Gian Pio Mattogno: Gli ebrei e il commercio di schiavi nell’alto medioevo

 

Gian Pio Mattogno 

GLI EBREI E IL COMMERCIO DEGLI SCHIAVI NELL’ALTO MEDIOEVO.

 

Sono noti i tentativi di certa apologetica ebraica e filo-ebraica di minimizzare il ruolo degli ebrei nella tratta degli schiavi africani in epoca moderna.

Giuocando sulle sfumature terminologiche e arrampicandosi sugli specchi delle statistiche, senza badare al peso specifico e alle proporzioni dei numeri, autorevoli accademici mobilitati dalla Sinagoga ci assicurano trionfalmente che è una menzogna che gli ebrei abbiano monopolizzato o dominato il traffico degli schiavi africani (tesi in verità non sostenuta da nessuno in questi termini), il loro ruolo ‒ ci assicurano ‒ essendo stato del tutto marginale.

(Cfr. Materiali storico-bibliografici per lo studio della questione ebraica. Alle origini dell’”accumulazione originaria” del capitale ebraico: gli ebrei e la tratta degli schiavi africani, andreacarancini.it).

I cattivi cristiani e musulmani possono anche essersi dedicati attivamente a questo traffico infame, ma i buoni per antonomasia, certamente no, e, se pure, lo hanno fatto solo in minimissima e trascurabilissima parte!

Ma ha ben visto Nathan Abrams il quale, riguardo alla tesi secondo cui gli ebrei avrebbero avuto un ruolo del tutto marginale nella tratta degli schiavi africani, scrive:

«Sembra esserci un elemento di auto-scusa in tutto questo scagionare gli ebrei dall’accusa di aver “controllato” il commercio transatlantico degli schiavi, una teoria del complotto sostenuta, tra gli altri, da Louis Farrakhan e da Nation of Islam» (Why we need more research how Anglo-Jewry profited from slavery, jewthink.org).

Ora, la stessa pappardella storica e storiografica minimalista, stavolta a proposito del ruolo giuocato dagli ebrei nel commercio degli schiavi nell’Alto Medioevo, oggi ci viene propinata da due docenti universitari: un ebreo, il prof. Michael Toch, e uno Shabbat Goy, il prof. Joseph Phelan.

Dico oggi, perché solo oggi viviamo in un’epoca in cui la olocaustica religio impone il suo principale dogma storico e storiografico ‒ il “male assoluto” ‒ cui evidentemente deve contrapporsi un “bene assoluto”, ovviamente quello degli eletti.

E il bene assoluto non contempla usurai e assassini, e né tantomeno schiavisti!

Ma in passato, quando la religione olocaustica coi suoi dogmi era di là da venire, importanti scrittori, ebrei e non, hanno riconosciuto tranquillamente il peso tutt’altro che trascurabile di questo ruolo.

In una pagina del vol. V della sua Geschichte der Israeliten seit der Zeit des Maccabäer, Berlin, 1825 (p. 38) Isaak Marcus Jost, sostiene, senza però fornire alcuna indicazione bibliografica in nota, la tesi secondo cui il grande e generale movimento di popoli che cambiò radicalmente il volto dell’Europa occidentale nei secoli V e VI fu oltremodo vantaggioso per gli ebrei, facilitò i loro mezzi di acquisizione e li rese promotori del commercio. All’interno di questo commercio prosperò fra gli ebrei la tratta degli schiavi.

Scrive James A. Huie (The History of the Jews, from the Taking of Jerusalem by Titus, to the Present Time, Boston, 1844, p. 61), che a quel tempo il commercio degli schiavi in Europa era «a horrid traffic (…) which was chiefly in the hands of the Jews».

Ad Huie si richiama espressamente Philip Henry Gosse (The History of the Jews, from the Christian Era the down of the Reformation, London, 1851, p. 299), il quale ribadisce che questo «cruel but lucrative traffic, had fallen almost entirely into the hands of the Jews».

G.B. Depping (Les Juifs dans le Moyen Âge, Paris, 1845, pp. 47 sgg.), parla di «cette speculation abominable» ad opera di ebrei, speculatori e odiatori dei cristiani, che avevano protettori potenti e non si facevano scrupolo di diventare fornitori di schiavi ai Mori.

