Andrea Giacobazzi: Primo Levi “demitizzato”. Quindi?

Andrea Giacobazzi: Primo Levi “demitizzato”. Quindi?

 
Primo Levi
“demitizzato”. Quindi?

Della
complessità della storia abbiamo parlato recentemente: con una puntualità che
pare quasi programmata, eccoci giungere una piccola conferma di quanto scritto su
certi “approcci dogmatici”.
Notizia
recente: Gad Lerner ha reagito con un articolo abbastanza irritato – apparso sulle
pagine de La Repubblica – all’uscita
dell’ultimo libro di Sergio Luzzatto[1],
colpevole di aver posto sotto una luce a lui sgradita un fatto riguardante il
coinvolgimento di Primo Levi nell’eliminazione fisica di due ragazzini (Fulvio
Oppezzo e Luciano Zabaldano) nel corso di un’operazione partigiana.
Riferendosi
all’autore, Lerner commenta: “mi permetto di adoperare il termine «ossessione»
sapendo che […] non si offenderà perché lo scrive due volte egli stesso per
motivare la spinta a un’indagine che non ha molto da rivelare sul piano storico
– le atrocità della Resistenza come guerra civile sono già dissodate –
sollecitandoci invece a una discutibile revisione iconografica e sentimentale”.
L’iconografia
– si sa – spesso si intreccia con la sacralità. Quando poi si suggerisce il
sospetto d’iconoclastia, il passo verso l’oltraggio blasfemo diventa breve,
anzi brevissimo. Et voilà, il dogmatismo
citato qualche riga fa si trasforma in un paradigma ineludibile.
Lasciare
intendere che le quasi intangibili «fonti della memoria» non sono santini
devozionali finisce quindi per essere inopportuno e “discutibile”, del resto –
citiamo ancora Lerner – il pericolo è chiaro: [gli iconoclasti] “già me li vedo
intenti finalmente a demitizzare il grande scrittore della Shoah”[2].
 “Demitizzare”? Pare che, ancora una volta, si
espliciti ciò che Ariel Toaff correttamente definiva come “ebraismo virtuale”[3],
un’opera di frettolosa imbalsamazione della storia ebraica, ridotta a facile e
pericolosa narrazione mitopoietica. Al conduttore de L’Infedele risulta particolarmente indigesta la contestualizzazione
della “presunta autocensura di Levi
motivata con la pubblicazione del libro Il
Sistema periodico
[in cui lo stesso Levi ricorda l’evento descritto] nell’anno
1975, ovvero nel pieno delle celebrazioni del trentennale della Resistenza.
Probabilmente
più preoccupante di questi atteggiamenti è la generale – e in parte
involontaria – riduzione dell’individuo ad un pezzo del suo passato, quasi che i
vari Primo Levi fossero esistiti in funzione della deportazione, da ricordare fino
a spersonalizzarli.
Pur
in un ambito non sovrapponibile alle vicende resistenziali qui affrontate, questa
imbalsamazione è stata ben descritta da Norman Finkelstein che, denunciando le
storture interpretative della storica Deborah Lipstadt, affermava: “Mettere in
discussione la testimonianza di un sopravvissuto, denunciare il ruolo degli
ebrei collaborazionisti, far presente che i tedeschi soffrirono sotto il
bombardamento di Dresda o che nel corso della Seconda guerra mondiale altri
Stati oltre la Germania commisero crimini: tutto ciò […] equivale a negare
l’Olocausto. Allo stesso modo, asserire che Wiesel ha tratto profitto
dall’industria dell’Olocausto, o anche soltanto mettere in discussione le sue
parole, equivale a negare l’Olocausto”
[4].
Se si vuole cambiare metafora, si
può dire che la plurimillenaria storia ebraica sembra essere rappresentata come
un mosaico sacro in cui lo spostamento di ogni singola tessera è visto con
estremo sospetto, in particolare se le “correzioni” sono fatte in quella che è la
base dell’opera: la persecuzione durante l’ultimo conflitto mondiale. Ne
consegue una tensione dialettica – con risvolti politici – in cui un
antisemitismo increato pervade quasi ogni aspetto del passato e del presente,
arrivando infine ad essere ciò che l’ex ministro israeliano Shulamit Aloni ha
definito “un trucco”: “
It’s
a trick, we always use it. When from Europe someobody criticize Israel, then we
bring out the holocaust. When in this country, people are criticizing Israel,
then they are anti-semitic”[5].
Torniamo ai fatti. Sì, è la
verità: Primo Levi fu coinvolto in un duplice assassinio e ne scrisse con umano
dolore: “
Eravamo
stati costretti dalla nostra coscienza ad eseguire una condanna, e l’avevamo
eseguita, ma ne eravamo usciti distrutti, destituiti, desiderosi che tutto
finisse e di finire noi stessi; ma desiderosi anche di vederci fra noi, di
parlarci, di aiutarci a vicenda ad esorcizzare quella memoria ancora così
recente”[6].
Se l’analisi degli avvenimenti passati,
anche dei più controversi, è l’ordinaria occupazione dello storico, l’“ossessione”
a
bsit iniuria
verbis –
non
va necessariamente individuata in chi si limita a far il
suo mestiere.

[1] Sergio
Luzzatto, «Partigia». Una storia della resistenza,
Mondadori, 2013.
[2] Gad
Lerner, Primo Levi e l’”ossessione” di
Sergio Luzzatto
, 16 aprile 2013, gadlerner.it
[3] Ariel
Toaff, Ebraismo Virtuale, Rizzoli,
2010.
[4] Norman
Finkelstein, L’Industria dell’Olocausto,
Rizzoli, 2007, pag. 95.
[5] Amy Goodman – Shulamit Aloni,  Aloni
on use of the anti-semitism charges to suppress criticism of Israel
,
Democracy Now, 14 agosto 2002. Visibile su YouTube:
http://www.youtube.com/watch?v=qb4GrtKK42Q
[6] Primo
Levi, Opere , Volume 1, Einaudi,
1997, pag. 853

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