Vincenzo Vinciguerra: La voce del silenzio

La voce del silenzio

 

Sollicciano, 22 giugno 1990

“I moderati sapevano quel che avevano ignorato i terroristi, che per la maggioranza degli uomini solo il castigo crea il delitto e che una scelleratezza impunita cessa ben presto di essere una scelleratezza. Perciò nell’uccidere badavano a non far rumore, raccomandavano il silenzio, sotterravano il grido delle vittime. Oggi la storia arriva troppo tardi per loro; la loro memoria è scomparsa”.

Forse, quando Edgar Quinet ricordava i massacri che si erano succeduti in Francia dopo l’eliminazione di Robespierre, con le parole sopra citate, non immaginava che cento anni dopo avremmo dovuto riproporla per descrivere la realtà che viviamo nel nostro Paese.

Fino ad oggi abbiamo contato solo i morti uccisi nel fragore delle bombe e nel crepitio delle raffiche dei mitra; abbiamo assistito solo ai processi pubblicizzati in maniera esasperata quando il propagandarli faceva comodo al regime; abbiamo ascoltato solo le parole dei politici che vantavano le loro vittorie sul terrorismo e quelle degli sconfitti e degli umiliati che, senza alcuna dignità, sono sfilati davanti alle telecamere per raccontarci i loro pentimenti e le loro dissociazioni. Abbiamo, viceversa, dimenticato se non totalmente ignorato coloro che sono morti nel silenzio, coloro che hanno taciuto anche quando il destino gli è parso incomprensibile, coloro che vivono in un mondo ovattato da un silenzio più pesante di una pietra tombale finendo, nella maggior parte dei casi, per smarrire il senso della vita e la loro stessa identità.

Ancora qualche anno e tutti, morti e vivi, saranno accomunati nel medesimo oblio, anche coloro che oggi, a fatica, ancora si ricordano.

Non vogliamo che questo accada.

Non vogliamo che un giorno lontano qualche storico debba scrivere per i morti e per i sepolti vivi nel silenzio quello che Edgar Quinet ha scritto per i massacrati della restaurazione francese.

E, per questa ragione, continuiamo a scrivere, a ricordare, a ricostruire, a ricercare tutti i frammenti che ci permetteranno di ricomporre per intero una Verità senza aggettivi, capace di smentire quelle verità di comodo che in questi anni sono emerse, e continuano ad emergere senza tregua, a beffa di coloro che alla Verità credono, la Verità vogliono e ad essa tutto hanno sacrificato.

Questa volta la storia non arriverà “troppo tardi per loro” e la loro memoria non scomparirà perché la loro storia è la nostra storia e la stiamo scrivendo, rigo dopo rigo, pagina dopo pagina.

E continueremo a farlo, senza mai fermarci, fino a dare una voce al silenzio sfidando l’indifferenza del cielo e il disinteresse degli uomini.

Sollicciano, 7 luglio 1990

La strategia della menzogna

Uno dei luoghi comuni più diffusi è quello che vuole il Paese legale diviso in due schieramenti contrapposti: il primo, che non vuole la verità sui misteri d’Italia, rappresentato dai servizi “deviati”, dai piduisti, da una parte della Democrazia cristiana, da una parte della magistratura; il secondo, che la verità vuole, composto dai servizi “fedeli”, dai “progressisti”, dal Partito comunista, da Magistratura democratica.

Nulla di più falso.

Anche questa divisione di campo fra l’ombra e la luce, fra i demoni della menzogna e gli angeli della verità, è frutto di una sapiente opera di propaganda che ha creato uno spartiacque che, in realtà, esiste solo nella convinzione degli sprovveduti.

I due schieramenti, invece, negano entrambi la verità nel momento stesso in cui convergono nella difesa ad oltranza dello Stato, dell’Alleanza atlantica e della democrazia, formando, in tal modo, uno schieramento unico, compatto, potente che vanifica ogni sforzo in direzione della Verità.

Ha giustamente rilevato l’avvocato Canestrini, con specifico riferimento alla strage di Ustica, che “…il buon Papà-Stato, anche a conduzione di democrazia tradizionale, può riconoscere – più o meno volentieri, che talvolta i suoi organi sbagliano: ci sono, certo, carabinieri violentatori, ci sono, certo, funzionari corrotti, ci sono, certo, collusioni tra sue personalità e la P2, ma tutto ciò – conclude l’avvocato Canestrini – non può e non deve intaccare la sostanza. E cioè che il Papà è buono, è saggio, è onesto” (E. Catania, Ustica: un giallo nel cielo, Longanesi, Milano 1988, p.87).

E nella difesa dello Stato-papà sono impegnati tutti: politici, giornalisti e magistrati. Fra questi ultimi, non ne esiste uno che sia disposto anche solo ad ipotizzare che lo Stato sia in realtà il responsabile di tutte le “deviazioni”: però, tutti i magistrati dicono di volere la verità.

Inoltre, lo Stato, questo Stato, è democratico. E non può, non deve essere coinvolto in trame ed azioni che compiono solo gli Stati totalitari, meglio se “fascisti”.

È uno Stato democratico, e la democrazia è un dogma di cui nessuno ha il coraggio, politico e civile, di denunciare il fallimento o l’inesistenza.

Essa è il faro di luce, la pappa reale di tanti suoi figli che in essa si riconoscono e che, grazie ad essa, vivono e vivono bene. E i figli di una mamma con tanti mariti, illustri e meno illustri, non sono disposti a riconoscere che la democrazia per presentarsi come tale ha bisogno dei “poteri occulti”, ai quali demanda tutto quello che, per continuare a dirsi (e a farsi credere) democrazia, non può ufficialmente e pubblicamente fare.

Ad esempio, gli Stati totalitari uccidono, ma la democrazia non lo fa perché il rispetto delle leggi, dei diritti sacri ed inviolabili dell’uomo, e bla bla bla, non glielo consente: per questa ragione gli Stati totalitari allineano oppositori morti ammazzati e la democrazia soltanto “suicidati”.

Rimane, infine, l’Alleanza atlantica che per anni ha incontrato in Italia la disapprovazione delle sinistre fino a quando, nel 1974, il Pci si scoprì rassicurato dall’esistenza della Nato e dalla presenza delle truppe americane in Europa.

Da quel momento anche i timidi belati di dissenso sono cessati del tutto, e la Nato è diventata, per tutti, indistintamente, la terza stella del vuoto firmamento che ci sovrasta: luminosa, rassicurante, protettrice della nostra pace e della nostra libertà.

Stando così le cose è inevitabile che si proceda ad inventare favole come quella della P2 quale centro di cospirazione antidemocratica (lasciando però che i piduisti continuino a fare carriera), dei servizi segreti “deviati”, degli ufficiali “infedeli” e degli “eversori fascisti”, del “grande vecchio” e del “grande boss”.

Anche noi vogliamo contribuire a creare un’immagine che non scaturisce dalla fantasia ma dalla realtà; un’immagine che, proprio per questo motivo, nessuno ha ancora osato offrire al Paese reale: quella del “grande bugiardo”, dal quale tutti traggono alimento per le loro idee, le loro ricostruzioni, la loro storia.

Un “grande bugiardo” generoso ed equo che passa le sue informazioni a tutti indistintamente, sia a quelli che “negano” la verità, sia a quelli che la “vogliono”. E tutti finiscono così per diffondere l’unica verità che oggi si conosca, da tutti accettata e diffusa, quella del “grande bugiardo”: P2, servizi “deviati”, ufficiali “infedeli”, “eversione nera”, “terroristi fascisti”, eccetera.

E si ricomincia.

Ma le “verità” del “grande bugiardo” ci lasciano indifferenti.

Per noi esistono altre verità, alcune fissate ormai indelebilmente nella storia, altre che ancora si situano nella cronaca e nell’attualità in attesa di divenire, anch’esse, storia.

Una di queste verità è che “non si può regnare innocentemente” e che uno Stato, questa macchina burocratica senza volto, non ha mai esitato a proteggersi con tutti i mezzi, compresi quelli più infidi e subdoli, da pericoli reali o presunti, politici e/o militari che siano.

È un’abitudine tipicamente umana quella di dare un nome a tutto, ai fiori come agli uragani, ai sentimenti gentili come alle passioni sfrenate, alle opere di bene come ai parti mostruosi della propria inesauribile fantasia. A questi ultimi appartiene il metodo di lotta di cui ora parleremo e che solo uno Stato può organizzare e gestire.

Ha un nome mutuato dal linguaggio militare, in perfetta sintonia con quella pace armata nella quale viviamo da tanti anni; un nome che evoca astuzia, inganno, furbizia: diversione strategica.

Le diversioni strategiche

Una “diversione strategica” si propone come fine quello di ingannare il nemico, di confonderlo con una serie di mosse e contromosse, di informazioni che disinformano, fino a condurlo a compiere ciò che servirà a distruggerlo.

Un esempio classico è rappresentato dalle operazioni “Trust”, che lasciamo raccontare a Peter Wright, già dirigente dell’Intelligence Service britannico ed esperto, a sua volta, in materia:

“Durante gli anni Venti – egli scrive – nel periodo in cui il regime bolscevico era minacciato da parecchi milioni di russi bianchi emigrati, Feliks Dzerzinskij, il leggendario fondatore dei servizi segreti sovietici, ideò la creazione in Urss di una falsa organizzazione il cui obiettivo dichiarato era di rovesciare il regime bolscevico. Questa organizzazione denominata Trust riuscì ad ottenere l’appoggio degli emigrati russi all’estero e dei servizi segreti occidentali, in particolare del MI6. In realtà, la Trust era totalmente controllata dall’Ogpu a riuscì a neutralizzare quasi tutta l’attività degli emigrati e dei servizi segreti ostili, riuscendo addirittura a rapire e a eliminare i due massimi capi dei russi bianchi, i generali Kutepov e Miller; inoltre la Trust persuase gli inglesi a non attaccare il governo sovietico perché sarebbero stati gli oppositori interni a farlo” (P. Wright, Cacciatore di spie, Rizzoli, Milano 1988, p.270-271).

Ma i servizi segreti occidentali fecero tesoro della sanguinosa sconfitta subita ad opera dei sovietici e si trasformarono in fautori entusiasti delle “diversioni strategiche”.

Un primo esempio, in campo occidentale, lo possiamo trarre dall’attività dell’Ovra, la nota polizia del regime fascista.

All’inizio della seconda guerra mondiale, il questore Luca Osteria creò un’organizzazione denominata “Terzo fronte” nella quale raccolse tutti antifascisti veri e con costoro programmò, a loro insaputa ovviamente, un’attività di segno antifascista che attirò, ovviamente, così come era stato previsto, l’attenzione dei servizi segreti britannici. Furono questi a sostenere il “Terzo fronte” (fra l’altro provvisto di un suo organo di stampa) anche con l’invio di materiale bellico al “braccio armato” dell’organizzazione, i “Tigrotti”.

Nel “Terzo fronte”, a svolgere attività cospirativa contro il regime fascista si trovarono riuniti antifascisti del calibro e della levatura di Ignazio Silone, Aurelio Peccei, Bruno Pincherle, Giuseppe Romita, futuro ministro degli interni dell’Italia “liberata” ed altri ancora (nomi e dati sono tratti dai libri di F. Fucci, Spie per la libertà e Le polizie di Mussolini, Mursia, Milano rispettivamente 1983 e 1985).

Così, con questa brillante “diversione strategica”, la polizia fascista si trovò a controllare l’opposizione antifascista in Svizzera e in Italia, senza che mai gli strumentalizzati antifascisti sospettassero alcunché. Anzi, il questore Luca Osteria, dopo l’8 settembre 1943, diresse a Milano la cosiddetta “Squadra azzurra” della polizia repubblicana che fingeva di collaborare con i tedeschi mentre, in realtà, era al servizio degli Alleati e del Cnl; così che, poi, poté vantare meriti, che non aveva, contro il regime fascista che, viceversa, aveva tanto brillantemente servito.

Un esempio, questo del “Terzo fronte”, per dire che nella polizia italiana e nei servizi segreti militari non mancavano – e non mancano – gli esperti in “diversioni strategiche”.

Fortuna per Silone, Romita e gli altri antifascisti manovrati dall’Ovra che non hanno trovato sulla loro strada qualche “esperto” come il giudice istruttore di Venezia, Felice Casson; in caso contrario, al danno si sarebbero visti aggiungere la beffa di essere qualificati come spie dell’Ovra, quando proprio questi eminenti antifascisti potrebbero testimoniare quanto arduo sia evitare certe “trappole” quando queste ultime sono ordite da esperti protetti dal segreto e provvisti di mezzi adeguati.

Dalla finta organizzazione antibolscevica alla finta organizzazione antifascista, entrambe formate da veri antibolscevichi e veri antifascisti, passiamo al dopoguerra italiano che vede un proliferare di finte organizzazioni politiche che cercano – e talvolta riescono – di strumentalizzare veri oppositori politici del nuovo regime.

Il primo esempio che incontriamo è quello rappresentato dal Partito nazionale popolare, sul conto del quale, in un appunto dei servizi strategici americani, si legge: “…finge di essere di sinistra, in realtà ha tendenze filomonarchiche. Leader: il conte Battaglia” (R. Faenza-M. Fini, Gli americani in Italia, Feltrinelli, Milano 1976, p.263-265).

Collegato al Partito nazionale popolare e al suo capo è il Partito comunista indipendente di Paolo Orlando che, scrivono gli informatissimi americani, “…pur spacciandosi per organizzatore comunista è in realtà finanziato dalla destra e ha come compito l’inquinamento della propaganda comunista. Orlando è il fondatore della Spes socialista (studi politici e sociali). Collabora con il Rome daily american” (R. Faenza-M. Fini, ibidem).

Un terzo esempio ci proviene dal Partito socialista rivoluzionario che possiede un giornale significativamente intitolato “Bandiera rossa”. Ne fanno parte, come dirigenti, Vittorio Ambrosini e Rocco d’Ambra. Il primo è conosciuto come confidente dell’Ovra e il tentativo non incontra il successo che i suoi promotori si attendevano. Ma non è finita perché, restando in quegli anni, si può ancora citare il caso del Partito di unione proletaria di Umberto Salvarezza, massone e collegato a Giuseppe Albano, meglio noto come “il gobbo del Quarticciolo”. Su questo ennesimo partito “di sinistra” e suo leader, i soliti americani scrivono: “…Umberto Salvarezza è un uomo degli inglesi e della destra monarchica e la sua Unione proletaria si è specializzata nella provocazione a sinistra” (R. Faenza- M. Fini, op.cit. rispettivamente pp.43-44 e 148-149).

Dagli anni dell’immediato dopoguerra ad oggi incontriamo, a partire dai primi anni Sessanta, un nuovo proliferare di organizzazioni politiche ideologicamente definite di segno nazionalsocialista, fascista e marxista-leninista ma che, viceversa, possiamo annoverare fra gli esempi di “diversioni strategiche” che stiamo offrendo a chi ci legge. Ancora a sinistra incontriamo, per citarne una, la “Lega marxista-leninista d’Italia”, costituita il 9 novembre 1970 dagli ex aderenti alla “Lega dei comunisti marxisti-leninisti italiani e da…Giovanni Ventura, l’ineffabile amico e camerata del nazista del Sid, Franco Freda.

Nessuna meraviglia deve destare il fatto che a creare gruppi marxisti-leninisti di ispirazione “cinese” fossero, fra gli altri, i “nazisti” italiani. Ad Avanguardia nazionale, infatti, va ascritto il “merito” di avere affisso sui muri delle città italiane nei primissimi anni Sessanta migliaia di manifesti “cinesi” perché inneggiavano all’ortodossia dottrinaria ed ideologica della Cina di Mao contrapposta al “tradimento” dei “revisionisti” sovietici.

Coordinatore, in Italia, di questa operazione che venne estesa in diversi paesi europei, fu il direttore de “Il borghese”, Mario Tedeschi, intimo e fraterno amico del questore Federico D’Amato, dirigente dei servizi segreti civili del ministero degli Interni.

Nel 1974, l’ex capitano delle Waffen SS francesi, Robert Leroy, in un’intervista a “L’Europeo” rivelerà, senza incontrare smentite, che l’operazione “manifesti cinesi” era stata concordata a Berna in una riunione dei servizi segreti occidentali, europei ed americani, e cinesi alleatisi per una volta contro l’Unione sovietica e i partiti comunisti ad essa fedeli.

Quando, a forza di creare organizzazioni di ultra-sinistra dirette da uomini di ferrea fede anticomunista, lo Stato ottenne quegli “anni di piombo” che così tenacemente aveva cercato, apparve (ed è solo un altro esempio) un gruppo denominato “Azione rivoluzionaria” del quale magna pars si rivelò essere un tal Ronald Stark, americano, agente dei servizi segreti d’oltreoceano.

A destra non sono mancate le “diversioni strategiche”, meno complicate per i loro ideatori di quelle attuate a sinistra ma non meno perniciose e tragiche per coloro che avendo aderito ad organizzazioni “nazionalsocialiste” si sono, poi, ritrovati a scoprire di aver contribuito in maniera determinante a difendere e rafforzare quello Stato antifascista che volevano abbattere.

È il caso di “Ordine nuovo”, l’organizzazione fondata da Pino Rauti, contrapposta per anni al Msi accusato di essere “solo” fascista e per di più “moderato”, colpevole di avere contaminato con l’accettazione delle regole della democrazia quella purezza ideologica e dottrinaria che Ordine nuovo rivendicava per sé. Oggi, Pino Rauti è diventato, dopo una ventennale attesa, segretario nazionale del Msi assumendo con orgoglio la rappresentanza di quel partito “traditore” e di “traditori” del fascismo e del nazionalsocialismo che con tanta veemenza condannava in anni lontani, scomparsi dalla sua memoria ma non dalla nostra.

In realtà Rauti, anche quando definiva la democrazia “sifilide dello spirito” e ricordava la battaglia di Berlino affermando che “noi restiamo in piedi” nel prosieguo ideale di quella guerra che aveva visto nelle SS le falangi dell’“ordine nuovo” che tanti avevano sognato, tradiva sapendo di tradire, insieme a tutto il gruppo dirigente di Ordine nuovo: gli Andriani, i Maceratini, i Signorelli ecc. ecc.

Oggi sappiamo che il capo di Ordine nuovo, il “nazista” Rauti, collaborava con lo Stato maggiore dell’Esercito italiano nato dalla Resistenza, con i servizi di sicurezza dello Stato democratico e antifascista e con i servizi di sicurezza alleati meritando, quindi, per la sua attività la qualifica di “agente doppio”, riservata a coloro che fanno il doppio gioco ingannando coloro che, nulla sapendo, gli danno un credito politico, ideologico e, talvolta, umano.

Ciò nonostante, l’”agente doppio” Pino Rauti continua ancora oggi a presentarsi ai suoi sprovveduti elettori come “volontario della Repubblica sociale”: è giunto il momento, spezzando il muro di omertà che lo circonda, di indurlo a presentarsi come “devoluto alle esigenze del Sid” così che, una volta ritiratosi a vita privata, possa percepire ufficialmente quella pensione che lo Stato antifascista concede per meriti a coloro che lo hanno ben servito.

Altrettanto clamoroso e certo, dopo il caso di Ordine nuovo, è il caso dei Nar, il nucleo degli “spontaneisti di destra” che in gran numero troviamo puntualmente seduti sul banco degli imputati assieme ad ufficiali dei carabinieri e dei servizi di sicurezza.

Un’altra “diversione strategica”, altri “agenti doppi”, altri strumentalizzati inconsapevoli o quasi…

In tutti questi casi, è possibile rintracciare la logica che ispirò la nascita e l’attività dell’organizzazione “Trust”, presa come modello da applicare, in pace e in guerra, nelle diverse realtà nazionali ed internazionali. La logica di creare gruppi destinati ad arruolare, con l’inganno, oppositori veri per indurli a compiere attività “destabilizzanti” che consentano al potere politico di intervenire per “stabilizzare” trova nelle “diversioni strategiche” la metodologia più appropriata ed efficace.

Pochi uomini, fedeli al regime che devono sostenere, possono in questo modo strumentalizzare centinaia o migliaia di persone sinceramente convinte di lottare per un fine politico che, viceversa, solo nel momento della sconfitta si rivela opposto (ma non sempre l’inganno viene scoperto) a quello che loro hanno fino a quel momento creduto.

E il disordine che sono stati indotti a creare serve solo a rafforzare il regime che lo ha prodotto per loro tramite e che, mentre persegue gli “eversori”, si presenta agli occhi della popolazione stanca di violenza come il garante di quell’ordine e di quella sicurezza che esso stesso, tramite i propri servizi di sicurezza, ha sconvolto e negato.

Il servitore della “giustizia” italiana che nella motivazione della sentenza di appello al processo di Peteano ha scritto che gli appare “..singolare che dei servizi governativi lavorino per destabilizzare” (sentenza di appello per il processo di Peteano della Corte d’assise di appello di Venezia 5 aprile 1989, p.103) non ha voluto considerare (per ignoranza o peggio) che i servizi governativi si limitano a destabilizzare l’ordine pubblico quale mezzo infallibile per stabilizzare l’ordine politico, l’unico che possa interessare ai vertici di uno Stato che riescono, con questi mezzi, a dirigere l’anti-Stato.

Le strutture parallele

Se le “diversioni strategiche” sono ignote agli esperti dell’antiterrorismo e a coloro che vogliono (così dicono) la verità, esiste una realtà che, viceversa, è ben conosciuta perfino a livello di opinione pubblica: quella riguardante l’esistenza di una struttura parallela alle Forze armate, composta da civili e da militari, pronta ad intervenire nel caso di un’invasione sovietica o di una insurrezione armata all’interno del Paese di segno comunista.

Facciamo, quindi, la storia di queste “strutture parallele” volgendoci ad un passato che può apparire lontano ed è invece presente, con la speranza di potercene un giorno liberare per sempre.

” ‘Per molti anni ancora continueremo ad essere nella situazione di non sapere se domattina non ci sveglieremo con le divisioni corazzate russe entro il nostro territorio’…Pietro Quaroni (ambasciatore italiano a Parigi, nda) – scrive Bruno Vigezzi – al solito, tende ad esagerare; ma le condizioni, le immagini che evoca destano le ripercussioni più profonde ed estese. Tommaso Gallarati Scotti (ambasciatore italiano a Londra, nda) parla agli inglesi che prendono in considerazione l’idea di vedere i russi installati ‘a Calais’; e Alberto Tarchiani (ambasciatore italiano a Washington, nda) riferisce i timori che gli americani…per necessità…oltre alla difesa delle isole Britanniche si limiterebbero a quella della Spagna, del Nord Africa, delle nostre isole, e della Grecia, Turchia, Iran se possibile’. Per ora naturalmente; giacché poi la situazione dovrebbe migliorare…Ma intanto, a mezzo ’48, gli ambasciatori, i funzionari degli esteri, se possono certo discutere pro o contro la neutralità o pro o contro l’alleanza con le potenze occidentali, sono tutti concordi nel ritenere che, ove quella guerra arrivi subito, la previsione più probabile, anzi sicura è quella della ‘guerra di liberazione’” (B. Vigezzi /a cura di/ La dimensione atlantica, Jaca Book, Milano 1987, p.25).

Guido Zoppi, segretario generale della Farnesina, scrivendo, il 23 luglio 1948, a Carlo Sforza, rincara vieppiù la dose: “È stato comunque detto – comunica al ministro – da parte americana che la messa in atto di difesa della Groenlandia, Irlanda, Islanda costituisce il primo obiettivo da raggiungere fuori delle frontiere degli Stati Uniti. Ciò risponde del resto a esigenze tecniche e militari ben comprensibili ed è da ritenersi che la eventuale difesa dell’Europa verrà presa in considerazione in tempi successivi estendendola progressivamente dall’estremo occidente europeo e nord Africa, via via verso est a seconda dei progressi del riarmo americano e delle disponibilità offerte da tale riarmo. In queste condizioni – dice Zoppi – è da ritenersi che l’Italia non potrebbe venire compresa nell’area di una effettiva difesa americana che in un secondo o terzo tempo (B. Vigezzi, op.cit., p.127-128).

Lo scenario, come si vede, è quello della seconda guerra mondiale: il blitzkrieg russo al posto di quello tedesco, le orde mongole al posto delle panzer divisionen, il comunismo al posto del nazionalsocialismo. Una visione da incubo sapientemente alimentata dagli Stati uniti d’America e dalla Gran Bretagna che, in realtà, a questa apocalittica visione non credono, ma hanno tutto l’interesse a farla accettare dai loro alleati europei che, va detto, null’altro chiedono di meglio che crederci ciecamente.

Un modesto saggio di questo gioco dell’inganno lo ricaviamo dalle panzane che il generale americano William Donovan, ex capo dell’OSS, rifilò con assoluta serietà agli italiani nel 1948.

Si legge nella relazione che un funzionario del ministero degli esteri compilò dopo un colloquio con Donovan che “…il Generale ha confermato che non risulta ai servizi americani che la Russia stia effettuando spostamenti di truppe eccezionali. Ha aggiunto però che, grazie soprattutto all’assistenza dei tecnici tedeschi che i russi, secondo le sue stesse parole, ‘hanno saputo sfruttare molto meglio di noi’, l’aviazione militare sovietica ha compiuto enormi progressi. Essa disporrebbe attualmente di apparecchi da bombardamento del tipo fortezze volanti, ma provviste di motore a reazione. La funzione principale di questi bombardieri, ha proseguito Donovan, sarebbe di paralizzare il traffico marittimo nel Mediterraneo che, nel piano di difesa americano, deve invece essere mantenuto ad ogni costo in vista dell’importanza dei rifornimenti di petrolio” (B. Vigezzi, op.cit., p.130-131. Gli unici ad avere a quel tempo bombardieri a reazione – i B-47 – erano gli Stati Uniti! A questo punto e per una realistica valutazione delle forze aeree sovietiche fino a 1950, in particolare sulle forze di bombardamento vedasi N. E. Luttwak, La grande strategia dell’Unione sovietica, Rizzoli, Milano 1984, p.71-73).

Purtroppo, pur essendo l’Unione sovietica “dotata” di questi “superbombardieri”, non può egualmente prescindere dal possesso di basi nel territorio italiano, aggiunge William Donovan che si affretta, però, a rassicurare il suo interlocutore concludendo in questi termini: “Noi consideriamo che sia nostro dovere e nostro interesse contribuire in ogni misura alla difesa del territorio italiano; se possibile sulle frontiere orientali, altrimenti su una linea fortificata montagnosa più breve (evidente allusione alla Linea Gotica) ove la difesa potrebbe essere organizzata in modo strategico più economico (B. Vigezzi, ibidem). E lasciò il suo interlocutore rassicurato e…minchionato.

Al di là delle menzogne, appare qui l’ipotesi dell’abbandono del Nord Italia e della difesa ad oltranza sulla Linea Gotica; l’altra ipotesi era, come abbiamo visto, quella dell’arroccamento delle truppe italiane e alleate in Sicilia e Sardegna, previo sgombero di tutto il territorio peninsulare.

Nell’uno e nell’altro caso, si trattasse di “liberare” la sola Italia settentrionale partendo dalla Gotica, o l’intera penisola partendo dalle isole, la prospettiva era sempre quella della “guerra di liberazione” che “incide più che non si creda – scrive Bruno Vigezzi – sugli atteggiamenti degli uomini del tempo, sui loro criteri e sulle loro scelte” (op. cit, p.26).

È fondamentale per comprendere quanto è accaduto fino ad oggi sottolineare che di “guerra di liberazione” e delle contromisure da adottare se ne parla – abbiamo visto in quali termini e con quale enfasi – dopo che il 18 aprile 1948 era stata sventata la “minaccia” rappresentata da una vittoria elettorale del Fronte popolare; e dopo che era stata stroncata manu militari la rivolta dell’apparato comunista, insorto dopo la notizia dell’attentato a Palmiro Togliatti, nel luglio dello stesso anno. Rivolta che aveva, per di più, evidenziato quanto velleitarie fossero le pretese della base comunista di rappresentare una minaccia effettiva sul piano militare per il regime democristiano.

L’importanza di questo rilievo temporale è data dal fatto che si potevano considerare concluse, nell’estate del 1948, le emergenze politiche e militari derivate dalla sopravvalutazione della forza del partito comunista italiano: ci si preparò, invece, a una “guerra di lunga durata” basandosi sul presupposto di una invasione sovietica che non poteva esserci e di una insurrezione comunista che i primi a non volere erano proprio i dirigenti del Pci, non perché “democratici” ma semplicemente perché realisti, e tutt’altro che desiderosi di ritrovarsi di fronte ad un plotone di esecuzione o in qualche lager democristiano.

Si poteva fronteggiare questa tanto paventata, e data per certa, eventualità – invasione/insurrezione – con contromisure normali quali un esercito adeguato e forze di polizia addestrate alla guerriglia e alla controguerriglia, come era per i battaglioni della Celere, senza creare una struttura ad essi parallela.

Ma l’esperienza della seconda guerra mondiale unita alla consapevolezza di affrontare una guerra politico-ideologica nella quale la difesa del territorio andava di pari passo con quella dello “spazio politico” determinarono la creazione, in forma permanente, di una struttura clandestina che potesse assolvere sia compiti militari che informativi e politici correndo parallela, ma non sovrapponendosi, alle strutture militari e di sicurezza ufficiali.

