
Gian Pio Mattogno
ESCLUSIVISMO, IMPERIALISMO MESSIANICO
E ODIO ANTICRISTIANO NELLA LITURGIA EBRAICA.
LA PREGHIERA ALENU.
Nonostante certa apologetica della Sinagoga si affanni a dimostrare il contrario, l’esclusivismo, l’imperialismo messianico e l’odio giudaico contro i non-ebrei in generale e contro i cristiani in particolare sono parte integrante non solo della tradizione rabbinico-talmudica, ma anche della stessa liturgia.
(Si vedano tra gli altri gli scritti sull’argomento apparsi su questo sito revisionista).
Queste caratteristiche sono concentrate tutte e tre nella preghiera Alenu (= è nostro dovere, a noi si addice), la quale viene così presentata dalla «Jewish Encyclopedia»:
«L’ultima preghiera della liturgia quotidiana nella maggior parte delle congregazioni (…) È una delle preghiere più sublimi dell’intera liturgia ed ha una storia notevole, quasi tipica della razza (race) da cui ha avuto origine. Divenne la causa di accuse calunniose e di persecuzioni, in seguito alle quali fu mutilata per timore dei censori ufficiali» (‘Alenu, J.E., vol. 1, p. 336. L’autore della voce è il rabbino Kaufmann Kohler, uno dei maggiori studiosi ebrei dell’epoca).
Accuse calunniose?
Come tanti altri apologeti giudei, anche il buon rabbino Kohler mentiva sapendo di mentire.
La Alenu si apre con l’affermazione della superiorità di Israele su tutti i popoli della terra, prosegue con un velato attacco al cristianesimo e si conclude con la fiduciosa speranza nel futuro dominio universale di Israele:
«A noi si addice lodare il Signore del tutto,
magnificare il creatore del mondo,
perché non ci ha fatti come i popoli delle nazioni,
e non ci ha trattati come le stirpi della terra,
perché non ha stabilito la nostra porzione come la loro,
e la nostra sorte come tutte le loro moltitudini.
Poiché essi si prostrano a vanità e follia [nullità],
e invocano un dio che non salva,
ma noi ci prostriamo davanti al re dei re,
il Santo, benedetto sia,
che ha disteso i cieli e fondato la terra,
la cui sede gloriosa è nell’alto dei cieli,
e la cui presenza possente è nelle eccelse altezze:
lui è il nostro Dio e non ce n’è un altro,
verità e fedeltà è il nostro re e niente è fuori di lui,
come sta scritto nella Torah:
“Sappi dunque oggi e conserva bene nel tuo cuore
che il Signore è Dio lassù nei cieli
e quaggiù sulla terra;
e non ve n’è altro” [Deut. 4,39].
Per questo speriamo in te, o Signore Dio nostro,
che possiamo presto vedere la tua gloria possente,
siano fatti sparire gli idoli dalla terra,
e gli dèi vani siano sterminati;
che si ordini il mondo sotto il regno dell’Onnipotente,
e ogni carne invochi il tuo nome,
sì che a te si volgano tutti gli empi della terra,
tutti gli abitanti riconoscano e sappiano
che davanti a te si piega ogni ginocchio
e nel tuo nome giura ogni lingua [Is. 45,23].
Davanti a te, o Signore Dio nostro,
si piegheranno e prosterneranno
e daranno gloria alla maestà del tuo nome,
e tutti prenderanno su di sé
il giogo del tuo regno,
e tu regnerai su di loro presto e in eterno.
Perché tuo è il regno e in eterno regnerai in gloria,
come sta scritto nella tua Torah;
“Il Signore regna in eterno e per sempre” [Es. 15,18],
“Il Signore sarà re di tutta la terra,
e in quel giorno il Signore sarà uno e il suo nome uno” [Zacc. 14,9]».
(Schalom Ben-Chorin, Il giudaismo in preghiera, Cinisello Balsamo, 1988, pp. 96-97).
Questa preghiera, scrive il rabbino Epstein, «esprime eloquentemente la speranza messianica della sovranità universale di Dio, quando il mondo sarà reso perfetto nel Regno dell’Onnipotente, e tutti i malvagi della terra si rivolgeranno a lui in riconoscimento del suo regno» (I. Epstein, Il giudaismo, Milano, 1967, p. 140).