Se un W. Roscher (La situazione degli ebrei nel medio evo considerata dal punto di vista della generale politica commerciale, «Giornale degli Economisti» 1 (1875), pp. 88-89) appare piuttosto reticente riguardo al coinvolgimento degli ebrei nel commercio degli schiavi, limitandosi ad appena un cenno, in riferimento al De insolentia Judaeorum di Agobardo, altri studiosi non sembrano avere le medesime preoccupazioni.

Sottolineando la vocazione degli ebrei al traffico degli schiavi, Lady (Kate) Magnus (Outlines of the Jewish History, Philadelphia, 1890, p. 107) scrive che nel Medioevo «i principali mercanti di schiavi si trovavano fra gli ebrei. A quel tempo erano così largamente diffusi, che sembravano essere sempre e ovunque a portata di mano per comprare, e sembravano ugualmente avere a disposizione denaro per i pagamenti».

Un altro studioso ci informa che in Germania il commercio degli schiavi era soprattutto (namentlich) nelle mani degli ebrei, vi partecipavano prevalentemente (vorwiegend) gli ebrei (Aloys Schulte, Geschichte des mittelalterlichen Handels und Verkehrs zwischen Westdeutschland und Italien mit Ausschlufs von Venedig, I. Band, Leipzig, 1900, pp. 74, 151)

Anche Bruno Hahn (Die witschftliche Tätigkeit der Juden im fränkischen und deutschen Reich bis zum 2. Kreuzzeug, Freiburg i.B., 1911, pp. 23 sgg.) scrive che durante l’epoca franca, se riguardo all’età merovingia le fonti non forniscono chiare risposte, nell’età carolingia il commercio degli schiavi era in gran parte (zum grossen Teil) nelle mani degli ebrei.

Il rabbino Moses Hoffmann (Der Geldhandel der deutschen Juden während des Mittelalters bis zum Jahre 1350. Ein Beitrag zur deutschen Wirtschaftsgeschichte im Mittelalter, Leipzig, 1910, pp. 15 sgg.) osserva che in Germania il Medioevo cristiano ereditò l’istituzione della schiavitù dall’antichità pagana. La religione cristiana riuscì ad alleviare la condizione degli schiavi, ma non a sradicare completamente la schiavitù. E ciò sia perché preservata come necessità economica nelle province dell’antico Impero romano, sia perché profondamente radicata fra le tribù germaniche convertite.

Fin dai primi tempi la Chiesa fece il massimo sforzo – come appare dalle risoluzioni conciliari – per garantire che gli ebrei non possedessero schiavi cristiani e, se possibile, nessuno schiavo.

Al commercio degli schiavi, aggiunge, oltre ai cristiani (tra gli altri i mercanti italiani), partecipavano in larga misura (in starken Masse) anche gli ebrei, che a loro volta beneficiavano enormemente della loro potenza finanziaria e dei loro collegamenti internazionali.

Le prove del commercio ebraico degli schiavi, anche se non molto numerose, compaiono comunque nelle fonti tedesche, l’ultima delle quali si trova nel registro doganale di Walenstaad e in quello di Coblenza del 1209.

Nella voce Slave-Trade la «Jewish Encyclopedia» (vol. 11, pp. 402-403) scrive che papa Gelasio (492) permise agli ebrei di introdurre schiavi pagani dalla Gallia in Italia e che al tempo di papa Gregorio Magno (590-604) gli ebrei erano diventati i principali commercianti in questo genere di traffici.

Joseph Jacobs (Jews of Angevin England, p. 5) ha ipotizzato che gli schiavi britannici che erano stati portati sul mercato romano fossero di proprietà di mercanti ebrei.

Con l’ascesa dell’Islam agli ebrei furono offerte grosse possibilità di fornire schiavi musulmani al mondo cristiano e schiavi cristiani al mondo islamico.

Nel IX secolo Ibn Khordadhbeh descrive due rotte attraverso le quali i mercanti di schiavi ebrei trasportavano gli schiavi da Occidente a Oriente, e da Oriente a Occidente.

Abraham ibn Ya’kub scrive che gli ebrei bizantini acquistavano regolarmente slavi a Praga per poi venderli come schiavi.

Secondo la testimonianza di Agobardo, schiavi cristiani spagnoli venivano spesso venduti dagli ebrei ai Mori. Molti mercanti di schiavi ebrei della Spagna avevano fatto fortuna col commercio di schiavi slavi portati dall’Andalusia. Intorno all’anno 949 gli ebrei di Verdun acquistarono schiavi nei loro dintorni e li vendettero in Spagna (Aronius, Regesten, n. 127).