La prima conferma in merito la traiamo dalle memorie di William Colby, già direttore della Central intelligence agency, pubblicate in un libro debitamente ignorato da tutti, in particolare da coloro che vogliono la verità.

Rievocando i suoi esordi, William Colby parla dell’Office policy coordination (Opc) che, scrive, aveva il compito di “preparare piani nella eventualità tutt’altro che inverosimile di un’invasione sovietica nella Europa occidentale. E nel caso che i sovietici fossero riusciti a impadronirsi di uno o più Paesi del continente (o di tutti) …l’Opc voleva essere in condizione di sostenere insurrezioni di partigiani ben armati e ben organizzati contro le truppe di occupazione. Adesso, a differenza dei Jedburghs e di altri gruppi paramilitari dell’Oss che erano andati in aiuto dei maquis francesi e degli altri movimenti della Resistenza durante la seconda guerra mondiale, l’Opc non voleva trovarsi costretta ad armare e organizzare i partigiani dopo l’invasione, servendosi di operazioni pericolose e difficili come i voli notturni, i lanci di rifornimenti e le infiltrazioni dei paracadutisti dietro le linee nemiche.

No, disse Gerry Miller (vice-responsabile della divisione Europa occidentale dell’Opc – nda) questa volta intendevamo avere le forze della Resistenza sul posto prima dell’occupazione, anzi, prima ancora dell’invasione; eravamo ben decisi a organizzarle e a rifornirle subito finché avevamo ancora il tempo di farlo bene e con un rischio minimo. Quindi l’Opc aveva cominciato a creare, in tutti i Paesi dell’Europa occidentale che avrebbero potuto essere probabili obiettivo di un attacco sovietico quelle che nel gergo del mestiere si chiamano “stay-behind-nets”, infrastrutture clandestine di dirigenti e di rifornimenti già preparate ad entrare in azione come forze di spionaggio e di sabotaggio quando fosse venuto il momento (W. Colby, La mia vita nella Cia, Mursia, Milano 1981, p.61-63).

William Colby colloca temporalmente l’inizio della costruzione delle reti di resistenza nel 1948 ma, in realtà, gli alleati si erano mossi in quel senso già all’indomani della conclusione del conflitto mondiale. Una segnalazione in tal senso proviene da Peter Knightley che scrive: “il Soe ebbe una breve rinascita quando la Gran Bretagna e gli Stati uniti si trovarono costretti a prendere in considerazione l’eventualità di una guerra con l’ex alleata, l’Unione sovietica: allora il Soe ricevette l’ordine di tenersi pronto a creare movimenti di resistenza nei paesi che avrebbero essere potuto essere occupati dai russi in tale guerra (P. Knightley, Nel mondo dei condor, Mondadori, Milano 1988, p.141).

L’idea delle reti di resistenza venne portata innanzi, studiata, perfezionata e, infine, resa operativa a partire dal 1947.

I sempliciotti e i furbi potranno dire che, se William Colby ha potuto rendere nota l’esistenza di queste strutture clandestine negli anni dell’immediato dopoguerra, lo si deve al fatto che esse ebbero una vita transitoria e temporanea, sì che si può concludere che vennero poi soppresse.

Non è così.

Una prima notizia che conferma l’istituzionalizzazione, in Italia, di queste strutture parallele ci viene da Mario Margiocco che, in un suo saggio, rivela “come subito dopo lo scoppio delle ostilità in Corea, avvertendo anche in Europa un clima di guerra, la Cia organizzò nell’Italia nord-occidentale una rete di piccoli depositi di armi, munizioni e denaro, soprattutto oro. Per l’allestimento dei depositi si servì di un gruppo di ex partigiani anticomunisti. In caso di attacco sovietico contro l’Europa occidentale e di contemporanea insurrezione comunista all’interno, i depositi dovevano servire per alimentare una prima resistenza. Il piano – prosegue Margiocco – nato dalla fervida mente anticomunista di Frank Wisner, vice di Allen Dulles all’ufficio Piani della Cia (operazioni clandestine), faceva parte di una serie di iniziative coordinate a Washington da una speciale commissione angloamericana…” (M. Margiocco, Stati Uniti e Pci, Laterza, Bari 1988, p.47-48).

Siamo, qui, agli inizi degli anni Cinquanta e, come ci riferisce Margiocco, sia pure in forma largamente approssimativa, le reti di resistenza sono ancora operanti. Una prova, questa, della continuità nel tempo di piani che prevedevano uno scenario bellico immutato, con i russi nella veste di “invasori” e i comunisti italiani in quella di “quinta colonna” con compiti di guerriglia e di fiancheggiamento.

È uno storico comunista, Giuseppe De Lutiis, che nel tentativo di dimostrare l’esistenza di quelli che chiama “gruppi paralleli”, secondo una comoda tesi riduttiva del Pci, cita “l’enigma di Capo Marrargiu” in Sardegna: un’estensione di terreni sui quali si sono addestrati migliaia di guerriglieri antirussi. Il racconto di De Lutiis ci riconduce nel tempo al punto in cui si conclude quello di Margiocco. Scrive, infatti, l’esperto del Pci: “Tutto inizia l’8 maggio 1954 quando, a Roma, tre privati cittadini che si dichiararono ‘benestanti’ costituiscono una società a responsabilità limitata di nome “Torre marina”. I soci fondatori sono: Ettore Musco, Antonio Lanfaloni e Felice Santini. Oggetto sociale della società è l’acquisto, la vendita, la gestione, l’amministrazione e la locazione di immobili rustici e urbani “dovunque siti”. Il capitale sociale è di novecentomila lire, sottoscritto per un terzo da ciascun socio; una cifra davvero esigua. Anche la durata della s.r.l., sei anni, è un tempo troppo breve per realizzare qualunque progetto edilizio. Ma le singolarità della “Torre marina” non si limitano a questo: la sede della società è Roma, via XX settembre 8, l’indirizzo del Sifar, e i tre “benestanti” sono in realtà – alla data della costituzione della “Torre marina” – il capo del Sifar, il capo del Sios Esercito e un dirigente dell’ufficio amministrativo del Sifar. Qualche mese dopo la società fa il suo primo e quasi unico acquisto: un vasto terreno sulla costa a sud di Alghero a tre lire al metro quadro, per la somma di 2.050.412 lire” (G. De Lutiis, Storia dei servizi segreti in Italia, Editori riuniti, Roma 1984, p.135).

Nel prosieguo De Lutiis ci informa dei passaggi di proprietà, con le rispettive date, fino alla liquidazione di questa singolare società, avvenuta il “4 aprile 1963, ma – scrive lo storico comunista – già nel novembre 1962 il ministero della Difesa-esercito aveva espropriato per “pubblica utilità” i terreni” (ibidem). Nel 1963, sempre secondo De Lutiis, su quei terreni viene costruita una base militare che verrà chiusa solo nel 1976 (ivi, p.136) dopo che avrà esaurito il suo compito di centro di addestramento per “sabotatori” e “guerriglieri”. Costoro erano scelti fra persone che offrivano garanzie di assoluta lealtà alle istituzioni democratiche e all’Alleanza atlantica, con buona pace degli “storici” come De Lutiis che sostengono come, in realtà, si trattasse di “eversori” (ibidem) che “tramavano”, ovviamente, insieme ad ufficiali “infedeli”, “servizi deviati” e “piduisti” contro l’ignaro ed onesto potere democristiano.

A smentire De Lutiis e i socialdemocratici del Pci interviene Edgardo Beltrametti, esperto insieme a Rauti e Guido Giannettini dello Stato maggiore della Difesa e del Servizio informazioni Difesa, con una affermazione perentoria e mai contraddetta o negata. Scrive l’ex fascista Beltrametti: “Non si può lasciare in mano ai ‘politici’ gli elenchi di coloro che sono designati a costituire i nuclei di resistenza…” (E. Beltrametti, Contestazione e megatoni, Volpe, Roma 1971, p.153). Questa affermazione gravissima dell’esperto dello Stato maggiore Difesa risale al 1971 e permette di riconfermare l’operatività ancora in quei primi anni Settanta delle strutture parallele e, soprattutto, consente di provare che i politici sono coloro che possiedono addirittura gli elenchi nominativi dei “guerriglieri” anticomunisti.

E una conferma, diretta e autorevole, anch’essa mai smentita perché non smentibile, a quanto scritto da Edgardo Beltrametti viene data il 14 dicembre 1977 dal generale Vito Miceli al processo per il cosiddetto “golpe Borghese”. Dirà in quell’occasione l’ex capo del Sid: “C’è ed è sempre esistita una particolare organizzazione segretissima che è a conoscenza anche delle massime autorità dello Stato. Vista dall’esterno, da un profano, questa organizzazione può essere interpretata in senso non corretto, potrebbe apparire come qualcosa di estraneo alla linea ufficiale. Si tratta di un organo inserito nell’ambito del Sid, comunque svincolato dalla catena di ufficiali appartenenti al servizio “I”, che assolve compiti puramente istituzionali, anche se si tratta di attività ben lontana dalla ricerca informativa. Se mi chiedete dettagli particolareggiati – conclude Miceli – dico: non posso rispondere. Chiedetelo alle massime autorità dello Stato, in modo che possa esservi un chiarimento definitivo” (De Lutiis, op. cit., p.129).

Ma non basta, perché il generale Siro Rossetti, già iscritto alla loggia P2 e ufficiale dei servizi di sicurezza, in relazione all’esistenza di una organizzazione parallela e clandestina alle Forze armate, affermerà: “…La mia esperienza mi consente di affermare che sarebbe assurdo che tutto ciò non esistesse…ed ancora a mio avviso l’organizzazione è tale e talmente vasta da avere capacità operative nel campo politico, militare, della finanza e dell’alta delinquenza organizzata…” (P. Calderoni, Servizi segreti, Pironti, Napoli 1986, p. 85).

Ma non è ancora finita perché Amos Spiazzi, il noto (alle cronache giudiziarie) ufficiale veronese, plurinquisito per le sue attività istituzionali nell’ambito della Nato e delle Forze armate italiane, dichiarerà in un verbale giudiziario che esiste “una organizzazione di sicurezza interna alle Forze armate…per entrare a far parte della quale bisogna aver svolto determinate attività informative nelle caserme…ed essere anticomunisti” (P. Calderoni, op. cit., p.84).

Ed ancora, il prefetto Federico D’Amato, nella primavera del 1987, dinanzi alla Corte d’assise di Venezia al processo per l’attentato di Peteano affermerà, riferendosi al presente, di “non poter escludere” la esistenza di strutture parallele, composte da civili e militari, operanti nel nostro Paese in funzione antisovietica.

A tutte queste dichiarazioni di personaggi qualificati, per gli incarichi ricoperti, a farle con cognizione di causa e senza timori di smentite, se ne potrebbero aggiungere altre, più sfumate anche se più suggestive, come quella su una struttura clandestina, centralizzata, piramidale, rigidamente compartimentata, divisa in cellule e semi-cellule, delineata da Ronald Stark e attribuita a delle fantomatiche “Brigate rosse” che, in questa forma, non sono mai esistite (M. Scarano-M. De Luca, Il mandarino è marcio, Editori riuniti, Roma 1985, p.117). Ma è sufficiente attenersi alle dichiarazioni “ufficiali” rilasciate da generali, colonnelli, prefetti, esperti dello Stato maggiore ecc. ecc. e confermate puntualmente, al di là di ogni dubbio, dall’opposizione del “segreto di Stato”, imposto dal non compianto Aldo Moro, su quanto detto da Vito Miceli.

Si potrebbe anche dare un volto ed un nome a persone che di queste strutture clandestine fanno o hanno fatto parte, a cominciare da quello di Licio Gelli, per limitarci ad un individuo che solo dall’ombra di un mondo clandestino ma istituzionalmente legittimato ad operare nel massimo segreto, ha potuto emergere ai fasti di un potere occulto ma non eversivo.

Ma ci è sufficiente, per ora, l’aver tracciato nelle sue linee generali i contorni di un progetto politico-militare e della sua applicazione concreta lungo l’arco di quarantacinque anni di storia e di regime.

Vedremo ora, nelle pagine che seguono, come può essere organizzata la “struttura di comando” di un’organizzazione parallela alle istituzioni politiche, militari e di sicurezza; e dietro quale schermo può essere occultata.

Le “gerarchie parallele” dalla A. I. L. alla P2

Per trovare un esempio concreto di Stato-ombra, nel quale i dirigenti politici e militari hanno accanto a sé un doppio invisibile a tutti, accortamente collocato nell’oscurità, è sufficiente leggere quanto l’ex ministro degli Interni Mario Scelba ha dichiarato ad Antonio Gambino in un’intervista resa pubblica in un libro, edito nel 1975, sul potere democristiano nei primi anni del dopoguerra.

“Parlando del momento di eccezionale tensione che si produsse in Italia – scrive Antonio Gambino – il 14 luglio 1948, dopo l’attentato a Togliatti, il ministro dell’Interno di De Gasperi…ha detto che ‘lo Stato era assolutamente preparato ad affrontare una situazione di emergenza di questo tipo’; ed ha aggiunto: ‘D’altra parte, già nei primi mesi del 1948, era stata messa a punto una infrastruttura capace di far fronte a un tentativo insurrezionale comunista. L’intero Paese era stato diviso in una serie di grosse circoscrizioni, ognuna delle quali comprendeva varie province, e alla loro testa era stato designato in maniera riservata, per un eventuale momento di emergenza, una specie di prefetto regionale che non sempre era il prefetto più anziano o quello della città più importante, perché in alcuni casi era invece il questore o un altro uomo di sicura energia e di mia assoluta fiducia. L’entrata in vigore di queste prefetture allargate sarebbe stata automatica, nel momento in cui le comunicazioni con Roma fossero state, a causa di una sollevazione, interrotte: allora i super-prefetti da me designati avrebbero assunto gli interi poteri dello Stato sapendo esattamente, in base a un piano preordinato, che cosa fare. D’altra parte ci eravamo preoccupati anche di impedire che si potesse arrivare a un’interruzione delle comunicazioni. Pensando – prosegue Scelba – che la prima mossa dei promotori di un eventuale colpo di Stato sarebbe stata di impadronirsi delle centrali telefoniche e delle stazioni radio o quanto meno di renderle inutilizzabili, avevamo organizzato un sistema di comunicazioni alternative come punto di appoggio di un certo numero di navi italiane e alleate presenti nel Mediterraneo’” (A. Gambino, Storia del dopoguerra. Dalla Liberazione al potere Dc, Laterza, Bari 1975, p.473-474).

Le affermazioni di Scelba confermano, senza ombra di incertezza, l’esistenza di “gerarchie parallele” affiancate a quelle ufficiali e pubbliche. Ed inevitabile diviene il confronto con il “raggruppamento Gelli” all’interno della loggia P2, con i suoi capi-circoscrizione, quasi tutti provvisti di un passato militare ad alto livello e/o di esperienza nel campo dei servizi di sicurezza, nel mantenimento dell’ordine pubblico, nel controllo del territorio, capaci di comandare avendo i mezzi e l’esperienza per farlo.

Una coincidenza? Forse.

Ma prima di ironizzare sul fatto che, in una circolare del 1969, la firma di Licio Gelli appare preceduta dalla qualifica di “colonnello”, sarebbe bene chiedersi se l’autorità di convocare, nel 1973 a villa Wanda, ufficiali dell’Arma dei carabinieri e dell’Esercito italiano gli provenisse solo dal grado massonico o da qualche incarico-ombra del tipo di cui Mario Scelba aveva investito gli appartenenti alle “gerarchie parallele”.

D’altronde, in quella riunione si parlò di fronteggiare una “emergenza” dello stesso identico genere di quella che aveva indotto il governo italiano e quello americano a creare strutture e gerarchie parallele nel 1948.

Un’altra coincidenza? Forse.

Certo, nella loggia P2 figuravano anche persone di second’ordine come Alighiero Noschese e Claudio Villa, ma nessuno ha mai detto che tutti gli iscritti a quella loggia fossero persone al corrente delle “segrete cose” o, addirittura, inserite nelle “gerarchie parallele”; più semplicemente, molte di esse erano entrate in una riservata loggia massonica che copriva un “raggruppamento” di uomini chiamati a rappresentare l’altra faccia del potere, quella invisibile ed occulta, non contrapposta a quella ufficiale, visibile e conosciuta, ma ad essa segretamente affiancata: parallela, appunto.

E nella storia recente troviamo l’esempio di un’altra accolita di massoni, civili e militari, guidati da un “colonnello” ed impegnati, anch’essi, a “salvare” l’Italia dal comunismo: l’Armata italiana della libertà (A. I. L.).

Come per gli “storici” e gli “esperti” la loggia P2 è un covo di eversione antidemocratica così, sempre per gli stessi, l’Armata italiana della libertà era una accolita di individui colorati, manco a dirlo, di nero: non seppia, ma fascista. Uno “storico” scrive, ad esempio che i fascisti “…aderenti ai gruppi clandestini armati erano ancora meno, spesso quattro o cinque in tutto: Armata italiana di liberazione…” (D. Barbieri, Agenda nera, Coines, Roma 1976, p.10). Sulla stessa linea si attesta, in un suo recente libro, un giornalista di Repubblica che, sulle iniziative “fasciste” dell’immediato dopoguerra, scrive: “Sorgono come funghi giornali anticomunisti e antibolscevichi: ‘Rivolta ideale’, ‘Manifesto’, ‘Rosso e nero’, ‘Fasci di azione rivoluzionaria’, ‘Armata italiana di liberazione’, ‘Fronte antibolscevico italiano’” (G. Corbi, L’avventurosa nascita della Repubblica, Rizzoli, Milano 1989, p.23).

Peccato per gli “storici” alla Gianni Corbi che, ancora nel 1976, due giornalisti, anch’essi antifascisti, hanno pubblicato un libro nel quale dedicano qualche pagina alla “Armata italiana della libertà”, riproducendo alcuni documenti di fonte americana. Scrivono i due: “Tra le organizzazioni attive a livello nazionale, i servizi strategici attribuiscono notevole importanza all’AIL (Armata italiana della libertà) diretta dal colonnello Musco: ‘Il tenente colonnello Musco ha avvicinato sia l’attaché militare che la sezione politica dell’ambasciata per cercare l’appoggio morale e finanziario degli Stati uniti. Gli è stato risposto, naturalmente, che la politica del governo americano non consente aiuti o appoggi ai movimenti politici all’estero. Tuttavia è stato utile ottenere il massimo di informazioni possibili sul movimento da lui rappresentato’. La risposta che viene data al colonnello Musco – continuano i due giornalisti – è in contrasto ‘con la politica del governo americano’ che, lo abbiamo visto e lo vedremo anche oltre, è invece notevolmente impegnata ad aiutare e finanziare non pochi gruppi e partiti politici ‘all’estero’. Il documento dell’ambasciata rispecchia solo la risposta ‘ufficiale’ data al colonnello Musco, visto che i funzionari non possono ignorare che proprio i servizi strategici del loro governo hanno sostenuto e finanziato la nascita dell’Armata italiana della libertà. ‘Il colonnello Musco’, dice un documento dei servizi strategici, è ‘solo il titolare. Ma il vero capo è il generale Sorice, ministro della Guerra nel primo gabinetto Badoglio. Anche il maresciallo d’Italia Giovanni Messe è in contatto con il gruppo’. Il colonnello Musco che conosce bene – concludono i due giornalisti – i rapporti che lo legano agli americani deposita presso l’ambasciata un promemoria riservato contenente l’elenco dei dirigenti del nuovo gruppo” (R. Faenza-M. Fini, Gli americani in Italia cit., p.264-265).

A scorrere l’elenco dei dirigenti dell’A. I. L. si nota subito la massiccia presenza di alti gradi militari italiani, appartenenti alle tre Armi ed ai Carabinieri, e di civili di elevata posizione sociale. Ad esempio, vi compaiono i nomi del generale Gustavo Reisoli Mathieu e dell’ammiraglio Alberto Da Zara. Il primo era stato capo ufficio stampa del Governo del sud (A. Viviani, I servizi segreti italiani, Adnkronos, Roma 1986, p.71) ed autore di un libro significativamente intitolato “Fuoko su Adolfo, fuoko su Benito” (G. Mastrobuono, Le forze armate nella Resistenza e nella guerra di liberazione, Roma 1965, p.9); il secondo aveva guidato la parte più consistente della nostra flotta da guerra a Malta l’8 settembre 1943, attirandosi per tale ragione, fra gli altri epiteti, anche quello di “mezzo ebreo” (G. Mayda, Ebrei sotto Salò, Feltrinelli, Milano 1978, p.12) riservatogli da Mussolini in persona in un discorso in Germania alle truppe repubblicane in addestramento.

Ma non interessa qui dimostrare l’antifascismo – scontato – dei dirigenti dell’A. I. L. quanto le affinità fra questa organizzazione e il “raggruppamento Gelli” e la loggia P2; a cominciare dalla necessità per il suo capo di depositare l’elenco degli appartenenti al Comitato centrale presso l’ambasciata americana, in via riservata ovviamente, così come riservatamente gli elenchi degli appartenenti alla Loggia propaganda due sono stati, a suo tempo, depositati presso il Pentagono secondo quanto ha testimoniato uno dei suoi aderenti (A. Cecchi, Storia della P2, Editori riuniti, Roma 1975, p.207).

Non è l’unica coincidenza perché, a ben vedere, ve n’è un’altra altrettanto significativa: quella di un’accolita di massoni, militari e civili, i primi quasi tutti ufficiali generali, tutti agli ordini di un semplice tenente colonnello che neanche risulta, a differenza del “colonnello Gelli”, gratificato del titolo massonico di “maestro venerabile”.

Chi era dunque questo misterioso ed oscuro tenente colonnello che con tanta disinvoltura dirigeva un’organizzazione ramificata sull’intero territorio nazionale, impartiva ordini ad ammiragli e generali, intratteneva rapporti riservati con gli americani?

Un prezioso elemento di identificazione ce lo forniscono, loro malgrado, proprio le note dei servizi strategici americani là dove accostano il suo nome a quelli di Sorice e Messe. Un riferimento, questo, che ci porta, diritti e senza esitazioni, agli avvenimenti tragici e misteriosi dell’8 settembre 1943.

Crediamo di poter affermare, senza eccessive incertezze, che il colonnello Musco dell’A. I. L. si identifichi con il colonnello Ettore Musco, sul quale alcuni cenni biografici ci dicono che era capo di Stato maggiore, con il grado di tenente colonnello, della divisione “Re” alla data dell’armistizio; che ricoprì un ruolo di primo piano negli avvenimenti connessi all’armistizio e alla “mancata difesa di Roma”; che fece poi parte del “Centro X”, la struttura informativa militare che operò clandestinamente a Roma durante l’occupazione tedesca; che passò, quindi, a comandare il 21° Rgt. Fanteria “Cremona”. Rimane da segnalare che si distinse, guarda caso, nel tentativo di evitare l’arresto di Sorice ordinato dal Maresciallo d’Italia Messe, subito dopo l’occupazione angloamericana di Roma (R. Zangrandi, L’Italia tradita, Mursia, Milano 1961, p.262). Che i protagonisti di un episodio come quello sopra descritto si ritrovino tutti e tre insieme alla guida dell’Armata italiana della libertà, è poco credibile – se pur possibile – soprattutto perché, in realtà, il colonnello Ettore Musco non aveva necessità di fare da prestanome per Sorice e Messe. All’epoca dei fatti in esame il colonnello Musco era ai vertici dei servizi di sicurezza militari italiani, ancora sotto la tutela degli Alleati.

L’indicazione ci viene fornita, assieme ad altre di fondamentale importanza, da Ambrogio Viviani (P2) che così scrive in un suo libro: “…dal gennaio 1946 al settembre 1947″ (A. Viviani, Servizi segreti italiani, cit, p.236) il colonnello Musco ha diretto l’ufficio Informazioni dell’esercito italiano.

Successivamente, Musco viene promosso generale e lo ritroviamo alla guida dell’“ufficio Operazioni dello Stato maggiore dell’Esercito e responsabile del piano denominato “X” per la tutela dell’ordine pubblico in caso di azioni eversive” (C. Pizzinelli, Scelba, Longanesi, Milano 1982, p.78).

Siamo nel periodo a cavallo tra la fine del 1947 e i primi mesi del 1948, quelli in cui vengono create le “stay-behind-nets” dell’Opc e le “gerarchie parallele” di Mario Scelba; opera nel Paese, su scala nazionale, la Armata italiana della libertà e a capo dell’ufficio Operazioni dell’Esercito e responsabile del piano “X” si trova installato il generale Musco che è, contemporaneamente, titolare dell’A. I. L., mentre all’interno dell’ufficio Operazioni da lui diretto esiste un ufficio di informazioni che, però, non si identifica con quello ufficiale; insomma, un ufficio “parallelo”.

Esiste un incrociarsi di organismi ufficiali ed ufficiosi, palesi e occulti i fili dei quali, a livello militare ed operativo, sono retti da un uomo solo: il generale Ettore Musco. Per comprendere meglio il ruolo di coordinatore affidato al generale Musco bisogna vedere cos’era, nella realtà, il piano “X”, e sul punto lasciamo ancora la parola a Fini e a Faenza.

“Il vero piano X – scrivono i due – si basava su un duplice intervento, da allora sempre negato dal governo americano e dai suoi partners italiani: 1) la fornitura di ingenti quantitativi di armi a De Gasperi; 2) l’assistenza, il finanziamento e l’armamento di movimenti anticomunisti legati a forze reazionarie, spesso addirittura neofasciste, affinché promuovessero quelle azioni di sabotaggio, di guerriglia e di disturbo poi attribuite ai partiti del Fronte popolare (R. Faenza-M. Fini, Gli americani in Italia cit., p.256).

Insomma, un progetto mirante a “destabilizzare per stabilizzare” utilizzando uomini e gruppi che ufficialmente – come l’Armata italiana della libertà – non avevano alcun legame con organismi militari e politici ufficiali e che, in qualche caso, potevano apparire come “oppositori” della Democrazia cristiana di De Gasperi.

Nulla di nuovo e di diverso rispetto a quello che abbiamo vissuto noi a partire dagli anni Sessanta.

La carriera del generale Musco non poteva che concludersi, viste le attitudini e la specializzazione in materia di “destabilizzazione” (per “stabilizzare”) che ai vertici dei ricostituiti servizi militari italiani che dirigerà dall’ottobre del 1952 al dicembre 1955 quando passerà le consegne al generale Giovanni De Lorenzo, reduce anch’egli dalla esperienza nella resistenza e nel “Centro X”; depositario di tutti i segreti della Roma capitale durante l’”occupazione” tedesca. E nella veste di direttore del Sifar, il generale Musco parteciperà alla costituzione della società “Torre marina” creata per quei fini che abbiamo illustrato nel capitolo precedente.

Non si può concludere il discorso sulla Armata italiana della libertà senza fare riferimento ad una lettera di Frank Gigliotti, resa pubblica da Faenza e da Fini.

Su Frank Gigliotti tanti hanno scritto tanto, compresi i membri della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia P2, ma tutti hanno detto poco, quello che bastava a farci sapere che era un agente dell’Oss prima, della Cia dopo, che era massone e che, forse, Licio Gelli non ha fatto altro che proseguirne l’opera: sull’A. I. L. nemmeno una parola. Eppure, non mancavano gli elementi per concentrare la propria attenzione su questa organizzazione che sembra precorrere, in tutto e per tutto, l’”avventura” della P2: forse è proprio per questa ragione che tutti hanno taciuto.

Vediamo ora la lettera di Frank Gigliotti sul collegamento fra l’A. I. L. e gli americani: “È ancora – scrivono Faenza e Fini – l’agente scomodo Frank Gigliotti a rivelarlo – come per inciso – in una lettera al Sottosegretario di Stato nel settembre dello stesso anno (1947, nda). Egli scrive: ‘Tutti i gruppi liberali e sinceramente democratici italiani, anticomunisti quanto il nostro stesso governo, si sentono terribilmente scoraggiati e delusi. Sentono che li abbiamo dimenticati dopo averli messi in piedi, specie quando li abbiamo aiutati a costruire l’Armata italiana della libertà. E non possiamo lasciare che succeda questo perché, dovesse capitare un’altra guerra, e Dio voglia non capiti, allora finiremmo per guadagnarci in Italia la stessa reputazione che adesso abbiamo in Jugoslavia per aver permesso che Mihailovic venisse impiccato da Tito’” (R. Faenza-M. Fini, Gli americani in Italia cit., p.264 nota).

Abbiamo così visto due esempi di “gerarchie parallele”: il primo delinea una struttura “ufficiale” dello Stato, dipendente dal ministero degli Interni e che vede la creazione di una linea di comando “fantasma” che corre parallela a quella pubblica; il secondo, al pari della loggia P2, non impegna il governo italiano anzi può essere inteso come una organizzazione “privata” di tipo massonico che, all’occorrenza, avrebbe potuto essere facilmente “scaricata” dalle autorità ufficiali.

È quello che è accaduto con la loggia P2 che continua a restare un covo di eversione fascista e antidemocratica nonostante tutte le prove contrarie, così come l’A. I. L. rimane, ancora oggi, per gli “storici” del quanto-mi-paghi un negletto gruppo neofascista; silenzio totale ed assoluto poi sulle rivelazioni di Mario Scelba conosciute almeno da una quindicina di anni e ignorate da tutti coloro che “vogliono la verità”.