In altre parole, esprime non solo la speranza, ma anche la certezza del dominio universale di Israele nell’èra messianica, quando tutti i popoli della terra, volenti o nolenti, adoreranno l’unico vero Dio, il Dio giudaico, Jahvè.
Ma in realtà, questa preghiera esprime molto di più: esprime, e compendia, tutto l’odio antigentile e anticristiano che trasuda dalla letteratura rabbinico-talmudica ‒ un odio implicito negli stessi fondamenti teologici del giudaismo, anche se gli apologeti della Sinagoga e i loro Shabbath Goyim di complemento ci propinano la solita tiritera della reazione ebraica alle persecuzioni.
Secondo un’antica tradizione, la Alenu sarebbe stata composta da Giosuè dopo la presa di Gerico. Altri la attribuiscono a Rav (R. Abba Areka), fondatore della scuola talmudica babilonese di Sura (II-III sec.). È più verosimile tuttavia che essa risalga alla Grande Assemblea (all’epoca del Secondo Tempio) e che Rav l’abbia per primo inserito nel rituale di Rosh Hashanah, il Nuovo Anno ebraico.
A partire dal sec. XII fra le comunità dell’Europa occidentale si diffuse l’uso di recitare la Alenu al termine di ogni funzione quotidiana e col tempo la preghiera si è imposta come un vero e proprio credo (‘Alénu, op. cit.; Alénou le-chabbéat, in «Dictionnaire Encyclopédique du Judaïsme, Paris, 1996).
Le parole relative all’elezione di Israele, poste all’inizio della preghiera, «che come poche esprimono con lucidità la coscienza che Israele ha di sé come popolo eletto, si sono prestate storicamente a numerosi equivoci, soprattutto per il disprezzo che sembrano [sic!] ingenerare nei confronti dei popoli pagani. Per questo motivo le liturgie hanno preferito modificarle, sostituendole con frasi più generiche e tolleranti» (C. Di Sante, La preghiera di Israele, Genova, 1991, p. 176).
Sembrano? O piuttosto, soprattutto alla luce delle numerose esternazioni messianico-imperialistiche di cui è piena la letteratura rabbinico-talmudica (Cfr. L’imperialismo ebraico nelle fonti della tradizione rabbinica, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 2009 e gli scritti al riguardo su questo sito revisionista) le modifiche «con frasi più generiche e tolleranti» servono solo a dissimulare opportunisticamente – mipnei darkhei shalom, per amore della pace ‒ un’intolleranza di fondo?
Il padre Joseph Bonsirven ha bene evidenziato (a parte il richiamo ad un presunto universalismo ebraico, che in realtà non è altro che un particolarismo per così dire allargato) il vero spirito che anima la preghiera Alenu, sottolineandone la natura di fondo messianico-imperialistica.
Esistono nella tradizione rabbinica, scrive, due modi di concepire il regno di Dio sulla terra: il primo è più universale e spirituale (non vi saranno più idolatri ed empi, e tutti pregheranno l’unico vero Dio); l’altro è più particolaristico e comporta l’idea di una egemonia temporale di Israele, che dominerà sulle altre nazioni nel quadro di una teocrazia mondiale.
Mentre in passato, continua, le due concezioni raramente erano separate, oggi nelle preghiere sembra prevalere la prospettiva più ampia e disinteressata. Tuttavia, «il sentimento generale, ortodosso e tradizionale, non separa mai l’edificazione del regno di Dio dalla restaurazione e dal dominio mondiale di Israele: Dio regnerà a Sion, divenuta capitale del mondo» (Sur les ruines du Temple, Paris, 1928, pp. 178-179).
Il passo della preghiera relativo alle «vanità» e «nullità», e al «dio che non salva», ha suscitato nei secoli aspre polemiche.
Secondo la J.E., queste espressioni avrebbero fornito un pretesto ai malvagi persecutori cristiani, i quali pretendevano che la preghiera Alenu fosse un attacco maligno alla Chiesa cristiana, caratterizzata appunto come vanità, nullità e follia.
Nel 1399 un ebreo battezzato, tale Pessach, conosciuto col nome di Pietro, rivelò che queste parole si riferiscono in realtà a Gesù, poiché l’espressione wa-rik («e nullità/follia») ha lo stesso valore numerico del nome di Gesù, cioè 316.