Le stesse proteste e divieti della Chiesa contro la vendita di cristiani agli ebrei a partire dal 538, e ribaditi dai concili di Orléans (541), Parigi (633), Toledo (quarto concilio, 633), Szabolcs (1092), Ghent (1112), Narbonne (1227), Béziers (1246) testimoniano di un’attività dei trafficanti ebrei di esseri umani protrattasi per lungo tempo.

Henri Pirenne (Mahomet et Charlemagne, Bruxelles, 1937) scrive che è impossibile ammettere che i mercanti orientali, ebrei ed altri, si siano limitati ad importare merci nel bacino del mar Tirreno senza esportare nulla. La merce principale doveva consistere in schiavi, la schiavitù domestica e rurale essendo estremamente diffusa dopo il V secolo. Pur ammettendo gli schiavi ai sacramenti e riconoscendo loro il diritto all’emancipazione, in via di principio la Chiesa non ha né condannato né attaccato l’istituzione servile.

Tra i mercanti di schiavi, dice ancora Pirenne, sembra che vadano annoverati soprattutto gli ebrei. Le fonti riferiscono della presenza di mercanti ebrei di schiavi a Narbonne e a Napoli.  Tesi ribadita nella sua storia economica e sociale del Medioevo, dove parla espressamente di «traffico clandestino di schiavi cristiani» cui gli ebrei si sarebbero dedicati sin verso la fine del X secolo.

Dopo aver ricordato che un ramo redditizio del commercio medievale era la tratta degli schiavi, Eliyahu Ashtor (Gli Ebrei nel commercio mediterraneo nell’Alto Medioevo (secc. X-XI), in Gli Ebrei nell’Alto Medioevo, Spoleto, 1980, pp. 91-92), scrive che fra gli articoli smerciati dai mercanti ebrei Radhaniti figuravano schiavi (sia maschi che femmine) ed eunuchi. Ma nel decimo e undicesimo secolo i mercanti ebrei dovettero rinunciate a tale attività. Dal momento che la Tunisia e le regioni limitrofe in questi due secoli erano grandi mercati di schiavi, spicca agli occhi il fatto che nei numerosi documenti della gheniza provenienti da questi paesi non si faccia menzione della tratta.

Ma Ashtor ne spiega subito le ragioni: la quasi completa cristianizzazione di tutti i paesi dell’Europa occidentale e centrale rendeva difficile ai mercanti ebrei di attraversarli con gruppi di schiavi, in quanto era troppo forte la tentazione per gli schiavi di battezzarsi per essere affrancati. Come indicano le fonti ebraiche, le stesse difficoltà i mercanti ebrei di schiavi incontravano nei paesi conquistati dagli Arabi.

Ashtor, che tende a minimizzare il ruolo dei mercanti ebrei, può solo affermare che del commercio di schiavi all’ingrosso i mercanti ebrei del Mediterraneo «probabilmente» non si erano mai occupati. E comunque, aggiunge, nell’Europa centrale le cose andavano diversamente, gli ebrei esercitando questo commercio ancora nella seconda metà del decimo secolo e all’inizio dell’undicesimo secolo, come ne fanno fede alcune fonti.

Clément Venco (Par-delà la frontère: marchands et commerce d’esclaves entre la Gaule carolingienne et al-Andalus (VIIIe-Xe siècle), hal.science, 1 Feb 2019), citando ampiamente le fonti, parla addirittura di «quasi monopolio dei mercanti ebrei», e scrive che, tra gli altri, soprattutto gli studi di M. Lombard e H. Pirenne suggeriscono la presenza di una vasta rete di mercanti ebrei, i quali, sulle rotte del Mediterraneo a partire dalla seconda metà dell’VIII secolo, poi nel IX secolo e talvolta anche nel X secolo, si erano specializzati nel commercio di schiavi, e infine che uno dei tragitti prediletti partiva dalla Gallia carolingia per raggiungere l’oriente musulmano.

