra persona di fiducia, di far­ti ad ogni costo ricevere
dal Fossati e di prospettargli la possi­bilità che il Msi collabori con
lui…”.

Il 16 aprile 1947, l’agente americano Barret,
in un suo rapporto, segnala che a Napoli, “come contromisura contro la
violenza comunista…Il Movimento sociale italiano (Msi) ha iniziato a di­stribuire
armi automatiche ai suoi militanti e ha nominato un ge­nerale (la cui identità
è ignota) al comando delle fazioni”.

A prescindere dalle iniziative assunte
sul piano locale in vari centri della penisola, la struttura clandestina
paramilitare del Movimento sociale italiano s’identifica con i Fasci di azione
rivoluzionaria, fondati nell’estate del 1946, da Pino Romualdi che è,
contestualmente, uno dei fondatori dello stesso Msi.

Come
il partito che rappresenta la struttura legale, politica ed ufficiale, anche i
Far sono un’emanazione diretta dei servizi se­greti americani ed italiani.

Il
29 ottobre 1946, il capo della polizia, Luigi Ferrari, segnala ai questori di
Roma e Frosinone tale Antonio Di Legge, alias Quinto Romani, il quale afferma
di essere al servizio degli anglo- americani per i quali organizza, anche con
la collaborazione di Pino Romualdi, “gruppi armati anticomunisti”.

Due
giorni più tardi, il 31 ottobre, gli ebrei dell’Irgun di Menachem Begin fanno
saltare in aria la sede dell’ambasciata bri­tannica a Roma, con l’esplosivo
fornito dallo stesso Pino Romual­di che collabora con l’organizzazione
terroristica ebraica, su in­vito dei servizi segreti italiani ed americani, gli
stessi che hanno già stabilito il contatto fra gli uomini di Junio Valerio
Borghese e gli esponenti del sionismo armato.

La conferma, se mai serve, giunge da una
nota informativa dei servizi segreti militari dell’11 febbraio 1949, che segnala
come l’agente americano Joseph Luongo abbia richiesto a persona non
identificata se il governo italiano si avvale dell’opera dei Fasci di azione
rivoluzionaria per i quali gli americani hanno speso forti somme per
potenziarli e metterli in grado di agire in caso di sollevazioni di sinistra.

L’11 febbraio 1948, una nota informativa
del ministero degli In­terni segnala che è stato concluso “un importante
accordo… tra il Msi e alcuni industriali dell’Alta Italia, già
sovvenzionatori del fascismo…per l’apporto di fondi per un maggiore
incremento del­l’organizzazione del movimento”, nonché la creazione
“a Roma di una brigata composta da ex combattenti ed elementi fascisti per
la difesa esterna della capitale contro gli attacchi comunisti”, affidata
al comando di un ex console della Milizia.

Due giorni dopo, il 13 febbraio, il
questore di Roma segnala, in un appunto, che la segreteria nazionale del Msi,
“in previsione di possibili aggressioni alle sue sedi”, ha chiesto
alle sezioni periferiche “nominativi di iscritti disposti a costituire
speciali squadre di difesa”.

L’attivismo in campo paramilitare del
Movimento sociale italia­no non è fine a sé stesso, perché il partito di
Giorgio Almirante procede di comune accordo con la Democrazia cristiana sul
piano attivistico, con squadre formate da militanti di entrambi i partiti, e si
appresta a svolgere propaganda elettorale per il partito di Al­cide De Gasperi
rinunciando perfino a una parte di voti che potrebbe­ro confluire sul suo
simbolo, per avere la possibilità di entrare a far parte, a pieno titolo, di
quei partiti politici che inten­dono difendere decisamente le libertà
democratiche”, come afferma­to dal ministro degli Interni, Mario Scelba.

Il Movimento sociale italiano sarà,
infatti, inserito sia nel piano di difesa dello Stato che in quello predisposto
per l’auto­difesa dei partiti politici, dei loro uomini e delle loro sedi che
entrerà in funzione nell’imminenza delle elezioni politiche del 18 aprile 1948.