Ma lasciamo le considerazioni amare che tutto questo ci suggerisce alle conclusioni finali e, dopo aver visto come sono state organizzate le strutture di comando, vediamo da quali ambienti e in quali modi sono stati reclutati coloro che obbediscono.

Le formazioni paramilitari

Cos’era l’Italia del 1945? Oltre alla fame, alla miseria, alle distruzioni della guerra, alla frattura fra antifascisti e fascisti, alle lotte fra i partiti politici, la fine del conflitto portò alla constatazione che la pace era, al più, un intervallo breve, punteggiato da scontri, violenze e delitti, fra una guerra che finiva contro la Germania ed un’altra che cominciava contro l’Unione sovietica.

Ancora qualche anno di intensa propaganda e i “combattenti del mondo libero” avrebbero fatta loro la massima leninista della “pace quale continuazione della guerra con altri mezzi”; ma per qualche anno ancora, a partire dalla primavera del 1945, si parlò, si previde e ci si preparò ancora alla guerra guerreggiata, civile, interna, limitata o mondiale, nucleare o convenzionale che fosse, ma guerra.

Contro il nemico comunista attestato sulle frontiere nord-orientali del Paese e rappresentato all’interno dal Partito comunista, furono in tanti ad avvertire l’esigenza di continuare a mantenere le armi in pugno, non metaforicamente ma letteralmente.

Nacquero così le formazioni paramilitari.

Non furono i fascisti a crearle e ad organizzarle bensì i partigiani “bianchi”, monarchici e democristiani.

Inizialmente, il conflitto di competenze fra i servizi segreti italiani di tutte le armi, ancora subordinati agli angloamericani, quelle fra i servizi di sicurezza alleati, e tutti fra loro, rende impossibile la pianificazione e il coordinamento, ma non il controllo da parte dei vertici politici e militari, di tutte le iniziative tese ad armare cittadini anticomunisti.

Così alcune di esse, almeno quelle conosciute, partono dal basso, nascono in un contesto locale e ricevono in seguito l’appoggio e l’avallo dall’alto. È questo il caso del “Gruppo Brigate Venezia Giulia” che viene formato l’11 giugno 1946 da ex partigiani monarchici in contatto con ufficiali dei servizi segreti militari italiani (si legga in proposito quanto scrive “Giustina”, partigiana monarchica in “Frammenti del diario di una partigiana” nda).

Dopo qualche tempo, ritroviamo lo stesso gruppo ormai inserito nel 3° Corpo Volontari della libertà, a riprova di una avvenuta riorganizzazione dei gruppi paramilitari in Friuli-Venezia Giulia, avviati a fondersi in un unico organismo centralizzato.

Nello statuto del “Gruppo Brigate Venezia Giulia” si può leggere che intendeva rappresentare “…la riunione di uomini di pura fede italiana che intendono agire in difesa del territorio della Venezia Giulia che con il trattato di pace o con altri allegati dovrà essere posto sotto la sovranità dell’Italia su basi democratiche quale fattore indispensabile per il raggiungimento della fratellanza e della prosperità dei popoli” (AA. VV., Nazionalismo e neofascismo nella lotta politica al confine orientale 1945-1975, Ist. reg. mov. lib., Trieste, p.532).

Prima ancora del “Gruppo Brigate Venezia Giulia” era stata fondata a Gorizia, l’11 dicembre 1945, ad opera di una quindicina di ex partigiani, l’Associazione partigiani italiani (Api). Questa organizzazione è importante nella nostra ricostruzione perché costituisce il primo esempio di un gruppo dotato di una doppia struttura: ufficiale e politica da un lato, clandestina e militare dall’altro. Una formula questa che verrà adottata, negli anni Sessanta, da diverse organizzazioni di estrema destra e di estrema sinistra; per chiarire e spiegare le origini di queste strutture delle organizzazioni “terroristiche” si sono fatti molti esempi, mai però quelli giusti.

Uno dei fondatori dell’Api, Primo Cresta, ha scritto un libro interessante sulla storia di quel periodo nel quale conferma la doppia struttura dell’organizzazione scrivendo, fra l’altro, che egli era “contrario ad armare la formazione paramilitare clandestina dell’Api…stimando sufficiente l’organizzazione degli iscritti in reparti distribuiti secondo il quartiere di residenza ed affidati alla particolare cura del cap. Giovanni Barba” (P. Cresta, Un partigiano dell’Osoppo al confine orientale, Del Bianco, Udine 1969, p.139-140).

Infaticabile, Primo Cresta ci informa di essere stato anche tra i fondatori della “Divisione Gorizia” della quale così ricostruisce le origini: “Nell’estate del 1945 io e Bruno Cocianni, anch’egli un osovano di una formazione di pianura, prendemmo diretto contatto con “Verdi” (Candido Grassi), comandante generale dell’Osoppo, ed anche con la sezione degli alpini di Udine, il cui segretario ci fu di particolare aiuto. Potemmo così organizzare clandestinamente un gruppo di giovani che operando in città ebbe soprattutto il merito di rincuorare la cittadinanza sbandata e impaurita. Da principio riuscimmo a raggruppare una ventina di giovani che come i venti di “Bolla” formavano la testa di un corpo che andava via via prendendo coscienza della sua forza. Chiamammo “battaglia Gorizia” il nostro gruppo che poi divenne divisione “Gorizia” sotto il comando del ten. col. Luigi Corsini” (ivi, p.640-641).

Su questa formazione nata, come abbiamo visto, poche settimane dopo la conclusione del conflitto, alcuni studiosi friulani scrivono che “testimonianze di ex aderenti e di uomini politici allora attivi nella vita cittadina confermano essere stato il Cln a stabilire collegamenti con la formazione “Gorizia” ed a finanziarla, quale ultimo anello di una catena di interessi politici ed economici che dall’ufficio Zona di confine andava su fino al ministero dell’Aeronautica, secondo alcuni, o fino al ministero degli Interni secondo altri. Gli ambienti nazionalistici cittadini rilevano anch’essi che ‘l’attività della divisione Gorizia fu sempre più strettamente collegata con i servizi segreti delle Forze armate’, ma sottolineano anche la correlazione esistente tra organizzazione militare e ‘compiti di controspionaggio’. Che essa fosse legata direttamente con le Forze armate risulta soprattutto dal consenso e dall’appoggio ottenuto da qualche autorità militare (probabilmente a Udine) per la detenzione delle armi che l’organizzazione usava per le proprie azioni e dal fatto che il comando della divisione venne assunto da Luigi Corsini, colonnello dell’arma Aeronautica mentre il vicecomandante era il ten. Luigi Stanta” (AA.VV., Nazionalismo e neofascismo ecc. cit., p.640-641).

Vi è da sottolineare che l’attività di queste formazioni paramilitari era diretta e coordinata non dai vertici dei servizi segreti ufficiali ma da quelli dei servizi “paralleli”, come si suol dire, operanti all’interno delle strutture ufficiali.

Un riscontro su questo punto ce lo fornisce, suo malgrado, il piduista pannelliano Ambrogio Viviani che, con lo stile che gli è congeniale, in un suo libro ricco di insinuazioni e di messaggi cifrati, ci informa che “nell’ambito dello Stato maggiore dell’Esercito, nell’ufficio Operazioni risulta nel 1947 una sezione Informazioni non identificabile con l’ufficio Informazioni. Nell’Aeronautica, nello stesso anno 1947, vi era una sezione Informazioni inquadrata nel 1° Reparto, non identificabile con il Sia” (A. Viviani, Servizi segreti italiani cit., p.114).

È superfluo ipotizzare che il tenente colonnello Luigi Corsini, responsabile militare della divisione “Gorizia” doveva trovarsi alle dipendenze di questa sezione Informazioni dell’Arma azzurra, scissa ufficialmente da quella ufficiale, così da permettere agli alti gradi militari ed al governo, in caso di complicazioni, di poterne sconfessare l’operato e di poter raccontare le favole degli “ufficiali infedeli” e dei “servizi deviati”.

Dalla struttura parallela dell’Esercito dipendevano altre formazioni simili alla divisione “Gorizia”; e una di queste era certamente quella denominata “Fratelli d’Italia”. Quest’ultima era stata provvista di armi da autorità che “si identificano negli esponenti delle disciolte formazioni partigiane della divisione ‘Osoppo Friuli’ i quali con l’acquiescenza dei comandi alleati avevano provveduto – scrive in un suo rapporto il Questore di Udine dell’epoca – alla organizzazione dell’associazione ‘Fratelli d’Italia’…nonché alla creazione in seno ad essa di squadre armate con il compito precipuo di impedire o perlomeno di ostacolare le continue infiltrazioni in questa provincia di emissioni e di armati slavi” (AA.VV., Nazionalismo e neofascismo ecc. cit., p.523-525).

Non sfugge alla lettura dei fatti citati l’onnipresenza, nella creazione di queste formazioni paramilitari, di esponenti di primo piano della brigata partigiana “Osoppo” che, infine, dopo averne promosso la nascita provvederà a riunirle in un’unica formazione: il Terzo Corpo Volontari della libertà, creato nella primavera del 1946.

Quali fossero gli obiettivi del 3° Cvl e i metodi che impiegò per conseguirli li ricaviamo dalla lettura di alcuni documenti interni dell’organizzazione: ”…’la difesa del nostro suolo da eventuali offese esterne ed interne; tenere accesa la fiaccola dell’italianità tra le nostre popolazioni’. Ma le linee di azione reali del Terzo Corpo emergono con chiarezza da ‘un modulo per il rapporto di zona’ che doveva essere compilato dai ‘capizona’. Dovevano essere fornite informazioni sul ‘grado di efficienza della zona’, sull’‘aspetto generale della zona dal punto di vista politico-sociale’, sull’ ‘organizzazione avversaria’, sui ‘collegamenti e mezzi’, sugli ‘appigli tattici rilevanti’. Sotto la voce ‘emergenza’ venivano fornite direttive significative: ‘Predisporre l’eliminazione di un certo numero di elementi avversari nel caso di attentato a uno dei nostri. Predisporre e segnalare modalità reazione immediata’. Ancora più significative risultano d’altra parte le ‘modalità d’azione attuale’: ‘estendere e perfezionare l’efficienza del servizio informazioni basandosi sia su elementi nostri sia sul doppio gioco; evitare assolutamente qualsiasi azione che ci ponga dal lato dell’illegalità; approfittare dei vantaggi che ci derivano dal metodo d’azione illegale dell’avversario, sia con controreazioni, purché si ritenga che queste non provochino incidenti di troppo vasta portata. Ricorrere all’eliminazione di elementi avversari solamente se essi sono fuori sede in modo che la cosa rimanga mascherata e si abbia la sicurezza di non creare incidenti” (AA.VV., Nazionalismo e neofascismo ecc. cit., p.531-532).

Questo era il “Terzo Corpo Volontari della libertà”, braccio armato della Democrazia cristiana in Friuli; e questa la pacificazione degli animi che De Gasperi, oggi in procinto di essere elevato alla gloria degli altari, perseguiva.

Unica fra tutte le formazioni paramilitari, il 3°Cvl partecipa nel settembre del 1947 ad esercitazioni militari a fianco delle forze armate regolari italiane per poi scomparire nel silenzio; ma non nel nulla perché alla fine del 1948, data ultima nella quale compare qualche notizia del 3° Cvl, le “strutture parallele” dell’Alleanza atlantica saranno da tempo predisposte ed operative.

Meno conosciuto è il “Movimento tricolore” annoverato, manco a dirlo, fra i gruppi “fascisti” di cui in un rapporto di James Angleton si parla come di un “movimento che gode di simpatie negli ambienti militari in particolare al Nord ‘con il maggiore Toni Usmani e il dottor Aloi’” (R. Faenza-M. Fini, Gli americani in Italia cit., p. 169).

L’astuto Angleton ‘dimentica’ di dire che il maggiore ‘Toni Usmani’ si deve con certezza identificare nel maggiore Antonio Usmiani, ufficiale in s. p. e. dell’Esercito italiano e tutt’altro che fascista; e conosciutissimo dai servizi di sicurezza americani. Difatti, si tratta dello stesso ufficiale che durante la resistenza aveva diretto la rete informativa “U. 16″ e che, arrestato dai tedeschi, era stato liberato insieme a Ferruccio Parri, su richiesta del dirigente dell’Oss Allen Dulles.

L’ultimo gruppo che qui citiamo è quello del “Movimento di resistenza partigiana”, fondato nell’autunno del 1946 da Carlo Andreoni. Anche questa formazione, composta come le precedenti esclusivamente da ex partigiani, si dedicava ad attività militari sotto lo schermo di quelle politiche. Era diretta dall’Arma dei carabinieri che con tutta sicurezza poteva scrivere in un rapporto che era “associazione assolutamente legalitaria e pacifica (A. Sannino, Le forze di polizia nel secondo dopoguerra, p. 448-449) pur avendo indicato, qualche rigo prima, il “comandante militare” della formazione! E come gli altri, anche questo gruppo scomparirà nelle nebbie dell’ignoto mentre il suo capo diverrà deputato socialdemocratico.

Come si può vedere da questa breve panoramica, i gruppi paramilitari nel dopoguerra non furono pochi, non ebbero alcuna ispirazione “fascista”, agirono in un lasso di tempo che va dal 1945 al 1947 – con la sola eccezione del 3° Cvl – e scomparvero senza lasciare tracce nella memoria degli “storici” italiani e nella storia contemporanea di questo Paese pur avendo contribuito a scriverne le pagine più oscure.

Non uno di questi gruppi fu indipendente dal controllo politico-militare del governo italiano e degli organismi alleati, come del resto era logico che fosse trattandosi di iniziative prese per rafforzare le difese esterne ed interne della nazione “minacciata” dal comunismo.

Tutti questi gruppi nacquero per iniziativa di uomini che avevano partecipato alla resistenza e, dopo la loro dissoluzione coincidente con la stabilizzazione delle “strutture parallele” molti di coloro che ne avevano fatto parte vennero inglobati in esse costituendone i quadri e la manovalanza fanatica, decisa e priva di scrupoli.

A differenza dei partigiani, ai reduci della Repubblica sociale italiana, che non si può generalizzare accomunandoli tutti nella definizione di “fascisti”, nessuno offrì la possibilità di creare gruppi paramilitari, come del resto era logico e conseguente all’esito del conflitto appena conclusosi. Ma, certamente, molti fra coloro scelti fra quelli che non avevano aderito alla R. S. I. per ragioni ideologiche, vennero inseriti con un processo graduale nelle strutture difensive occulte del Paese dopo una selezione accurata, uomo per uomo.

L’esempio e le motivazioni di questa politica favorevole all’utilizzazione di una parte dei reduci “repubblichini” in funzione anticomunista ci vengono forniti dai documenti alleati riguardanti la “Decima Mas”, la meno politicizzata delle formazioni militari della Repubblica di Salò. Un ex ufficiale della Decima ricorda in un suo libro di memorie quello che scrisse sul suo reparto un alto ufficiale alleato. “Così si espresse – scrive – il contramm. B. Inglis, capo del servizio Informazioni della Marina degli Usa (sul bollettino riservato agli ufficiali della U.S. Navy Security of the O. N. I. Rewiew, gennaio 1946) …’. Quello che è certo è che essi non furono favorevoli agli alleati; ma sarebbe scorretto affermare che essi furono delle formazioni più favorevoli ai tedeschi e più filofasciste delle forze armate italiane. La maggior parte di essi sentì che l’armistizio era stato un vergognoso tradimento e al suo alleato da parte del re e di Badoglio e decisero di ‘redimere l’onore d’Italia’. I loro sentimenti possono quindi essere benissimo classificati come italiani” (S. Nesi, Decima flottiglia nostra, Mursia, Milano 1986, p.311).

Il contrammiraglio Inglis sapeva quello che faceva quando, riservatamente, informava i suoi subalterni che i marò della Decima Mas non dovevano essere considerati fascisti ma solo italiani. L’alto ufficiale, infatti, era a conoscenza che mentre erano in pieno svolgimento i massacri delle “radiose giornate di maggio”, già a ridosso del 25 aprile 1945, uomini della Decima Mas avevano firmato l’impegno scritto di riprendere le armi a fianco degli alleati nel caso di conflitto fra costoro e l’Unione sovietica. Il primo ed unico, fino ad oggi, ad ammettere l’esistenza di questo patto fra ex-nemici, siglato qualche ora dopo che era cessato lo scontro armato, è stato il tenente di vascello Sergio Nesi.

Quanto tempo dovremo attendere ancora per conoscere i nomi degli altri firmatari di un impegno che li vincolava non solo sul piano di una guerra guerreggiata contro l’Unione sovietica, ma anche su quella della guerra politica interna contro la “quinta colonna” comunista in Italia?

Fino ad oggi noi abbiamo visto e vissuto le conseguenze di questa alleanza fra la divisione di fanteria di marina “Decima”, rappresentata dal principe Junio Valerio Borghese e gli Alleati e i democristiani ad essi subalterni nell’amministrazione di un’Italia che anche gli “italiani” della “Decima Flottiglia” hanno contribuito a rendere terra insanguinata da una guerra che si poteva evitare.

Dopo i partigiani “bianchi” da un lato, e i “marò” della “Decima Mas” dall’altro, uniti nel tentativo di salvare l’Italia da un comunismo che non ha mai pensato di minacciarla, vedremo ora di chiarire il ruolo di un altro Corpo militare che, per storia e prestigio, rappresenta meglio di altri la lealtà e la dedizione allo Stato e alla Nazione.

Lo faremo volgendoci al passato, a quel dopoguerra nel quale è maturata ed è stata tracciata nelle sue linee generali quello che è stata definita la “strategia della tensione”. Lo faremo non ripercorrendo la storia dei Carabinieri dal 1945 ad oggi, che sarebbe impossibile scrivere sintetizzandola in poche pagine, ma offrendo all’attenzione di chi ci legge un’analisi dell’episodio più controverso di questa storia, il più emblematico, quello che ancora consente a molti di dubitare della lealtà verso lo Stato dell’Arma “fedelissima”: il “Piano Solo”.

Polizia di insicurezza

È inutile riepilogare quanto è stato scritto sul ruolo dei carabinieri nella “strategia della tensione”, di volta in volta attribuita alle vocazioni “golpiste” del Comando generale o alle velleità nostalgiche di singoli ufficiali, coinvolti con impressionante puntualità e continuità in “depistaggi” di ogni ordine e genere. La ricerca esasperata dell’”infedeltà” dei carabinieri appunta sempre sul cosiddetto “Piano Solo” predisposto dai comandi dell’Arma nell’estate del 1964.

È nel parlare di questo episodio che le analisi degli esperti (si fa per dire) di terrorismo, sul ruolo dei carabinieri negli “anni di piombo” raggiunge livelli di comicità che non fa ridere perché inseriscono in una tragedia, ancora tutta da conoscere, delle note stonate che, però, riescono egualmente a trovare spazio e credibilità in una massa amorfa, ormai abituata ad accettare tutto ciò che le viene propinato dalle cosiddette autorità politiche e giudiziarie.

Costoro affermano con perentorietà (basti leggere quanto scrive nella sentenza istruttoria del processo di Peteano del 4 agosto del 1986 l’”esperto” giudice istruttore Felice Casson) che in quell’estate i carabinieri comandati dal generale Giovanni De Lorenzo, medaglia d’oro della resistenza, volevano fare un “colpo di Stato fascista”.

L’idea che la “polizia di sicurezza atlantica”, asse portante della Nato in Italia, si attivasse per fare un “golpe fascista” non appare a costoro peregrina, nonostante le indicazioni in contrario della Commissione parlamentare d’inchiesta che nelle sue relazioni di maggioranza e di minoranza esclude – con diverse motivazioni – una volontà “golpista” da parte del generale Giovanni De Lorenzo e dei carabinieri, anche alla luce di quanto sui piani di intervento dell’Arma è stato reso noto.

Poco “democraticamente”, dicono costoro, i carabinieri volevano agire da “soli”, senza cioè il concorso delle altre forze armate e di polizia; peggio, volevano occupare le prefetture e le questure, prova questa inconfutabile della volontà golpista che li animava. Fortuna per la democrazia che gli esperti alla Felice Casson hanno capito tutto. Tutto? Forse, non proprio tutto, forse hanno capito poco, tanto poco che si può dire che – poveretti – non hanno capito niente. Vediamo perché.

Torniamo indietro nel tempo, al 1945-1947, quando i carabinieri, asciugatesi le lacrime per l’ingloriosa fine di casa Savoia, si buttarono nella mischia per difendere le istituzioni repubblicane minacciate dal comunismo. Forti del fatto di essere la “prima Arma combattente” dell’Esercito, della loro disciplina, della loro coesione, dell’essere insomma l’”Arma fedele”, i carabinieri non si fidavano della Pubblica Sicurezza, infiltrata da comunisti, fannulloni, corrotti, indisciplinati e disobbedienti.

Per difendere l’Italia dall’attacco “sovversivo”, i militi della “Benemerita” contavano solo su sé stessi ed eventualmente su civili debitamente selezionati, da loro armati ed inquadrati in gruppi posti agli ordini di ufficiali e sottufficiali dell’Arma. Come ogni corpo militare che si rispetti, anche l’Arma dei carabinieri pianifica – allora come oggi – i suoi interventi, predispone dopo un doveroso studio dei piani che vengono aggiornati con il passare degli anni ed il modificarsi delle situazioni. Evidentemente, il giudizio dei carabinieri e dei politici democristiani esperti in ordine pubblico e con responsabilità di governo sulle forze della Pubblica Sicurezza, nel 1964, non si era modificato di molto rispetto a quello che ne avevano nel 1945-46.

Difatti, il “Piano Solo” somiglia in maniera impressionante ad un altro piano, sempre preparato dai carabinieri, negli anni dell’immediato dopoguerra e che è, da allora, conosciuto da tutti gli addetti ai lavori e dai vertici politici, militari e di polizia, ma non dagli “esperti” come Casson benché sia di dominio pubblico.

A parlarne è Sannino in un suo studio sulle forze di polizia nel dopoguerra, e a lui lasciamo la parola: “Tra i documenti dell’Archivio centrale dello Stato – scrive Sannino – vi è una minuta non firmata né datata, presumibilmente di Ferrari, dove si avverte il ministro degli Interni Romita dell’esistenza di un piano generale predisposto dal Comando generale dell’Arma d’intesa con lo Stato maggiore dell’Esercito. Tale piano, da attuare ‘in previsione di un possibile stato di emergenza e di guerra, è a conoscenza di tutti i Comandi gruppo dell’Arma ed è stato discusso a livello di Legioni, in riunioni effettuare presso il Comando generale dell’Arma. In esso si prevede: a) l’occupazione del Viminale, della prefettura e della questura di Roma ed il passaggio di tutti gli agenti e gli automezzi alle dipendenze del Comando generale dell’Arma; b) per le province, l’occupazione delle prefetture e delle questure e il passaggio di uomini e mezzi a disposizione del Comando locale dell’Arma; c) l’abbandono delle piccole stazioni dell’Arma e la riunione in nuclei di 100 uomini; d) la occupazione degli edifici pubblici specie per le tele-radio comunicazioni; e) la successiva rioccupazione delle stazioni’. Allegate a questa minuta – continua Sannino – vi sono due lettere a firma di Brunetto Brunetti, una del 17 novembre 1945 indirizzata a Ferruccio Parri, una del 7 maggio 46 indirizzata a Romita. Nella seconda lettera si spiega che dopo i ‘gravi moti insurrezionali nel dicembre 1944 nella provincia di Catania e nel gennaio 45 in quella di Ragusa, durante i quali interi reparti delle varie Armi e dei Carabinieri furono sopraffatti dai rivoltosi che occuparono pure numerose caserme, ordinai la revisione dei progetti di difesa dei Comandi dell’Arma in tutta Italia e di ripiegamento dei militari in caso di grave turbamento dell’ordine pubblico…I progetti …furono concertati dai comandi dell’Arma interessati, di intesa con le autorità politiche di pubblica sicurezza e militari. Nell’aprile u.s. ebbi occasione di informare di quanto sopra il sig. ministro Romita ed alla sua richiesta di avere in visione i progetti, mi affrettai a sollecitarne l’invio alla 1° divisione (Milano) e alla 2° divisione (Roma) che non li avevano ancora fatti pervenire al Comando generale’. Nella lettera a Parri si fa cenno a ‘progetti di difesa dei Comandi dell’Arma in tutta Italia’, in caso di ‘rivolta parziale o totale’. Il ‘piano’ dunque esisteva, secondo Brunetti, per la difesa dei comandi dell’Arma; nessun chiarimento viene fornito nei documenti da noi esaminati circa la occupazione di uffici ed edifici pubblici” (A. Sannino, Le forze di polizia ecc. cit., p.443-444).

Fin qui Sannino.

Certo si potrebbe ipotizzare che il piano preparato dall’Arma dei carabinieri occultasse la segreta volontà di un colpo di mano a favore della monarchia ma le parole di encomio che il socialista Giuseppe Romita, all’epoca ministro degli Interni e – come abbiamo visto – a conoscenza del piano stesso, riserva nelle sue memorie al generale Brunetti – della cui lealtà da atto – sono, da sole, sufficienti a fugare ogni dubbio sugli scopi di un piano preparato in sintonia con lo Stato maggiore dell’Esercito e “con le autorità politiche di pubblica sicurezza” che non erano certo di fede monarchica.

Indubbiamente nel 1964 non erano più i tempi in cui “con sorpresa si scopriva che, ad esempio, a Modena su centoventidue agenti di pubblica sicurezza in forza nella città ben centoventi avevano in tasca la tessera con la falce e martello” (C. Pizzinelli, Scelba cit., p.69), come racconta Scelba ad un suo biografo; ma solo l’Arma dei carabinieri era ritenuta politicamente affidabile secondo i parametri Nato.

Da qui la necessità di riprendere il vecchio piano, sicuramente aggiornato, e di agire di concerto con le autorità politiche contando esclusivamente su forze militari in grado di assumere il controllo di quelle “civili”, eliminando il ministero degli Interni ed il suo apparato per realizzare un’unità di comando che è premessa indispensabile per il successo di una iniziativa che, una volta avviata, conta per la sua riuscita sulla esecuzione rapida e sicura, la disciplina e la coesione dei reparti, la chiarezza delle competenze ed il rispetto assoluto degli ordini.

Per queste ragioni i carabinieri programmarono l’occupazione “manu militari” delle prefetture e delle questure destinate ad essere irreggimentate agli ordini delle autorità militari che dell’apparato “civile” di sicurezza non si fidavano: nel 1964 come nel 1945.

E la conferma che i Carabinieri e l’Esercito non si fidavano della Pubblica Sicurezza fu data dall’esclusione dei reparti “celeri” dalle esercitazioni per il controllo del territorio in funzione del mantenimento dell’ordine pubblico, nel 1965, denominate “Vedetta apula” e riservate ai soli militari. Un’emarginazione, questa, dei poliziotti dalle manovre di addestramento alla guerriglia che, come ha notato Enea Cerquetti, era già iniziata “dopo il 1960″ (E. Cerquetti, Le forze armate italiane dal 1945 al 1975, Feltrinelli, Milano 1975, pp. 225-226), e che segnava la fine del predominio del ministero degli Interni in materia di “ordine pubblico” (ordine politico) e l’ingresso in scena dell’Arma dei carabinieri che per tutti gli anni cinquanta era stata vista con diffidenza da parte delle autorità politiche non dimentiche delle simpatie per la monarchia che erano ancora vivissime all’interno dell’Arma.

E l’Arma dei carabinieri, “polizia di sicurezza atlantica”, si assunse l’onere e l’onore di assumere il peso della “guerra politica” che doveva salvare l’Italia da uno scivolamento a sinistra che avrebbe sguarnito il fianco sud della Nato e avrebbe avuto ripercussioni pesantissime in tutta l’area del Mediterraneo.

La fecero, i carabinieri, questa guerra secondo i dettami di una strategia che doveva seminare disordine ed insicurezza per ottenere la difesa dell’ordine politico e militare vigenti, pagando il prezzo di una cinquantina di morti nell’arco di venti anni di “terrorismo”.

Quei morti dietro i quali si fanno schermo coloro che vogliono negare la partecipazione dell’Arma “fedelissima” alla strategia destabilizzante di quel tempo dimenticando, convenientemente ed opportunamente, che più numerosi dei morti sono gli ufficiali ed i sottufficiali dei carabinieri vivi ed inquisiti nei processi per “strage” ed altro.

Una realtà questa sulla quale ritorneremo, ricordando ora che i morti appartengono nella quasi totalità all’Arma territoriale, caduti nella difesa di un Potere che li ha traditi da vivi e continua a tradirli da morti negando quella verità che spetterebbe ai vivi ed ai morti dell’una e dell’altra parte, quasi tutti vittime di una guerra che non ci riguardava come italiani.

Il segreto della guerra perduta

Sono trascorsi cinquant’anni da quando l’Italia entrò in guerra, a fianco della Germania Nazionalsocialista, contro le democrazie anglosassoni, e ancora non sappiamo quali furono le motivazioni reali che indussero Vittorio Emanuele III e Benito Mussolini a compiere un passo così gravido di funeste conseguenze per il destino del Paese e loro personale.