J.-P.Devroey e C. Brower (La partecipation des Juifs au commerce dans le monde franc (VIe-Xe siècle), in Voyages et voyageurs à Byzance et en Occident du VIe au XIe siècle, Liège, 2019, pp. 339-374)  si chiedono se, alla luce delle proibizioni della Chiesa di possedere schiavi cristiani e di fare proselitismo con loro, nonché di altre restrizioni, si debbano escludere completamente gli ebrei dalla partecipazione alla tratta degli schiavi nell’Alto Medioevo. E rispondono: «Assolutamente no. In alcuni casi, una tratta degli schiavi nelle mani degli ebrei è innegabile».

Ulteriori ragguagli, basati sulle fonti coeve, ci fornisce Charles Verlinden (L’esclavage dans le monde ibérique médieval, «Anuario de Historia del Derecho Español 12 (1934), pp. 361 sgg.).

Le Leges Portorii (circa il 906) testimoniano dell’attività di mercanti ebrei in Baviera. L’art. 9 menziona espressamente gli schiavi come l’oggetto principale delle attività commerciali degli ebrei. La tratta viene presentata come un’attività già praticata da tempo.

Ben presto la Boemia diventa un centro importante della tratta degli schiavi. L’ebreo spagnolo Ibrahim ibn Ia’koub, che scrive nella seconda metà del X secolo, e verosimilmente lui stesso un mercante di schiavi, menziona Praga come un mercato di schiavi molto attivo, frequentato spesso dai mercanti ebrei, forse provenienti dall’Ungheria. Probabilmente gli ebrei fanno la tratta con l’Impero bizantino e il califfato di Bagdad, sicuramente con la Spagna.

«Il commercio degli schiavi diventa sempre più monopolio degli ebrei» (p. 400).

Brunone, nella sua “Vita di S. Adalberto”, vescovo di Praga, ci informa che gli abitanti della Boemia avevano l’abitudine di vendere dei cristiani agli infedeli e agli ebrei.

La situazione è la medesima all’inizio dell’XI secolo. Gli schiavi slavi condotti in Spagna percorrevano due itinerari: il primo dalla Baviera verso Walenstad nelle Alpi, poi verso Venezia, e di qui nei porti della Spagna musulmana; il secondo, più seguito, dalle rive dell’Elba a Coblenza, fino a Verdun ed infine in Spagna.

Verlinden scrive che per l’ebreo medievale lo schiavo per eccellenza è lo slavo, di cui i mercanti ebrei hanno fatto un così grande commercio nei secoli IX e X.

Contro Verlinden e gli studiosi che sostengono la stessa tesi più recentemente la Sinagoga ha mobilitato, tra gli altri, nientemeno che un prestigioso professore emerito della Hebrew University di Gerusalemme, Michael Toch, autore di un saggio che vorrebbe controbattere «l’idea fantasiosa» di un monopolio o di un predominio ebraico nel commercio degli schiavi: Was There a Jewish Slave Trade (or Commercial Monopoly) in the Early Middle Age?, in Stefan Hanss, Juliane Schiel (eds.), Mediterranean Slavery Revisited (500-1800), Zürich, 2014, pp. 421-444.

Toch riprende al riguardo alcune critiche avanzate a suo tempo da Bernard Blumenkranz (Juifs et Chrétiens dans le monde occidental 430-1096, Paris-La Haye, 1960, pp. 13 sgg.), il quale aveva criticato la tesi di un “quasi-monopolio” degli ebrei nel commercio dell’epoca, avanzata per motivi diversi sia da storici antisemiti che da storici ebrei: i primi per dimostrare la persistenza dello spirito lucrativo di questo popolo, i secondi per affermare i debiti dovuti agli ebrei per il progresso della civiltà.

A suo avviso, alcune fonti, tra cui le epistole di Gregorio Magno (fine del VI secolo), documenterebbero solo che gli ebrei possedevano schiavi, non che ne facessero commercio. Inoltre, singoli casi non giustificano la conclusione radicale di un monopolio ebraico.

Nel complesso, aggiunge, le fonti dal V all’XI secolo possono essere lette come prove del possesso, non della tratta di schiavi. Anche se gli ebrei vi parteciparono, non lo fecero mai in larga misura. Insomma, a suo dire «non vi fu un significativo coinvolgimento ebraico nella tratta degli schiavi».

Come altre esagerazioni, dice in conclusione, anche quella della preminenza degli ebrei nel commercio degli schiavi nell’Alto Medioevo «dovrebbe essere finalmente messa a tacere».

