Gian Pio Mattogno
L’ODIO RABBINICO-TALMUDICO CONTRO IL NON-EBREO
NELLA LITURGIA DI PESACH.
L’odio rabbinico-talmudico contro i non-ebrei in generale e contro i cristiani in particolare è attestato da numerose fonti della tradizione giudaica.
Esso è una conseguenza logica e naturale dell’esegesi rabbinica dei princìpi fondamentali della Torah e si traduce in tutta una serie di comportamenti ostili e discriminatori ai danni degli empi e perversi goyim
(Sinai Sinah Horeb. La genesi dell’odio rabbinico-talmudico contro i popoli del mondo, Effepi, Genova, 2020; Herman De Vries De Heekelingen, L’atteggiamento del Talmud di fronte al non-ebreo, andreacarancini.it; I fondamenti teologici della Tôrâh, «La Questione Ebraica. 1° Agosto 1998, pp. 23-40).
Questo odio rabbinico-talmudico ha avuto la sua prima consacrazione ufficiale liturgica nella Birkat ha-minim, una “benedizione” (in realtà una maledizione) all’interno della preghiera Amidah, che da secoli il pio giudeo recita tre volte al giorno contro varie categorie di nemici di Israele, tra cui in primo luogo i cristiani.
(L’odio rabbinico-talmudico contro i cristiani nella liturgia. La Birkat ha-minim, andreacarancini.it).
In effetti, l’odio rabbinico-talmudico contro i non-ebrei è diventato parte integrante della liturgia, e compare regolarmente nei formulari recitati in occasione delle principali festività ebraiche.
Una di queste festività è Pesach, la Pasqua ebraica.
Pesach, la prima delle tre festività dell’anno religioso, celebrata fra il 14 e il 21 o 22 di Nisan, significa “passaggio”, “passare oltre”, e indica il passaggio oltre le case dei figli d’Israele dell’angelo della morte, che risparmiò i primogeniti israeliti e sterminò i primogeniti egiziani (Es. 12, 12-14, 23).
Gli esegeti cercano dissimularne o minimizzarne il significato più profondo.
Scrive ad esempio G. Fohrer:
«La Pasqua ebraica celebra anzitutto la protezione che Dio concesse agli Israeliti in Egitto, e quindi il loro esodo dalla “casa di schiavitù”. Soprattutto è destinata a inculcare il primo principio della fede giudaica: l’esistenza di Dio che domina e governa l’universo, che guida i destini dei popoli e dei loro sovrani» (G. Fohrer, Fede e vita nel giudaismo, Brescia, 1984, pp. 120-121).
La “Jewish Encyclopedia” (vol. 9, p. 548) è meno generica: Pesach commemora la liberazione d’Israele dalla sorte inflitta ai primogeniti degli Egiziani e la meravigliosa (wondrous) liberazione degli ebrei dalla schiavitù egiziana.
E questo ritroviamo praticamente in tutta la letteratura sull’argomento.
In realtà, al di là dei significati con cui i pii giudei e gli Shabbath goyim di complemento amano abbellire le varie cerimonie di Pesach, nella liturgia pasquale viene costantemente alimentato e vivificato l’odio contro i popoli del mondo, nonché la speranza messianica nel futuro dominio universale di Israele.
La liturgia pasquale è regolata dal Seder, che designa appunto l’“ordine” in cui si svolgono le varie cerimonie familiari, incentrate sul pasto rituale, le prime due sere (in Israele solo la prima sera).
In queste cerimonie, che possono protrarsi per diverse ore, il pio giudeo non si limita alla commemorazione dell’esperienza dell’esodo, ma la rivive e, in un certo senso, la attualizza.
Uno dei momenti salienti del Seder è la Haggadah, cioè il “racconto”, la narrazione di come Jahvè portò a termine le redenzioni degli israeliti.
Durante la lettura della Haggadah si versano quattro calici di vino, i quali simboleggiano la gioia per i quattro momenti della liberazione.
«È una tradizione legata al versetto della Torà, durante la descrizione della miracolosa uscita dall’Egitto, in cui sono impiegate quattro espressioni di redenzione: vi ho fatti uscire, vi ho salvati, vi ho liberati, vi ho presi (Shemòt 6, 6-7). Questi quattro verbi si riferiscono alle redenzioni del popolo ebraico, quella d’Egitto, Babilonia, Grecia e Roma; poiché l’ultimo esilio non è ancora terminato – lo sarà solo quando si rivelerà il Mashìach – il versetto ne profetizza l’imminente arrivo» (La solennità di Pesah. La Pasqua ebraica, bethshlomo.it).