Fin dagli inizi, sulla “guerra del sangue contro l’oro” aleggiò l’ombra del tradimento che parve spiegare i misteri di battaglie perdute, di navi puntualmente affondate, di offensive mancate e di ritirate frettolose.

Esistono solidi indizi per sospettare di tradimento alti ufficiali delle Forze Armate italiane: dalla battaglia della Marmarica alla caduta dell’Impero, dalla sistematica intercettazione da parte britannica dei nostri convogli marittimi alla resa dell’isola di Pantelleria, dall’abbandono ingiustificato della Piazzaforte di Augusta fino all’armistizio dell’8 settembre 1943, la convivenza con il nemico da parte dei “traditori” annidati ovunque sembra giustificare, placando le coscienze, le motivazioni di una sconfitta che potevamo evitare (vedasi le opere di A. Trizzino: Gli amici dei nemici, Longanesi, Milano, 1959, Settembre nero, Longanesi, Milano, 1963, Navi e poltrone, Longanesi, Milano).

Ma esiste anche il sospetto, adombrato con ogni cautela (Franco Bandini, Vita e morte di Mussolini, Mondadori, Milano, 1979), che nella realtà il re e il Duce si lasciarono irretire da un raffinatissimo gioco da parte britannica.

Vale a dire che l’Italia entrò in guerra a fianco della Germania previo accordo con l’Inghilterra che sul tavolo di una pace, ritenuta imminente dopo la caduta della Francia, avrebbe potuto così contare sulla “moderazione” e la “ragionevolezza” dell’Italia fascista da contrapporre alla durezza ed alla rapacità germaniche.

Un’Italia “alleata” avrebbe avuto ascolto o credito presso la Cancelleria di Berlino, un’Italia neutrale avrebbe dovuto attendere rassegnata ed impotente la resa dei conti con la Germania che non aveva dimenticato il voltafaccia del 1914.

Un’Italia, questa del 1940, che entrava in guerra a fianco di un alleato che vedeva come il prossimo nemico e contro il quale, anche nel corso della guerra, avrebbe continuato a tutelarsi proseguendo, ed è solo un esempio fra molti, nella costruzione di fortificazioni in Alto Adige interrotta solo nel 1941 a seguito di una energica protesta tedesca.

Quale che sia la verità, rimane indubitabile il fatto che l’entrata in guerra dell’Italia provocò una estensione del conflitto in terra ed in mare che avvantaggiò l’Inghilterra ed obbligò i tedeschi a disperdere pericolosamente le loro forze.

La Storia permette la formulazione di ipotesi ma si scrive solo con le certezze, e di certo nella ricostruzione dei rapporti fra Italia e Gran Bretagna in quel periodo esiste solo un collegamento fra i protagonisti di quegli avvenimenti: Mussolini e Churchill.

I due uomini di governo non interruppero i loro rapporti neppure durante il corso della guerra ed attorno al “carteggio Mussolini-Churchill” sono fiorite voci, leggende, tombe e fortune (A. Petacco, Dear Benito, Caro Winston, Mondadori, Milano, 1985) senza, però, che si sia fino ad oggi saputo cosa in realtà i due uomini si siano detti ed abbiano concordato.

Un’altra certezza è che i governi italiani del dopoguerra hanno fatto il possibile e l’impossibile perché venisse recuperato integralmente il carteggio e perché nulla si conoscesse del suo contenuto.

Ma ogni muro, anche il più solido, ha le sue brecce; ed è sufficiente volgere lo sguardo in direzione dei Balcani, durante la guerra, per trovare una traccia di un possibile accordo fra italiani e britannici in funzione antitedesca e anticomunista.

È quello jugoslavo uno dei teatri di guerra di cui si parla molto poco. La ragione del disinteresse degli storici italiani può anche risiedere nel fatto che ben poco di eroico potrebbero raccontare sulle imprese dell’Esercito italiano in quel territorio: guerriglia, rastrellamenti, villaggi incendiati, massacri, campi di concentramento disumani furono i tratti distintivi della nostra occupazione in Jugoslavia, si comprende, allora, perché queste imprese di “ordinario” terrore non stimolino l’interesse degli storici.

Ma c’è altro che, forse, concorre ad inibire la ricerca storica; c’è un’ambiguità di fondo nei comportamenti italiani che ci accompagna dal momento in cui invademmo la Jugoslavia fino all’8 settembre 1943.

La nostra politica nei Balcani venne sempre dettata e seguita personalmente da Mussolini ed in Jugoslavia conducemmo un doppio gioco la cui responsabilità non può, almeno per una volta, essere attribuita a qualche “traditore”.

Quali furono quindi le scelte del Duce su quel fronte? Furono quelle di combattere ufficialmente a fianco dei tedeschi e degli ustascia, nostri “alleati”, contro tutte le forze partigiane slave e, segretamente, di sostenere lo sforzo militare dei cetnici di Mihailovic contro i tedeschi, gli ustascia e i “titini”.

Un’azione, quella italiana, perfettamente coincidente con quella britannica che, fino alla primavera del 1943, sostenne i cetnici ed ignorò i partigiani comunisti di Tito (B. Davidson, Scene della guerra antifascista, Rizzoli, Milano, 1981; F.W. Deakin, La montagna più alta, Club degli editori, Milano, 1972).

Dopo il voltafaccia britannico, Mihailovic venne appoggiato, come abbiamo visto in precedenza, dagli americani dell’OSS.

Pochi uomini da parte italiana potevano consapevolmente partecipare a questo rischioso doppio gioco che, per ovvie ragioni, poteva essere noto a persone che per addestramento e mansioni potevano provenire dai servizi di sicurezza militari e diplomatici o essere alle dirette dipendenze della Presidenza del Consiglio.

In Italia per giustificare fortune o carriere difficilmente spiegabili, si scomodano segreti come quello dell’“oro jugoslavo” o dell’“oro di Dongo” senza, viceversa, accettare una verità più semplice e pericolosa nello stesso tempo: che certe persone detengono segreti politici che nonostante i decenni trascorsi conservano integra la loro valenza distruttiva per uomini, governi e nazioni.

Ebbene, in Jugoslavia, al tempo della guerra e degli inganni, noi troviamo tre uomini che hanno ricoperto un ruolo oscuro in tutte le vicende del dopoguerra.

Il primo era già all’apice della sua carriera, gli altri due invece possono aver gettato là, in Jugoslavia, le basi delle loro fortune personali:

– Giuseppe Piéche

– Umberto Ortolani

– Licio Gelli.

Il primo, Giuseppe Piéche, generale dei carabinieri, uomo di fiducia di Mussolini, è stato citato dagli “storici” per essere stato chiamato, nel 1948, dal ministro degli Interni Mario Scelba alla direzione generale della Protezione civile e dei servizi Antincendi del ministero (G. De Lutiis, Storia dei servizi segreti in Italia, op. cit., pp. 132-133), che fungeva da schermo, tanto per cambiare, alle attività occulte dei servizi di sicurezza.

Del tutto ignorato è, invece, il fatto che il generale Piéche era durante la guerra “incaricato dal ministero degli Affari Esteri del collegamento fra le varie legazioni e ambasciate nei Balcani (G. Mayda, Ebrei sotto Salò, op. cit. p.21)”.

Un incarico, questo, sul cui rilievo per la conduzione di una guerra segreta è inutile soffermarsi, tanto più che l’uomo era esperto in materia.

Il secondo individuo che troviamo nei Balcani è Umberto Ortolani, il quale, per fatalità del destino, serve la patria in armi non in reparti combattenti (per carità) ma come ufficiale del SIM, il Servizio Informazioni Militari. Vale a dire che anche costui, in Jugoslavia, è attivo nel campo dello spionaggio e del controspionaggio, terreno ideale per venire a conoscenza di certi “giochi” e di certi segreti.

Il terzo, infine, è Licio Gelli che, per felice coincidenza, era alle dipendenze di Piero Parini, il quale ultimo come “segretario dei fasci italiani all’estero aveva portato a termine, per conto di Mussolini, incarichi delicati” (G. Piazzesi, Gelli, Garzanti, Milano, 1983, p.21); eufemismo per dire che erano incarichi segreti sui quali nulla doveva trapelare.

Varie testimonianze indicano che la fortuna del futuro “maestro venerabile” inizia proprio in Jugoslavia con Piero Parini che, da parte sua, godeva della completa fiducia del Duce e che non rimase certo estraneo ai contatti, in funzione antitedesca ed anticomunista, fra italiani e britannici.

Non rimasero ai margini di questo ennesimo gioco dell’inganno né Piero Parini né Licio Gelli, suo collaboratore, che, proprio lui, si vanterà con amici di essere stato in contatto con l’Intelligence Service durante il conflitto su “ordine personale e diretto del Duce”.

Una affermazione, questa, che sottintende l’appartenenza di Gelli ai “servizi speciali” italiani, forse proprio al SIM, non avendo egli altri titoli, politici o diplomatici, per assolvere incarichi così delicati lo svolgimento dei quali richiedeva, fra l’altro, anche uno specifico addestramento che non poteva essergli stato dato nella federazione fascista di Pistoia.

Non abbiamo prove per affermare che i tre personaggi – Piéche, Ortolani e Gelli – si siano conosciuti in Jugoslavia, ma sappiamo che le loro strade, oltre che a Roma, li hanno poi portati dritti in qualche riservata loggia massonica.

Giuseppe Piéche, lo ritroviamo, infatti, come “animatore del M. A. C. E. M., associazione mutualistica “Ceto Medio” con un mensile “L’incontro delle genti” di cui è presidente Elvio Sciubba, ispettore generale del ministero del Tesoro negli anni ’70” (G. Rossi, G. Lombrassa, In nome della loggia, Napoleone, Roma, 1981, p. 167).

Scriverà su Piéche un tale Checchi: “nei giorni del tirocinio piduista di Gelli, troveremo il generale ormai pensionato, prima nelle vesti di Sovrano Gran Commendatore degli “scozzesi” di Piazza del Gesù e, poi, protagonista di sconcertanti partnership con Elvio Sciubba, un torbido trait-d’union tra la comunione di Piazza del Gesù, la P2 e logge massoniche americane a Roma, il Gran Maestro Livio Salvini e, naturalmente, i servizi segreti americani” (A. Cocchi, Storia della P2, op. cit. p. 42).

Per inciso vi è a aggiungere che al giornale “L’incontro delle genti”, di Elvio Sciubba e Giuseppe Piéche, collaboravano due esponenti di “Europa Civiltà”: Loris Facchinetti e Valtenio Tacchi.

Gli altri due, Umberto Ortolani e Licio Gelli, li ritroveremo nella P2, insieme a decine di “esperti” nel campo dello spionaggio e del controspionaggio.

Non si può concludere questo elenco breve, ma significativo, di “coincidenze” senza ricordare che ad occuparsi personalmente e direttamente del recupero del carteggio Mussolini-Churchill fu Alcide De Gasperi. Nessuno ha mai avuto voglia di approfondire la circostanza che vuole esserci stato un incontro fra l’allora presidente del Consiglio e Licio Gelli.

Ed è stato un male perché come a tutti noto, l’uomo più vicino a De Gasperi era quel Giulio Andreotti che sui segreti ha costruito le sue fortune personali e politiche, nè più nè meno di Licio Gelli.

E, forse, il “capo occulto della P2″ e il “Maestro Venerabile” si sono incontrati non seguendo la strada degli affari ma quella dei segreti di Stato.

Nei paragrafi precedenti abbiamo rivolto lo sguardo ad un passato che appare lontano, certamente remoto per la maggioranza degli italiani di oggi, e continueremo nelle pagine che seguono a parlare ancora del passato, ma di un passato prossimo che è, per molti, ancora presente.

Parleremo di quegli anni definiti “di piombo” che la loro logica la trovano nell’immediato dopoguerra; e ne parleremo non per descriverli e raccontarli negli avvenimenti che tutti hanno visto, conosciuto e vissuto, ma ancora, frugando nelle pieghe dei fatti e della memoria, di proposito ignorate da tutti gli altri studiosi di chiudere un capitolo della nostra storia che brucia nella coscienza dei tanti che hanno contribuito a scriverlo a lettere di sangue.

Parleremo ancora, una volta di più, di quello Stato e degli apparati militari e di sicurezza, politici e giudiziari, che, in un modo o nell’altro, hanno determinato l’esplosione di un furore legittimo, sacrosanto ma incanalato e strumentalizzato verso fini opposti a quelli che si proponeva di raggiungere.

Abbiamo visto in cosa consistono le “diversioni strategiche”, vedremo ora come si può favorire l’esplodere della violenza armata contro lo Stato annotando tutto, conoscendo tutto, registrando tutto e tutto lasciando fare, anzi, a volte, invitando a fare.

La strategia dell’omissione

Non sempre è necessario creare dal nulla gruppi “terroristici” od organizzazioni “eversive”, per raggiungere i loro fini gli apparati di Stato possono limitarsi a non intervenire contro coloro che spontaneamente si organizzano passando dalla lotta politica ad una forma di guerra politico-militare.

Il metodo è semplice: si segue l’evolversi di una situazione e non si interviene, lasciando mano libera a coloro che agiscono contro lo Stato, fornendo ad essi l’illusione di una sicurezza e di una impunità che li porterà via via ad innalzare il livello di scontro così come desiderato da coloro che vogliono portare il massimo del disordine nel Paese che vogliono tutelare.

Un esempio concreto di questa metodologia di Stato ci viene offerta dalla storia di “Prima Linea”, l’organizzazione di sinistra che nella pratica della violenza “proletaria” è stata seconda solo alle “Brigate rosse”.

La singolarità del comportamento delle forze di polizia nei confronti degli appartenenti a “Prima linea” è stata registrata, fra gli altri, anche da Giorgio Bocca che, in proposito, scrive:

“L’aspetto più misterioso delle vicende dei circoli giovanili che daranno vita a Prima linea è la loro lunga impunità o comunque la tolleranza che li circonda.

A Torino già nel ’75 la polizia conosce benissimo chi sono i giovani che frequentano il Centro Lafargue in via della Consolata dove c’è la redazione di Senza Tregua. Sa che una delle più assidue frequentatrici ha partecipato ad un assalto al Centro Studi Donati perché vi ha trovato un suo paio di guanti, sa che circa ottanta giovani frequentatori del circolo provengono dai servizi d’ordine di Lotta continua e di Potere operaio, eppure non fa arresti anche se gli attentati proseguono.

Ma anche quando la polizia e i carabinieri li colgono in flagrante e devono ammanettarli, si trova sempre il modo di scarcerarli nel giro di pochi mesi, come accadde a Galmozzi, a Sergio Segio, a Giulia Borelli. Baglioni venne arrestato nel ’77 perché sorpreso mentre si esercita con le armi sulle Prealpi lombarde, rientra in fabbrica portato in trionfo. Marco Donat Cattin continua indisturbato a fare il bibliotecario all’Istituto Galileo Ferraris, chiedendo ed ottenendo regolari permessi per partecipare alle azioni armate. Roberto Sandalo, notissimo alla polizia, può frequentare la scuola allievi ufficiali alpina, diventare ufficiale e come tale impadronirsi di armi e trasportarle per l’organizzazione clandestina. Rosso e Libardi, due altri esponenti saranno liberati addirittura durante il sequestro Moro. Perché…?” (G. Bocca, Gli anni del terrorismo, Curdo, Milano, 1988-1989, pp. 174-175).

Perché allo Stato servivano gli attentati, i morti, i feriti, l’ululato delle sirene delle ambulanze, lo sgommare delle “alfette” e delle “pantere” sulle strade di un Paese impaurito che bisognava impaurire ancora di più.

Giuliano Zincone, sul “Corriere della sera”, commentando la richiesta di assoluzione per i “brigatisti rossi” avanzata da un magistrato sulla base della contestazione che mai le BR hanno rappresentato un pericolo per la stabilità del regime e dello Stato, chiede: “Chi, se non il potere in carica, sosteneva negli anni della vergogna, che le BR avevano davvero la forza di mettere in ginocchio questa Repubblica? Chi alimentava le speranze folli dei terroristi, sopravvalutando coscientemente le loro capacità “militari”? Chi incrementava il loro proselitismo ordinando (si, ordinando), che i giornali dessero grande spazio agli omicidi delle BR…” (G. Zincone, Autoritarismo dietro l’angolo delle Bierre, nel “Corriere della sera” del 25 giugno 1989).

Ma il potere, con buona pace di Giuliano Zincone, faceva anche qualcosa di più per “incrementare” il proselitismo delle Brigate rosse.

Dirà Gaetano Orlando al giornalista de “Il Corriere della sera” ed informatore del Sid e dell’Ufficio affari riservati, Giorgio Zicari, nel 1972; e lo confermerà a tre elementi di Avanguardia nazionale nel giugno del 1974, a Madrid, che a compiere il primo attentato incendiario alla Pirelli fu Carlo Fumagalli, il noto “partigiano bianco”, antifascista quanto anticomunista, coinvolto in tutte le trame golpiste di quegli anni, rivendicandolo a nome delle BR.

Nessuno lo ha mai smentito.

Ma non basta, il potere andava oltre.

Non riteneva sufficiente garantire l’impunità ai giovani “rivoluzionari” della Torino-bene perché continuassero, fra una vacanza e l’altra, a compiere attentati e omicidi; non riteneva sufficiente nemmeno affidare a provocatori di professione come Carlo Fumagalli e la sua banda di partigiani il compito di compiere attentati a nome delle BR o delle Sam, praticava il favoreggiamento diretto nei confronti dei “rivoluzionari” marxisti-leninisti.

Dirà, nel giugno 1978, il pubblico ministero al processo contro le BR, a Torino, basandosi sugli atti processuali: “…c’era qualcuno in ambiente qualificato che aveva interesse a che le scorrerie delle Brigate rosse continuassero e che cercò quindi di evitare l’arresto di Curcio. Possiamo credere che le BR avessero un informatore all’Ufficio Affari Riservati del ministero dell’Interno” (M. Scarano, M. De Luca, op. cit. p. 177).

E Renato Curcio, arrestato, nonostante tutto, dai carabinieri del nucleo antiterrorismo di Dalla Chiesa viene inviato in un piccolo carcere, a Casale Monferrato, da dove evaderà tranquillamente, come e quando vorrà.

Il ministero di Grazia e Giustizia sosterrà la tesi dell’”errore” ma è a tutti noto che in un carcere come quello di Casale Monferrato vengono rinchiusi, al più, i ladri di polli, non certo il capo delle Brigate rosse.

In realtà, Renato Curcio serviva libero per qualche tempo ancora; intanto, si alimentava la “leggenda” delle Brigate rosse così lo stato faceva la sua “propaganda armata”.

Il 13 maggio 1980, viene arrestato per “violazione di atti di ufficio”, a Roma, il questore Silvano Russomanno, vice capo del SISDE, responsabile di aver trasmesso i verbali d’interrogatorio del “pentito” Patrizio Peci al giornalista Fabio Isman che, a sua volta, li aveva resi di pubblico dominio.

Su di lui, Corrado Stajano scrive: “Russomanno nega di aver fatto uscire le copie dei verbali del SISDE, nega ogni responsabilità, anche se le prove contro di lui sono macroscopiche. Sarebbe fruttuoso capire le ragioni del suo comportamento perché è difficile pensare che abbia agito di sua iniziativa e che abbia consegnato i verbali di Peci a Isman solo in segno di amicizia e simpatia. Nella sua carriera è sempre stato protetto, soprattutto da Francesco Cossiga, e come un agente segreto colto in flagrante, attende con pazienza la liberazione” (C. Stajano, L’Italia nichilista, Mondadori, Milano, 1982, pp. 224-225).

L’azione di Russomanno costituisce oggettivamente un atto di favoreggiamento nei confronti di quanti dalle dichiarazioni di Patrizio Peci hanno tutto da temere, e di questo è consapevole lo stesso questore che verrà liberato senza ulteriori domande.

Eppure, pochi ricordano che sempre Silvano Russomanno, dieci anni prima, nel 1970, quando ancora apparteneva all’Ufficio affari riservati del Ministero degli Interni, era stato inquisito per aver manipolato certi elementi di prova nelle indagini sulla strage di piazza Fontana.

In pratica, questo super-agente segreto, pupillo di Francesco Cossiga, ai vertici dell’apparato di sicurezza della polizia italiana, detiene il record di essersi fatto cogliere con le mani nel sacco, per ben due volte, impegnato a “favorire” nel 1970 gli autori della strage di piazza Fontana, e nel 1980 i “compagni” delle “Brigate rosse” ai primi non certo ideologicamente affini.

Proprio a nessuno, nel corso di tutti questi anni, è venuto il sospetto che il questore Silvano Russomanno non ha inteso “favorire” l’azione degli “opposti estremismi” ma solo il gioco, il sudicio gioco che, insieme ai suoi colleghi di tutti i “servizi” conduceva per conto dello Stato e della Nato?

E non si può concludere sul tema senza richiamare la notizia apparsa, a fine giugno dello scorso anno, sulla stampa della conclusione dell’inchiesta condotta dal giudice istruttore di Venezia, Carlo Mastelloni, sul traffico d’armi fra l’OLP e le Brigate Rosse.

Sono stati rinviati a giudizio alcuni “terroristi”, il vice capo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e alcuni ufficiali dei nostri servizi segreti.

Ma lasciamo la parola all’ineffabile “Repubblica” di Eugenio Scalfari, che scrive:

“…infine il capitolo più inquietante perché si lega alle deviazioni del SISMI di Giuseppe Santovito, emerse anche nell’inchiesta per la strage di Bologna, e perché vede come imputati anche alti ufficiali del servizio segreto.

“Sul banco degli imputati dovranno sedere, infatti, l’ex capo del nostro intelligence militare Ninetto Lugaresi, l’ex capo del Sisde Giulio Grassini, il prefetto Walter Pelosi, il generale Pasquale Notarnicola ed il colonnello Armando Sportelli.

“Il primo è accusato di aver nascosto al governo e alle autorità giudiziarie un’importante affermazione su una partita di mitra Sterling finita dalla Tunisia all’OLP e quindi passata alle Brigate Rosse. Mentre gli altri dovranno rispondere a diverso titolo di aver depistato le indagini sul traffico di armi tra l’OLP e le BR, negando l’esistenza di rapporti tra le due organizzazioni e ponendo al corrente esponenti palestinesi delle dichiarazioni rese in tal senso dal pentito Patrizio Peci” (G. Cecchetti, Venezia, il giudice “assolve” Arafat, in “Repubblica” del 29 giugno 1989).

E qui il conto non torna per i fautori dei “servizi deviati”, gli “urlatori delle trame fasciste” e gli isterici della P2 quale “centro di eversione antidemocratica”, perché se è vero che il generale Giulio Grassini e il prefetto Walter Pelosi erano entrambi iscritti alla Loggia P2, sugli altri due, Ninetto Lugaresi e Pasquale Notarnicola, ben altro si era detto e scritto da parte dei fautori, urlatori e isterici di cui sopra.

Giuseppe De Lutiis, ad esempio, aveva elevato un tributo di gratitudine al generale Lugaresi chiamato a “ripulire” i servizi militari dalla presenza dei “piduisti”, dopo che la sua scelta a capo del Sismi “era stata difesa strenuamente dal presidente del Consiglio, Spadolini, contro le altre forze politiche della maggioranza” (G. De Lutiis, op. cit., p. 284).

Il generale Lugaresi e il gen. Notarnicola risultano anche in atti processuali come “nemici” dei “piduisti” all’interno dei “servizi”; e la “corretta gestione del Sismi” (P. Calderoni, op. cit. p. 17) da parte del primo viene rilevata anche dai magistrati di Bologna che hanno indagato sulla strage alla stazione di Bologna del 1980.

Come giustificheranno, oggi, il rinvio a giudizio dei “buoni” Lugaresi e Notarnicola insieme ai “cattivi” Grassini e Pelosi, per aver consentito all’Olp di far affluire armi alle BR?

E che dire dei vertici per l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina che tanti amici e sostenitori conta in Italia, a partire da Giulio Andreotti per finire a Bettino Craxi, che riforniscono di armi un’organizzazione marxista-leninista che vuole abbattere il “sistema” politico di Andreotti Giulio e Craxi Bettino?

Silenzio totale.

Eppure, almeno una osservazione andrebbe fatta, questa: di fronte al silenzio ed alla indifferenza del governo e delle forze politiche italiane, compresi se non per primi i circoli ebraici, che dinanzi alla realtà di una complicità fra l’OLP e le BR, non hanno mutato di una virgola il loro comportamento con Arafat e compagni, anzi si sono astenuti da qualsivoglia commento, viene spontaneo sottolineare che evidentemente Arafat e l’OLP le armi alle BR le mandavano per conto del governo italiano.

Una realtà evidente, talmente evidente, limpida, cristallina che tutto il paese legale è impegnato da sempre a negarla.

E perfettamente inutile appare la domanda che Giuliano Zincone pone alla fine dell’articolo già citato: “Ma come mai – scrive – nessuno allestisce un processo penale o (almeno) politico contro chi ha approfittato dei terroristi per seminare un artificiale terrore nelle masse, allo scopo di accrescere il proprio potere?” (G. Zincone, art. cit.); non si sono mai visti i complici processare i complici e i servi condannare il padrone.

Il cane cieco

Una delle giustificazioni che più frequentemente vengono adottate per spiegare l’immobilismo dell’intero apparato di sicurezza dello stato italiano di fronte all’esplodere del cosiddetto “terrorismo”, è la cecità dei servizi di sicurezza dilaniati da faide interne, sottoposti a pressioni politiche, coinvolti in lotte di potere, smantellati e “riformati” da politici inetti, pressati da magistrati “comunisti”, accusati dalla stampa e via di seguito con le recriminazioni e le lamentazioni.

In pratica, l’Argo che con i suoi cento occhi doveva proteggere lo Stato democratico per più di un ventennio è stato reso cieco e sordo dalla classe politica e dall’apparato giudiziario italiano.

I servizi si sicurezza militari e civili, l’Arma dei carabinieri e la Polizia di Stato non erano in grado di assolvere i loro compiti informativi e, di conseguenza, non potevano contribuire a reprimere il fenomeno “terroristico”, figurarsi a prevenirne gli atti, anche quelli più eclatanti e clamorosi.

Come sempre, la realtà si colloca all’opposto di quella che il regime accredita come tale presso l’opinione pubblica: il cane non è mai stato cieco, i suoi occhi hanno continuato a vedere, i suoi sensi a percepire.

I canali informativi dell’apparato di sicurezza italiano non si sono mai inariditi, semmai hanno sofferto di un eccesso di notizie che proveniva loro da tutti i lati e da tutte le organizzazioni “terroristiche”.

Non mancano gli elementi per dimostrare che i “servizi” e l’intero apparato di sicurezza non hanno voluto prevenire e reprimere il “terrorismo” ma, come sempre, in questo campo manca la volontà di farlo sul piano politico e giudiziario perché non si vuole riconoscere quella verità che vuole uno Stato aggressore al posto di quella che viene accreditata, quella di uno Stato aggredito.

Abbiamo visto nel capitolo precedente quale è stato il comportamento delle forze di sicurezza dinnanzi ad organizzazioni come “Prima linea” e le “Brigate rosse”; restando a sinistra pochi ma significativi esempi basteranno a far intravedere quale mole di notizie, preziose per qualità oltre che per quantità, attraverso i loro “infiltrati”, “agenti doppi” e “provocatori” operanti in quelle organizzazioni guerrigliere che non erano state direttamente create da loro, i servizi di sicurezza erano in grado di reperire.

Vediamo alcuni di questi esempi.

Del Giudice Piero: L’intercettazione di una telefonata fra il tenente colonnello dei carabinieri, Rocco Mazzei, in servizio presso la legione di Milano, a Anna Ditel, moglie del Del Giudice, permette di individuare un primo “collaboratore” occulto delle forze di sicurezza in una piazza come quella di Milano che, per numero e qualità di azioni armate si colloca solo dietro Roma. L’inchiesta disciplinare a carico dell’ufficiale con le sue dimissioni dall’Arma e l’immediata assunzione presso il Banco Ambrosiano, avvalorano l’importanza del Del Giudice e la necessità per i servizi di sicurezza di definire la vicenda in forma incolore, circoscrivendo ad una responsabilità personale dell’ufficiale un “rapporto” sul quale era evidentemente indispensabile evitare che qualcuno ponesse troppe domande. Per restare nel capoluogo lombardo, si segnala anche il nominativo dell’“infiltrato” Ricciardi al servizio, anch’esso, dei carabinieri.

Fioroni Carlo: Operante nell’area dell’“Autonomia operaia” divenne notissimo per il suo pentimento “ufficiale”, ma numerosi indizi permettono di collocarlo, con ragionevole certezza, fra coloro che collaboravano con le forze di sicurezza da tempo antecedente all’arresto ed al tempestivo e comodo “pentimento”.

Girotto Silvano: Figura troppo nota per soffermarsi su di essa se non per sottolineare la facilità irrisoria con la quale, con la collaborazione del “fascista” Giorgio Pisanò, i carabinieri lo “infiltrarono” ai vertici delle Brigate rosse. Per suo tramite il nucleo antiterrorismo di Carlo Alberto Dalla Chiesa operò l’arresto di Renato Curcio e Alberto Franceschini. Un’operazione questa dei carabinieri, fortunosamente per loro, riuscita solo perché Mario Moretti, informato (da chi?) della trappola per Curcio, “non riuscì” – lui dice – ad evitarla.