Se il 26 dicembre 1946, il Movimento
sociale nasce come movimen­to politico legittimato
ad operare nella nuova Italia postbellica, democratica
ed antifascista, il 18 aprile 1948 riceve la sua
consacrazione come colonna portante
del sistema parlamentare
sulla cui affidabilità nella
lotta contro il comunismo e
nella fedeltà
agli Stati uniti d’America non ci potranno essere dubbi di sorta.

Anzi, negli anni a venire, sarà proprio
il Msi a fornire allo Stato ed alle sue strutture segrete e segretissime gli
uomini per condurre la guerra civile che, mediante la destabilizzazione del­l’ordine
pubblico, riuscirà a stabilizzare quell’ordine politico di cui è parte
integrante.

Non ci sono solo la Democrazia cristiana
ed il Movimento socia­le impegnati a prepararsi ad un eventuale scontro
militare, perché il 19 febbraio 1948, a palazzo Drago, a Roma, si svolge una
riunio­ne alla quale prendono parte ventuno persone per studiare i piani da
attuare in caso di vittoria elettorale del Fronte popolare.

Vi prendono parte, con altri, il
generale Gustavo Reisoli Mathieu, il maresciallo Giovanni Messe, l’ammiraglio
Thaon de Revel, il principe Colonna, Sartorio per la Confidustria, ed Emilio
Patrissi.

L’obiettivo è coordinare l’attività di
quei gruppi paramilita­ri che dovranno affiancare le Forze armate e di polizia
in caso di scontri con i comunisti e, difatti, è chiamato a presiederla il
generale Giuseppe Piechè, primo comandante generale dell’Arma dei carabinieri
sotto il governo diretto dal maresciallo Pietro Badoglio nell’autunno del 1943.

Un mese prima, il 12 gennaio 1948, il
console americano a Mi­lano, Charles Bay, aveva segnalato in un suo rapporto la
tenden­za ad unire le forze delle formazioni paramilitari operanti in città e
nella regione come il Movimento di resistenza popolare (Mrp) di Carlo Andreoni,
di matrice socialdemocratica, 1’Armata italiana della libertà, l’Uomo qualunque
ed il gruppo capeggiato da Emilio Patrissi.

La richiesta avanzata riservatamente dal
governo di centro-si­nistra, presieduto da Massimo D’Alema, a quello americano
di non divulgare i documenti della Cia inerenti l’intervento americano in
Italia nel 1948, non consente di procedere ad una ricostruzione esaustiva dei
piani predisposti dal governo di Alcide De Gasperi, dallo Stato maggiore della
difesa e dagli Stati uniti per impedi­re al Fronte popolare di giungere al
potere, in un modo o nell’altro, ma quanto è emerso nel corso degli anni ci
consente di farla egualmente e di affermare che l’apparato politico-militare
costi­tuito in quel periodo è stato mantenuto negli anni a venire come i piani
di difesa, debitamente aggiornati via via, perché la “mi­naccia”
comunista è rimasta inalterata, anzi si è accresciuta nel corso degli anni fine
a raggiungere il suo culmine negli anni Set­tanta.

Negli anni Settanta, l’ex ministro degli
Interni, Mario Scelba, racconterà al giornalista Antonio Gambino, in sintesi, quali
era­no le misure predisposte dal governo, nell’aprile del 1948, per
fronteggiare il “pericolo rosso”:

“…Già nei primi mesi del 1948 –
ricorda Scelba – era stata messa a punto un’infrastruttura capace di far fronte
a un tentativo insurrezionale comunista. L’intero paese era stato diviso in una
serie di grosse circoscrizioni, ognuna delle quali comprendeva varie provincie,
e alla loro testa era stato designato in manie­ra riservata, per un eventuale
momento di emergenza, una specie di prefetto più anziano o quello della città
più importante, perché in alcuni casi era invece il questore o un altro uomo di
sicura energia e di mia assoluta fiducia.

L’entrata in vigore di queste prefetture
allargate sarebbe stata automatica, nel momento in cui le comunicazioni con
Roma fossero state, a causa di una sollevazione, interrotte; allora i
super-prefetti da me designati avrebbero assunto i pieni poteri dello Stato
sapendo esattamente, in base a un piano preordinato, che co­sa fare.

