USURAI EBREI E CRISTIANI E MONTI DI PIETÀ
NELL’ETÀ DEL RINASCIMENTO
IN UNA PAGINA DI LUDWIG VON PASTOR
(Storia dei Papi dalla fine del medioevo … compilata dal Dr. Lodovico Pastor … Volume Terzo, Trento, 1896, pp. 72-77).
Premessa di Gian Pio Mattogno. Von Pastor ricostruisce dapprima le condizioni e le vicende morali e religiose dell’Italia nell’età del Rinascimento.
In Italia, come nel resto dell’Europa, scrive, il XV secolo fu un’epoca di transizione dalle antiche forme dell’esistenza ad un nuovo assetto delle cose.
In tutti gli ordini della vita si compì un rivolgimento grandioso, nel quale non mancarono acuti contrasti: le condizioni politiche, sociali, letterarie, artistiche ed ecclesiastiche vennero a trovarsi in un fermento tale che preludeva ad un nuovo ordine di cose.
Non si può contestare che, per molti versi, nell’età del Rinascimento si venne compiendo una potente alterazione delle cose in peggio.
Se il popolo appare ancora permeato di profonda religiosità ‒ che si manifesta anche negli ideali cristiani che ispirano il sistema corporativo e quello delle confraternite, sia laiche che religiose, nella diffusione degli istituti caritatevoli, e nelle arti ‒ in settori sempre più diffusi delle classi più elevate, e in parte perfino nella Chiesa, si va diffondendo un nuovo spirito mondano e laicistico dominato dall’individualismo, dall’egoismo, dall’orgoglio, dall’ambizione, dal piacere profano e sensuale, dal lusso e dalla cupidigia, dall’empietà, dall’indifferentismo religioso, dalla miscredenza, in una sorta di falso rinascimento “pagano”.
Il denaro non viene più visto come un bene temporale da utilizzare cristianamente in vista della salvezza dell’anima, ma come un mezzo per accumulare ricchezze e gloria mondana, anche nei modi più disonesti.
È in questo nuovo contesto sociale dominato dallo spirito mercantile-borghese anticristiano che prende sempre più piede la piaga dell’usura.
L’autore denuncia bensì l’usura ebraica, ma stigmatizza ancora più severamente, e a ragione, gli usurai cristiani, i quali non di rado si rivelavano addirittura più esosi degli ebrei.
Va tuttavia sottolineato, aggiungiamo noi, che, praticando l’usura, gli ebrei operavano in piena conformità con la dottrina e la legge ebraica, mentre i cristiani lo facevano contro la dottrina e la legge cristiana.
Con la ricchezza ed il traffico, promovitori del lusso, andavano compagne l’usura e la frode.
Già san Bernardino da Siena sferza le varie specie d’inganni e soverchierie, onde i mercatanti si rendevano colpevoli; in particolare riprende gli Stocchi, i quali incettando le merci ne ricaricavano il prezzo, vendendole care e ricomperandole a buon mercato. Con tutto diritto portar essi quel nome, chè trafiggono e ammazzano la gente, talché dovrebbero venir messi al bando dalla città.
Parimenti flagella Bernardino tutti coloro che si servivano di misure e di pesi falsi; i quali, dice, sanno benissimo di peccare, ma van dicendo: Con roba di buono o male acquisto si può empir la casa insino al tetto.
Pieno d’indegnazione il santo si scaglia contro gli usurai cristiani, i quali danno denaro eziandio agli ebrei, acciocché esercitino le loro usure contro i cristiani[1].
Che queste condizioni, non che migliorare, dovessero deteriorarsi, resulta dalle prediche di Gabriele da Barletta (1470), Roberto da Lecce e Michele da Milano. Quest’ultimo dà un catalogo completo di affari e contratti fraudolenti, cercando a suo modo di spiegare i termini dell’arte[2].
Una lunga serie di prediche di Michele si occupa del commercio doloso e del peso adulterato[3].
