Henri Sée
WERNER SOMBART, GLI EBREI E IL CAPITALISMO
Premessa di Gian Pio Mattogno. ‒ L’effetto pratico più vistoso dell’“emancipazione” degli ebrei fu l’irruzione nell’economia e nella vita politica delle nazioni del capitale giudaico, formatosi lungo i secoli attraverso il commercio e l’usura, nonché attraverso l’attività degli ebrei fornitori e finanziatori di principi e, non da ultimo, attraverso la tratta degli schiavi africani.
Un capitale finalmente libero dai vincoli restrittivi che fino ad allora ne avevano ostacolato la piena espansione.
Come scrive Kleo Pleyer (Das Judentum in der kapitalistische Wirtschaft, «Forschungen zur Judenfrage», II, 1937) è un errore vedere nell’emancipazione ebraica solo l’espressione di sentimenti politici e ideologici. L’emancipazione fu la conseguenza naturale del consolidamento della potenza economica degli ebrei avvenuto nei secoli precedenti.
Già da tempo infatti essi avevano creato le premesse per la propria emancipazione, cioè l’emancipazione del capitale giudaico.
Nelle sue ricerche sugli ebrei e la vita economica, Werner Sombart (Gli ebrei e la vita economica, Padova, I, 1980; II, 1989; III, 1997; Il capitalismo moderno, Torino, 1967 [XVIII. Gli ebrei, pp. 286-305]), sostiene che gli ebrei avrebbero giuocato un ruolo determinante nell’edificazione del capitalismo moderno.
L’importanza particolare e decisiva degli ebrei andrebbe ricercata, secondo Sombart, nel fatto che è alla loro attività che va attribuita l’accelerazione del passaggio dalle forme economiche proto-capitalistiche alle forme del capitalismo maturo.
Gli ebrei, scrive, ebbero un ruolo importante nella ripresa del commercio internazionale a partire dal XVI secolo; presero parte a tutte le intraprese coloniali; nei secoli che videro la formazione degli Stati moderni svolsero un ruolo preminente come fornitori dell’esercito.
Tutte queste attività furono enormemente facilitate dalla loro dispersione nel mondo, dalla loro condizione di stranieri e di semi-cittadini, e dalla ricchezza accumulata precedentemente grazie alla pratica creditizia.
Gli ebrei, continua Sombart, promossero il progresso economico in tutti i paesi e in tutte le città in cui risiedevano, e quando furono espulsi abbandonarono questi luoghi alla decadenza economica.
Israele, osserva, passa per l’Europa come il sole: al suo apparire si sprigiona una nuova vita, al suo tramonto cade tutto in rovina.
A Sombart è stato obiettato che vi sono molti fatti che contraddicono la sua tesi o ne diminuiscono la portata.
Ad es. nelle città italiane del medio evo gli ebrei non hanno giuocato alcun ruolo; l’espansione economica dell’Olanda e dell’Inghilterra era già avvenuta prima dell’afflusso di uomini d’affari ebrei.
Non solo lo sviluppo della Spagna e del Portogallo non rallentò dopo l’espulsione degli ebrei, ma al contrario proprio in quel periodo raggiunse la sua punta massima, ed anche in Inghilterra uno sviluppo economico importante ebbe luogo dopo l’espulsione degli ebrei.
Alcune delle critiche rivolte a Sombart sono compendiate nelle pagine che seguono, tratte da un saggio dello storico dell’economia Henri Sée (Dans quelle mesure Puritains et Juifs ont-ils contribué aux progrès du capitalisme moderne?, «Revue Historique» 155 (1927), pp. 64-68).
Ma ai fini di una ricerca sulla storia della questione ebraica, il vero problema non è tanto determinare in quale misura gli ebrei abbiano contribuito alla genesi e allo sviluppo del capitalismo ‒ un semplice capitolo, questo, della storia economica, su cui si possono avere opinioni divergenti.
Lo stesso Sée peraltro riconosce nel saggio che gli ebrei hanno contribuito «attivamente» al trionfo del capitalismo.
In un altro lavoro (Les Origines du Capitalisme moderne, Paris, 1926), dove riprende le pagine del saggio, Sée scrive che, ancor prima dell’emancipazione, gli ebrei costituivano «una potenza economica internazionale» (p. 28). Dispersi un po’ ovunque, uniti ai loro congeneri dai legami della religione, essi si trovavano nelle condizioni più favorevoli per dedicarsi a importanti transazioni commerciali e finanziarie (ivi).
