Revocare la membership d’Israele

Revocare la membership d’Israele

REVOCARE LA MEMBERSHIP DI ISRAELE ALLE NAZIONI UNITE

Di Snorre Lindquist e Lasse Wilhelmson – Stoccolma[1]

La Striscia di Gaza è ora il più grande campo di concentramento del mondo. La situazione sta diventando sempre più intollerabile per il milione e mezzo di palestinesi che vivono lì. La distribuzione di cibo, medicine e carburante è resa difficile o del tutto bloccata. La denutrizione dei bambini sta crescendo. I rifornimenti d’acqua e le fognature hanno cessato di funzionare. I bambini muoiono per mancanza di assistenza sanitaria. I tunnel verso l’Egitto, scavati a mano, sono i soli momenti di respiro. Ai giornalisti e ai diplomatici viene negato l’ingresso. Israele sta pianificando un numero maggiore di operazioni militari. I palestinesi di Gaza vengono adesso costretti alla resa e diventeranno un problema egiziano.

Le Nazioni Unite dovrebbero usare la parola apartheid in rapporto a Israele e prendere a modello le sanzioni verso l’ex Sud Africa. Miguel d’Escoto Brockman, Presidente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ha espresso tale messaggio nel corso di una riunione avvenuta il 24 Novembre del 2008, alla presenza del Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon.

Il Premio Nobel della Pace del 1976 Mairead Maguire, irlandese, ha suggerito di recente la costituzione di un movimento popolare che chieda la revoca della membership di Israele alle Nazioni Unite. La comunità internazionale ha ora bisogno di mettere pressione a Israele per fermare i suoi crimini di guerra.

Nemmeno una volta, negli ultimi 60 anni, Israele ha mostrato la volontà di uniformarsi alle condizioni richieste dalle Nazioni Unite per la membership assunta nel 1948, e cioè che ai palestinesi che erano stati espulsi dalle proprie case fosse permesso di ritornare il prima possibile. Israele inoltre detiene l’assai poco lusinghiero record mondiale di inosservanza delle risoluzioni delle Nazioni Unite.

E’ dubbio, sotto l’aspetto della legislazione sui diritti umani, se Israele sia uno stato legittimo. I rapporti ufficiali tra gli stati esigono di solito confini certi e una costituzione, e Israele manca di entrambi. Tali requisiti erano anche previsti dal Piano di Spartizione della Palestina stabilito dalla risoluzione n°181 delle Nazioni Unite, approvato dall’Assemblea Generale nel Novembre del 1947. Il piano venne accettato in Palestina dagli ebrei sionisti ma venne rifiutato come ingiusto, per ottime ragioni, dagli stati arabi. Solo le decisioni prese dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu sono obbligatorie. In seguito, Israele rivendicò in modo unilaterale una quantità di territorio molto più grande di quella indicata dalle Nazioni Unite.

L’espulsione dell’80% dei palestinesi che vivevano a ovest della linea dell’armistizio nel 1947, e il rifiuto di Israele di permettere loro di ritornare, costituisce l’argomento umanitario per poter espellere Israele dalle Nazioni Unite. Non solo Israele si è fatta gioco del Piano di Spartizione ma ha, con le sue azioni, pregiudicato i presupposti – fragili sin dall’inizio – della sua membership alle Nazioni Unite.

Israele fa uso di varie strategie per raggiungere i propri obbiettivi, gli stessi obbiettivi di oltre cento anni fa: il minor numero possibile di palestinesi, dominati e indeboliti al massimo, in aree piccole il più possibile tra il Mediterraneo e il fiume Giordano. E cercare quindi di ottenere l’approvazione internazionale per il furto del territorio considerato vitale per lo “stato” che si autodefinisce “ebraico e democratico”. Tutto ciò ovviamente non somiglia in alcun modo ad un processo di pace.

Perché nessuno commenta mai il fatto che il primo ministro di Israele non perde mai occasione per ribadire quanto è importante che il resto del mondo e i palestinesi riconoscano Israele, non come un paese democratico per tutti i propri cittadini, ma come uno “stato ebraico”?

Cosa avremmo detto se il primo ministro del Sud Africa, allo stesso modo, avesse chiesto il riconoscimento del Sud Africa come uno “stato bianco e democratico”, accettando così di fatto il sistema razzista dell’apartheid che permetteva che i non bianchi venissero classificati come esseri umani inferiori?

Nell’articolo The End of Zionism [La fine del sionismo], pubblicato sul Guardian il 15 Settembre del 2003, il dissidente ebreo ed ex speaker della Knesset Avraham Burg ha scritto:

“Gli ebrei della Diaspora, per i quali Israele è un pilastro centrale della propria identità devono prestare ascolto e parlare chiaro…Non possiamo tenere una maggioranza palestinese sotto il tallone israeliano e nello stesso tempo pensare che siamo l’unica democrazia in Medio Oriente. Non vi può essere democrazia senza eguali diritti per tutti coloro che vivono qui, per l’arabo come per l’ebreo…Il primo ministro dovrebbe presentare l’alternativa in modo esplicito: razzismo ebraico o democrazia”.

Non può essere trovato nessun sostegno, nella raccomandazione delle Nazioni Unite riguardante uno stato ebraico e uno palestinese, ai diritti ineguali per i cittadini dei rispettivi paesi. Né vi sono indicazioni su come uno stato “ebraico” potrebbe diventare ebraico. Vi è un sostegno, tuttavia, all’intenzione che le condizioni demografiche dovrebbero essere conservate intatte al momento della spartizione. Interpretare nel testo un’intenzione in favore di uno “stato ebraico” adattato all’ideologia del sionismo, è totalmente in contraddizione con il testo della risoluzione.

Perfino la Dichiarazione Balfour, che non si occupò affatto dei diritti umani, osservava che il focolare nazionale ebraico in Palestina non doveva in alcun modo prevaricare i diritti dei palestinesi. Né il Presidente degli Stati Uniti Truman riconobbe Israele come uno stato ebraico. Al contrario, egli scartò precisamente tale definizione prima di prendere la propria decisione di riconoscere Israele.

Così, la legittimità di uno “stato ebraico” agognata in modo tanto insistente da Israele manca di fondamento nei documenti internazionali che riguardano la costituzione di tale stato. Il governo di Israele ne è, naturalmente, pienamente consapevole. Altrimenti perché continuerebbe a chiedere questo riconoscimento?

Le Nazioni Unite dovrebbero ora intraprendere il boicottaggio dello stato, basato sull’apartheid, di Israele e, con la minaccia dell’espulsione dalle Nazioni Unite, chiedere che Israele permetta ai profughi palestinesi espulsi di ritornare, in conformità alle risoluzioni delle Nazioni Unite n°194 e 3236.

Fatto questo, potrebbero aver luogo fattivi colloqui di pace, e potrebbero essere trovate varie soluzioni per la coabitazione con eguali diritti di tutti i popoli tra il Mediterraneo e il fiume Giordano. Nessuna soluzione del genere può essere conpatibile con il mantenimento di uno stato ebraico di apartheid.

Snorre Lindquist è un architetto svedese autore, tra le altre cose, della Casa della Cultura di fronte alla Chiesa della Natività a Betlemme.

Lasse Wilhelmson è un commentatore della situazione in Medio Oriente, ed è membro di un’amministrazione locale in Svezia da 23 anni, quattro dei quali in un ruolo direttivo.
[1] Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale è disponibile all’indirizzo: http://www.palestinechronicle.com/view_article_details.php?id=14445

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