Contro queste accuse, riprese fra gli altri da Antonius Margaritha, Samuel Friedrich Brenz, Buxtorf, Wagenseil ed Eisenmenger (quest’ultimo sottolinea che, giunto alle parole “invocano un dio che non salva”, il pio giudeo vi sputa sopra) si espressero autorevoli rabbini come Salomon Zebi Uffenhausen e Lippman Mühlhausen, nonché Manasseh b. Israel, i quali replicarono che si trattava di una calunnia, adducendo il fatto che la preghiera era stata composta molto tempo prima della nascita di Cristo ed era rivolta unicamente agli idolatri, e che le espressioni incriminate erano state riprese da Isaia (30,7 e 45,20).
Nondimeno i censori cristiani obbligarono gli ebrei a sopprimere le espressioni incriminate, ma tale ingiunzione evidentemente non fu sempre rispettata, se è vero che nel 1702 gli ebrei prussiani vennero denunciati proprio a motivo di questa preghiera, e il 28 agosto 1703, dopo un’inchiesta ufficiale, fu emanato un “Editto relativo alla preghiera Alenu” che imponeva la soppressione delle suddette espressioni e vietava severamente che vi si sputasse sopra (S. Ben-Chorin cit., p. 99; W. Popper, The Censorship of Hebrew Books, New York, 1969, pp. 17-18, 29, 107, 111).
Ora, l’argomento secondo cui le espressioni incriminate non possono riferirsi a Gesù e alla Chiesa in quanto sono state riprese da Isaia e inserite nella liturgia ancor prima dell’avvento del cristianesimo non costituisce una prova decisiva. Difatti una congiuntura antica può essere benissimo adattata ad un nuovo contesto.
È esattamente quello che, ad es., è stato fatto con la figura dell’indovino Balaam, che nella Bibbia è riprovato come un falso profeta che spinge gli Israeliti al culto idolatrico. Ebbene, come riconosce la J.E. (Balaam, vol. 2, p. 469, che rimanda a: Geiger, Bileam and Jesus, “Wissenschaftliche Zeitschrift für Jüdische Theologie”, VI, 31-37) nel Talmud il nome Balaam viene impiegato come pseudonimo di Gesù in Sanhedrin 106b e Gittin 57a. Quando perciò si scagliavano contro Balaam, i rabbini intendevano Gesù, anche se Balaam era anteriore a Gesù.
Tutto ciò è ammesso francamente anche da vari esegeti, giudei e non.
Si è detto delle modifiche apportate alla preghiera, ciò che getta perlomeno un’ombra sul suo reale significato. Se gli ebrei talmudisti fossero quelle candide verginelle che pretendono di essere, perché la necessità di modificare un importante testo liturgico? Non risulta che la Chiesa abbia modificato una qualche preghiera perché offensiva nei confronti di altre religioni.
Rabbi Barry H. Block riconosce che le espressioni in questione sono palesemente offensive, poiché implicano una denigrazione di altri gruppi, ed auspica che tutte le comunità accolgano le modifiche stabilite dal giudaismo riformato (The Problem with Aleinu. Adoration, beth-elsa.org).
Ma queste modifiche opportunistiche sono puramente lessicali, e non mutano la realtà di fondo della preghiera.
Alla fine del XIX secolo uno dei maggiori studiosi ebrei dell’epoca, Max Margolis (University of California), riconosce apertamente che la «vanità», la «nullità» e «il dio che non salva» (da Isaia) sono espressioni che «servono ad indicare il rigetto ebraico di Cristo, la seconda persona della Trinità».
Queste espressioni, dice, oggi sono omesse nelle edizioni ordinarie della preghiera in conseguenza di una “Selbstzensur” (autocensura), ma aggiunge subito dopo perentoriamente: «Talmudic Judaism is anti-Christian».
(M. Margolis, The Theology of the Old Preyer-Book, in Year Book of the Central Conference of American Rabbis, 5651-1890-91, Cincinnati, 1891. Appendix A, p. 5).