Egli ammette che il prestito a interesse, così come lo praticavano i Lombardi e gli ebrei, può essere considerato una delle fonti del capitalismo (p. 35), che gli ebrei vanno annoverati «tra gli agenti più attivi del capitalismo moderno» (p. 47) e che, anche se non bisogna esagerarla, «l’influenza degli ebrei è innegabile» (p. 199).
Il vero problema è piuttosto di stabilire in quale misura il capitale ebraico “emancipato” si sia compenetrato nel sistema capitalistico-borghese e in quale misura abbia esercitato questa influenza sulla vita delle nazioni.
In altre parole, in quale misura il capitalismo sia stato utilizzato dagli ebrei per i loro fini egemonici e imperialistici.
Come scrive il padre gesuita Angelo Brucculeri, le questioni sollevate da Sombart potranno anche essere molto discutibili. «Ciò che però è fuori di dubbio si è che, se gli ebrei non hanno avuto una parte decisiva nella formazione del capitalismo, furono e sono tuttora i più abili a sfruttarlo senza scrupoli a loro vantaggio» (Il capitalismo, Roma, 1944, p. 18).
Ma questa è tutta un’altra storia.
(…) Werner Sombart, il quale ha criticato la tesi di Max Weber[1], in un certo senso ha finito per seguirne l’esempio.
Lo riconosce lui stesso nella prefazione della sua opera Gli Ebrei e la vita economica. In questa stessa prefazione ci avverte che la sua opera è unilaterale, e che, per mettere in risalto la parte avuta dagli ebrei nella formazione del capitalismo moderno, egli ha intenzionalmente trascurato gli altri fattori[2].
Seguendo un piano che, a prima vista, non sembra molto razionale, egli studia la mentalità ebraica soltanto nella seconda e terza parte della sua opera. Con molto acume, e sulla base di una profonda conoscenza della materia, egli mette in evidenza i tratti essenziali di questa mentalità; insiste soprattutto sul suo carattere razionale, intellettuale, sulla sua tendenza all’astrazione, sebbene, dice, gli ebrei penetrino benissimo la natura e lo spirito degli individui coi quali hanno a che fare.
Grande elasticità mentale, unita ad una sorprendente testardaggine, capacità eminente di adattamento ed assimilazione ‒ sono queste le qualità che li hanno mirabilmente distinti nel mondo degli affari, e che hanno permesso loro di rendere al capitalismo i più notevoli servigi.
La formazione di questo spirito ebraico il nostro autore lo attribuisce meno alla razza (razza orientale, focosa, nata sotto un clima ardente e trasportata nell’umida Europa) che non alla religione, anch’essa razionale, la sola che non possiede misteri, e che non concepisce alcun misticismo.
L’ebreo, come il puritano, si trova in contatto diretto col suo Dio e di fronte a lui tiene una vera e propria contabilità:
«Ciò che apparenta ancora la religione ebraica al capitalismo è la regolamentazione contrattuale, direi persino la regolamentazione commerciale, se non si attribuisse a questo termine un senso troppo profano, dei rapporti tra Jahvè e il suo popolo eletto»[3].
Queste, secondo W. Sombart, sono le cause profonde delle attitudini degli ebrei per il capitalismo.
Ma egli riconosce che vi sono anche cause secondarie.
Le loro «attitudini oggettive», il fatto che sono dispersi, «distribuiti» nello spazio e legati da relazioni gli uni con gli altri, il fatto inoltre che ovunque la loro qualità di stranieri dà loro un’evidente indipendenza, il fatto infine che ovunque non sono che “demi-citoyens”, tutto ciò ha avuto un’importanza innegabile, indubbiamente ancora più grande di quanto non creda l’autore.
Inoltre, e W. Sombart trascura un po’ questo punto di vista, il fatto che gli ebrei siano stati tenuti lontani dalle funzioni, da un gran numero di professioni e mestieri, non spiega che essi si siano dedicati soprattutto, quasi esclusivamente, al commercio e principalmente al commercio del denaro?[4]
Quale che sia il giudizio su questa brillante e suggestiva esposizione, per noi la questione più importante è di sapere in quale misura gli ebrei hanno contribuito all’edificazione del capitalismo moderno.
In una larga misura, risponde W. Sombart.