Una delle prediche di Gabriele da Barletta porta nella forma vivace a lui propria il dialogo seguente: «O cittadino, sei tu cristiano?». «Sì, padre, battezzato in questa e questa chiesa». «Che fai tu?». «Esercito usura». «Oh, se gli abiti della tua donna venissero posti sotto il torchio, ne doccerebbe fuori vivo vivo il sangue de’ poveri!»[4]
Già da questi passi resulta chiaro che non erano mica i soli ebrei, i quali in modo inaudito dissanguassero il popolo; gli usurai cristiani, come si lamenta il magistrato di Verona, esercitavano questo ladro mestiere in una guisa molto più intemperante[5].
Con tutto che in ogni luogo i predicatori inveissero contro la usura ed in parecchie città, p. e. in Piacenza, si fulminassero le pene più severe, come il rifiuto della santa comunione e della sepoltura ecclesiastica[6], il male non voleva cessare.
Va da sé che questa piaga doveva mostrarsi più che cancrenosa in quelle città, le quali, come Firenze e Venezia, erano il centro del commercio, segnatamente del traffico del danaro.
Tutti i patriotti e gli scrittori della città dell’Arno, i loro oratori e legislatori nominano in primo luogo e come male maggiore e fondamentale la usura. Documenti autentici confermano che coteste non erano guari esagerazioni rettoriche: un interesse del 30% non era nulla d’insolito[7].
Nell’anno 1420 si emanò il divieto ai prestatori di pegni di esigere oltre il 20 per cento: ma le cose non volsero in meglio. Dieci anni dopo fu preso un altro spediente e si cercò di infrenare la usura da parte dei cristiani dando libertà agli ebrei a’ quali venne permesso di riscuotere il 20 per cento. Tutto indarno: ebrei e cristiani ora uniti succhiarono il popolo[8].
Preti e laici si sfogano in terribili lamenti.
Antonino scrisse un apposito libro contro la usura, in cui fa sentire più che mai forte la sua voce contro questo vizio[9].
Vent’anno dopo la morte del santo l’onesto Vespasiano da Bisticci gridava:
«O città di Firenze, ti bisogna andare indietro, chè, tu se’ colma di usura e disonesti guadagni! Uno consuma l’altro, turpe cupidigia ha inimicato l’uno contro l’altro. Il malfare è venuto così in costume, che non è chi ne abbia vergogna. In questi ultimi tempi si sono vedute appo i tuoi cittadini cose tanto inaudite, tali disordini e fallimenti, che ben si mostra essere un castigo di Dio, e tuttavia ti ostini nel tuo indurimento. Per te non ha speranza, perciocché tu non pensi che a far denari, e vedi pure come la roba de’ tuoi cittadini se ne va in fumo, appena che essi hanno chiuso gli occhi». Simili esortazioni rivolge Vespasiano ai Milanesi[10].
Con ancor più forza parlavano i predicatori; questi però non contenti di parole, trovarono un tal qual rimedio a tanto disordine mediante l’erezione di pubbliche case di prestito.
E furono i francescani, che coll’approvazione della santa Sede, come una volta nel secolo decimoterzo, così adesso nella seconda metà del decimoquinto tolsero in mano questa riforma sociale[11].
Grazie al loro intimo contatto con ogni ceto di persone avevano avuto modo di vedere addentro l’iniquo procedere onde ebrei e cristiani, approfittando del momentaneo imbarazzo pecuniario di chi cercava denaro a prestito, esigevano un interesse incredibilmente alto.
A rimuovere l’abuso usuraio che si faceva delle strettezze massimamente del popolino, essi vennero nella determinazione di fondare degli istituti, presso i quali chiunque abbisognasse di danaro a contanti lo poteva avere depositando un pegno, ed in vero senza pagare interesse, essendoché il capitale impiegatovi veniva ammannito mediante libere offerte, collette, donazioni e fondazioni: dal che il termine mons, monte, come chi dicesse un mucchio di danaro, proprietarî del quale si riguardavano la totalità dei poveri e lo stesso istituto.
Allo stato pontificio spetta il vanto di avere per primo introdotti questi istituti di beneficenza, chiamati appunto monti di pietà. I papi ne riconobbero tosto la grande importanza e li promossero a tutto potere.
Nell’anno 1463 Pio II confermò la prima casa di prestito in Orvieto, nel 1464 Paolo II quella in Perugia. In amendue questi luoghi si deve ai francescani di aver sollecitato e posto ad effetto questa importante riforma sociale[12].