Longo Renato: assurto a “celebrità” per aver procurato l’arresto della “primula rossa”, Mario Moretti, che imprendibile evidentemente lo era per i soli vigili urbani, visto che ad “incastrarlo fu un “infiltrato” di mezza tacca come Longo agli ordini di un commissario di provincia.

Pisetta Marco: “guerrigliero” prima, “infiltrato” poi, autore di un memoriale che fece la gioia di Mario Tedeschi, direttore de “Il Borghese” e fraterno amico del prefetto Umberto Federico D’Amato, prima, che sconfessò poi accusando l’onnipresente capitano Antonio Labruna (detto “Tonino”) del Sid di averglielo fatto firmare con le minacce.

Santini Paolo: infiltrato dei carabinieri nell’ambiente brigatista romano. Arrestato e prontamente scarcerato una volta chiarito il suo ruolo all’interno dell’organizzazione “terroristica”. Un silenzio totale circonda le sue informazioni che certamente ha fornito ai suoi “superiori” durante la sua “militanza” nella organizzazione della “sinistra armata” di Roma.

Rossellini Enzo: “Provocatore”, “infiltrato” per conto delle forze di sicurezza dirigeva “Radio città futura”, nota per gli incitamenti alla rivolta e al disordine, in ottimi rapporti con l’ufficio politico della questura di Roma, trasmise in anteprima la notizia che Aldo Moro era stato sequestrato, con l’inconveniente per lui e per i suoi “superiori gerarchici” che ancora il presidente della Democrazia cristiana, il non rimpianto Aldo Moro, ignorava il proprio destino: il sequestro e il massacro della scorta avvennero infatti dopo che “Radio città futura” l’aveva dato per compiuto.

Rossellini non ha avuto danno alcuno per questo “disguido” sul quale ha perso prontamente nastri e memoria al pari, mirabile coincidenza, della Questura di Roma, dei servizi segreti militari, di quelli civili, ecc. Oggi dirige una multinazionale e, superata (si spera) l’amnesia, se la ride dei tanti “fessi” che ha contribuito a mandare allo sbaraglio.

Ma a questi pochi nomi, ognuno legato ad operazioni di incalcolabile portata ove vi fosse stata la volontà politica di farle (basti pensare al sequestro di Aldo Moro), si devono aggiungere tutte le ombre che pesano sulla sinistra “rivoluzionaria”.

Si è detto che il vertice di Lotta continua era “infiltrato” da uomini di Carlo Fumagalli, dipendente a sua volta, lo ribadiamo, dall’Ufficio Affari Riservati del ministero degli Interni.

È certo che la redazione del libro “La strage di Stato” (A.A.V.V., La strage di Stato – la nuova sinistra, Samonà e Savelli, Roma, 1970. Sul punto si legga anche quanto ha scritto Giorgio Bocca in Vita da giornalista, Laterza, Bari, 1979) vide la partecipazione di Giovanni Ventura e di funzionari del ministero degli Interni, rimasti, ovviamente, anonimi anche per l’omertà dei “rivoluzionari” bolscevichi.

Dubbi sono stati espressi su Mario Moretti, il capo delle Brigate rosse, assurto a questa carica dopo il “provvidenziale” arresto di Curcio, e non solo in relazione a questo episodio. Dubbi sono stati espressi sul conto di Giovanni Senzani, capo dell’ala “movimentista” delle Brigate rosse, per certi suoi presunti rapporti con esponenti del Servizio Informazioni Militari.

Interrogativi esistono su Antonio Negri, capo di Autonomia Operaia, che il defunto (ed informatissimo) Mino Pecorelli affiancò al democristiano Vito Scalia in un’“operazione sindacal-politica” nella quale, a posteriori, non è difficile riconoscere la nascita della stessa “Autonomia operaia”.

Certezze sui loro rapporti con i servizi di sicurezza italiani e stranieri esistono, poi, sul conto di Vanni Mulinaris, Berio Duccio e Corrado Simioni, dirigenti dell’istituto parigino “Hyperion”, e considerati le “menti pensanti del terrorismo rosso in Italia”.

Altri personaggi sono ancora sconosciuti ma la loro inquietante presenza è certa: lo dicono certe eliminazioni fisiche come quella di Antonio Lo Muscio, dei Nuclei Armati Proletari, quella tentata di Giorgio Semeria, brigatista rosso, alla stazione centrale di Milano, da uccidere per “coprire” chi aveva fornito le informazioni per la sua individuazione.

Lo dicono i percorsi inspiegabili di certe armi, come la “Skorpion” che è servita ad uccidere cinque persone, passata dalle mani di un funzionario di polizia a quelle dei brigatisti rossi, di stampatrici in dotazione ai servizi di sicurezza militari e ritrovate nei covi dei brigatisti a Roma.

Lo ribadisce, pesantemente ed autorevolmente, il comportamento del giudice Mario Sossi che, una volta rilasciato dai brigatisti rossi, ha pubblicamente espresso la sua sfiducia nei confronti dei “corpi separati” dello Stato, in particolare di polizia e carabinieri.

Lo sottolineano la facilità irrisoria con la quale i servizi di sicurezza hanno creato i gruppi della sinistra extraparlamentare marxista-leninista ancora negli anni ’60, senza che, ancora oggi, qualcuno a sinistra abbia tentato per lo meno di identificare con certezza qualcuno di questi “infiltrati”, tutti a livello dirigenziale, che hanno operato per tutti gli anni cosiddetti “di piombo” e, forse, continuano ancora oggi.

Inutile ricordare, infine, perché tanto si è detto e scritto in merito, l’“infiltrazione” degli ambienti anarchici e la loro strumentalizzazione da parte di elementi dello Stato, talvolta ideologicamente camuffati da “fascisti” pentiti. Manca uno studio approfondito sul “terrorismo rosso”, soprattutto su questi aspetti, perché al culturame imperante, subalterno al politicume al potere, l’idea di un “terrorismo di sinistra” manovrato, strumentalizzato, diretto ed ispirato dai servizi si sicurezza di mezzo mondo, non solo da quelli italiani, non piace, la rifiutano.

A sinistra non si scriverà mai di un “connubio” fra le forze eversive di sinistra e gli “apparati di Stato”, ancorché “deviati”, ma tutti gli elementi noti portano alla conclusione che il “terrorismo rosso” è stato condotto per mano, se così ci è concesso dire, da coloro che voleva combattere e ha conosciuto nelle sue fila tanti “agenti doppi”, tanti “infiltrati”, tanti “confidenti” e “provocatori” quanti se ne possono annoverare in quelle del cosiddetto “terrorismo nero”.

Fu il generale Vito Miceli, nel 1974, dopo il suo arresto, a “profetizzare” che da quel momento non si sarebbe più sentito parlare di “terrorismo nero” ma solo di quello “rosso”, ed è sufficiente vedere da quale anno inizia l’escalation militare delle Br per capire che aveva detto il vero: non venne creduto allora, non è stato inquisito dopo.

Certo, qualche scheggia impazzita ci fu anche a sinistra, ma è durata poco, come i Nap, contro i quali le forze di sicurezza italiane dimostrarono un altissimo grado di efficienza ed un rigore repressivo che più di una volta è scaduto nella ferocia senza suscitare sdegno neanche da parte dei “giornalisti” di ogni stagione e di ogni casacca.

Più agevole è scrivere i nomi di coloro che a destra hanno operato per incrementare il terrore a favore del regime democristiano in nome di una alleanza con gli anticomunisti di tutte le razze.

Abbiamo ricostruito altrove, seppure ancora parzialmente, il percorso storico e politico che ha determinato, fin dai primissimi giorni del dopoguerra, la subordinazione del “neofascismo” italiano alle forze politiche del potere.

Qui ci limiteremo a mettere in rilievo, anche attraverso un parziale elenco di nomi, come la teoria del “connubio” fra ufficiali “infedeli” e fascisti “eversori” sia solo una menzogna. Non gratuita però, perché serve a coprire la realtà di un mondo neofascista diretto, guidato, usato per fini di potere da coloro che il potere detenevano e volevano rafforzare.

Il vero problema, a destra, è casomai quello di distinguere, fra i tanti, coloro che avevano volontariamente accettato il ruolo, obbediente e subordinato, di agenti provocatori e coloro, pochi, che sono stati ingannati e trascinati nei gorghi di una tempesta che ha finito per travolgerli.

Si può dire che il controllo degli apparati di sicurezza sul “terrorismo nero” è stato così totale, assoluto, capillare che fa sorridere amaramente il sentire ancora oggi parlare di “lotta armata” contro lo Stato e di “eversione nera” favorita da occulte complicità militari e di polizia o, addirittura, da “infiltrazioni fasciste” nei gangli vitali dello Stato.

Nessuna “deviazione” degli organismi di sicurezza, nessuna “infiltrazione” fascista, tanto meno “eversione nera” e “lotta armata” contro lo Stato: entrambi, militari e fascisti, hanno seguito la lunga strada tracciata dalle “superiori esigenze” della difesa del “mondo libero” dalle forze politiche che, nel dopoguerra, contro il comunismo hanno fatto “crociate” e costruito “dighe”.

Una strada ben visibile, per chiunque voglia intendere e comprendere, lunghissima come la lista dei morti, dei feriti, degli imprigionati, degli ingannati che segnano, come pietre miliari, il suo sanguinoso snodarsi dal 1945 ad oggi.

Per stendere un elenco parziale di questi “rivoluzionari” delle anticamere di tutte le questure, l’unico imbarazzo è quello della scelta. Vediamone alcuni:

-Massimiliano Fachini. Sul suo conto il generale Gianadelio Maletti, già responsabile del reparto “D” del Sid, ha dichiarato testualmente: ”…Il capitano Antonio Labruna era in contatto con il Fachini (che gli aveva fornito informazioni sui gruppi di estrema destra)…” (sentenza istruttoria del processo di Peteano 3.1.1989, p.148). La stampa ha taciuto. Fachini pure.

-Sandro Saccucci. Ferocissimo “guerriero” antisistema sulle piazze e nei comizi, l’ex deputato del Msi non ha avuto remora alcuna a dichiarare al giudice istruttore Fiore: “Ho collaborato con i servizi di sicurezza in più occasioni”. La stampa ha taciuto. E nessuno, tantomeno magistrato, ha chiesto al fascista Saccucci di dire in quali “occasioni” ha offerto la sua collaborazione agli apparati repressivi della democrazia plutocratico-giudaico-massonica.

-Augusto Cauchi. Pericolosissimo, dicono, “terrorista nero”, prima di fuggire dall’Italia per un mandato di cattura della cui emissione era stato prontamente informato, telefona ad un ufficiale dei carabinieri per chiedere cosa deve fare. La stampa ha taciuto. L’ufficiale non è mai stato identificato.

-Gianni Casalini. “Ordinovista” di Padova. Dopo un arresto provvisorio per reticenza, un maresciallo dell’Arma dei carabinieri che ben lo conosceva si è “ricordato” che il Casalini era un “confidente” di tutte le forze di polizia dell’Italia democratica e antifascista.

-Ambrogio Donini. Noto negli ambienti di “destra” come un fervido nazionalsocialista dalla instancabile attività politica, è apparso dinanzi alla Corte d’assise di Catanzaro, per il processo (l’ennesimo) di piazza Fontana nelle vesti di “confidente” del Sid che, per una volta, ha ritenuto di poter bruciare un informatore ormai inservibile per anzianità.

-Guido Paglia. Romano, ex presidente di Avanguardia nazionale, figlio dell’ammiraglio Dario Paglia che nella guerra civile del 1943-45 operò insieme all’ammiraglio Tommasuolo nei servizi clandestini della Marina militare agli ordini dell’ammiraglio Maugeri, lavora per il servizio segreto militare ufficialmente dagli anni Settanta. Da fascista prima, continua a farlo, poi come vicedirettore de “Il Giornale” di Indro Montanelli. Stimato e invidiato dai colleghi impegnati a difendere la “libertà di stampa”.

-Giano Accame. I suoi rapporti con i servizi di sicurezza sono stati ritenuti provati da una sentenza pretorile emessa su una incauta querela per diffamazione sporta dallo stesso Accame contro un tale che lo accusava di essere un “spione”.

Altri nomi: Arcangeli Giorgio, Bianchi Paolo, Affatigato Marco, Serpieri Stefano, Belloni Gianfranco, Ruggeri Adelino, Campo Flavio, Giorgi Maurizio, Soffiati Marcello, Zilio Giovanni, Morin Marco, Semerari Aldo, Facchinetti Loris, ecc. ecc., fino a stancarsi, fino alla nausea.

Da nord a sud, non c’è federazione del Msi o gruppo di “eversori fascisti” che non annoveri militanti in rapporti, documentalmente provati, con organismi di sicurezza o forze di polizia. Quale fosse il loro compito (agenti provocatori, doppi, confidenti prezzolati, infiltrati, manovrati ecc.) essi hanno fornito agli apparati dello Stato una mole tale di informazioni, proveniente da tutto il territorio nazionale, che si può tranquillamente affermare che l’”intelligence” italiano sapeva quasi tutto quello che i “fascisti” progettavano di fare e, certamente, tutto quello che facevano.

Nessuna giustificazione, quindi, possono addurre i fanatici assertori dell’”eversione fascista” sulla mancata prevenzione da parte dell’apparato di sicurezza dello Stato dell’azione del “terrorismo nero”, mentre la mancata “repressione” e l’ostinato rifiuto di rendere, ancora oggi, noti gli elementi di conoscenza che riposano nei loro archivi dimostrano che gli “eversori neri” hanno assolto compiti politici, nell’ambito della “guerra fredda”, per conto del potere italiano ed atlantico.

“Eversori” sono, eventualmente, coloro che vogliono la verità. Pochi perché fra i tanti che dicono di volerla, i primi che la negano sono coloro che parlano e sparlano della “lotta armata” che il “bieco nazifascismo” ha condotto in questi anni contro la democrazia.

Una “lotta armata” che, come vedremo nelle pagine seguenti, da parte “fascista” non c’è mai stata. Di certo non c’è stata contro lo Stato ed il regime.

“Lotta armata”: contro chi?

Prenderemo in esame un ventennio della nostra storia. Inizieremo dal 1965, anni in cui gli “esperti” giudiziari e politici affermano essere stata varata la “strategia della tensione”, in un convegno presieduto da un consigliere di Corte d’appello, Salvatore Alagna, e da un tenente colonnello in s. p. e. dell’Esercito italiano, Adriano Magi Braschi, ed i cui atti sono stati raccolti in un volume (E. Beltrametti – a cura di – La guerra rivoluzionaria, Volpe, Roma 1965) a cura di Eggardo Beltrametti che è stato distribuito a cura dello Stato maggiore delle Forze armate in tutte le biblioteche militari.

Impugnare le armi contro uno Stato significa, per noi, attaccare militarmente, con qualsiasi mezzo, coloro che lo Stato rappresentano su ogni piano e, in particolare, coloro che lo difendono con le armi. Cominceremo, quindi, con le perdite che hanno subito le forze militari e di polizia in questo ventennio di guerra contro la “eversione nera”.

Nel periodo preso in esame, dopo otto anni di attentati contro obiettivi civili (sedi sindacali, partiti di sinistra, banche, ferrovie ecc.) il primo appartenente alle forze di polizia che vediamo morire per mano “fascista” è l’agente Antonio Marino, a Milano, il 7 aprile 1973, nel corso di incidenti provocati e diretti da dirigenti del Msi. Antonio Marino viene colpito da una bomba a mano da esercitazione tipo Srcm, in pieno petto, e la deflagrazione ne provoca la morte. In questo atto non c’è volontà di uccidere: è un luogo comune che la bomba a mano Srcm quand’anche esploda a distanza ravvicinata può, al massimo, provocare leggere ferite ed è da escludere che l’ordigno lanciato contro un cordone di polizia venisse di proposito indirizzato sul petto dei poliziotti.

Trascorrono altri due anni durante i quali registriamo attentati contro obiettivi civili: i soliti.

Poi, il 24 gennaio 1975, Mario Tuti uccide il brigadiere Leonardo Falco e l’appuntato Giovanni Ceravolo, e ferisce un terzo milite nel tentativo, perfettamente riuscito, di sottrarsi – così racconterà – all’arresto che i tre volevano effettuare piazzandogli una bomba a mano in mezzo alle armi regolarmente denunciate che egli deteneva. Quando verrà catturato sulla Costa azzurra, un funzionario della polizia italiana gli sparerà contro senza alcuna giustificazione.

Una strana storia.

Quali siano state le motivazioni che abbiano provocato la spropositata reazione del Tuti, non si può comunque attribuirgli una premeditazione nell’uccidere.

Perché altri uomini in divisa cadano sotto il fuoco degli “eversori” fascisti bisognerà attendere il 1980.

Qui si impone un primo bilancio e una prima riflessione: nel corso di quindici anni di fuoco, di attentati contro cose e persone, di stragi riuscite o tentate, lo Stato “aggredito” dai “terroristi neri” perde tre uomini. Uccisi, il primo per fatalità, gli altri due per l’umano desiderio del Tuti di non finire in galera. In nessuno dei tre casi indicati è presente la premeditata volontà di uccidere, la fredda, razionale decisione di colpire a morte dei nemici in divisa.

Il 1980 sembra segnare una svolta nei comportamenti dei “neofascisti eversori” nei riguardi delle forze di sicurezza dello Stato che in pochi anni perderanno più uomini che nei quindici che li hanno preceduti.

Ma un’analisi attenta delle azioni del “neofascismo” dal 1980 in poi dimostra che, in realtà, poco è cambiato, e questo poco, più su un piano umano, emotivo, che politico-ideologico. Vediamo, quindi, caso per caso, in quante ed in quali occasioni i “terroristi neri” hanno ucciso appartenenti alle forze dell’”ordine” democratico ed antifascista.

Il 26 febbraio 1980 viene ucciso a Roma l’agente di pubblica sicurezza Maurizio Arnesano. Due giovanissimi “neofascisti” cercano di farsi consegnare il mitra dal poliziotto che cerca di reagire e viene ucciso. Un tentativo di disarmo che si conclude tragicamente senza che emerga la premeditazione di uccidere; eventualmente risalta l’inesperienza degli aggressori che non avevano preso in considerazione la reazione del poliziotto che volevano privare delle armi.

Il primo “agguato” dal 1965 in poi di cui si ha notizia dopo ben quindici anni di “lotta armata” ai danni di appartenenti alle forze di polizia si verifica a Roma il 28 maggio 1980. Viene ucciso davanti a una scuola l’agente di Ps Franco Evangelista, detto “Serpico”, in forza alla squadra mobile, e vengono feriti altri due suoi colleghi. La personalità degli attentatori, la loro vicinanza con ambienti della malavita romana a loro volta in strettissimi rapporti con i servizi di sicurezza, e l’appartenenza dei tre agenti ad un reparto di polizia esclusivamente impegnato nella lotta al crimine suscitano pesanti e legittimi dubbi sulle reali motivazioni di questo primo agguato contro le forze di polizia da parte di “neofascisti”.

Il 26 novembre 1980, questa volta a Milano, muore il brigadiere dei carabinieri Ezio Lucarelli, ucciso da alcuni “terroristi neri” che, vistisi riconosciuti, aprono il fuoco per evitare l’arresto.

L’anno seguente, il 5 febbraio 1981, cadono a Padova l’appuntato Enea Condotto e il milite Maronese Luigi, uccisi dai complici di Valerio Fioravanti, rimasto ferito nello scontro ingaggiato per evitare l’arresto.

Il 21 ottobre 1981, si verifica il secondo agguato nella storia del presunto terrorismo nero contro forze di polizia. Vengono uccisi dai cosiddetti Nar il capitano di Ps Francesco Straullu e il suo autista, l’agente di Ps Ciriaco da Roma. Le motivazioni personali ed umane che armano la mano dei “neofascisti” non consentono di inquadrare anche questo secondo agguato nella logica e nella prassi della “lotta armata”. Il capitano Straullu sarà il solo ufficiale di polizia ucciso dai “fascisti” e un comportamento più corretto, da parte sua, nel corso degli interrogatori gli avrebbe consentito di evitare la tragica fine che ha incontrato alla quale non bastava per procurargliela la mera appartenenza alle forze di polizia.

Il 5 dicembre 1981, muore a Roma in un conflitto a fuoco l’agente di Ps Ciro Capobianco; rimane ucciso anche Alessandro Alibrandi, figlio del giudice istruttore Antonio Alibrandi; latitante, il giovane “terrorista nero” aveva aperto il fuoco per sottrarsi all’arresto. La sua morte darà il via a quelle “rappresaglie” che contraddistinguono, nella sola capitale, l’unica reazione del mondo giovanile “neofascista” alla scoperta che i loro capi ed ispiratori li avevano bellamente ingannati usandoli come carne da cannone da utilizzare come capro espiatorio, mentre a sé stessi – i capi –  riservano l’aureola dei martiri innocenti e le potenti protezioni delle quali continueranno sempre ad usufruire.

Il 6 dicembre 1981, il giorno seguente la morte di Alibrandi, il milite Romano Radici, in forza al nucleo radiomobile dei carabinieri di Roma, si avvicina a due giovani, seduti con fare sospetto su una panchina in una piazza della capitale; i due aprono il fuoco e Romano Radici rimane ucciso. È una vendetta, l’atto di rappresaglia per la morte di Alibrandi che, per un tragico destino, si abbatte su Romano Radici.

La logica della rappresaglia informa di sé anche l’eliminazione degli agenti di Ps Rapesta Giuseppe e Sammarco Franco, uccisi dopo che era stato “suicidato” Giorgio Vale, nel maggio del 1982, nel corso dell’operazione di polizia che doveva portare al suo arresto e che provocò, invece, la sua morte, tanto più necessaria per certi ambienti quanto più il padre aveva ingenuamente preso contatti con certi ambienti dell’”intelligence” per favorire la costituzione del figlio.

Mancano ancora dall’elenco due o tre nominativi di agenti uccisi a Roma, ma le motivazioni anche nel loro caso non hanno nulla di politico e neanche il sapore della rappresaglia per vendicare la morte di qualche amico. Vengono eliminati dai rappresentanti di un ambiente giovanile allo sbando ormai avviato sulla strada della delinquenza, incapace di formulare un progetto politico ed orfano di quelle guide che lo hanno strumentalizzato negli anni precedenti e che erano state travolte dallo scandalo della loggia P2. Una volta arrestati saranno loro a pagare, non le “guide”, puntualmente ed inevitabilmente ritornate in circolazione sulle orme dei loro protettori palesi e occulti.

Può sembrare cinico ed offensivo per la memoria di coloro che sono morti – e non è così –  commentare il bilancio di venti anni di “lotta armata” da parte dei “terroristi neri” appoggiati dai servizi di sicurezza “deviati”, da ufficiali “infedeli”, da massoni e dalla Cia, dicendo: tutto qui!

Eppure va detto e sottolineato: poco più di una ventina di morti, per la maggior parte provocati dal tentativo di sottrarsi all’arresto da parte di latitanti; tutti appartenenti alle forze di pubblica sicurezza e ai reparti territoriali dell’Arma dei carabinieri che, estranei ed inconsapevoli di quanto facevano i vertici dello Stato ed i loro “colleghi” dei servizi di sicurezza, ritenevano loro dovere intervenire e procedere all’arresto di persone ufficialmente ricercate.

La maggior parte dei morti in divisa prestava servizio nella capitale, così che dovremmo credere che la “lotta armata” dei fascisti si concentrò e si sviluppò nella città simbolo del potere politico e della sua corruzione. Ma così non è, e i fatti stanno a dimostrarlo senza ombra di dubbio.

 

Un’ultima considerazione va fatta sulle perdite delle forze di sicurezza nella lotta contro il “terrorismo fascista”: poco più di venti morti in venti anni rappresentano una cifra inferiore al bilancio delle perdite che i corpi di polizia subiscono nel corso di un anno di lotta sul fronte dell’ordine pubblico, contro la criminalità.

E ancora si osa parlare di “attacco fascista”, armato, allo Stato ed alla democrazia?

La controprova della inesistenza di questa “lotta armata” la troviamo esaminando le perdite che hanno subito altre categorie rappresentative dello Stato, del regime democristiano e della società antifascista.

Dirigenti politici dei partiti di governo: nessuna perdita. Non un esponente democristiano cade o viene ferito, almeno gambizzato, dai “neofascisti” in guerra contro il potere Dc. Non un socialista, un socialdemocratico, un repubblicano, un liberale. Niente e nessuno di quelli che dovevano essere i bersagli politici naturali di una opposizione che aveva preso le armi contro il dominio ventennale di costoro.

Cadono giovani appartenenti all’area della sinistra parlamentare ed extraparlamentare nella logica di quello scontro fra gli “opposti estremismi” che la Democrazia cristiana (Paolo Emilio Taviani) aveva teorizzato fin dal 1948.

Esponenti della finanza: nessuna perdita. Gli Agnelli, i Pirelli, i Falck, i Cuccia, i santoni della finanza italiana, laica, cattolica, massonica, opusdeista, possono dormire sonni tranquilli. I feroci neofascisti per loro non rappresenteranno mai alcun pericolo; anzi, si preoccuperanno di evitare che nelle loro fabbriche si facciano troppi scioperi. Come esempio di politica “rivoluzionaria” alla rovescia non c’è male.

Esponenti di Forze armate straniere: nessuna perdita. Gli americani hanno basi militari in Italia; sono essi il simbolo più evidente e vulnerabile della sconfitta del Paese e del Fascismo nel 1945. Sono essi i padroni del Paese e contro di essi avrebbe dovuto rivolgersi la furia dei “neofascisti”. E, invece, hanno trovato nelle case e nei luoghi pubblici gestiti da “neofascisti” i più accoglienti rifugi per le ore di libera uscita e per le loro teorizzazioni sulla necessità di combattere contro il comunismo.

Giornalisti: nessuna perdita. Ad onor del vero si tenta di uccidere un “pennivendolo” romano, ma la motivazione esclude la politica perché lo si definisce “infame”; comunque, i Nar sbagliano e ammazzano al suo posto un povero tipografo. Tutti gli altri “pennivendoli”, anche più infami del loro collega romano, saranno liberi di costruire sulle pagine dei giornali la leggenda del “terrorismo fascista” e della sua “lotta armata” contro i sacri principi della Democrazia.

Rappresentanti dell’Esercito italiano: nessuna perdita. Le forze armate nate dalla resistenza e sicuro presidio della democrazia non dovranno mai subire attacchi. Ve n’è solo uno da segnalare: un sergente ferito ad un piede, a Padova, durante un’incursione nel Distretto militare della città per prelevare armi. L’attacco viene firmato “Brigate rosse” e solo a posteriori si scoprirà che sono stati gli “spontaneisti” dei Nar che ancora all’epoca, nel 1981, volevano provare che le Forze armate potevano essere attaccate solo dai “bolscevichi senza patria” e che le Brigate rosse, nonostante i “pentiti”, erano ancora “pericolose”. Le armi che non servivano per una “lotta armata” che non c’era, verranno puntualmente ritrovate (restituite) in aperta campagna dai carabinieri pochi giorni dopo l’avvenuto prelievo.

Magistrati: due morti. Occorsio ed Amato. Entrambi a Roma, entrambi indirizzati a cercare negli apparati dello Stato le origini del “terrorismo nero”. Sono morti perché più isolati di altri loro colleghi in altri tribunali, in un palazzo giudiziario che nelle sue nebbie non nasconde solo carteggi giudiziari e verità scomode, ma anche segreti ignobili.

Esclusi i corpi di polizia direttamente impegnati, sulla strada, nel mantenimento dell’ordine, tutte le categorie più rappresentative dello Stato, che avrebbero dovuto essere obiettivo privilegiato della “lotta armata” fascista hanno sofferto, in venti anni, due morti.

E questa è “lotta armata”. Ma andiamo.

Il “neofascismo” in venti anni ha sì seminato morti e lutti ma per creare disordine e paura in un Paese che i detentori del potere volevano intimorire e spaventare perché ad essi si rivolgesse per riavere l’ordine e la sicurezza perduti.

Migliaia di attentati, dapprima rivendicati con sigle di sinistra, successivamente con sigle “fasciste” avvalorando la tesi di un regime che diceva di dover fronteggiare l’attacco degli “opposti estremismi”, come in precedenza aveva sostenuto che il “pericolo” per la democrazia veniva solo da “sinistra”. Stragi contro la popolazione civile, dapprima “anarchiche” e poi fasciste avallandone la paternità ideologica con documenti che esaltavano e giustificavano lo “stragismo”.

Una politica folle, suicida, idiota da parte di un ambiente politico che avesse voluto restituire al Paese, anche con le armi, quella indipendenza e quella dignità che la sconfitta militare ed il tradimento di una classe politica e militare gli avevano tolto.

Ma il cosiddetto “neofascismo” non si è mai posto questo obiettivo: il suo ruolo era quello di creare disordine, portare scompiglio, seminare terrore per conto dello Stato e del regime nell’ottica di quella “guerra fredda” che gli Stati Uniti conducevano contro l’Unione Sovietica e che non poteva tollerare un’Italia neutrale, se non proprio spostata a sinistra.

Lotta armata? Sì, contro il proprio popolo ed il proprio Paese. Non contro il regime e tantomeno contro lo Stato.