Egli certamente ci ha avvertiti che espone solo un aspetto della questione; ma, anche ponendosi da questo punto di vista «unilaterale», non vi è un’evidente esagerazione nel pretendere che lo spostamento del centro di gravità economica che si manifesta nel XVI secolo debba essere attribuito alle migrazioni degli ebrei, espulsi dalla Spagna?
«In cosa – egli ci dice[5] ‒ la loro situazione geografica [degli italiani, spagnoli e portoghesi] era tale da metterli in una condizione d’inferiorità rispetto ai francesi, inglesi, olandesi, amburghesi? … Come se i porti portoghesi e spagnoli non fossero i più vicini a quelle terre da poco scoperte, precisamente scoperte da portoghesi e italiani, e queste non avessero avuto come primi coloni proprio spagnoli e portoghesi!».
Indubbiamente questi porti sono i più vicini all’America spagnola, ma, per contro, essi si trovano in una posizione del tutto eccentrica rispetto ai paesi economicamente più attivi dell’Europa.
Anversa, Amsterdam, Londra, per non parlare di Bordeaux o di Nantes, non costituiscono, per la maggior parte dei paesi europei, degli sbocchi infinitamente superiori a Cadice o a Lisbona?[6]
Senza contare che l’assurda politica economica del governo spagnolo doveva favorire le imprese dei mercanti oltremodo attivi di Olanda, Inghilterra, Amburgo, e della stessa Francia.
Spiegare la prosperità dell’Olanda e dell’Inghilterra con lo stabilirsi degli ebrei in questi due paesi, significa dimenticare che essi compaiono ad Amsterdam solo dopo il 1593 e che a quel tempo l’Olanda era già una grande potenza marittima[7]. Significa altresì dimenticare che in Inghilterra, fin dall’inizio del XVII secolo, cioè prima dell’afflusso di uomini d’affari ebrei, il capitalismo era già abbastanza forte da segnare i destini futuri di questo paese.
- Sombart dimentica completamente l’espansione economica dell’Inghilterra al tempo di Elisabetta.
A sentire lo stesso scrittore, sono gli ebrei che avrebbero giuocato il ruolo predominante nella colonizzazione dell’America spagnola e portoghese.
Ora, uno specialista molto ben informato come Waetjen[8] ha mostrato che, eccezion fatta per il Brasile, gli ebrei solo in minima misura hanno partecipato alla valorizzazione di questo magnifico dominio coloniale.
È agli ebrei che bisogna attribuire quella che W. Sombart chiama «commercializzazione della vita economica», cioè la subordinazione della vita economica agli affari commerciali o, per meglio dire, alla «Borsa»?
L’origine di tutte queste pratiche (lettere di cambio, banconote, etc.), che l’autore descrive così chiaramente, non si trova nell’Italia del medio evo, e soprattutto alla Borsa di Anversa nel XVI secolo?
Quanto alle società per azioni, di cui la Compagnia olandese delle Indie orientali ha fornito il primo esempio, come provare che l’iniziativa debba essere attribuita a uomini d’affari ebrei?
La creazione e il fiorire di titoli al portatore, «l’impersonalità del credito» sono specificatamente ebrei?
A nostro avviso, W. Sombart non ha fornito al riguardo prove convincenti.
Ciò che è vero è che nei secoli XVII e XVIII molti ebrei hanno un ruolo considerevole nel grande commercio, e in modo particolare nel grande commercio marittimo; a Bordeaux e a Bayonne ad esempio, si sono potuti individuare i nomi dei Gradis, dei Peixotto, dei Pereire. I Mendez Dacosta, come pure molti dei loro correligionari stabiliti a Londra, sono conosciuti in tutte le piazze commerciali d’Europa[9].
L’autore a nostro avviso ha anche pienamente ragione quando attribuisce ai mercanti ebrei le nuove tecniche nel commercio al dettaglio che si cominciano a vedere impiegate nel XVIII secolo[10].
Questi mercanti ben preparati, ingegnosi, notevolmente attivi vendono meno care dei loro confratelli cristiani ogni genere di mercanzie, soprattutto stoffe, e in particolare sete; anche il modo con cui compongono i loro assortimenti cattura la clientela.
I loro confratelli cristiani, abbastanza abitudinari, non cessano di lamentarsi del loro modo d’agire, di tacciarli di manovre sleali e persino criminali, mentre sembra che tutto il loro segreto consista nell’accontentarsi di un profitto minimo, poiché vivono più semplicemente e, facendo circolare più velocemente i loro capitali di esercizio, fanno, con minime spese, affari lucrativi.