(Una breve analisi delle tesi di Toch è in: Yehudis Litvak, Did Jews Really “Control the Economy”?, Kankan, November 12, 2020), kankanjournal.com).

In realtà Toch interpreta le fonti sempre in una prospettiva minimalistica.

Ad es., riguardo alle epistole di Gregorio Magno, è vero che la maggior parte non riguardano direttamente il commercio ebraico di schiavi, bensì la salvaguardia della religione cristiana professata dagli schiavi oppressi dai loro padroni ebrei, ma tra le questioni da lui affrontate vi sono anche quelle di natura giuridica ed economica, tra le quali, oltre al possesso, anche la tratta ebraica degli schiavi (cfr. R. Rizzo, Papa Gregorio Magno e gli ebrei di Sicilia, «Medieval Sophia» 12 (luglio-dicembre 2012, pp. 223-351).

Che dalle lettere emerga anche esplicitamente la presenza di un commercio ebraico di schiavi è fuor di dubbio. (Un compendio ragionato delle epistole è in B. Blumenkranz, Les auteurs chrétiens latins du Moyen Âge sur les Juifs et le judaïsme, Paris-La Haye, 1963, pp. 73 sgg.).

Ad es., la epist. a Fortunato, vescovo di Napoli (aprile 596), stabilisce che i mercanti ebrei non hanno alcun diritto di vendere i loro schiavi che si convertono al cristianesimo, mentre in un’altra lettera allo stesso, Gregorio si felicita per lo zelo mostrato dal vescovo contro l’acquisto di schiavi cristiani in Gallia da parte degli ebrei, e vi aggiunge anche la condanna sua propria del traffico.

Solomon Katz (Pope Gregory the Great and the Jews, «Jewish Quarterly Review» 24 (1933)) scrive che Gregorio fece ogni sforzo per «sopprimere il commercio di schiavi a quel tempo praticato dagli ebrei» (p. 128), ed aggiunge che il traffico ebraico di schiavi doveva essere particolarmente esteso, se Gregorio spesso dovette intervenire personalmente con decisione per porvi fine (p. 132).

Riportando le testimonianze di Ibn-Khordadhbeh sui mercanti ebrei radhaniti e Ibraham ibn Ya’kob su Praga, Toch sostiene che entrambi gli scritti sono stati utilizzati per dimostrare che gli ebrei spostavano schiavi verso oriente, mentre questi ebrei non erano europei, bensì orientali.

Come se da occidente e a oriente, oppure da oriente a occidente, il senso della tratta cambiasse granché!

In realtà essi erano mercanti globali, e come tali portavano schiavi ovunque, e quindi anche in Europa.

Come è stato osservato (Matthew A. McIntosh, Radhanites on the Road: Jewish Merchants and Medieval Global Trade, July 1, 2025, brewminate.org) i Radhaniti furono gli agenti più notevoli della interconnessione globale dell’epoca: una rete internazionale di mercanti che trasportava merci, informazioni e persone attraverso il mondo cristiano e islamico, e in profondità fino all’Asia centrale e orientale.

Nel “Libro delle strade e dei regni” (circa 870), Ibn-Khordadhbeh li identifica come mercanti ebrei che operavano nel mondo islamico, e viaggiavano fino in Francia, Spagna, India e Cina.

«Le loro reti diasporiche, la solidarietà religiosa e i codici culturali condivisi consentivano loro di mantenere la comunicazione attraverso territori distanti tra di loro, rafforzando un sistema commerciale che prefigurava molti aspetti del commercio globale moderno».

Essi operavano infatti in un’area geografica sorprendentemente ampia e si adattavano con flessibilità alle mutevoli condizioni politiche e geografiche, alternando rotte marittime e terrestri a seconda delle circostanze.

Nella vasta gamma di merci, rientravano anche gli schiavi. Particolarmente importante fu il loro ruolo nella tratta degli esseri umani schiavizzati, dove contribuirono a rifornire sia l’impero islamico che quello bizantino di prigionieri europei, spesso provenienti da territori slavi.

(Come ricordato da Ashtor, fra gli articoli smerciati dai Radhaniti figuravano anche gli eunuchi. Secondo la testimonianza di Ibrahim al-Qarawi (sec. X) i Franchi prendevano gli Slavi prigionieri di guerra e li vendevano in Spagna. Questi venivano castrati dagli ebrei, che, dice, erano sotto la protezione dei Franchi e che vivevano nell’Impero franco e nei territori musulmani limitrofi. Dalla Spagna gli eunuchi venivano esportati dai Radhaniti in tutti gli altri paesi musulmani per essere utilizzati negli harem).