La cerimonia termina con le imprecazioni contro i goym.
Dopo aver bevuto il terzo calice, viene aperta la porta e si recita la preghiera Shefoch chamatecha (“Riversa la tua ira”).
Nel rituale ashkenazita la preghiera, che il rabbino Andrew Goldstein ha la bontà di definire «intellectually problematic» (John Rayner: German, English and American Liturgist, «European Judaism» 40 (2007), p. 84), recita letteralmente così:
«Riversa la tua ira contro i goyim (shefoch chamatecha el ha-goyim) che non ti riconoscono e sui regni che non invocano il tuo nome, perché hanno divorato Giacobbe ed hanno devastato la sua dimora. Riversa su di loro la tua collera, li raggiunga la tua ira ardente; perseguitali nell’ira e distruggili sotto il cielo del Signore».
Dopo di che si chiude la porta e si versa il quarto calice di vino.
Questa preghiera è composta da tre versetti biblici:
«Riversa la tua ira sulle genti che non ti riconoscono e sui regni che non invocano il tuo nome; poiché hanno divorato Giacobbe, hanno devastato la sua dimora» (Sal. 79,6-7).
«Riversa su di loro la tua collera, li raggiunga la tua ira ardente» (Sal. 69,25).
«Perseguitali nell’ira e distruggili sotto il cielo del Signore» (Lam. 3,66).
(B. Terracini, Residui di parlate giudeo-italiane raccolti a Pitigliano, Roma, Ferrara (Continuazione), «La Rassegna Mensile di Israel» 17 (1951), p. 120, ricorda che nel vernacolo giudeo-italiano “fare shemoch” significa “vomitare” e “fare schifo”).
Circa l’origine della preghiera, l’ebreo Mitchell First, avvocato e studioso di storia e liturgia ebraica (Shefoch Chamatecha, April 9, 2025, jewishlink.news) riassumendo le conclusioni di un saggio di Yosef Tabory, scrive che non se ne fa menzione né nel Talmud, né nei Gaonim (i capi delle accademie giudaiche babilonesi di Sura e Pumbedita). Essa compare bensì nel Seder Rav Amram Gaon (circa IX sec.), la più antica raccolta conosciuta di liturgie ebraiche, ma è opinione diffusa che questa sezione sia stata un’aggiunta molto più tarda.
Non si trova neppure nel Seder di Rashi (XI sec.), ma compare in molti Rishonim (le autorità rabbiniche dall’XI al XV sec.), provenienti da Francia, Germania, Inghilterra e Provenza. Si diffonde in Spagna all’inizio del XIV secolo e nello Yemen nel XVI secolo.
La maggior parte delle fonti che descrivono questa usanza sono dell’avviso che la fonte più antica sia verosimilmente il Machzor Vitry, un’opera composta nel nord della Francia da un discepolo di Rashi.
Il più antico dei manoscritti che ci sono pervenuti, e che contiene una raccolta di otto versetti, data al secondo quarto del XII secolo. Manoscritti successivi aggiungono altri versetti. Un Siddur inglese del 1287 ne contiene 17. Ci sono prove che il rabbino Joseph B. Samuel Bonfils, noto anche come Yosef Tov Elem e morto intorno al 1040, conoscesse e recitasse Shefoch.
Si è spesso ipotizzato che Shefoch sia stato scritto in risposta alla prima crociata del 1096, ma se è vero che lo recitava il rabbino Bonfils, questa ipotesi è priva di fondamento.
Un passaggio del midrash Mechilta de-Rabbi Yishmael, Balasha, sez. Az Yashir, parte 6 (ed. Ish-Shalom, p. 39b) commenta Es. 15,7 («Non è scritto: ‘Hai mandato la tua ira’, ma: ‘Manderai la tua ira’»). Questo significa nel tempo a venire, come è scritto in Sal. 79,6 e Ger. 10,25.
Pertanto, conclude Mitchell, i temi di Dio che riversa la sua ira sulle nazioni sono collegati a Pesach fin dai tempi dei Tannaim, la prima generazione di maestri talmudisti.
Sul vero significato della preghiera Ariel Toaff (Pasque di sangue. Ebrei d’Europa e omicidi rituali, Bologna, 2007) ha scritto delle pagine illuminanti.
Toaff, che inquadra la questione nel contesto delle deposizioni e confessioni degli imputati giudei nei processi di Trento per il cosiddetto infanticidio rituale di Simonino (pp. 163 sgg.), parla esplicitamente di Shefoch come di una «aggressiva invocazione contro le nazioni che non accettano il Dio di Israele (…), una caratteristica formula liturgica, dalle valenze apertamente anticristiane, che è posta a conclusione della cena pasquale» (p. 157).
