H. De Vries De Heekelingen: La Chiesa e la questione ebraica

H. De Vries De Heekelingen 

LA CHIESA E LA QUESTIONE EBRAICA 

(H. De Vries De Heekelingen, Juifs et catholiques, Paris, 1939, pp. 11-12, 183-198).

Premessa di Gian Pio Mattogno. L’autore tiene a precisare che impiega il termine antisemitismo semplicemente nel senso di «dottrina o movimento di coloro i quali si sono opposti all’influenza degli ebrei» (senza alcun‘altra connotazione), cioè alla preponderanza ebraica, e che questo termine «non ha affatto il senso peggiorativo che gli attribuiscono gli ebrei».

     Tale influenza ha la sua radice prima nel talmudismo (cfr. H. De Vries De Heekelingen, L’atteggiamento del Talmud di fronte al non-ebreo, andreacarancini.it).

Questo, come altri scritti dello stesso genere, che anche nella terminologia risentono del clima politico di quegli anni, vale unicamente come documento storico. Nessuno si sognerebbe di rimettere in vigore certe ordinanze del passato.

     Nondimeno, illustrando obiettivamente l’atteggiamento della Chiesa tradizionale nei confronti della questione ebraica, queste pagine di Vries De Heekelingen conservano un interesse ancora maggiore soprattutto in tempi come i nostri, caratterizzati da deferenza, se non addirittura da servilismo, verso i “fratelli maggiori”.

Se un “dialogo” ha da essere, che sia almeno un dialogo fra pari.

Su Chiesa e questione ebraica cfr. F. Vernet, La Chiesa e la polemica antigiudaica. Storia, storiografia e bibliografia dalle origini agli inizi del sec. XX, andreacarancini.it.

 

Avversari e difensori degli ebrei invocano spesso l’autorità della Chiesa.

Fra gli atti dei concili o delle bolle papali ognuno cerca ciò che più gli conviene.

Perdendo di vista i princìpi generali, non ci si rende conto che questi atti, ancorché dissimili, non sono affatto contraddittori (…)

Così si esagera nell’uno e nell’altro senso.

I giudeofili, ad esempio, in questi ultimi tempi sono riusciti ad accreditare l’idea che una difesa abbastanza vigorosa contro l’influenza ebraica sarebbe contraria allo spirito della Chiesa (…)

Certo, la Chiesa ha sempre condannato le vessazioni e le persecuzioni. Essa non si è mai sognata di proibire il culto ebraico, ma ha costantemente rammentato ai capi di Stato che bisognava tenere lontani gli ebrei dalle funzioni pubbliche.

La storia, a partire dalla rivoluzione francese, ha dimostrato quanto questo atteggiamento fosse giustificato. Cacciando Dio dal governo e aprendo la porta agli ebrei, si è consegnato loro il mondo.

Nella legislazione medievale l’antisemitismo era accompagnato da una tolleranza basata su una precisa convinzione religiosa. Successivamente questa tolleranza per convinzione religiosa si è trasformata in una tolleranza per indifferenza, e si è finito per non distinguere più ciò che bisognava tollerare da ciò che bisognava proibire.

Balbettando la parola “tolleranza” si pensava di aver fatto il proprio dovere. Ma la vera tolleranza di fatto esige l’intolleranza di principio, mentre ora si è tolleranti di principio e spesso intolleranti di fatto.

Essendo ormai scomparso l’antisemitismo equilibrato e motivato, governato dalle leggi della Chiesa e degli Stati, ha finito per affermarsi un altro antisemitismo (…)

Taluni, poco al corrente delle dottrine della Chiesa, fanno una distinzione fra i Papi filosemiti e i Papi antisemiti. Questo è un errore. Dalle origini ai giorni nostri [1939] la dottrina della Chiesa sul problema ebraico non è mai cambiata.

La Chiesa condanna l’odio, le persecuzioni e l’omicidio. La Chiesa condanna le accuse non fondate ed ogni atto contrario alla giustizia e alla carità, si tratti degli ebrei o di altri popoli. Ma la Chiesa ordina di difendere la verità, l’onestà negli affari, i buoni costumi e l’ordine costituito.

La Chiesa ci obbliga alla difesa dei valori cristiani.

Su tutti questi punti i Papi non hanno mai cambiato, ma si sono sforzati di trovare una soluzione all’eterna questione ebraica. Le loro misure furono adattate all’epoca in cui sono state prese.

Se un Papa ha usato la dolcezza per giungere ad una soluzione e se il suo successore, constatando il risultato disastroso di certe misure, le ha abrogate e sostituite con altre più severe, non è esatto definire il primo Papa un giudeofilo e il secondo un antisemita.

Entrambi si sono ispirati agli stessi princìpi, ma hanno cercato di realizzarli in maniera differente tenendo conto delle circostanze del momento.