Abbiamo volontariamente omesso di citare qualche episodio che viene comunemente inserito nella storia dell’”eversione nera”. Un inserimento arbitrario come quello che riguarda il capitolo scritto da Carlo Fumagalli, l’ex comandante “Jordan” dei “Gufi della Valtellina”, partigiano “bianco”, decorato della “Bronze star” americana e che abbiamo incontrato per aver compiuto il primo attentato incendiario alla Pirelli, firmandolo “Brigate rosse”.

Le vicende di Carlo Fumagalli e dei suoi accoliti, tutti perfettamente consapevoli, questi ultimi, del suo antifascismo e del compito che gli era assegnato da parte di quelle forze di “sicurezza” dello Stato per le quali lavorava, non possono rientrare nella storia di una sia pur presunta “eversione” ideologicamente “fascista” quale quella che stiamo qui analizzando.

Parimenti non abbiamo citato l’attentato di Peteano per motivazioni opposte a quelle che ci hanno portato ad ignorare l’attività “eversiva” di Carlo Fumagalli.

Peteano, infatti, rappresenta il solo ed unico esempio di attacco premeditato, da parte di fascisti, contro le forze militari dello Stato. L’unico che vada contro la logica che ha ispirato tutta l’azione del cosiddetto “neofascismo” italiano nel dopoguerra, in particolare dal 1965 ad oggi.

Così come non confondiamo, per rispetto alla verità, la storia e l’operato del partigiano Carlo Fumagalli con quelli del “repubblichino” Pino Rauti, non mettiamo sullo stesso piano ciò che è stato fatto, in nome del fascismo nel quale abbiamo creduto, contro lo Stato con quello che il “neofascismo”, nel quale non ci riconosciamo, ha fatto a favore dello Stato.

Se le strade del vincitore Fumagalli e del vinto Rauti si sono incrociate e fuse in una sola, noi siamo rimasti al di qua di quella linea gotica ideale dietro la quale permane non domata quella fortezza europea nella quale continuiamo a credere e per la quale non cesseremo di lottare.

E su Peteano ritorneremo parlando dell’operato della magistratura contro la verità perché è giunto il momento di togliere al potere giudiziario l’alibi fornito dalla mancanza di collaborazione dei servizi segreti e dalla opposizione del “segreto di Stato” da parte dei politici sui fatti “eversivi” sui quali indagano, per dire a chiare lettere che proprio la magistratura rappresenta l’ostacolo maggiore per giungere alla verità.

La morte e la palude

L’apparato giudiziario è l’unico, oltre a quello di polizia, ad aver contato due morti ad opera del “terrorismo nero”. Due magistrati che avevano cominciato a percorrere vie proibite non alla ricerca della verità sul terrorismo di Stato ma su fatti che inequivocabilmente portavano a conclusioni che potevano infastidire i manovratori occulti della “eversione nera”.

La storia del primo di essi è emblematica del modo di agire e di procedere dei magistrati italiani. Vittorio Occorsio aveva avuto una parte determinante nell’attribuire agli “anarchici” la strage piazza Fontana, altrettanto determinante era stato il suo contributo nel creare la leggenda di un “Ordine nuovo”, quello di Clemente Graziani, perché su quello di Pino Rauti non volle indagare, quale organizzazione eversiva e sovvertitrice dell’ordine democratico.

Non sappiamo quale passo falso ne decretò la condanna, ma sappiamo che in entrambi i casi – piazza Fontana ed Ordine nuovo – Vittorio Occorsio negò anche l’evidenza dei fatti per affermare quello che era contrario al vero.

Era un uomo di potere, ed il potere ingrato ne ha fatto una vittima del “terrorismo nero” che non esisteva consacrando così, con le sue menzogne e le sue omissioni, una verità che ancora oggi resiste all’usura del tempo ed alla realtà delle prove.

Non tutti i magistrati italiani sono uomini del potere, alcuni di essi sono in buona fede, altri – molto più numerosi – in malafede, altri ancora attenti alla carriera e quindi, proni ai voleri, quand’anche inespressi, di uno Stato che ad essi affida processi nei quali è certo che potranno emergere solo sprazzi di verità che confusi in una marea di menzogne e di costruzioni false finiscono inevitabilmente per smarrirsi senza provocare danni.

È poco onesto attribuire al solo potere politico o ai servizi segreti, più o meno “deviati”, ad esempio il “merito” di aver impedito l’emergere della verità sulla strage del 12 dicembre 1969 alla Banca dell’Agricoltura di Milano.

È poco onesto perché sappiamo che è stata la magistratura giudicante, a cominciare dalla Corte di Cassazione, a rifiutare quelle verità che erano emerse; verità parziali ma sufficienti volendo per giungere ad una verità globale su quell’episodio che altro non segna che un momento, uno dei più tragici, della guerra che lo Stato ha condotto contro il Paese.

È a tutti noto che la notte fra il 7 e l’8 dicembre del 1970, in tutta Italia, e non soltanto a Roma, vi furono movimenti di truppe e di civili armati. Tutti i protagonisti di quelle ore convulse hanno ammesso, almeno in parte che “qualcosa” accadde fino a quando un “contrordine” non ordinò la mobilitazione delle forze.

Solo per la magistratura italiana quella notte non accadde nulla, proprio nulla, fandonie: nessuno è stato perseguito per “calunnia” o per “auto-calunnia”, certamente perché avrebbero dovuto rispondere in troppi, ma il sipario sul “golpe Borghese” è stato definitivamente calato nessuno avrà più la forza e la voglia di risollevarlo.

Sono solo due esempi: se ne potrebbero fare a migliaia.

È la magistratura ad avere inventato le “deviazioni” nei servizi e l’“infedeltà” di taluni ufficiali dei carabinieri e funzionari di polizia che hanno “colluso” per ragioni ideologiche con i “terroristi neri” in odio alla democrazia.

Quella stessa magistratura che ha indiziato di reato, con varie motivazioni, tutte però connesse a “deviazioni” ed “omissioni”, tutti i capi dei servizi di sicurezza militari dal 1965 ad oggi, ed alcuni di quelli civili.

Nessuno di loro è mai stato condannato, è vero, ma altrettanto vero è che gli stessi magistrati inquirenti che hanno spedito gli indizi di reato a Forte Braschi o al Viminale sono in prima linea a cianciare di “deviazioni”.

Esiste, indubbiamente, anche nei magistrati più determinati a giungere alla verità il rifiuto quasi fisiologico di accettare l’idea che lo Stato abbia scatenato una guerra civile provocando la morte di civili inermi e quella dei propri rappresentanti, ma quante prove si sono accumulate in questi anni sulle loro scrivanie e nei loro archivi, quanti testimoni sono sfilati davanti a loro, ognuno portando un piccolo frammento, a volte contro la propria volontà, a sostegno della verità? Migliaia

A cosa è servito? A nulla.

La magistratura cerca gli esecutori materiali, nega la presenza di mandanti quando ci sono; afferma la loro presenza quando non ci sono, esclude comunque che possano essere politici e militari ad alto livello. E se qualcuno fa il nome di qualche esponente del “Palazzo”, la stessa magistratura che sulla base di indizi smantella interi nuclei familiari distribuendoli nelle varie galere, si riscopre ipergarantista e vuole le “prove” prima di spedire al “personaggio” un solo mandato di comparizione o un più modesto “avviso di garanzia”.

Giusto, “le prove”!

Il colonnello Amos Spiazzi, ad esempio, ha dichiarato pubblicamente che la notte del “golpe Borghese” si diresse verso Sesto San Giovanni, in obbedienza ad una direttiva pervenutagli dalle superiori gerarchie militari, insieme ad un gruppo di “civili” di “Ordine nuovo”. Nessuno, a quanto risulta, gli ha mai chiesto i nomi di questi “civili” di “Ordine nuovo”.

Uno slavo arrestato in Svizzera per un triplice omicidio e ivi detenuto, dichiara anni fa ai magistrati svizzeri di essere stato un confidente del SISMI in Italia e di aver informato un ufficiale del servizio – del quale fornisce grado e generalità – sugli spostamenti di Gilberto Cavallini con il quale era in contatto.

Cavallini era “super-ricercato”; lo slavo gli dà appuntamenti, previo accordo con l’ufficiale del SISMI, per provocarne l’arresto che non verrà eseguito. Per ben tre volte si ripete questo “giochetto” che finisce per impaurire il confidente che desiste dal fissare incontri inutili con Cavallini.

La rivista “Panorama” rende nota la notizia riportando la testimonianza dello slavo; non risulta, ancora oggi, che qualcuno fra i magistrati italiani che si occupano di “terrorismo” sia andato a raccogliere questa sconvolgente “prova”.

L’operazione “Camerino” è oggi di dominio pubblico; sono stati raccontati i particolari, fornite le motivazioni, indicati i nominativi di coloro che vi parteciparono. La sua importanza è fondamentale sia per provare, su un piano generale, il ruolo dei servizi di sicurezza nella “strategia della tensione” che, su un piano specifico, l’origine e la motivazione del “depistaggio” delle indagini sull’attentato di Peteano.

Non è stato fatto nulla.

11 giudice istruttore di Venezia, Felice Casson, che doveva indagare su questo episodio lo ha bellamente ignorato; in compenso, ha inviato a un povero disgraziato che si interessa di esoterismo un indizio di reato per “strage”, riferito all’attentato di Peteano, solo perché nel corso di una perquisizione gli ha trovato in casa un “grembiulino” massonico.

Anche così – sebbene Felice Casson possa essere considerato un caso limite per furberia (squallida) e mancanza di scrupoli – si creano le premesse per non trovare mai la verità e si strilla, contemporaneamente, che la P2 impedisce di trovare la verità.

Il dr. Domenico Sica, sostituto procuratore della Repubblica di Roma, assurto, per ignoti meriti, al rango di prefetto con l’incarico di Commissario anti-mafia, si è recato alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi ed il terrorismo e ha raccontato che non è esistito alcun complotto, alcuna manovra destabilizzante perché, in realtà, è esistito solo un “grande boss” che per guadagnare qualche lira con la vendita delle armi ha scatenato in Italia una guerra civile durata vent’anni.

Gli ha fatto eco il dr. Giacomo Sartea, giudice a latere nel processo in Corte d’Assise d’Appello per l’attentato di Peteano, che ha scritto nella motivazione della sentenza: “La strategia della tensione è stata presentata come un assioma e/ come ha osservato un difensore, lo è stata anche in altre occasioni per spiegare fatti eversivi di vario colore: è ben lungi però dall’essere provata la sua esistenza e le sue motivazioni (Sentenza di Appello per il processo di Peteano – 5.4.1989, p. 110).

Anche questi due sono magistrati, non marziani.

Per il dr. Giovanni Salvi sostituto procuratore della Repubblica a Roma, la “strategia della tensione” invece esiste, o meglio c’è stata; resa possibile da cosa? “Dal connubio – risponde il dr. Salvi – tra eversione di destra e apparati dello Stato e della sua finalizzazione al condizionamento della libera determinazione politica dei cittadini” (G. Salvi (a cura di), La strategia delle stragi, Editori Riuniti. Roma 1989, pag. XX).

Gli “apparati di Stato” – lo ricordiamo al dr. Salvi – sono diretti da uomini che hanno un nome ed un cognome, un grado e delle responsabilità, strumenti di controllo sui loro subalterni e capacità di intervento contro i “devianti”; ai vertici delle forze di sicurezza sono giunti su nomina del governo al quale, fra l’altro, rispondono di quello che fanno od omettono di fare, e con il placet dell’Alleanza Atlantica. Se connubio c’è stato, è stato reso possibile dalla autorizzazione delle autorità politiche nazionali e militari atlantiche che, difatti né le une né le altre, hanno mai preso provvedimenti a carico di questi presunti “traditori” della democrazia.

Ma la “timidezza”, altra caratteristica di tanti magistrati italiani, del dr. Salvi risalta anche quando si chiede: “Come è stato possibile e per responsabilità di chi gli uomini coinvolti nella trama eversiva del ‘Piano Solo’ progredissero nella carriera e si trovassero in punti chiave, quando si concretizzò la strategia della tensione?” (Ibidem, pag. XIX).

Al dr. Salvi possiamo fornire i nomi di due responsabili, entrambi conosciuti da tutti da almeno venti anni: il dr. Vittorio Occorsio e l’on. Francesco Cossiga. Il primo è morto, il secondo oggi è Presidente della Repubblica.

Vorrà il dr. Salvi incriminare Francesco Cossiga quale complice dei servizi “deviati”, degli ufficiali “infedeli” e dei “terroristi neri”?

Ne dubitiamo, anzi lo escludiamo con la pacifica certezza che ci permette di dire che il dr. Salvi o non ha ancora compreso il mondo nel quale vive o è destinato ad una brillantissima carriera.

Ma veniamo ora alle vicende processuali riguardanti l’attentato di Peteano di Sagrado.

La magistratura inquirente, dopo che il responsabile dell’attentato si era assunto la paternità del gesto, doveva cercare di identificare gli autori del “depistaggio” delle indagini e chiarirne le origini e le motivazioni. Lo ha fatto solo parzialmente mettendo a frutto, soprattutto, i risultati raggiunti in merito in quindici anni di battaglie giudiziarie dagli avvocati difensori dei sette cittadini di Gorizia innocentemente accusati nel 1972 di aver compiuto l’attentato.

Doveva e poteva andare oltre: non ha voluto.

All’interno dell’Arma dei carabinieri vi è un ufficiale, ormai in congedo, che avrebbe dovuto essere interrogato (e non solo sul “depistaggio” a Peteano) sui comportamenti di appartenenti all’Arma e su quelli del Comando Generale, per la semplice ragione che costui, il generale Ferrara, ha diretto per ben dieci anni ( dal 1967 al 1977) lo Stato Maggiore dell’Arma stessa; un record di durata per un incarico di così elevata responsabilità che si può definire eccezionale e sospetto allo stesso tempo: il generale non è mai stato interrogato.

Per la sua connessione con il “depistaggio” delle indagini è emerso nel corso dell’istruttoria su Peteano il ruoto di “spione di Stato” dell’ordinovista (tanto per cambiare) Delfo Zorzi, di Mestre.

Costui era stato arruolato quasi cieco di un occhio in un reparto di élite come i “Lagunari”, dove, per non perdere il vizio, aveva svolto il compito di “informatore”.

Si doveva chiedere a tutti gli organismi militari competenti (Distretto, Ospedale, Stato Maggiore, Ministero della Difesa) di spiegare quali eccezionali e recondite ragioni avevano indotto l’Esercito italiano ad arruolare con mansioni di “spia” una persona menomata fisicamente.

Non è mai stato fatto.

Su ammissione del prefetto Federico D’Amato, si viene a sapere che sempre Delfo Zorzi, nel 1971, era in rapporti con il vice-prefetto Sampaoli, capo ufficio stampa del Ministero degli Interni.

Si poteva e si doveva approfondire questo legame che univa il “nazista” rautiano ad un viceprefetto, ma non è stato fatto perché certi ambienti incutono al giudice istruttore Felice Casson timori reverenziali.

Si è dato così modo alla Corte d’Appello d’Assise di ascrivere a merito dello Zorzi questa conoscenza visto che, secondo quella Corte, il prefetto Sampaoli Pignocchi Antonio “curava una specie di salotto culturale a Roma” (Sentenza di Appello per il processo di Peteano – 5.4.1989 – pag. 103); insomma, un incontro fra raffinati intellettuali.

E, invece, l’alto funzionario degli Interni si dedicava anche ad altro. Ce lo racconta De Lutiis che scrive che nel 1978 venne arrestato l’ex commissario di PS Walter Beneforti e con lui “fu arrestato l’ex capo ufficio stampa di Vicari, prefetto Sampaoli. Anche questa volta – sottolinea De Lutiis – lo scandalo che si preannunciava clamoroso, fu rapidamente messo a tacere e dopo qualche settimana sia Beneforti che Sampaoli furono scarcerati” (G. De Lutiis, Storia dei servizi segreti in Italia, op. cit. p. 60). Il motivo dell’arresto va ricercato “in un grosso traffico e riciclaggio di denaro sporco proveniente dai sequestri di persona” (Ibidem).

La notizia era di dominio pubblico ma negli atti processuali del processo di Peteano (due istruttorie) non è mai comparsa per le omesse indagini del g.i. Felice Casson.

Anche così la magistratura che “vuole la verità” impedisce ad essa di emergere.

Quante volte, in questi lunghissimi anni, le acque della palude giudiziaria si sono increspate ed aperte per far passare pietre, macigni che, nonostante tutto, piombavano su di esse; e, poi, inesorabilmente si sono rinchiuse inghiottendo tutto e tornando a quella calma piatta che tutti conosciamo?

Non solo pietre, ma montagne sono state coperte dalla palude che copre ogni verità, nasconde mille segreti, difende ogni potere.

E la morte ride.

Servi e padroni

Non possiamo esimerci, vincendo il fastidio che ci procura, dal dedicare qualche pagina alla stampa ed ai politici.

Cominciamo dai servi: Sergio Zavoli, dietro lautissimo compenso, ha presentato alla sventurata opinione pubblica italiana la sua verità, la verità del regime, sugli “anni di piombo”.

Nel corso di diciotto lunghissime puntate, tante ne sono occorse per descrivere “la notte della Repubblica”, è riuscito ad intervistare i protagonisti politici, militari e di sicurezza degli anni del terrore perché illustrassero agli ascoltatori come avevano combattuto il “terrorismo” e, soprattutto, come lo avevano sconfitto in nome della democrazia e della libertà.

Ci sono sfilati innanzi Mariano Rumor, indiziato di reato per i “depistaggi” nell’attentato di Peteano; Massimo De Carolis, non dimenticato fiancheggiatore della “maggioranza silenziosa”; Edgardo Sogno, incriminato per il “golpe bianco” del 1974; il generale Ambrogio Viviani, iscritto alla Loggia P2 ed incriminato, pure lui, per reticenza nell’ambito delle indagini sulla morte di quattro aviatori italiani uccisi dal Mossad nel cielo di Mestre nel 1973; il prefetto Federico D’Amato, pluri-indiziato di reato per la sua attività di dirigente dell’Ufficio Affari Riservati del ministero dell’Interno, ed altri ancora.

A tutti costoro – sospettati, inquisiti, incriminati – Sergio Zavoli, prono ed ossequioso, ha dato modo di esibire la arroganza di un potere che oggi si ritiene certo della vittoria riportata sulla verità.

Ad essi ha contrapposto i “vinti”, i “terroristi” che hanno scoperto che lo Stato era buono, era onesto e che loro erano nell’errore e nel delitto.

C’è stata qualche eccezione, ma l’“onesto” Zavoli ha forbici taglienti e ha tagliato tutto quello che ha potuto per non turbare l’idilliaca atmosfera della trasmissione che doveva innalzare peana di gloria alla democrazia italiana, vittoriosa sul malvagio terrorismo di destra e di sinistra.

La Rai, si sa, è diretta dal socialista Enrico Manca, iscritto alla Loggia P2, quella stessa che viene comunemente indicata come il centro motore del “terrorismo di destra”, ma Zavoli non ha notato la contraddizione tanto più che Bettino Craxi da tempo ha detto che per lui “la questione della P2 è chiusa”.

Non lo hanno notato neanche gli altri che pure agli “anni di piombo” hanno dedicato colonne e colonne di piombo sui giornali e sulle riviste in cui scrivono. Almeno lo hanno fatto in passato perché da quando la situazione nel Paese si fu “stabilizzata” hanno scritto sempre meno; più inquietanti erano le notizie che trapelavano, malgrado tutto, dalle aule giudiziarie meno loro scrivevano, fino a quando hanno finito anche di scrivere.

Ad esempio, dal gennaio all’agosto del 1989 il quotidiano della borghesia occhettiana, illuminata e progressista, ha dedicato al processo per la strage di Bologna del 2 agosto 1980, due articoli (A. Balzanelli, “Perché Gelli è colpevole per la strage di Bologna”, su “La repubblica” del 28 aprile 1989) striminziti, ridotti all’essenziale, incapaci di attirare l’attenzione anche del più attento dei lettori.

Stesso trattamento ha riservato alle cronache giudiziarie del terzo processo su Piazza Fontana: due articoletti per dire agli italiani che la magistratura aveva ancora fatto giustizia provando per la terza volta che non esistono colpevoli (“Per piazza Fontana condannate Delle Chiaie all’ergastolo“, “la Repubblica” del 5/6 febbraio’89. P. Sergi, “Delle Chiaie è tornato libero“, su “la Repubblica” del 21 febbraio 1989).

Un articolo in più, tre, (G. Balletti, “Brescia, strage senza colpevoli. Tutti assolti con formula piena“, su “La Repubblica” del 12 e 13 marzo 1989. F. CoppoIa, “Stragi, eversione nera, Loggia P2. Così vincono gli strateghi del terrore“, su “La Repubblica” del 12 e 13 marzo 1989) ha dedicato alla strage di Brescia; uno di cronaca per annunciare ai suoi lettori l’avvenuta sentenza e due di lamentazioni e di invocazioni allo Stato “perché non rimanga in silenzio”.

“La Repubblica”, in realtà, in silenzio c’era stata per tutta la durata del processo di appello del cui inizio e svolgimento non si era curata di informare i suoi lettori, poi, di fronte alla conclusione scontata, il pianto.

L’attentato di Peteano è stato ritenuto meritevole di un solo articoletto (“La strage di Peteano ora ha un solo colpevole. Tutti assolti i carabinieri“, su “la Repubblica” del 6 aprile 1989), infame nel contenuto e stupefacente nel titolo visto che informa il colto e l’inclito che non due sono stati i condannati per quell’attentato bensì uno solo. Inutile dire che mai, nemmeno una volta, ripetendo quanto aveva già fatto per il processo in Corte d’Assise, Eugenio Scalfari si era interessato di quanto succedeva nell’aula-bunker di Mestre.

In compenso, nell’anno passato, lo stesso quotidiano ha dedicato pagine e pagine al processo contro Gigliola Guerinoni, evidentemente ritenuto molto più importante per gli italiani di quelli che trattano di “terrorismo”.

Ma non sempre è così; a volte, i giornali di regime, il silenzio lo interrompono e non per pubblicare le dichiarazioni di questo o di quel politico al governo, bensì per dare spazio a quello che dicono gli imputati per “eversione”, pochi a dire il vero, sempre gli stessi.

Un altro giornalista, scrittore, “esperto” di “terrorismo” si è specializzato nel dare patenti di ingenuità ai nostri responsabili dei servizi di sicurezza.

La mente annebbiata dal “Barolo”, la bocca impastata dal “Barbera”, Giorgio Bocca – perché di lui si tratta – intinge la penna nel “Lambrusco” e scrive dei “potenti imbecilli dell’apparato militar-poliziesco” che del “terrorismo” e dei “terroristi” non avevano capito niente a differenza di lui, che “imbecille” non è, e delle trame terroristiche aveva capito tutto fin dall’inizio.

È fra questi due poli – i servizi segreti “nemici” dei “terroristi” o “sprovveduti” dinanzi ad essi – che si alterna l’opera della stampa italiana che, manco a dirlo, non perde occasione per dire che “vuole la verità”.

E così che Eugenio Scalfari, da più di trent’anni sul campo alla ricerca della “verità” sui misteri d’Italia e sulle malefatte del potere, è diventato miliardario; altri, più modestamente, sono diventati “opinion-leader” incaricati di spiegare alle masse il significato degli avvenimenti che, nel caso specifico di un ventennio di guerra civile, sono da attribuire – dicono gli “opinion-leader” – ad “imbecilli” , “rimbambiti”, ufficiali “infedeli” e “servizi deviati” sui quali, purtroppo, nonostante l’impegno accanito di tutta la classe politica, della magistratura e della stampa non si riescono a trovare prove.

Pazienza! Pazienza, questa volta, Francesco, è in libertà proprio per questo, insieme a tutti gli altri.

Confondere, mentire, disinformare, tacere sono i ruoli dei “Servi” della stampa, quelli che una volta si chiamavano, “pennivendoli” con una espressione felice che ben rendeva la realtà della loro specializzazione e della loro etica.

Ad esempio, il “Corriere della Sera” aveva, a suo tempo, intervistato Giorgio Freda nell’imminenza dell’inizio dell’ultimo processo cui è stato sottoposto. Il titolo, a tutta pagina, diceva: “Io sono un guerriero di Hitler”.

Quando il “guerriero” ha chiesto, successivamente, la semilibertà e l’ha ottenuta perché “parzialmente ravveduto”, il “Corriere” ha taciuto.

“La Repubblica” ha, da parte sua, concesso spazio a Stefano Delle Chiaie pubblicando l’intervista da lui rilasciata a Sergio Zavoli. Il titolo riportava una frase del Delle Chiaie: “I servizi segreti sono i nemici di noi fascisti rivoluzionari”. Una menzogna che Eugenio Scalfari ha subito ripreso e ribadito ai suoi lettori in bell’evidenza, affidandone il commento a quel Franco Coppola specializzato nel versare lacrime sulle vittorie degli “strateghi del terrore”.

Ma passiamo dai servi ai padroni, dai giornalisti “liberi” ai politici che li dirigono e li comandano.

Alexander de Marenches, ex capo dei servizi segreti francesi, invitato ad esprimere un giudizio sui politici italiani ha risposto lapidariamente: “Furbi, anzi furbissimi” (C. Ockrent-A. De Marenches, I segreti dei potenti, Longanesi, Milano 1987).

Non è un complimento; è un giudizio sferzante intriso di disprezzo che pesa ancora di più sulla classe politica italiana perché formulato da un uomo che ha la conoscenza dei fatti di cui si sono resi protagonisti gli uomini che dirigono il Paese.

È un giudizio equo perché sottolinea l’unica dote che i politici hanno, quella di un’astuzia illimitata, capace di concepire anche l’inconcepibile e di metterlo in pratica con la certezza che mai verranno scoperti.

Una classe politica che annovera uomini come Francesco Cossiga che la sua carriera l’ha costruita sui segreti e sulla difesa dei segreti necessaria per perpetuare le menzogne dello Stato; per questo è stato eletto presidente della Repubblica in rappresentanza non del Paese reale ma solo di quello legale.

Non è un caso che oggi a ricoprire la seconda carica pubblica per importanza sia Giulio Andreotti, altro politico che sui segreti e sui ricatti ha costruito le sue fortune.

A questo uomo eternamente sospettato ed eternamente reticente si rivolgono coloro che vogliono la verità perché dall’alto del suo potere intervenga sugli apparati di sicurezza per obbligarli a dire quelle verità che nascondono nei loro archivi.

A quest’uomo che Calvi ha indicato come “il capo occulto della P2″, il punto di riferimento degli Ortolani, dei Gelli e dei Francesco Maria Malfatti di Montetretto, si fa finta di attribuire (anche, se non soprattutto, da parte di quei magistrati che vogliono la verità) una volontà di giustizia ed un’ansia di verità che costui non ha mai dimostrato.

Andreotti ricatta, minaccia ed ottiene quello che vuole perché pochi sanno tutto quello che lui sa.

Fu lui a rivelare il ruolo di “spia” del giornalista Guido Giannettini, fu sempre lui a minacciare la comparsa in aula al processo di Piazza Fontana accanto agli imputati dell’epoca, di “imputandi” dei quali, però, quando venne interrogato dimenticò non solo i nomi ma perfino di aver pronunciato la minaccia di farli.

Quando venne attaccato, alcuni anni or sono, dall’entourage fanfaniano si premurò di far sapere che stava studiando il “caso Montesi”; a Calvi ha risposto invitando i magistrati che indagano sulla bancarotta del Banco Ambrosiano a cercare all’estero i soldi che ancora possiede la famiglia Calvi; a Nando Dalla Chiesa che lo accusava di aver contribuito a mandare il padre allo sbaraglio a Palermo, ha risposto che il generale gli aveva parlato dei problemi che gli creavano i figli e che lui, per delicatezza verso il generale, non rendeva di pubblico dominio”.

Questo è l’uomo: un magliaro, un magliaro di alto bordo.

I suoi ministri non gli sono da meno.

Antonio Gava, ministro degli Interni, è stato ufficialmente accusato di mendacio nell’aula giudiziaria dove si è svolto il processo per il sequestro di Ciro Cirillo. Non ha battuto ciglio e, con lui, tutti suoi colleghi; anzi, De Mita ha chiesto e ottenuto la messa sotto accusa, sul piano disciplinare, del giudice istruttore Alemi, che, per primo, aveva evidenziato il ruolo di Gava nel “depistaggio” sulle indagini del caso Cirillo.

Giuliano Vassalli, ministro di Grazia e Giustizia, si distingue per “garantismo” quando si tratta di aprire inchieste disciplinari a carico di quei magistrati che timidamente, si permettono di dissentire da certe verità ufficiali o usano toni eccessivamente duri nei confronti di personaggi coinvolti nei processi per “terrorismo”: ovviamente, quando fanno parte del “Palazzo”.

Lo ha fatto, abbiamo visto, con il giudice istruttore del caso Cirillo, lo ha fatto con il pubblico ministero, dr. Gabriele Ferrari, nel processo in Corte d’Assise a Venezia per l’attentato di Peteano, l’ha fatto ancora con i magistrati di Bologna nel momento in cui è in corso il processo d’appello per la strage dei 2 agosto del 1980.