D’altra parte ci eravamo preoccupati
anche di impedire che si po­tesse arrivare a un’interruzione delle
comunicazioni. Pensando
che la prima mossa dei promotori di un eventuale colpo di Stato sarebbe stata
di impadronirsi delle centrali telefoniche e delle stazio­ni radio, o quanto
meno di renderle inutilizzabili, avevamo orga­nizzato un sistema di
comunicazioni alternative, servendoci come punti di appoggio, di un certo
numero di navi italiane e alleate presenti nel Mediterraneo”.

Una doppia struttura di comando,una rete
alternativa di comuni­cazioni che poggia sulla collaborazione delle navi della
VI flot­ta, la suddivisione del Paese in circoscrizioni che non corrispon­dono
a quelle delle province: di più Mario Scelba non dice, ma è sufficiente, specie
se ricordiamo la circolare della direzione ge­nerale di Ps del 18 marzo 1948
che indicava le misure da prendere in vista delle elezioni politiche.

Accanto ai “servizi fissi di
vigilanza ai seggi”, a quelli di “pattugliamento e riserva”,
compaiono infatti i “servizi straordi­nari”, non dipendenti dai
prefetti, costituiti da reparti mobili di Ps, carabinieri ed Esercito come
“riserva da impiegare soltanto in casi di gravi necessità”.

Reparti inter-forze chiamati ad
intervenire per reprimere even­tuali tentativi di rivolta ma non tali, per
numero, da garantire il successo delle operazioni.

Accanto a questi
reparti inter-forze è necessario affiancare mi­lizie civili i cui componenti
abbiano due requisiti minimi: una fede anticomunista e una preparazione
militare.

A guidare i reparti civili sono le Forze
armate.

La
prima testimonianza è quella di Piero Cattaneo:

“In occasione delle elezioni del
1948 vennero formati dei gruppi di partigiani cattolici col preciso compito di
opporsi ad un’even­tuale presa del potere da parte dei comunisti. La formazione
di que­sti gruppi armati era non solo conosciuta ma autorizzata e favori­ta
dalle autorità costituite. Io personalmente sono stato nominato comandante
generale per la provincia di Milano”.

Piero Cattaneo era collegato, per sua
ammissione, al comando dell’Arma dei carabinieri, da un lato, e al questore
Vincenzo Agnesina, dall’altro, nominato quest’ultimo dal ministro degli Interni,
Mario Scelba, responsabile dell’apparato clandestino costituendo 1’alter ego
segreto del prefetto di Milano, in quella che era la doppia struttura di
comando creata per l’occasione.

La conferma viene da una dichiarazione
resa dal colonnello di fanteria in congedo, Giuseppe Falcone, trasmessa per
conoscenza al ministro della Difesa, Luigi Gui, il 3 settembre 1969.

“Nell’anno 1948 in previsione delle
elezioni politiche che si presentavano abbastanza difficoltose ebbi l’incarico
in qualità di comandante del presidio di Sacile, dal comando del V Comiliter di
Udine, di armare alcuni civili fidati nella zona di Sacile, Vittorio Veneto,
Valcellina e limitrofi…Detti armi anche all’Arcivescovado di Udine – mons. Zaffonato
– allora vescovo di Vittorio Veneto. Tutta questa zona era sotto il controllo
diretto. Ad elezioni ultimate ritirai le armi e le versai alla sezione staccata
di Artiglieria di Conegliano…”.

La terza testimonianza viene da Massimo
Rosti, componente a Pa­via della formazione paramilitare cattolica
“Avanguardia di Cri­sto Re”, fondata nel 1947 da don Carlo Barcella,
ex cappellano mi­litare degli alpini in Albania e poi della divisione
repubblicana “Monterosa”, che rivela come il 15 aprile 1948 venne
avvicinato da un ufficiale in congedo che gli fornì la parola d’ordine che, in
caso di vittoria comunista alle elezioni, avrebbe dato inizio al­la reazione
armata.