Ma per quale ragione i Papi sono costretti a utilizzare metodi differenti?

Essi si sono visti obbligati a proteggere gli ebrei, perché i popoli cercavano di liberarsi dall’oppressione giudaica con la violenza e l’omicidio.

E perché i popoli erano ricorsi a questi mezzi estremi?

Perché essi non avevano seguito le prescrizioni della Chiesa di tenere gli ebrei lontani dal potere e di avere a che fare il meno possibile con loro.

La Chiesa non è mai cambiata nel suo insegnamento. La politica dei Papi verso gli ebrei, malgrado le divergenze apparenti, è di una notevole uniformità.

La Chiesa ha sempre rispettato gli ebrei in quanto individui, ha autorizzato il loro culto, ma li ha tenuti lontani dal potere per impedire che nuocessero ai cristiani e al cristianesimo; ha semplicemente ordinato misure di difesa.

Mons. Delassus riassume in modo felicissimo la regola che ispira la legislazione della Chiesa verso gli ebrei:

«Bisogna lasciarli vivere in sicurezza, ma bisogna impedire che i cristiani cadano in loro potere»[1].

L’ab. Joseph Lémann definisce così l’atteggiamento della Chiesa:

«Piena di rispetto, compassione e misericordia, ma anche circospetta e prudente»[2] (…)

In un discorso al Gran Sanhedrin, riunito da Napoleone, Isaac Avidgor ricordava che i Papi hanno sempre protetto gli ebrei contro le persecuzioni e che spesso hanno accordato loro asilo ad Avignone e a Roma. Ricordava Gregorio Magno, che li protesse nel VI secolo[3], Alessandro II, che fece lo stesso nel X secolo, Innocenzo II, Alessandro III, Gregorio IX, che facilitarono agli ebrei i mezzi d’istruzione, Clemente VI, che accordò loro asilo ad Avignone[4].

Si potrebbero aggiungere a questo elenco Onorio III e Urbano V, che proibirono il battesimo coatto degli ebrei, Sisto V, che accordò loro alcuni privilegi, ed altri Papi ancora. Alessandro II e Gregorio IX protessero gli ebrei contro gli eccessi sanguinosi dei Crociati, Clemente VI li protesse contro i Pastorelli, altri Papi li difesero dall’accusa di avvelenare le fonti.

Un’altra prova della loro mansuetudine verso gli ebrei ci è fornita dallo storico protestante Basnage, il quale scrive all’inizio del XVIII secolo:

«Abbiamo voluto conoscere in modo più esatto il numero e l’attuale situazione delle loro sinagoghe nello Stato Pontificio. Se ne contano nove a Roma e diciannove nella campagna, trentasei nelle Marche di Ancona, dodici nel patrimonio di S. Pietro, undici a Bologna e tredici nella Romagna … Questo censimento fa vedere che c’è ancora un numero considerevole di sinagoghe nella parte del mondo in cui la Chiesa romana regna con maggiore autorità»[5].

«Gli ebrei – scrive il p. Weiss – furono trattati con la più grande mitezza fino a quando, per colpa loro, non persero la protezione di cui erano oggetto, per via della loro innata abilità a tagliare le cinghie sulla pelle dei cristiani, protezione di cui godettero nel medioevo troppo spesso a spese e con grande malcontento dei popoli cristiani»[6].

«A Roma più che altrove gli ebrei, quando si sforzavano di essere meno usurai e meno fanatici, furono difesi e protetti»[7], ma ogni volta il loro comportamento obbligò i Papi a ritornare sulle misure prese a loro favore.

Se il loro pontificato era di durata abbastanza lunga, l’atteggiamento degli ebrei li obbligò a fare marcia indietro, a revocare le misure prese nei confronti degli ebrei e a rimanere rigorosamente entro i limiti della giustizia. Se il loro pontificato era breve, furono i loro successori a revocare le misure generosamente emanate dai loro predecessori.

Dopo la liberalità di Martino V, i comportamenti degli ebrei costrinsero Eugenio IV a prendere misure estremamente severe contro di essi. Quando Nicola V e Callisto III si mostrarono tolleranti nella speranza di convertirli, gli ebrei divennero così invadenti che un secolo dopo Paolo IV fu costretto a relegarli nel loro quartiere e ad isolarli dalle loro vittime.

Pio IV fu tollerante e fece loro delle concessioni. Il suo successore, Pio V, fu costretto a ristabilire i canoni in tutto il loro rigore. Sisto V non fu più fortunato; pochi anni dopo il suo pontificato, Clemente VIII dovette convenire che «tutti soffrono delle loro usure, dei loro monopoli, delle loro frodi; hanno ridotto sul lastrico una moltitudine di infelici: principalmente i contadini, il popolino e i poveri»[8].