Ma, forse, non è solo “garantismo” ad uso e consumo dei politici e dei loro amici; forse, ad indurlo a comportarsi così sono certi ricordi della sua giovinezza quando a Roma, nel 1944, militava nel servizio informativo del Partito socialista nella Resistenza, agli ordini di Francesco Maria Malfatti di Montetretto (P. Tompkins, Una spia a Roma, Garzanti, Milano 1972).

Anche Giuliano Vassalli ha fatto il suo tirocinio e le sue esperienze nel gioco dello spionaggio avendo come maestro un esperto in doppio-gioco, quel Malfatti di Montetretto che collaborava con i tedeschi e, contemporaneamente, con gli Alleati.

Quando Vassalli venne arrestato dai tedeschi la luce del miracolo rischiarò il grigio cielo della Capitale “occupata”. Il maggiore Kappler si commosse per la giovane età di Vassalli e lo rimise in liberta senza interrogarlo, senza processarlo, senza internarlo in qualche lager in Germania, senza fucilarlo.

Un miracolo, ripetiamo, un miracolo.

Gli anni sono passati, il “graziato” dal nazista Kappler è diventato ministro di Grazia e Giustizia, mentre il suo maestro in doppio-gioco e wet operations, a sua volta, è divenuto il “vice-capo” della Loggia P2.

Gli anni sono passati ed è sopraggiunta la vecchiaia, e con essa il sentimentalismo che colora di tenui e splendidi colori i ricordi della giovinezza, riportando alla mente le belle amicizie di allora: Kappler, Francesco Maria Malfatti di Montetretto, etc. etc.

E irritato, come tutti i vecchi, dalla constatazione che il tempo perduto non ritornerà, il ministro Giuliano Vassalli diventa implacabile con tutti quei magistrati che vogliono comprendere cos’è stata esattamente la Loggia P2. Si può capire, specie in una società di miscredenti dove si crede ai “miracoli” e qualche impudente vorrebbe trovare una spiegazione più logica alla “grazia” concessa dal maggiore Kappler all’agente segreto socialista Giuliano Vassalli.

Si può capire. Un miracolo? Mah…

Fra gli uomini che dovrebbero sostenere l’impegno della magistratura nella ricerca della verità, non possiamo non citare Arnaldo Forlani, oggi segretario nazionale della Democrazia cristiana, quella delle “crociate” e delle “dighe”

Forlani era presidente del Consiglio dei ministri quando esplose il cosiddetto “scandalo” della P2 e si attivò subito, immediatamente, per facilitare l’operato dei giudici che indagavano sul caso. O meglio, proprio “immediatamente” no perché si tenne chiusi in un cassetto, gelosamente custoditi e segreti, gli elenchi degli appartenenti alla Loggia riservata, per ben tre mesi.

Perfino nel nostro ameno Paese, qualcuno trovò scandaloso che il presidente del Consiglio si comportasse così quasi volesse “coprire” gli “eversori” della P2, e Arnaldo Forlani, sconvolto dall’ingiusto sospetto, alla fine si dimise.

Il tempo è “galantuomo” e ora Arnaldo Forlani è tomato ai vertici della politica italiana decisissimo a dare ai magistrati italiani la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità sulla P2 e sul “terrorismo”: dopo, però.

Dopo che si saranno concluse le inchieste disciplinari a carico dei magistrati che hanno indagato sulla P2; dopo che i processi per “terrorismo” saranno passati nelle mani del dr. Corrado Carnevale, presidente della Prima Sezione della Corte di Cassazione e inquisito per “vilipendio all’ordine giudiziario”; dopo che il dr. Marsili, genero di Licio Gelli e procuratore capo della Repubblica di Perugia, sarà stato ammesso in Cassazione; dopo che la Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo e le stragi avrà concluso i suoi lavori; dopo che si saranno conclusi i lavori della seconda Commissione parlamentare d’inchiesta sulla Loggia P2 già richiesta, a gran voce, visti i brillanti risultati ottenuti dalla prima, dai socialdemocratici di Occhetto; dopo, quindi, dopo…

Non possiamo non concludere questa breve carrellata sul potere politico impegnato a negare tutta la verità senza includervi anche alcuni esponenti radicali.

Ce li ricordiamo Marco Pannella e Massimo Teodori mentre tuonavano contro i “piduisti”, contro i Servizi “deviati”, contro il “potere” che occultava la verità sugli “anni di piombo”.

Poi, è calato il silenzio.

Folgorato sulla via di Arezzo, Marco Pannella ha candidato nelle liste del Partito radicale il generale del Sid, iscritto alla Loggia P2 Ambrogio Viviani che è proprio all’opposto di Ilona Staller “Cicciolina”: lei, infatti, “mostra” proprio tutto, lui invece nasconde tutto. In comune, i due, oltre alla militanza nel partito di Pannella hanno solo la mancanza di pudore.

Massimo Teodori, dopo aver scritto articoli e perfino un libro (M, Teodori, P2: la controstoria, Sugarco, Milano 1985), in parte condivisibile, ha perfino trovato il coraggio, incredibile per un politico italiano, di presentarsi quale teste volontario al processo per la strage di Bologna del 2 agosto 1980. Non per ribadire quanto di grave aveva scritto nel suo libro contro i “piduisti”; più semplicemente, la sua coscienza tormentata non gli consentiva di tacere alla Corte che, secondo lui, Francesco Pazienza e Licio Gelli non si erano mai conosciuti: esattamente quello che hanno sempre dichiarato Licio Gelli e Francesco Pazienza.

Quando si dicono le “coincidenze!

Oggi, Ambrogio Viviani rappresenta in Parlamento quell’ala politica che vuole la verità e che della ricerca della verità aveva fatto il suo cavallo di battaglia, la sua stessa ragione di essere. E, quando perfino il Parlamento in un sussulto di pudore ha cercato di sbarrare il passo al piduista Viviani, Marco Pannella lo ha rimbrottato affermando che il povero generale del Sid era “perseguitato” perché era “un militare onesto”.

Bisogna, comunque, dare atto al vulcanico Pannella ed ai suoi colleghi che di cercare la verità non hanno più parlato.

Non per pudore. Per furbizia.

Degli altri politici non vale la pena di parlare.

Bettino Craxi e i piduisti del Psi considerano chiusa, l’ha detto il boss, la questione della P2; Achille Occhetto parla, invece, parla molto ma fatti non ne fa. Avete mai visto una “marcia dei centomila” – metalmeccanici, netturbini, scaricatori di porto – su Montecitorio per chiedere verità sul terrorismo e le stragi? No? E rimettetevi a sedere perché non la vedrete mai.

Occhetto è un “nuovo comunista”, ben vestito, educato, cortese, “umano” e capace anche di gratitudine. È stato Bush, il vice-direttore della Cia, oggi presidente degli Stati Uniti, a permettergli di recarsi in America a porgere omaggio alla memoria dei soldati americani caduti nel Vietnam, e volete che lui lo ricambi chiedendo sul serio la verità sul terrorismo in Italia, le “diversioni strategiche”, le “strutture parallele”, e via di seguito.

Ma andiamo.

Eccola, in sintesi, l’Italia dei “furbi, anzi dei furbissimi”. Quelli che da quarantacinque anni spadroneggiano nel nostro Paese, dicendo sempre le stesse cose (da Portella delle Ginestre a Bologna), indistruttibili nel loro potere che si rafforza sempre di più, dopo che lo hanno cementato nel sangue di coloro che sono morti nella più tragica delle illusioni: quella di doverlo difendere gli uni, quella di poterlo combattere gli altri; e, in mezzo, coloro che volevano vivere e sono morti.

Per tutti si finge di cercare una verità che non verrà mai data.

È l’ultima beffa che l’Italia dei furbi consuma ai danni dell’Italia dei morti.

Conclusioni

Il documento presentato offre spunti di riflessione, suscettibili di approfondimento, basati su fatti incontrovertibili sui quali si può tacere, ma che non sarà possibile negare.

La storia del “mondo libero”, in questi quarantacinque anni, deve essere ancora scritta; quell’Italia che in questo cosiddetto “mondo libero” si è inserita dopo la sconfitta nella seconda guerra mondiale, noi la abbiamo vissuta in prima persona.

È la storia di una “guerra fredda” che è stata certamente vinta da coloro che l’hanno promossa e diretta in tutti questi anni. È in suo nome e per suo conto che l’Italia è stata trasformata in un campo di battaglia che, oggi, tutti vogliono dimenticare.

Ma sbagliano coloro che parlano ora di “pace” e vantano i loro trionfi sul “comunismo” sconfitto certamente nel confronto con gli Stati Uniti; sconfitto dalla fame, dalla miseria, dalla povertà che la sua utopia ha provocato in Russia e in tutte le nazioni che hanno avuto la sventura di adottarlo come regime.

Sbagliano perché gli Stati Uniti non hanno mai inteso combattere e vincere il comunismo, come ideologia dalla quale si potevano sentire minacciati, ma hanno voluto spezzare la potenza russa che del comunismo si serviva come di un’arma da affondare nelle carni e negli animi dei popoli dell’Occidente.

Crollato il comunismo, resa inservibile l’arma ideologica, rimane la Russia; che non è solo quella che cerca disperatamente l’aiuto economico dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti ma è anche quella che attende, in un silenzio carico di minaccia, di vedere se la debolezza del regime attuale è transitoria o se può determinare la sua definitiva eclissi dalla scena di un mondo nel quale avanzano, implacabili, i giganti dell’Asia.

È la Russia che veglia sulla sicurezza dei suoi confini, che teme la rinascita della Germania, che paventa il diffondersi del verbo islamico, che si guarda dalla Cina infida come amica e come nemica; e che mantiene le armi al piede pronta ad usarlo se mai sarà necessario.

È la Russia di sempre, da Pietro il Grande a Stalin, quella che ora sembra giacere all’ombra di Gorbaciov ma che è viva e pronta ad emergere alla luce per ribadire il suo diritto alla leadership in Europa e per realizzare il mai dimenticato sogno imperiale della “terza Roma”.

Gli Stati Uniti lo sanno, paventano il pericolo e non abbassano la guardia. I loro apparati difensivi, convenzionali e non convenzionali, sono oggi più all’erta che mai.

Non siamo, quindi, volti al passato quando affermiamo che esiste l’esigenza imperiosa di fare luce su tutto quello che è accaduto in Italia non solo dagli anni Sessanta in avanti ma andando a ritroso nel tempo perché è negli anni della guerra perduta che noi ritroveremo quel filo d’Arianna che ci consentirà di uscire fuori dal labirinto.

Ciò che è accaduto si potrà ripetere. È questo il pericolo da sventare.

Non bastano, per fare questo, le piccole verità giudiziarie che cercano solo esecutori materiali di gesti che rispondono ad una logica di potere, come le grandi stragi da piazza Fontana alla stazione di Bologna; o rivoluzionari alla Renato Curcio e Corrado Alunni.

Non bastano, perché falsificano la verità le accuse di “associazione sovversiva” a carico di ufficiali o funzionari di polizia e dei servizi di sicurezza per giustificare con una loro presunta infedeltà allo Stato il loro ruolo nei “depistaggi” e nelle “coperture” offerte a destra e a sinistra ad eversori veri o, più spesso, presunti.

È giunto il momento di finirla di cercare “connubi” e “complotti” ai danni dello Stato fra “terroristi e “servizi deviati” che non hanno mai deviato.

È giunto il momento di porre alla base delle proprie ricerche verso una verità che non è irraggiungibile solo che lo si voglia, l’affermazione fatta dal generale Mario Cinti dinanzi alla Commissione d’inchiesta sul terrorismo e le stragi che lo ascoltava come teste sulla strage di Ustica. Più che una affermazione è stata un’esortazione gravida di significato: “…Inoltre mi sento di dire –ha detto l’ufficiale – che il giuramento di ogni soldato è di fedeltà al Paese e a nessun altro. Del Paese facevano parte gli ottantuno morti del DC9…” (A. Purgatori, Nei nastri di Ustica i segreti Nato, Corriere della Sera 1.7.1989).

Del Paese, diciamo noi, facevano parte tutti coloro che sono morti in questi anni durante i quali nessun ufficiale ha ricordato di aver un giorno giurato fedeltà all’Italia e non agli Stati Uniti ed all’Alleanza atlantica.

E sono morti nel corso di una guerra ideologica che poteva e doveva non investire il nostro Paese se diversa fosse stata la politica estera dei nostri governi; se non avessero, questi, deciso che la nostra politica doveva essere quella dell’America e per l’America.

Nessuna nazione europea ha conosciuto per durata di tempo e gravità di eventi quello che è accaduto in Italia, dove è stato reso possibile dalla “cupidigia di servilismo” di una classe politica unicamente preoccupata di mantenere il potere assecondando in tutto i voleri della potenza egemone.

Il “caso Italia” trova paragone solo con il “caso Argentina”, e mostra a coloro che hanno l’intelligenza e il coraggio di comprendere, che il “terrorismo” venne creato e strumentalizzato per fini di politica interna ed internazionale che poco o nulla avevano a che vedere con la realtà di un “pericolo comunista” che non esisteva se non su un piano elettorale. In Argentina, infatti, sullo stesso piano esisteva un pericolo “peronista” che si è dovuto dipingere, propagandisticamente, con i colori del marxismo per rendere anche in quella terra, infelice come la nostra, l’impressione visiva di un attacco “rivoluzionario” sovietico-cubano al quale era “imprescindibile” rispondere con le tecniche della guerra controrivoluzionaria.

Anche in Argentina, è vero, la verità non riesce ad emergere ma almeno una condanna formale dei militari l’hanno ottenuta. Non è stata motivata nel modo giusto perché porre alle basi di un processo ai militari il tradimento del proprio Paese – come in realtà è avvenuto – è cosa che gli Stati Uniti non avrebbero permesso per evitare che si sapesse a favore di chi e su istigazione di chi avevano tradito; così si è ripiegato sulla “violazione dei diritti umani” e condannando i metodi si sono coperti i fini di quella guerra civile.

L’Argentina è una nazione giovane che ha la sventura di essere collocata nel “cortile di casa” dell’America del nord; per essa si può dire, parafrasandola, quell’affermazione che da sola rendeva tutta la disperazione del Messico, “così lontano da Dio e così vicino agli Stati uniti”.

L’Italia è una nazione che ha alle sue spalle una storia millenaria, è lontana dagli Stati Uniti, ha risorse che i poveri paesi dell’America latina non hanno, eppure non ha fatto, fino ad oggi, neppure quell’atto formale di condanna di una classe militare e politica che si è macchiata di tradimento nei confronti di un intero popolo.

Perché questa accusa sottintendono le parole del generale Mario Cinti ai suoi colleghi che sono da dieci anni impegnati a difendere, una volta di più, gli interessi dell’Alleanza atlantica contro i propri concittadini, contro il proprio Paese.

A farlo, questa volta, non sono solo i soldati “perduti” all’onore e alla dignità dei servizi segreti, ma addirittura l’Arma aeronautica, quella che si chiamava “azzurra” dal colore di un cielo che, nella guerra perduta, l’aveva vista difendere disperatamente le nostre città massacrate dagli attacchi terroristici di un Paese come gli Stati Uniti che del “terrore” ha fatto l’arma raffinata delle sue conquiste e del suo potere.

Oggi, l’Arma azzurra che non ha potuto e voluto salvare la vita di ottantuno cittadini italiani uccisi in un cielo nostro dieci anni fa, continua a proteggere gli assassini non in nome del Paese che rappresenta ma dei protocolli segreti dell’Alleanza atlantica, dei patti scellerati che ancora non conosciamo ma che sappiamo essere alla base non solo della vergogna di Ustica ma dei massacri di quarant’anni.

Non siamo giunti per fatalità del destino, non abbiamo vissuto tutto questo perché il Kgb ha fomentato la “rivoluzione” in Italia, o perché i nostalgici del regime “fascista” hanno sognato e tentato di impadronirsi del potere; no, abbiamo vissuto in uno stato di guerra perché la classe politica ha offerto alla nazione lo spettacolo miserando e miserabile di un potere che ruba, che arraffa, che truffa, che depreda, che prevarica, che sfrutta e che, infine, ha rischiato di perdere il confronto elettorale con un Partito comunista che si presentava come l’alternativa dell’onestà e del buongoverno contrapposta al ladrocinio ed al malgoverno dei democristiani e dei loro complici.

E questo non se lo potevano permettere né gli Stati Uniti né l’Alleanza atlantica e tantomeno i democristiani che del potere e per il potere vivono.

E, allora, hanno creato le organizzazioni dell’ultrasinistra, hanno affisso i “manifesti cinesi”, hanno finanziato le organizzazioni marxiste-leniniste, hanno suscitato il “pericolo rosso” e poi, non bastandogli, hanno risvegliato il “pericolo nero” e ancora quello rosso e nero congiunti nell’odio verso la democrazia.

Non è fantapolitica. È la politica del tradimento e dell’inganno.

È quella politica che ha indotto milioni di italiani a rivolgersi ancora, elettoralmente, ai partiti di centro-sinistra, ai “moderati” che fronteggiavano l’attacco “terroristico”. È la politica che ha obbligato i dirigenti del Pci ad allinearsi nella condanna e nella guerra contro i “terroristi” per timore di restare schiacciati fra una popolazione che chiedeva sicurezza ed un potere che dimostrava la politica ideologica comune fra i “terroristi” delle Brigate rosse ed il Pci. È la politica che ha visto Giorgio Almirante, questo nefasto istrione, chiedere la “doppia pena di morte” per i “terroristi di destra” completando in questo modo il bastione difensivo della fortezza democratica dentro la quale si asserragliavano i “buoni” lasciando fuori dalle mura i “cattivi”, i “maniaci ideologici”, coloro che la fortezza assaltavano per un fanatismo che non trovava posto e giustificazione dall’estrema sinistra comunista all’estrema destra “neofascista”.

Le prove per configurare anche giuridicamente il reato di tradimento non mancano, non sono poche, non sono labili.

 

È stato detto e scritto che la “Rosa dei venti” era una “legittima organizzazione Nato” ma l’evidenza non è stata accettata proprio da quella magistratura che vuole la verità.

Il colonnello Amos Spiazzi ha detto e ripetuto di aver obbedito agli ordini per tutte quelle attività che lo hanno condotto varie volte dinanzi ai magistrati in veste di imputato meritevole, per la gravità delle sue colpe, di arresto.

Eppure Amos Spiazzi non ha mai cessato di far parte delle Forze armate perché lo Stato maggiore ed i ministri della Difesa non hanno mai ritenuto opportuno congedarlo; perché loro conoscono quella verità che la magistratura si rifiuta di accettare.

Il generale Dino Mingarelli, al processo di Peteano, in appello, ha dichiarato di aver obbedito agli ordini impartitigli dal suo superiore, il generale di divisione Giovanbattista Palumbo. Costui è morto, ma non è da dubitare che di fronte alla prospettiva di una condanna penale e morale avrebbe detto la stessa cosa indicando in altri suoi superiori gerarchici gli ispiratori delle sue iniziative.

Sono solo due esempi, altri potrebbero seguire.

Gli esperti del “fenomeno terroristico”, compresi i magistrati, non si sono mai preoccupati di raggruppare in un’unica lista i nomi di quegli ufficiali dei carabinieri e dei servizi di sicurezza militari e di quei funzionari di polizia e dei servizi segreti civili che sono stati, a vario titolo, inquisiti in questi venti anni di disordine e di sangue.

Hanno solo contato quanti fra costoro erano iscritti alla loggia P2 e ne hanno tratto la convinzione che “complottavano” contro la democrazia, il regime e lo Stato perché ideologicamente fascisti.

Nulla sembra smuovere la loro sicurezza, neanche il fatto che a nessuno di costoro il governo ha torto un capello, stroncando la carriera solo a coloro che, in sede giudiziaria, hanno alimentato con le loro dichiarazioni le tesi accusatorie di taluni magistrati e mantenendo nei loro incarichi e, talora, promuovendo coloro che, invece, hanno negato anche l’evidenza, dimostrando in tal modo il rispetto delle regole del gioco.

Quelle regole non scritte che impongono al “capro espiatorio” di tacere, di non mettere in imbarazzo i complici, in attesa che il tempo e le manovre sotterranee risolvano la sua situazione e gli consentano di riacquistare ciò che ha perduto, e anche qualcosa di più.

È ciò che hanno fatto tanti.

Quando Amos Spiazzi, al suo primo arresto, cercò di scrollarsi di dosso le accuse della magistratura dicendo più di quel che doveva, un suo superiore gerarchico, un ufficiale generale, alla presenza di un magistrato, in sede di confronto, gli disse: “Te lo dico come un padre, stai parlando troppo…”. Il generale non venne arrestato e Spiazzi, da allora, ha taciuto.

Coglie lo sconforto quando ancora oggi ci tocca leggere in sentenze istruttorie che i “fascisti” riuniti in convegno all’Hotel Parco dei principi di Roma, nel maggio del 1965, hanno varato la “strategia della tensione”; e si porta come prova il fatto che in platea vi era Stefano Delle Chiaie, e si tace che alla presidenza sedevano rappresentanti ufficiali dello Stato.

Non è così che si otterrà verità. Così si continuerà a negarla.

Noi non crediamo, nonostante tutte le evidenze contrarie, che l’inganno sia il motore della Storia. Crediamo, invece, che per lunghi che siano i periodi durante i quali il cielo si oscura al pari delle menti e delle coscienze degli uomini, la luce possa tornare a risplendere.

E questa volta, se la vista dei politici e dei militari italiani impegnati a “coprire” la strage di altri italiani ad opera di stranieri “alleati” e complici riuscirà a smuovere le coscienze e a far accettare la realtà che vuole lo Stato primo responsabile di una guerra civile che ha insanguinato la nostra terra per venti anni, in nome delle stesse complicità e di quei medesimi patti che lo obbligano a tacere e a coprire quello che avvenne nel cielo di Ustica il 27 giugno 1980, allora quella luce che cerchiamo potrà emergere dai fondali oscuri dell’abisso del mare nel quale riposano ottantuno morti che cercano giustizia; potranno darla a tutti coloro che, in altre circostanze ma per la stessa logica di asservimento ad una potenza straniera e nemica, sono stati anch’essi assassinati in nome del “mondo libero” e dell’Occidente.

Ed allora, quel giorno, quella pace che non abbiamo ancora conosciuto potrà ritornare nelle coscienze di tutti insieme a quella libertà di decidere il nostro destino che una guerra perduta ed una classe dirigente protesa, senza eccezioni, a difendere i propri particolari interessi contro quelli di sessanta milioni di uomini, ci hanno tolto da mezzo secolo.

Appendice I: il peso della battaglia

(Parma, 4 novembre 1990)

Il documento che precede queste pagine è stato scritto nel carcere di Sollicciano (Fi), dal 22 giugno al 7 luglio 1990.

Il giorno seguente, 8 luglio, è stato inviato, accompagnato dalla lettera che riproduciamo in appendice, al dr. Grassi, giudice istruttore presso il Tribunale di Bologna.

Meno di un mese più tardi, su “Il Corriere della Sera”, leggevo queste brevissime righe: “…Struttura segreta della NATO in Italia: ‘Era stata predisposta ipotizzando una invasione del nord Italia: è rimasta in attività fino al ’72. Entro sessanta giorni ci sarà una dettagliata relazione alla Commissione” (P. Graldi, “Dal 1978 l’URSS non ama i terroristi” sul “Corriere della Sera” del 4 agosto 1990).

Era la stringatissima sintesi di un intervento in Parlamento sui “misteri d’Italia” del Presidente del Consiglio, Giulio Andreotti.

Non una parola di più, non un commento: ma bastava.

Sembrava la fine di una battaglia iniziata sei anni prima: “…1° luglio 1984 (al giudice istruttore di Bologna): ‘…Con l’attentato di Peteano e con tutto quanto ne derivò ebbi finalmente chiara consapevolezza che esisteva una vera e propria struttura occulta capace di porsi come direzione strategica degli attentati…’“ (G. Salvi, La strategia delle stragi, op. cit., pag. 318.).

Era stato solo il principio.

Si sono esposte alcune risultanze delie inchieste parlamentari – scrive il dr. Renato Gavagnin nella motivazione della sentenza di 1° grado del processo di Peteano – sul piano “Solo” e sulla Loggia P2 per una puntualizzazione storica su personaggi che si ritrovano nel presente procedimento e che quelle risultanze aiutano a comprendere, nella dinamica di comportamenti giustificabili, nel senso di essere comprensibili, avendo presente, appunto, l’ambiente di cui facevano parte e nel quale operavano. Ma non solo per questo.
Era necessario richiamare quelle inchieste parlamentari anche perché esse costituiscono, sotto certi aspetti, la conferma di quanto sostenuto da Vincenzo Vinciguerra in tema di strategia della tensione e del ruolo svolto da determinati apparati dello Stato.
Due punti al riguardo meritano di essere sottolineati, sempre sostenuti dall’imputato, e in istruzione e nel dibattimento e nei memoriali prodotti; il primo, che si può dire stia a monte e dia giustificazione di tutto quanto poi è seguito, è che fin dal dopoguerra sarebbe stata costituita “una struttura parallela ai servizi di sicurezza che dipendeva dalla Alleanza atlantica; i vertici politici e militari italiani ne erano perfettamente a conoscenza.
Si trattava di una struttura attrezzata anche sul piano operativo ad interventi di sabotaggio nel caso si verificasse un’invasione sovietica.

Il personale veniva selezionato e reclutato negli ambienti dove l’anticomunismo era più viscerale e cioè negli ambienti di estrema destra… Quindi la strategia della tensione che ha colpito l’Italia, e mi riferisco a tutti gli episodi che partono dal 1969 e anche prima, è dovuta all’esistenza della struttura occulta di cui ho detto e agli uomini che vi appartenevano e che sono stati utilizzati anche per fini interni da forze nazionali ed internazionali, e per forze internazionali intendo principalmente gli Stati Uniti d’America.
Quella struttura è sorta e ha agito non per rovesciare l’attuale sistema ma semmai per provocare degli spostamenti all’interno, nel senso che non c’è mai stato un tentativo di attuare un colpo di Stato, ma vi è stato un tentativo di spostare l’equilibrio politico eventualmente mettendo fuori legge le opposizioni di sinistra e successivamente anche di estrema destra, non il Msi.
Vi è sempre stata una preminenza dell’uomo politico sul militare, in particolare per uomini politici intendo riferirmi – precisa Vincenzo Vinciguerra – a uomini della Democrazia cristiana…
Ribadisco che molti uomini del Centro Studi ON erano e sono inseriti nella struttura di cui ho parlato e tra questi colloco anche Zorzi (ibidem, pp. 107-108).

E il dr. Renato Gavagnin così prosegue: “Qui non tanto è questione di ritenere se effettivamente quanto riferito dal Vinciguerra si sia verificato nei termini da lui precisati….quanto di valutare se la tesi del Vinciguerra possa costituire un logico presupposto delle situazioni che nel tempo seguiranno e che culmineranno nelle vicende della Loggia P2 descritte nell’inchiesta parlamentare.
Non vi è dubbio che la risposta deve essere del tutto positiva dato che soltanto un terreno predisposto ad accoglierle avrebbe potuto dare alimento e vigore ad iniziative contro le istituzioni repubblicane e a tradurle in realtà all’interno di determinati corpi dello Stato.
La sfera d’influenza e il potere che ebbe in un certo momento Licio Gelli – semplice cittadino senza alcuna carica pubblica – si giustificano nella loro acquisizione e nel loro consolidamento soltanto con riferimento ad una frana di rapporti tra e con organi statuali di varia natura, che nel Gelli aveva un punto di aggregazione operativa che ripeteva, però, la sua forza proprio dall’essere espressione di un establishment del tipo di quello prospettato dal Vinciguerra.
Il quale è credibile – ribadisce il presidente della Corte d’Assise di Venezia – anche sotto un altro profilo, quando cioè, postula che tutto questo avveniva non tanto perché chi agiva in tal modo fosse fascista ed avesse di mira il ripristino del vecchio regime, quanto perché si intendeva agire in funzione essenzialmente anticomunista e con la volontà di consolidare l’attuale sistema su basi politiche di chiusura verso possibili aperture a sinistra: ed in questa ottica deve essere letto il piano ‘Solo’…” (Ibidem, pag. 108).
Il presidente della Corte d’Assise di Venezia, estensore delle motivazioni, affermava così una verità giudiziaria che equivale ad una verità storica.

Ma con il processo in Corte d’Assise non finiva una battaglia; e, il 15 settembre 1987, inviavo all’onorevole Massimo Teodori, per mezzo dell’avvocato Giuseppe Pisauro, un “promemoria” (allegato in appendice) che doveva servire quale base per un colloquio in carcere.
Sulle “strutture parallele” vi si poteva leggere: “Un punto di estrema importanza, ad esempio, è quello riguardante l’esistenza di una struttura segretissima in funzione antiguerriglia ed antisovietica della quale fanno parte militari e civili.
Nonostante l’ottusa indifferenza dei magistrati veneziani inquirenti, un indizio della sua esistenza è stato fornito dal noto Federico D’Amato che, a domanda della Difesa, ha risposto di non esserne a conoscenza ma di non poter escludere che esista.
Se aggiungiamo questa risposta, ultima in ordine di tempo ma non di importanza, a quelle date da Miceli al processo per il ‘golpe Borghese’ e da altro ufficiale alla Commissione di inchiesta sulla loggia P2 e da Amos Spiazzi a vari magistrati, vedremo come l’esistenza di questa struttura sia una realtà negata ma viva ed operante.
Non è difficile ipotizzare quanto imbarazzante sarebbe per il potere politico dover ammettere l’esistenza di una superstruttura militare diretta da forze sovranazionali e operante anche contro gli interessi del Paese, ma non del potere.
Una super-struttura che vede inglobati civili ideologicamente anticomunisti, ferocemente anticomunisti, privi di senso nazionale e di sentimenti nazionalistici (contrariamente a quel che si crede quando si parla di uomini di “destra”), pronti a tutto e capaci di tutto.