Così le corporazioni di mercanti, gelose peraltro di tutti gli “ambulanti”, anche cristiani, specialmente dal 1730 al 1740 riescono a far espellere gli ebrei da numerose località, ma non possono far togliere loro il diritto di vendere nelle fiere, dove conoscono lo stesso successo.
Altrove trovano il modo, come i Dalpuget di Bordeaux, servendosi di intermediari, di creare un po’ dovunque delle vere e proprie succursali: idea feconda che si svilupperà ulteriormente il secolo seguente[11].
- Sombart ha ancora ragione quando sostiene che gli ebrei rappresentavano «una concezione essenzialmente individualistica dell’economia», concezione secondo la quale «la sfera d’azione di ogni agente economico non deve essere limitata da alcuna regolamentazione restrittiva, riguardante sia la quantità della vendita, sia la specializzazione e la separazione delle professioni».
Concezione assolutamente opposta a quella dell’antica attività commerciale, delle corporazioni di mercanti, che aspettavano tranquillamente la loro clientela sull’uscio della loro porta; al contrario, gli ebrei vanno incontro alla clientela, prevengono i suoi desideri, cercano con ogni mezzo possibile di accattivarsela e, se non hanno inventato la réclame, la pubblicità commerciale, nondimeno ne hanno fatto buon uso su larga scala.
Ma, tutto considerato, possiamo dire che senza gli ebrei non vi sarebbe stato capitalismo, o almeno che non avrebbe presentato il tratto caratteristico che gli riconosciamo?
Niente lo prova. Gli argomenti di W. Sombart non ci sembrano per nulla convincenti.
Tutto ciò che possiamo dire è che gli ebrei, preparati dalla loro mentalità e dalle condizioni nelle quali vivevano ad adattarsi alla nuova organizzazione economica, hanno contribuito attivamente al suo trionfo [sottolineatura nostra], senza che d’altronde si possa determinare con precisione in quale esatta misura. Ammesso che la questione non sia insolubile, per farvi un po’ più di luce sarebbero necessari molti studi.
Inoltre, quali che siano le critiche che si è in diritto di rivolgere ad un’opera pur così suggestiva come quella di W. Sombart, non si può misconoscere il grandissimo merito che questa ha avuto di attirare l’attenzione degli storici su questioni sin qui troppo poco esplorate.
Essa apre alle ricerche erudite vie nuove (…)
[1] In particolare nel Bourgeois, 1913, trad.fr., 1925, pp. 303 sgg.
[2] Egli peraltro aggiunge di non misconoscere affatto «l’influenza di questi altri fattori. Si potrebbe benissimo scrivere un libro sulle razze del Nord nell’edificazione del capitalismo moderno, oppure, parafrasando ciò che ho detto a proposito degli ebrei: “senza gli ebrei, niente capitalismo”, proclamare: “senza le conquiste della tecnica, o senza le scoperte dei tesori dell’America, niente capitalismo”» (Les Juifs et la vie économique, p. 15).
[3] Op. cit., p. 271.
[4] Egli constata (p. 12) che l’influenza economica degli ebrei sta declinando. La ragione essenziale non è che, liberati dalle antiche esclusioni, divenuti pienamente cittadini, essi indirizzano le loro attività oltre il campo degli affari?
[5] Op. cit., p. 32
[6] Cfr. al riguardo alcune interessanti considerazioni in Camille Vallaux, La Mer.
[7] Cfr. il nostro studio sull’ Activité commerciale de la Hollande à la fin du XVIIe siècle (Revue d’histoire économique, 1926).
[8] Das Judenthum und die Anfänge der Kolonisation, in «Vierteljahrschrift für Social- und Wirschftsgeschichte», 1913.
[9] Cfr. G. Cirot, Les Juifs de Bordeaux: leur situation morale et sociale de 1550 à 1789, Bordeaux, 1920 (estr. dalla Revue historique de Bordeaux); H. Sée, Le commerce de Saint-Malo au XVIIIe siècle d’après les papiers des Magon (Mémoires et documents pour servir à l’histoire du commerce et de l’industrie, de J. Hayem, 9e série, 1925).
[10] Op. cit., pp. 190 sgg.
[11] Cfr. G. Cirot, op. cit.; H. Sée, Notes sur le commerce des Juifs en Bretagne (Revue des etudes juives, 1925) e Note sur les foires de Caen au XVIIIe siècle (in corso di pubblicazione sulla Revue d’histoire économique).
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