Così Toaff descrive questo momento cruciale della liturgia pasquale:
«Terminato il pasto e recitata la benedizione relativa, prima di bere il quarto bicchiere di vino, quello con cui si augurava l’avvento della redenzione finale, i partecipanti al rito si univano a recitare tutti insieme una sfilza di violente invettive contro i popoli che avevano respinto il Dio di Israele, con palese allusione ai cristiani.
«La formula si apriva con le parole Shefoch chamatechà el ha-goim asher lo yeda’ ucha e nel rituale ashkenazita conteneva accenti particolarmente virulenti: “Vomita la tua ira sulle nazioni che non ti riconoscono e sui regni che non invocano il tuo nome, che hanno divorato Giacobbe e distrutto la tua sede. Riversa su loro la tua collera, li raggiunga il tuo sdegno; perseguitali con furore, falli perire sotto il cielo divino”. Si trattava della più potente, esplicita e incisiva maledizione contro i gentili contenuta nella liturgia pasquale del Seder» (p. 169).
Secondo gli apologeti giudei e i loro ausiliari la formula di maledizione sarebbe una reazione contro le accuse di omicidio rituale connesse alla Pasqua ebraica (What is the origin of “Shefoch chamascha” that we say at the Seder?, torah.org).
Fohrer (op. cit., p. 131) sostiene che evidentemente questi versetti sono stati introdotti nel medioevo, quando per gli ebrei la Pasqua costituiva un tempo di costante pericolo e di paure, per cui essi avrebbero chiesto a Dio di perseguitare i persecutori cristiani.
Il rabbino Meir Kahane, dopo aver attribuito la preghiera «agli ebrei massacrati durante le crociate», esalta Jahvè quale Dio della vendetta e definisce la Pasqua ebraica «una festa che fu creata per commemorare la santità della vendetta» (Passover. Holyday of Vengeance, kahane.org).
Altri hanno espresso le medesime opinioni.
In realtà, se resta incerta la genesi della preghiera, come si è detto le formule di imprecazione contro i goyim (nonché il loro spirito) sono più antiche delle crociate e delle persecuzioni, le quali possono aver esacerbato, ma non generato, un odio antigentile (e successivamente anticristiano), connaturato all’essenza stessa della fede giudaica.
Ma la riprova più lampante di ciò, messa in luce dallo stesso Toaff, è che le invettive contro i goyim contenute nel Seder vengono associate alla venuta del Messia giudaico (così come nei testi rabbinici tutte le espressioni discriminatorie contro i goyim vanno lette nella prospettiva dell’avvento dell’èra messianica, che, secondo le fonti rabbinico-talmudiche, riserverà alle nazioni gentili un destino di morte, distruzione e/o totale asservimento).
(Cfr. L’imperialismo ebraico nelle fonti della tradizione rabbinica, Parma, 2009).
E tutto ciò non ha nulla a che fare né con le persecuzioni, né con le crociate, né con l’omicidio rituale, né tantomeno con la “giudeofobia”.
Al termine della prima sera, il pio giudeo canta l’inno «Era verso mezzanotte», che termina con la richiesta della venuta del Messia.
Che vi sia una stretta relazione fra Shefoch chamatecha e imperialismo messianico giudaico è affermato esplicitamente da R. Isserles, il glossatore dello Shulhan Aruch, il quale riporta l’opinione di altre autorità rabbiniche:
«Alcuni ritengono che [la preghiera] “Riversa la tua ira etc.” debba essere recitata prima di “Non a noi” (Sal. 151,1), e che si debba aprire la porta, affinché ci si ricordi che questa è la notte in cui Dio veglia su di noi. E come ricompensa di tale fede verrà il Messia e riverserà la sua ira sugli akum» (Shulchan Aruch, Orach Chaim 480 hagah».
(Akum è l’acronimo di oved kochavim umazzalot, adoratori delle stelle e delle costellazioni, imposto dalla censura, che indica i non-ebrei idolatri in generale, fra i quali nello Shulhan Aruch sono da annoverare anche i cristiani).
Pesah infatti non è semplicemente una pia commemorazione, ma è soprattutto un’esperienza che l’ebreo rivive sempre di nuovo, poiché secondo la tradizione rabbinica la “redenzione” dall’Egitto è il prototipo della “redenzione” finale, cioè dell’avvento del Messia giudaico e del dominio universale di Israele.