Certi principi, come Giovanni Galeazzo Sforza di Milano e Giovanni Bentivoglio di Bologna favorirono le parti degli ebrei usurai; ma essi trovarono un implacabile oppositore in san Bernardino da Feltre[13].
Dalla forte e incessante opposizione di quest’uomo coraggioso contro gli ebrei si fa manifesto quale pessima efficacia costoro esercitassero allora dappertutto in Italia ed a qual segno succhiassero il sangue del popolo, dei ricchi come de’ poveri. In seguito a che sorse e si estese largamente fra il popolo italiano un movimento antisemita, onde più d’una volta si venne a deplorevoli eccessi.
Dei quali non vuolsi appunto accagionare Bernardino da Feltre; ché egli predicava non solamente contro gli usurai ebrei, ma eziandio contro i cristiani e ammoniva tutti a guardarsi da ogni intemperanza.
«Chi ha cara la salute dell’anima sua», predicava il beato in Crema, «non si attenti di danneggiare gli ebrei, né la loro persona, né la sostanza né altro. Conciossiaché anche agli ebrei conviensi usare giustizia e carità cristiana. Così comandano gli statuti dei pontefici, così l’amore cristiano. D’altro lato però il ministero ecclesiastico divieta la continua ed intima domestichezza cogli ebrei; né anche in qualità di medici si hanno a chiamare, come adesso universalmente interviene»[14].
Nondimeno usurai ebrei cercarono di tor di vita proditoriamente il celebre predicatore[15]. Bernardino andò salvo dall’attentato e proseguì la sua attività. Nell’anno 1486 Innocenzo VIII chiamollo a Roma, da dove uscì indi a poco una bolla solenne in favore dei monti di pietà.
In Firenze doveva nell’anno 1473 erigersi uno di questi istituti di prestito, ma la cosa venne frastornata. V’è chi dice che gli ebrei abbiano corrotto con 100.000 fior. i magistrati e Lorenzo de’ Medici. Dimorando Bernardino da Feltre l’anno 1488 nella città dell’Arno, tornò a raccomandare la erezione di un simile istituto; ma gli ebrei coi loro maneggi e danari la spuntarono altresì questa volta.
Soltanto il Savonarola riuscì nell’impresa. Il decreto allora emanato scopre tutto il marcio di questa pubblica calamità: vi si dice che gli ebrei stanziati in Firenze imprestavano al 32½ per cento, con l’interesse composto in maniera che s’era visto, che 100 fiorini imprestati alla loro ragione ordinaria, arrivavano dopo 50 anni a 49 792 556 fiorini, 7 grossi e 7 danari![16]
Aumentando il numero dei ricorrenti alle case di prestito, crescevano naturalmente le spese di amministrazione; per cui bisognò desistere dal prestito gratuito, e introdurre un piccolo risarcimento onde sopperire alle spese dell’istituto. Contro di che i domenicani sostenevano che in tal modo si mancava alla proibizione canonica di riscuotere il censo[17].
Intorno a ciò si svolse una controversia letteraria, nella quale aveva la sua parte anche la rivalità dell’ordine. La saggezza della santa Sede seppe intanto anche qui tenere il giusto mezzo. Come già Martino V dichiarava permessa la vendita delle rendite[18], così i suoi successori fecero il medesimo quanto ai monti di pietà. Ormai Pio II, Paolo II, Sisto IV, Innocenzo VIII e da ultimo Giulio II avevano concesso a singole case di prestito la loro conferma[19].
Universalmente cotali istituti vennero guarantiti da ogni contestazione e raccomandati mediante un decreto di Leone X del 4 maggio 1515 nel quinto sinodo lateranense. Il pagamento di una gabella fu dichiarato lecito, fin tanto che il suo valsente non eccedesse le spese necessarie. Chi afferma il contrario cade nella scomunica[20].
L’abbassamento della quota dell’interesse nel secolo decimosesto coincide in parte col fiorire dei monti di pietà[21].
[1] M. Güdemann, Geschichte des Erziehungswesens der abenländischen Juden, vol. II, Wien, pp. 244 sgg., il quale, certo in contraddizione con le fonti, nega ogni usura da parte degli ebrei. Che i predicatori biasimino anzitutto i cristiani, è cosa naturalissima, essendoché gli ebrei non andavano alla predica.