Solo riconoscendo l’esistenza di queste realtà si può comprendere l’assenza di motivazioni logiche nel comportamento dei carabinieri nelle indagini sull’attentato di Peteano; perché per questa via si proverebbe con i fatti, l’esistenza di una strategia politica che utilizza tatticamente mezzi diversi ma conserva, oggi come ieri, il fine di difendere l’attuale Potere.

Hanno potuto occultare in vari modi, come ho già sottolineato, la presenza di questa struttura in tutti i processi per terrorismo e per strage e, soprattutto, la sua strategia, ma non in quello di Peteano” (Promemoria per Massimo Teodori del 16 settembre 1987).

Massimo Teodori, nell’ottobre del 1987, chiede al ministero di Grazia e Giustizia l’autorizzazione per venire a colloquio nel carcere di Prato, ma, poi, ci ripensa e rinuncia senza alcuna motivazione e senza alcuna spiegazione.

Nel febbraio del 1989 il Partito comunista italiano edita un libro a cura del dr. Giovanni Salvi, sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma, sulla sentenza emessa dalia Corte d’Assise di Venezia per l’attentato di Peteano il 25 luglio 1987.

Nel saggio introduttivo, il magistrato romano scrive: “Un interrogativo inquietante è al centro della sentenza e resta irrisolto: ha operato nel nostro Paese una struttura occulta, con radici lontanissime negli anni della seconda guerra mondiale e finalizzata a garantire la stabilità politica, come afferma Vincenzo Vinciguerra?” (G. Salvi, op.cit., pag. XX).

Non fa onore al dr. Giovanni Salvi il modo con il quale ha “curato” la presentazione al pubblico della sentenza della Corte d’Assise di Venezia su Peteano ma su questo punto non ha potuto esimersi dal lasciare a me, e solo a me, la responsabilità di quanto avevo affermato in sede processuale sull’esistenza delle “strutture parallele”.

Difatti, secondo lui, “La sentenza riferisce, dunque, la tesi di Vinciguerra senza prendere posizione e senza approfondirla, coerentemente con i limiti dell’oggetto sottoposto al giudizio della Corte” (Ibidem, pag. XXI).

Pochi mesi più tardi, nell’ottobre dei 1989, a cura della Casa editrice Arnaud di Firenze, viene editato il libro da me scritto nel carcere di Sollicciano, Ergastolo per la libertà.

Nel libro i riferimenti alle “strutture parallele” sono molteplici, ma più che altro si basano su esperienze ed osservazioni personali che nessuno può smentire.

Difatti, si limitano a tacere.

Ne faccio spedire copia a Sergio Zavoli che non reagisce; un’altra la faccio arrivare al dr. Giovanni Salvi che incassa e tace; la terza copia, la faccio pervenire al dr. Grassi che scompare.

Ai loro posto – ed è cronaca di questi giorni – compare il solito Felice Casson che dice: “Ho scoperto mi, so tutto mi, ghe bravo ghe son”.

Il peso di una battaglia che non avrà mai fine non ci spaventa.

Appendice II: Pagine bianche dedicate ai sordi, ai ciechi e ai muti (s. d.)

Non ho voluto, per scelta, scrivere queste pagine all’interno del documento perché non voglio obbligare chi lo leggerà a prendere nota, suo malgrado, di quanto dirò in riferimento alle mie vicende personali. Avrei potuto farlo perché l’origine di quanto è accaduto, e continua ad accadere, attorno a me è politicamente motivata dalle mie scelte ideali, ma non ho voluto.

Le dedico a coloro che nel corso di questi anni hanno ascoltato senza sentire, hanno visto senza vedere, hanno assistito senza parlare alla battaglia di un uomo solo contro tutti.

Ho scritto altrove, in un libro (Ergastolo per la libertà, Arnaud, Firenze 1989) un atto di accusa che hanno letto tanti, soprattutto coloro che nelle sue pagine sono chiamati in causa con nome, cognome e responsabilità; ma nessuno di costoro ha battuto ciglio. Imperturbabili ed impassibili hanno letto l’atto di accusa e hanno alzato le spalle, forti dell’arroganza del loro potere e delle loro protezioni, della loro mancanza di dignità e del sostegno di una magistratura inetta, codarda e cialtrona che tutto “copre” quando è sicura che chi denuncia non è un “potente” o amico di “potenti”.

Non starò a riepilogare quanto ho scritto, perché sarebbe una inutile ripetizione, viceversa voglio aggiungere fatti che, allora, per mancanza di documentazione non avevo evidenziato o non si erano ancora verificati.

Sono trascorsi sei anni dal 28 giugno 1984, dal giorno in cui dopo alcuni mesi di riflessione, ho deciso che la verità meritasse il sacrificio di una “libertà fisica” che nessuno poteva negarmi ove fossi stato al “gioco delle parti” e avessi taciuto sulle mie responsabilità nell’attentato di Peteano, indossando le vesti del “calunniato dai pentiti” e del “perseguitato” da magistrati comunisti o dai comunisti strumentalizzati.

Lo hanno fatto tanti, lo hanno fatto tutti: io no.

Alla “libertà fisica” ho preferito quella interiore, quella che nessuno potrà mai togliermi o limitare. E di questa scelta di libertà pago oggi il prezzo.

Non il prezzo giusto perché quello che mi si vuol far pagare si basa sulla falsificazione costante e sistematica della realtà etica, politica, processuale ed umana che mi riguarda.

Vediamo, uno per uno, i punti principali sui quali poggia l’attacco contro di me condotto dallo Stato dei delitti e delle stragi tramite i suoi rappresentanti togati e in uniforme ed i suoi tanti servi.

  1. A) “Stragista”.

Non occorre essere dei giuristi per sapere che giuridicamente si configura come “strage” qualsiasi atto che possa provocare la morte di tre o più persone o che possa, comunque, mettere a repentaglio la vita di più persone. Non occorre molto acume, basta il “buon senso comune”, per distinguere la differenza che passa fra un attacco ad un obiettivo militare e un massacro indiscriminato di uomini, donne e bambini. In guerra si uccide, non è una novità, ma si uccidono nemici politici (se è guerra ideologica) e/o militari.

È quello che io ho fatto a Peteano di Sagrado.

Peteano rimane giuridicamente un fatto di “strage”, non lo è sul piano morale. E, allora, perché “stragista”?

La ragione è semplice: ho denunciato le stragi da piazza Fontana alla stazione di Bologna come mezzi impiegati dal potere ed impiegati da uomini che dal potere traevano ispirazione e protezione. Per togliere credibilità a quanto dico devo, nella conoscenza dell’opinione pubblica, essere equiparato a costoro.

A condurre l’operazione sono coloro che dicono di “volere la verità”, cioè quegli uomini tesserati o meno a quei partiti di sinistra che non perdono occasione per gridare che la verità non si raggiunge perché i servizi di sicurezza conducono mirate campagne di disinformazione che finiscono puntualmente per vanificare ogni indagine. Non sono solo giornalisti, sono anche magistrati quelli che si prestano ad una campagna di “disinformazione” contro di me che favorisce -e loro lo sanno- gli strateghi del terrore e delle stragi.

Un esempio concreto, su questo punto, ci viene offerto da quanto ha scritto il dr. Giovanni Salvi, sostituto procuratore della Repubblica a Roma, in un suo libro sul processo di Peteano che, egli dice, “è, per il momento, l’unico tra tanti fatti di strage nel quale sia confesso uno degli autori materiali” (Giovanni Salvi (a cura di), Editori riuniti, Roma 1989, La strategia delle stragi, p. X).

Sergio Zavoli ha inserito nella puntata dedicata alle stragi dell’Italicus e di Brescia, nella sua trasmissione dedicata all’”autunno della repubblica”, l’intervista che gli avevo rilasciato e che doveva essere correttamente trasmessa nel corso della puntata che trattava dell’attentato di Peteano.

Il fine di entrambi i personaggi è evidente: ribadire la mia appartenenza alle schiere degli stragisti.

Vediamo quanto c’è di vero nella leggenda dell’”unico stragista” che ha confessato, cominciando da quegli attacchi ad obiettivi politici e militari che giuridicamente vengono qualificati come “stragi” per il numero di coloro che vi hanno perso la vita.

-Genova. 8 giugno 1976. In un agguato delle Brigate rosse perdono la vita un magistrato e gli uomini della sua scorta, per un totale di tre morti.

-Roma. 16 marzo 1978. Nel sequestro Moro, attuato dai brigatisti rossi, rimangono uccisi sul terreno nove uomini della scorta del presidente della Dc.

-Patrica (Frosinone). 8 novembre 1978. In un agguato ad un magistrato teso da appartenenti alle Formazioni comuniste combattenti, rimangono uccisi quattro uomini.

-Milano. 8 gennaio 1980. Le Brigate rosse tendono un’imboscata a tre agenti di polizia in forza alla Digos; tutti e tre vengono uccisi.

E l’elenco potrebbe continuare.

Ognuna di queste “stragi” conta non un solo “reo confesso” ma decine: pentiti e dissociati ai quali lo Stato ha concesso il “premio” che riserva a coloro che vogliono “libertà” ed in cambio offrono la propria dignità. Per tutti costoro, il dr. Giovanni Salvi, Sergio Zavoli, ecc. ecc. non hanno mai utilizzato, nemmeno una volta, il termine di “stragisti”.

L’unico deve restare chi scrive.

E veniamo alle stragi vere, quelle che sono tali sul piano morale oltre che giuridico e che appartengono di fatto e di diritto allo Stato e a chi lo rappresenta.

Oltre alle stragi senza colpevoli perché lo Stato non può ripagare con la galera a vita chi lo ha servito con tanta dedizione, vi sono altri due episodi di cui, invece, si conoscono gli autori. Ne citiamo due, entrambi di dominio pubblico.

-L’attentato al treno Milano-Genova nel quale rimase ferito l’ordinovista milanese Nico Azzi. Reo confesso, accusatore dei propri complici fra i quali vi è lo “stragista” Giancarlo Rognoni, Azzi va considerato, al pari dei suoi mandanti, uno stragista perché la bomba doveva far “saltare” un treno passeggeri.

– L’attentato, fallito per motivi tecnici, dinanzi al Consiglio superiore della magistratura a Roma, in piazza Indipendenza, che doveva provocare una strage di civili di immani proporzioni. Rei confessi: Sergio Calore e Valerio Fioravanti.

Vogliamo ricordarne altre? La strage alla Fiera campionaria di Milano del 25 aprile 1969 (venti feriti); quella sui treni dell’agosto 1969 (8 feriti); quella sul treno che conduceva gli operai a Reggio Calabria (sei feriti) nel maggio 1970; quella al carcere di Rovigo che servì a far evadere Susanna Ronconi ed altre sue compagne (un morto: un pensionato).

Non crediamo che i nomi di Nico Azzi, Giancarlo Rognoni, Sergio Calore, Valerio Fioravanti, Franco Freda e, ancora, di Valerio Morucci, Prospero Gallinari, Mario Moretti ecc. ecc. siano sconosciuti al dr. Giovanni Salvi, a Sergio Zavoli e a coloro che insistono nel definire “unico stragista che ha confessato” lo scrivente. Non crediamo che costoro non conoscano il lunghissimo elenco delle stragi, sia giuridiche che morali, che sono avvenute nel nostro Paese in tutti questi anni. Dobbiamo quindi chiederci per quale ragione costoro insistono sempre e soltanto sull’attentato di Peteano, compiuto in un solitario luogo di campagna, quale “unica strage” e sul sottoscritto quale “unico stragista che ha confessato”.

Ma la nostra è una domanda retorica come retorica è quella di chiedersi “a chi giova?”.

  1. B) “Reo confesso”.

A tutti noi è capitato di leggere articoli sui “dissociati” o di sentirne parlare in televisione. Mai, nemmeno una volta, abbiamo letto od ascoltato che costoro hanno “confessato” le loro “colpe” per ricevere un “premio” che è superiore perfino a quelli concessi ai “pentiti”. Giornalisti, magistrati, politici, ecc. ecc. hanno sempre utilizzato nei loro confronti il termine “assunzione di responsabilità”. Al sottoscritto, di converso, hanno sempre riservato il termine “reo confesso”, perché offre l’immagine del vinto, di colui che ha piegato il ginocchio di fronte allo Stato che lo ha “punito” con una meritata condanna al carcere a vita.

Ho portato sul banco degli imputati lo Stato. Mi sono assunto le responsabilità dell’attentato di Peteano mettendo a nudo la responsabilità di coloro che avevano “depistato” le indagini per proteggere la loro strategia politica. Non ho presentato richieste alla Corte. Non ho interposto appello contro una condanna all’ergastolo che mi ero cercata e che sottolineava la differenza etica fra me ed i miei avversari. Ho chiesto alla Corte d’assise di Venezia di dare “giustizia al Paese” ed in parte, nelle motivazioni, questa giustizia è stata data e questo mi è bastato per sottolineare il mio rispetto e la mia stima per quella Corte. E, da allora, non ho mai smesso di chiedere giustizia per il Paese al quale, è vero, ho procurato tre morti ma al quale ho offerto una libertà e, quindi, una vita in cambio senza nulla pretendere e senza nulla attendermi. Al Paese legale sono io che continuerò a dare quel disprezzo che merita, offrendo al Paese reale quel contributo di verità che posso dare, senza condizionamenti o compromessi.

“Reo confesso” no, nel mio caso è fuori luogo usare questo termine che è legittimo utilizzare con chi ritiene di aver commesso un reato; io ho fatto un “atto di guerra” per il quale non chiedo venia allo Stato delle stragi e dei “pentimenti”, delle “dissociazioni” e dei tradimenti.

Ma quella del “reo confesso” è ancora poca cosa rispetto ad altre immagini che di me sono state offerte alla pubblica opinione: “pentito” è stata quella più frequente, quando ancora l’istruttoria su Peteano era segreta. Ad alimentarla era in prima persona il giudice istruttore di Venezia, Felice Casson, uno di quelli che “vuole la verità” e comincia a calunniare e a diffamare un imputato. Ma non è stato l’unico magistrato perché, in data recentissima, il 17 gennaio del corrente anno, Michele Coiro, procuratore capo aggiunto presso la Procura della repubblica di Roma ha ribadito, con enfasi, il termine di “pentito” per quanto mi riguarda, nel corso della trasmissione, più volte citata, di Sergio Zavoli. Perfino “Tonino” (alias Antonio Labruna) non ha avuto la faccia tosta di darmi del “pentito” preferendo ricorrere ad un artificio verbale: “Mi accusa perché vuole benefici”. Al suo posto e per suo conto, l’ha detto un alto magistrato che, poi, non ha avuto il coraggio di raccogliere la denuncia per calunnia, pesantissima nella forma e nella sostanza, che ho presentato contro di lui definendolo fra l’altro… (omissione nostra ndr). Figurarsi, neanche per “oltraggio” mi hanno ancora processato per evitare che gli vada a ripetere quello che ho scritto nella mia lettera e che dimostri in pubblico quale… (come sopra ndr) sia il procuratore capo aggiunto della Procura della repubblica di Roma.

Insomma, per finire, si dice tutto meno che la verità che è scritta, per chi la vuole leggere, nelle pagine della sentenza della Corte di assise di Venezia dove si può leggere che “Vinciguerra è e rimane quel soldato politico che è sempre stato…” e non “pentito”, “dissociato”, “reo confesso”, “collaboratore della giustizia” e via offendendo non solo e non tanto la persona che è ormai al di là dell’offesa, quanto la verità, quella che dicono di volere e che, in realtà, negano cominciando perfino a smentire quello che ha scritto una Corte d’assise. E sono magistrati!

Dalla fama di “pentito”, o giù di lì, discende che debba essere “protetto” dallo Stato. Vediamo, quindi, la “protezione” che mi viene data.

  1. C) “Protetto”.

1) Dopo l’uccisione di Carmine Palladino e le aggressioni nel carcere di Rebibbia di alcuni elementi di Avanguardia nazionale (ad esempio, Giulio Crescenzi e Silvano Falabella), il ministero di Grazia e giustizia classificò i detenuti politici secondo le organizzazioni di provenienza, per ovvi motivi di ordine e di sicurezza all’interno delle carceri. È di pubblico dominio la mia militanza in Avanguardia nazionale e la difesa processuale di Stefano Delle Chiaie e dei suoi amici; non per il ministero competente per il quale io, invece, risulto di Ordine nuovo.

La ragione è semplice: evitare che possa scattare per me quella incompatibilità fra avanguardisti e ordinovisti che la tragica morte di Carmine Palladino ha tragicamente evidenziato fin dall’agosto del 1982. Dopo vari incontri individuali, sui quali tornerò più avanti, l’accorgimento del ministero di Grazia e giustizia ha dato i suoi frutti nel carcere di Rebibbia sul quale, giunto quale teste a difesa di A. N., sono stato condotto nel reparto dove sono alloggiati tutti coloro che si sono distinti, in questi anni, nell’incitamento all’aggressione contro gli “avanguardisti” e che, almeno alcuni, hanno talora partecipato fisicamente a queste aggressioni.

Finì come era scontato e logico che finisse visto che io fra gli “ammazzasette” del G.9 ci andai tranquillamente; e solo la mancanza del Concutelli di turno impedì ai miei avversari di porre in atto le minacce che da anni formulano contro di me.

Vi è da considerare che, sempre nel carcere di Rebibbia, nel 1985 e nel 1987, mi era stato fatto divieto di incontrarmi con costoro perché esisteva una “incompatibilità” che evidentemente, quando ha fatto comodo, è scomparsa, al momento opportuno, dalla memoria degli stessi carcerieri.

Servirebbe spiegare il perché?

2) A togliere al ministero di Grazia e giustizia e al carcere di Rebibbia l’alibi di un “errore” dovuto all’ignoranza dei fatti e delle contrapposizioni politiche e processuali, c’è ancora qualcos’altro.

Nel marzo del 1985, dal reparto G.7 di Rebibbia, venne diffuso un comunicato nel quale si attaccavano violentemente chi scrive e Stefano Delle Chiaie. Tra i firmatari comparivano Edgardo Bonazzi, Mario Tuti e Pierluigi Concutelli. Pochi giorni dopo, parto per Bari insieme a Bonazzi con il quale ebbi modo di conversare per oltre un’ora in una cella d’attesa del carcere pugliese.

Mario Tuti lo incontro, invece, nel febbraio del 1987, nell’imminenza della mia testimonianza a Brescia, in una cella d’attesa del carcere di San Vittore, dove conversiamo per un paio d’ore.

Pochi giorni dopo, il ministero di Grazia e giustizia invia alla direzione del carcere un fonogramma con il quale per “ragioni di sicurezza” si chiede il mio spostamento dalla sezione “transito”, dove mi avevano posto, a quella “speciale” dove erano rinchiusi Tuti, Concutelli e loro amici, a condizioni, però, che sia io a richiederlo.

Quale finezza!

Non ho mai chiesto, me ne vanto e me ne faccio un punto d’onore, “protezione” allo Stato per quello che dico e ho detto contro lo Stato; sono sempre stato dove mi hanno messo, anche nei momenti più acuti della campagna di diffamazione nei miei confronti e, casomai, ho fatto lo sciopero della fame per passare da sezioni di isolamento (a Rebibbia e a Prato) in quelle “comuni”.

Non posso, però, non rimarcare la singolarità di certi comportamenti ministeriali che mentre si adoperano per favorire i miei incontri con persone che hanno perfino firmato documenti scritti, ignobili nella forma e nella sostanza, contro di me e Delle Chiaie, si preoccupano di imporre “divieti di incontro” con Stefano Delle Chiaie e Giuseppe Pugliese.

Il “divieto di incontro”, per chi non sappia cos’è, s’impone a coloro che sono su posizioni processuali contrapposte.

Con Giuseppe Pugliese, il ministro di Grazia e giustizia mi aveva fatto incontrare nel dicembre del 1985, nel carcere di Viterbo, dove costui stava scontando una condanna all’ergastolo inflittagli in primo grado dalla Corte d’assise di Firenze per l’uccisione del giudice Vittorio Occorsio. I giornali mi indicavano come “pentito” al processo di piazza Fontana e a quello per la strage di Bologna del 2 agosto 1980; Pugliese era di Ordine nuovo e, per il ministero, lo ero anch’io e, quindi, tutto era a posto.

Nel febbraio del 1986, testimonio a Firenze, al processo di appello per la morte di Occorsio: una testimonianza difensiva a favore di Stefano Delle Chiaie che si riverbera positivamente anche sulle posizioni processuali dei suoi coimputati, fra i quali Giuseppe Pugliese. Immediatamente il ministero di Grazia e giustizia impone il “divieto d’incontro” che viene attuato in forma plateale all’interno del carcere di Viterbo dove io rimango alla sezione penale e Pugliese, una volta rientrato, viene spostato alla sezione giudiziaria.

A dare una spiegazione pubblica alla popolazione detenuta di questo episodio che aveva sconcertato perfino il personale di custodia, ci pensò il “Tempo” di Roma intitolando un articoletto sulla mia testimonianza a Firenze: “Teste ritratta”. Era vero il contrario, ma che importa!

Il “divieto di incontro” con Stefano Delle Chiaie mi venne imposto quando ancora mi trovavo al carcere di Prato e non potevo certo incontrare Delle Chiaie. Il motivo: avevo preannunciato al direttore di quell’istituto, competente a concedere l’autorizzazione, la mia intenzione di chiedere colloquio con la moglie del Delle Chiaie, Leda Minetti. Immediatamente, è scattato il “divieto di incontro”.

Il trasferimento nel carcere di Sollicciano, dove Delle Chiaie era ristretto, ha fornito ai carcerieri un motivo in più per diffondere l’infamia abituale (per loro) sul “pentito” che doveva essere “protetto” da loro in quanto accusatore del “povero” Delle Chiaie.

Altri risultati, oltre ad incrementare la diffamazione e gli insulti dei suoi dipendenti, il ministero di Grazia e giustizia non ha ancora ottenuto sia con i “divieti di incontro” con gli “amici” che con gli “incontri” con i nemici.

Può sembrare poco e, tutto sommato, inoffensivo; in realtà è tanto e pericoloso specie se si accompagna ad altra accusa (un’altra ancora) che appartiene alla sfera umana così da completare il “quadro” che lo Stato delinquente offre del sottoscritto tramite i suoi “soldati del carcere” al volgo detenuto e alle plebi in “libertà”: l’accusa di “omosessualità”.

  1. D) “Omosessuale”.

Se volgo lo sguardo intorno a me, dentro e fuori le carceri, soprattutto nel mondo politico e culturale, di “omosessuali” ne vedo tanti che, se lo fossi, mi sentirei in buona compagnia. Ma ho sempre amato le donne e anche se ho rinunciato, con la libertà fisica, all’amore fisico sono volti di donna che accompagnano i miei rari ricordi umani e gli ancora più rarefatti sogni.

Non starò a riscrivere quanto ho scritto in precedenza su questo punto che è divenuto (insieme a quello del “pentito”) il cavallo di battaglia di decine di carcerieri a Sollicciano, come in quelli nei quali ho soggiornato in questi ultimi anni, così come era stato previsto da chi questa accusa ha lanciato in forma anonima visto che l’amministrazione carceraria ufficialmente la nega ed ufficiosamente la fa ribadire nelle sezioni dai suoi dipendenti.

Invece di ritornare sul punto, riepilogherò brevemente i passi che ho fatto da quando ho percepito questa azione intossicante ai miei danni per cercare di dimostrare pubblicamente, in sede giudiziaria, la falsità dell’accusa.

Ottobre 1984: colloquio con il direttore del carcere di Belluno.

Maggio 1985: colloquio con un magistrato di sorveglianza.

Novembre 1985: colloquio con un magistrato di sorveglianza.

1987/1988: colloqui, lettere scritte, esposti, al ministero di Grazia e giustizia, incontri con i dirigenti del carcere di Prato.

Luglio 1988: verbalizzo con il dr. Giovanni Salvi l’esistenza di “voci” a mio carico in questo senso.

1989: colloqui con i dirigenti del carcere di Sollicciano, maresciallo generale e vicedirettore. Esposti-denuncia, a partire dal 30 gennaio 1989, alla Procura della repubblica di Firenze, esposto-denuncia indirizzato al dr. Alessandro Margara, presidente del tribunale di sorveglianza. Colloquio con tale De Felice, magistrato di sorveglianza di Firenze. Denuncia contro la Procura della repubblica di Firenze per omissione di atti d’ufficio, indirizzata per competenza alla Procura della repubblica di Bologna. Istanze di trasferimento motivate, fra l’altro, con la “persecuzione” posta in essere dalle guardie di custodia di Sollicciano. Un libro. Uno sciopero della fame dal 7 maggio al 13 giugno 1990. Due lettere alla Procura della repubblica di Firenze per dire loro che li considero “delinquenti giudiziari” e degni del mio “disprezzo”, così da ottenere in un processo per “oltraggio” la possibilità negata di denunciare la falsità dell’accusa e l’accanimento indegno con la quale viene portata avanti dai carcerieri.

Nulla, fino al 6 luglio (1990 ndr) quando, per la prima volta, due sottufficiali della polizia giudiziaria della Procura della repubblica di Firenze raccolgono la mia testimonianza in merito all’ultima denuncia, in ordine cronologico, da me presentata il 16 giugno 1990 a carico di alcuni carcerieri.

Vedremo con quali intenzioni e con quali risultati.

Ha scritto uno studioso che l’accusa di omosessualità permette anche al “peggiore dei carcerieri” di sentirsi migliore del prigioniero; e, dico io, questo vale anche per i carcerati solidali con i carcerieri (quanti luoghi comuni sulle barriere che esisterebbero fra gli uni e gli altri!) e necessitati, loro, scarti della società civile, di sentirsi anch’essi “superiori” ad un prigioniero che non fa “falsa politica”, non mendica benefici di legge e non si piega alle leggi non scritte del carcere e applicate sia dai custodi che dai custoditi.

E quanto altro si potrebbe scrivere sul conto dei carcerieri: censure postali illegali, lettere sottratte, lettere consegnate aperte o sporcate con gli scarponi, pacchi non ritirati, strani “disguidi”, continue dimenticanze, persistente mancanza di ogni elementare gesto di educazione, perquisizioni umilianti, rifiuto per cinque mesi di inviarmi all’aria (questo a Sollicciano) perché omosessuale “marcio” mentre invece ero in “isolamento diurno” in esecuzione alla sentenza della Corte di assise di Venezia; ma questo ancora le guardie non lo sanno.

E certi trasferimenti come quello a Sollicciano dove a dirigere il personale di custodia c’era lo stesso maresciallo che era stato arrestato nel maggio del 1984, a Spoleto, per la manomissione della mia corrispondenza; ora è andato in congedo con tutti gli onori, ma altri, come lui, sono ancora qui ad assolvere il loro compito nei riguardi dello “stragista”, “reo confesso”, “pentito”, “protetto” e “omosessuale” Vinciguerra.

Altri fatti si potrebbero raccontare, taluni gravi e “sospetti”, ma per molti mancano le “prove”, per altri ho degli indizi che potranno servire magari “a futura memoria”.

Fino ad oggi, ogni sforzo dello Stato e dei suoi dipendenti, dentro e fuori dalle carceri, è stato vano: sono ancora qui, in piedi!

Ho scritto poche pagine, incomplete per evitare di ripetermi e per ragioni di spazio e di tempo.

Poche pagine che dedico, insieme a tutto il documento, a coloro che sanno comprendere e sanno lottare, quale sia la loro posizione nella società attuale, la loro ideologia, la loro stessa appartenenza allo Stato che pensano di poter proteggere e difendere non volendo ancora credere che li abbia traditi e li abbia ingannati.

Una dedica senza illusioni, solo la speranza che se mancheranno i presupposti per una battaglia pubblica riescano almeno, nel silenzio delle loro coscienze, a comprendere ed accettare la verità per quanto tragica e terribile possa loro sembrare.

Le “pagine bianche”, non il documento, le dedico invece ai ciechi, ai sordi, ai muti. A coloro che non vedono la verità, che non odono altra voce che quella dei “potenti”, che non denunciano i delitti ai quali assistono.

A voi, ciechi, sordi e muti di tutte le congreghe, di tutte le carceri, di tutti i tribunali, di tutti gli immondezzai legali che formano l’essenza del Paese “legale”; per voi queste pagine sono scritte con inchiostro “simpatico”: pagine bianche che non vedrete, che non vi parlano e delle quali mai parlerete.

Voi, ciechi, sordi e muti.

Vincenzo Vinciguerra

 

 

 

One Comment
    • MDA
    • 8 Giugno 2020

    Molto interessante, lo leggo con calma nel weekend.
    Si sa il motivo per cui VV ha tolto l’archivio e la libreria su lulu?
    Decisione sua?

    Rispondi

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