Riferendo il pensiero dei maestri di Israele, Daniel Lifschitz scrive che ogni periodo di esilio nella storia del popolo ebraico fu prefigurato dalla schiavitù d’Egitto e «ogni atto di liberazione, fino a quando giungerà quello definitivo, l’avvento del Messia, ha le sue radici in questa redenzione originale, che avvenne durante l’eterna stagione della nostra liberazione dall’Egitto» (Introd. a: Sholem Aleichem-Mendele Mokher Sforim- Yitzchaq Leib Perez, Le Feste ebraiche. 3. Pessach-Pasqua, Ed. Paoline, aquino.it).
Nella notte di Pesach l’ebreo non è solo spettatore, ma diviene partecipe di quell’intervento divino.
«Entrando in questa esperienza e assorbendone gli insegnamenti, l’ebreo prepara il mondo per la venuta del Messia, aspettando l’ultima manifestazione della gloria di Dio e la liberazione definitiva del suo popolo e dell’umanità» (ivi).
Le fonti rabbiniche ci spiegano in dettaglio in che cosa consista in realtà questa liberazione definitiva dell’umanità non ebraica!
Come afferma Toaff, i significati della preghiera sono chiari:
«La redenzione messianica poteva costituirsi soltanto sulle macerie dell’odiato mondo gentile. Nel recitare le maledizioni, la porta della sala in cui si svolgeva il Seder veniva socchiusa perché il profeta Elia potesse intervenire ad annunciare il promesso riscatto. Le invettive contro i cristiani avrebbero dovuto preparare e facilitare il suo ingresso. Come avremo modo di notare anche in seguito, il culto magico dell’oltraggio e del malaugurio anticristiani costituiva uno dei principali elementi caratterizzanti il fondamentalismo religioso tipico dell’ambiente ebraico franco-germanico nel Medioevo e del suo cosiddetto “messianismo passivo”, aggressivo e ritualizzato» (p. 169).
Né le imprecazioni, né il passo citato di R. Isserles erano sconosciuti ai cristiani.
Tra gli altri sono menzionati da J. Buxtorf, Synagoga Judaica, Basileae, MDCLXXX, p. 416, e da I.B. Pranaitis, Cristo e i cristiani nel Talmud, Roma-Milano, 1939, pp. 188-189, oltre che da altri esponenti moderni della polemica antisemita.
L’uso di recitare le imprecazioni di Shefoch era sicuramente in vigore nei secoli XVII e XVIII, come attestano anche le testimonianze di Giulio Morosini (Derekh Emuna. Via delle fede mostrata agli ebrei, 1683) e di Paolo Medici (Riti e costumi degli ebrei, 1737).
Ricorda il rabbino Stuart Halpen (On Passover, Do We Ask God to Pour Wrath or Love?, «Jewish Journal», April 2, 2025), che nel suo commento alla Haggadah, il rabbino Jonathan Sacks annotò che in un manoscritto di Worms del 1521 figura un’aggiunta alla Haggadah, che sarebbe stata redatta da un nipote di Rashi, accanto a “Riversa la tua ira”, la quale recita così:
«Effondi il tuo amore sulle nazioni che ti conoscono e sui regni che invocano il tuo nome, per il bene che fanno alla discendenza di Giacobbe, e proteggono il tuo popolo Israele dai loro nemici. Possano meritare di vedere il bene dei tuoi eletti e gioire della gioia della tua nazione».
Sarebbe un magnifico esempio di liturgia riadattata ad uso degli Shabbath Goyim.
Peccato che si tratta invece di un volgare falso, confezionato dallo stesso rabbino Hayim Bloch (1881-1970) che diceva di averla scoperta!
Non esisteva alcuna preghiera medievale del genere, ma questa variante è stata comunque adottata furbescamente dalle comunità ebraiche liberali in Inghilterra e dalle comunità riformate in America (Schalom Ben-Chorin, Il giudaismo in preghiera, Cinisello Balsamo, 1988, pp. 90-91).
Alcuni hanno tentato di autocensurare il passo in questione, altri di deviare il bersaglio dell’odio giudaico dai cristiani e musulmani di oggi, i quali, ci assicurano, «conoscono Dio», verso … non si sa chi!
Nella Haggadah di Pesach tradotta e commentata da David Pacifici (torah.it), la preghiera è costituita unicamente dal Sal. 79,6-7, mentre sono stati soppressi gli altri due passi biblici.
Come quelle del Signore, le “vie della pace” – mipnei darkhei shalom ‒ sono infinite.
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