[2] Ivi, p. 245.
[3] Michael de Mediolano, Sermonarium triplicatum, Basileae, 1449, II parte, n. 81 e tutta la III parte. Vedi anche Robertus de Litio (Licio), Quadrigesimale de peccatis per fratrem R. Caracholum de L. ord. min., Venetiis, 1488, p. 123.
[4] G. Barleta, Sermones, Lugdun., 1511, 48b.
[5] Della Corte, Storia di Verona III, Verona, 1744, p. 6.
[6] M. Gündemann, op. cit., p. 246.
[7] Pöhlmann, Die Wirtschaftpolitik der florentiner Renaissance und das Princip der Verkehrsfreitheit, Leipzig, 1878, pp. 80 sgg. Cfr. W. Endemann, Studien in der romanisch-canonistischen Wirthschaft und Rechtslehre, Berlin, 1874, I, pp. 32 sgg. C. Jannet, Le crédit populaire et les banques en Italie du XVe au XVIIIe siècle, Paris, 1885, pp. 12 sgg. Secondo il Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da S. Pietro sino ai nostri giorni, Venezia, 1840-1879 (XLVI, p. 252) si pigliava allora in Italia persino il 70 e l’80%. In Piacenza al tempo di Bernardino da Feltre si esigeva di solito il 40%. Cfr. L. Wadding, Annales Minorum seu trium ordinum a S. Francisco institutorum. Edit. secunda, opera et studio R.P. Josephi Mariae Fonseca ab Ebora, T. XIV et XV, Romae, 1735 sgg. XIV, p. 481.
[8] A. von Reumont, Lorenzo de’ Medici il Magnifico. II ed., Leipzig, 1883, II,2, pp. 308 sgg.; Pöhlmann, op. cit., p. 81.
[9] De usuris. J.H. Fabricius, Bibliotheca latina mediae et infimae aetatis, ed. Mansi, Florentiae, 1858-1859, I, p. 111; W. Endemann, op. cit., I, pp. 34 sgg.
[10] Vespasiano da Bisticci, Vite, ed. Frati, III, p. 322.
[11] C. Jannet, op. cit., p. 10.
[12] Oltre agli autori citati nell’opera presente I, pp. 29 sgg. e II, 193 cfr. anche Wetzer e Welte, Kirchenlexicon VII, 2, pp. 1690 sgg. Bruder, Staatslexicon III, pp. 1092 sgg. Blaize, Des monts de piété, Paris, 1856. Endemann in Jahrb. Für nationalökonomie I (1863), pp. 324 sgg. Endemann, Studien der romanisch-canonistischen Wirthschafts- und Rechtlehre I (1834), pp. 460-471. De Decker, Les monts de piété en Belgique, Bruxell. 1844 (introduzione), ed il lavoro di Jannet, pp. 4 sgg.
[13] Cfr. Erler, Aufsätze über die Iudenverfolgungen nel Vering, Archiv für Kirchenrecht, L, pp. 61 sgg.; LIII, 3sgg.
[14] Acta Sanctor., Sept. VII, pp. 868, 882. Erler loc. cit. LIII, pp. 9, 13.
[15] In Modena una ebrea gli spedì frutta avvelenate. Cfr. Erler, l.c., pp. 4, 62.
[16] Cfr. Villari, Savonarola, Firenze, 1859, I, p. 278. Cfr. De Rossi, Ricordanze, pp. 238 sgg. Jannet, p. 12, n. 5. Perrens, II, p. 147. Reumont, Lorenzo, II, 2, p. 309. La testimonianza superiormente addotta confuta le asserzioni del Güdemann (v. sopra p. 73, nota 1) e del Reinach, Hist. des Israélites, Paris, 1885, p. 152, i quali negarono che gli ebrei esercitassero usura.
[17] Jannet, p. 13 e Bruder, Staatslexicon III, p. 1093.
[18] Cfr. Bruder, Finanzpolitik Rudolfs IV. Oesterreich, Innbruck, 1885, pp. 95 sgg.
[19] V. sopra p. 75, com’anche Erler, l.c., I, p. 63; LIII, pp. 6, 9 e Jannet, p. 24.
[20] Hefele-Hergenröther VIII, p.646.
[21] Jannet, p. 15.
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