«I mercanti ebrei Radhaniti  ‒ conclude McIntosh ‒ furono ben più che semplici attori periferici nella storia medievale».

E questo vale anche per il commercio degli schiavi.

Ma tutto ciò non basta ancora all’ennesimo Shabbath Goy in soccorso della Sinagoga, il prof. Joseph Phelan, docente di letteratura del diciannovesimo secolo alla De Montfort University (Leicester) (The Jewish “monopoly” of the slave trade in the early Middle Age; the origins of a enduring historical motif, «Pattern of Prejudice» 57 (2023), pp. 161-174).

Il prof. Phelan si avventura in un campo che non è il suo, e si vede.

Egli si propone di esaminare le prove a sostegno dell’affermazione secondo cui gli ebrei avrebbero svolto un ruolo di primo piano nel periodo successivo alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente ‒ tesi, quest’ultima, sostenuta in modo particolare da Heinrich Graetz e Wilhelm Roscher, ma prima ancora da Henry Hart Milman.

L’affermazione secondo cui gli ebrei erano in gran parte responsabili della tratta degli schiavi durante l’Alto Medioevo – scrive – fu adottata con entusiasmo da coloro che desideravano trovare sostegno alla loro tradizionale animosità verso gli ebrei, ma anche, sorprendentemente, da molti scrittori e storici essi stessi ebrei, che a suo dire preferirono attenuare o contestualizzare l’affermazione, piuttosto che metterne in discussione il fondamento storico.

Phelan prende dapprima in considerazione The History of the Jews  di H.F. Milman, pubblicata nel 1829, nella quale l’autore dichiara che abbiamo ampie prove che il grande ramo del commercio degli schiavi in Europa era quasi interamente nelle mani degli ebrei, ma in realtà senza fornire prove sufficienti.

Lo stesso vale per le sue fonti, Jost e Arthur Beugnot, ma anche, tutto sommato, per altri, tra cui Jacobs e Graetz.

Ora, ci si aspetterebbe una confutazione approfondita e sistematica di tutti questi autori e delle loro fonti, con tanto di esibizione di altre fonti a sostegno della tesi contraria, come in parte fa Toch.

Nulla di tutto ciò.

L’articolo si riduce ad una mera esposizione delle tesi che si vogliono controbattere, e si ferma lì.

Phelan si limita a replicare che è facile capire perché storici come Milman ed altri abbiano sostenuto la tesi del coinvolgimento degli ebrei nel traffico di esseri umani; molto meno facile, scrive, è capire per quale ragione lo abbiano fatto storici ebrei del calibro di Jacobs e Graetz.

E risponde che, soprattutto nel caso di Jacobs, ciò è dovuto al suo desiderio «assimilazionista» di presentarsi al pubblico sia come ebreo che come inglese.

E questo spiegherebbe anche quella sorta di «perverso orgoglio» (sic!) di enfatizzare la parte avuta dagli ebrei su quegli eventi, anche se questo potrebbe riflettersi negativamente sulla storia della comunità ebraica.

«Perverso orgoglio»: ora finalmente abbiamo la vera spiegazione “scientifica” della genesi della tesi del coinvolgimento degli ebrei nel traffico degli schiavi nell’Alto Medioevo sostenuta da alcuni storici ebrei!

All’inizio del suo scritto, il prof.  Phelan dichiara che l’obiettivo «modesto» del suo articolo è di tracciare le origini dell’affermazione secondo cui gli ebrei avrebbero dominato o monopolizzato il commercio degli schiavi in Europa dopo il crollo dell’Impero Romano.

Modesto è il tentativo, e ancor più modesto è il risultato.

In conclusione, forse non avranno “monopolizzato” il mercato degli schiavi, forse non vi avranno avuto neppure una parte preminente, ma certamente vi hanno giuocato un ruolo tutt’altro che irrilevante.

Ma in fondo, poco interessa agli apologeti giudei e ai loro Shabbath Goyim di complemento chi abbia o no partecipato all’infame traffico, purché prudentemente i buoni per antonomasia non vi compaiano.

E se vi compaiono, almeno non vi appaiano sovraesposti.

Leave a comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Recent Posts
Sponsor