È opinione comune – scrivono da parte loro Jacov e David Gianfranco Di Segni – che nella preghiera compaiano delle allusioni anticristiane, e forse persino anti-islamiche. Se nelle intenzioni dell’autore la preghiera non conteneva riferimenti a Gesù, «non c’è nessun dubbio che gli ebrei delle epoche successive alla composizione del testo avessero dato a quest’espressione un significato anticristiano. I manoscritti che si sono salvati dalle cancellature della censura ci forniscono un numero sufficiente di prove per affermare che l’origine di quest’idea fosse ebraica; non solo, la numerosa quantità di fonti che abbiamo ci testimonia che la connessione tra la parola warîq e la cristianità era ben diffusa, tanto che ne esistevano delle varianti nei diversi paesi. Inoltre, la maggior parte delle fonti vi associano anche un’allusione al fondatore della religione islamica: ciò, però, è possibile solo attuando un piccolo cambiamento nel testo tradizionale: lahèvel welarìq, invece che warîq. Queste due parole, messe insieme, hanno il valore numerico di Yeshu Muchamet (Gesù Maometto)».
(La preghiera Alènu Leshhabbèach: origine, significato, usanze e problemi con la censura, in AA.VV., “Date onore alla Torà”, Roma, Tempio Maggiore, 2007, pp. 30, 29).
Jeffrey Hoffman,“Academy for Jewish Religion, Liturgy, Faculty Member” (The Image of The Other in Jewish Interpretations of Alenu, «Studies in Christian-Jewish Relations» 10 (2015), pp. 1-41), dopo aver osservato che la ripetuta dichiarazione di falsità del culto delle nazioni gentili costituisce una condanna retoricamente potentissima dell’ “altro” non ebreo, e che nella liturgia di Rosh Hashanah la preghiera Alenu fornisce un’immagine negativa delle nazioni gentili, in contrapposizione all’immagine positiva della nazione ebraica, scrive che una versione del XII secolo della Alenu mostra «An Explicity Negative Image of Christians» (p. 14).
Alcuni manoscritti della fine del XII secolo contengono una formulazione che non compare in altri testi della preghiera. Un manoscritto datato 1189 (Ms. Oxford Corpus Christi College 133, 72b) contiene una versione «grottescamente ampliata» del passo relativo alla vanità, alla nullità e al dio che non salva:
«Poiché si inchinano alla vanità e alla nullità ‒ un uomo di cenere, sangue, bile, carne putrefatta (abitata da) vermi. (Quelli che si inchinano davanti a quest’uomo sono) uomini e donne impuri, adulteri e adultere, che muoiono nella loro iniquità e marciscono nella loro malvagità, imputridendo nella polvere, marci di larve e vermi, e pregano un dio che non può salvare» (p. 15).
Secondo Ruth Langer, docente di studi ebraici nel Dipartimento di teologia presso il Boston College, questo è «apparently» un riferimento ai cristiani. Ciò che colpisce, scrive, «è la particolare veemenza, intensità e fervore con cui questa versione trasforma la preghiera per esprimere un radicale disprezzo e scherno per l’“altro” specificatamente cristiano» (Ivi).
In un manoscritto ebraico della collezione Spano presso la Biblioteca Universitaria di Cagliari (ms. 197), la cui prima origine risale al XV secolo, si possono vedere le parole successivamente cancellate con inchiostro dai censori.
Queste parole, scrive Mauro Perani ‒ già professore ordinario di ebraico presso l’Università di Bologna ‒ che lo ha portato alla luce e commentato, fanno parte della versione standard della preghiera Alenu, che all’inizio si trovava nella preghiera di Musaf per Rosh Hashanah, la festa del Capodanno ebraico, ma che in seguito fu aggiunta anche come inno alla fine di ogni servizio liturgico.
Perani riporta il testo ebraico del passo incriminato, che così traduce, specificando fra parentesi che qui è proprio dei cristiani che si parla:
«“Poiché essi [scil. i cristiani] si prostrano alla vanità e al vuoto (Is. 30,7) e pregano un dio che non salva (Is. 45,20)” che, come si vede, usa due passi contro l’idolatria citati da Isaia».
(M. Perani, Giovanni Spano e gli ebrei. Due manoscritti ebraici della sua collezione donati alla Biblioteca Universitaria di Cagliari e nuove scoperte sulla Sardegna Judaica, «Materia giudaica», XIV/1-2 (2009), p. 51).
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