Nelle formazioni paramilitari che, nel
tempo, si sono costitui­te dal 1945, i reduci della Repubblica sociale e i
fascisti in genere hanno rivestito il ruolo che la loro condizione di sconfitti
consentiva: un ruolo subalterno e gregario che, per essi, ha il vantaggio di
facilitarne il reinserimento nella vita civile e politica del Paese operando
nel solo campo il cui il loro contri­buto è ritenuto utile, spesso sollecitato,
quella della battaglia contro il comunismo.

La nascita del Msi consente ora il loro
impiego come forza au­tonoma e compatta.

La necessità del governo democristiano e
dello Stato maggiore delle difesa di disporre di uomini in grado di combattere
rappre­senta la grande occasione dei reduci fascisti che assaporano il piacere
– che ha il gusto della rivincita -, dopo tante persecu­zioni, di essere
chiamati a schierarsi insieme ai partigiani ‘bian­chi’ a difesa dello Stato
repubblicano, democratico ed antifasci­sta.

Il 18 aprile
1948 rappresenta per i reduci della Rsi, che si ri­conoscono nel Movimento
sociale, il giorno della loro definitiva riabilitazione: dopo quella data non
ci saranno che due Italie con­trapposte, quella anticomunista e quella
comunista.

L’Italia fascista rinuncia ai sogni di
rivincita e si schiera sotto la bandiera dell’anticomunismo di Stato e di
regime attorno al quale si raccolgono, uniti e compatti, militari della
Repubbli­ca sociale e del Regno del sud, marò della divisione Decima e par­tigiani
autonomi, militi della “Tagliamento” e “fazzoletti verdi”
della “Osoppo”, ognuno convinto di non rinnegare il proprio passato
ma di considerarlo superato dal presente e ancor più dal futuro da ricostruire
uniti nella battaglia, ridivenuta comune contro il nemico
di sempre: il comunismo.

Il 18 aprile
1948, a Milano, all’interno della caserma La Marmo­ra sono ben 400 i reduci
della Rsi che attendono, inquadrati dai carabinieri, di intervenire contro i
“rossi”.

Sempre a Milano,
un ex ufficiale della Decima mas viene “avvici­nato da un capitano di
polizia che con le credenziali del ministe­ro dell’interno a firma del ministro
Scelba, gli chiede quanti uo­mini può mobilitare in caso di vittoria dei
comunisti”, ed è quin­di informato dal capitano di Ps che sono a loro
disposizione “bracciali della polizia ausiliaria, armi, tessere di
riconoscimento e altra dotazione… presso la caserma S. Ambrogio di
Milano”.

A Roma, nella sede del Msi è piazzata
una mitragliatrice pesante Breda 37, fornita dall’esercito. E una seconda è
installata nella sede nazionale nella Dc, a piazza del Gesù, servita da tre ex
fanti di marina della Rsi che, su richiesta di Giorgio Tupini, sono stati
mandati da Giorgio Almirante.

A Cremona, l’ex sottotenente dell’Aeronautica
repubblicana, Tom­maso Donato, testimonierà in epoca successiva che il 18
aprile 1947, i carabinieri avevano fornito ai reduci della Rsi divise dell’Arma
e uno “speciale tesserino contrassegnato da una lette­ra dell’alfabeto e
da un numero in codice”.

E migliaia di altri sono mobilitati per
lo stesso fine, a di­sposizione nella loro grande maggioranza dell’Arma dei
carabinie­ri che, per la dislocazione capillare nel territorio, può assolve­re
il compito di selezionare gli uomini, armarli, inquadrarli, smobilitarli e,
infine, mantenere con loro un rapporto destinato a durare per sempre.

Contro quello comunista, il regime
democristiano riesce a schierare un esercito non ideologicamente omogeneo ma
politicamente compatto che resterà, occultamente, a sua disposizione per tutto
il tempo che la Democrazia cristiana riterrà opportuno.

Un tempo che giunge fino ai primi anni
Ottanta, fino a quando cioè la”minaccia” rappresentata dal Partito
comunista svanisce per le mutate condizioni internazionali e per la pochezza
dei di­rigenti comunisti italiani incapaci ormai di distinguersi dai lo­ro
colleghi degli altri partiti, sul piano morale ed ideale.
Ex comunista debitamente riprogrammato come atlantista

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