Siffatti comportamenti determinarono altresì l’istituzione della rouelle, un segno distintivo, generalmente di color giallo, che gli ebrei erano costretti a portare in bella mostra sui loro vestiti.

Nel 1215 il concilio del Laterano generalizzò questa usanza già osservata in molte regioni.

La Chiesa non aveva affatto l’idea di imporre agli ebrei un segno infamante, ma voleva semplicemente distinguerli dai cristiani con un qualche tratto particolare del loro abbigliamento. Si voleva avvertire la gente del popolo che aveva a che fare con un ebreo e dunque doveva essere prudente. Alcuni pensano che era un mezzo per impedire i matrimoni misti.

Tommaso d’Aquino spiegava alla duchessa di Brabante, la quale gli aveva chiesto dei consigli, che in ogni regno cristiano e in qualsiasi momento bisognava che gli ebrei di entrambi i sessi fossero distinti dai cittadini con un segno esteriore.

Una misura del genere apparirebbe del tutto singolare in un’epoca come la nostra, dove quasi tutti si vestono allo stesso modo, ma nel medioevo, quando ogni classe vestiva in modo diverso, non c’era nulla di strano in tutto questo.

Le esternazioni di Graetz e Dubnow, che parlano di un trattamento barbaro, di una stigmate di Caino, di un segno d’infamia, sono quanto meno esagerate[9].

Ai giorni nostri una donna Bernese o una Vallese in Svizzera, una Frisone o una Zelandese in Olanda, una Ungherese o una Croata non hanno alcuna remora a mostrare, con il loro costume, a quale cantone, provincia o nazione appartengono.

Perché un membro del popolo ebraico doveva provare imbarazzo a far vedere con il suo abbigliamento che apparteneva alla nazione ebraica in un’epoca in cui la diversità dei costumi era così grande?

Questo segno distintivo dell’ebreo era peraltro lungi dall’essere peculiare al diritto cristiano. Già Tolomeo Filopatre ne aveva fatto uso[10].

Nell’VIII secolo Almanzor obbligò gli ebrei a vestirsi in modo particolare[11].

In Persia gli ebrei furono obbligati a portare un segno distintivo sino alla fine del XIX secolo, quando fu sostituito da un altro, che raffigurava il libro della Legge e due mani intrecciate[12].

Le ragioni che spinsero a queste misure dovevano essere molto serie, se è vero che, in epoche così lontane tra di loro, si sentì la necessità di distinguere gli ebrei.

D’altro canto vediamo che i Papi vi attribuirono una grande importanza, poiché a più riprese richiamarono all’osservanza delle loro ordinanze in materia. Clemente VIII aggiunse ad esse anche quella di portare, nel Contado Venassino, il cappello giallo, misura di cui ancora nel 1704 si esigeva una scrupolosa osservanza. Un editto del 1751 proibiva a chiunque, perfino al vescovo maggiordomo e al cardinale legato, di accordare deroghe a questa norma pena la destituzione e la perdita della propria carica.

Non è forse per derisione, si chiede Armand Mossé, che gli ebrei di Carpentras continuarono a portare il cappello giallo all’indomani della rivoluzione, dopo la loro emancipazione, al punto che le autorità dovettero proibirglielo sotto pena di sanzioni?[13]

Ad ogni modo, è ormai assodato che per lunghi secoli i Papi hanno avvertito la necessità imperativa di distinguere gli ebrei dal loro entourage.

Al tempo stesso la Chiesa si è sforzata di aprire gli occhi degli ebrei di fronte alla verità. Essa non si è limitata a pregare pubblicamente, il Venerdì Santo, perché gli ebrei ritrovino la verità: Oremus et pro perfidis judaeis, “preghiamo anche per gli infedeli giudei, affinché il Signore nostro Dio tolga il velo che copre il loro cuore”.

La Chiesa inoltre ha istituito, sotto Gregorio XIII, la Predica coattiva, la predica obbligatoria. Ogni sabato, all’uscita della sinagoga, un terzo della popolazione del ghetto di Roma doveva recarsi ad ascoltare una predica sui propri errori. Sisto V limitò la presenza a queste prediche a sei volte l’anno, ma Clemente VIII ristabilì l’ordinanza di Gregorio XIII, che fu abolita solo nel XIX secolo da Pio IX.

Il risultato di tali prediche fu assai modesto.

«E quando il fratello Onufro con pii dibattiti li vuol convertire dopo i loro sabati con tamponi di cera si tappano le orecchie»[14].

Pur condannando le persecuzioni, la Chiesa si adoperò attivamente a preservare i cristiani contro l’influenza sia spirituale che materiale degli ebrei. Ricorderemo alcuni esempi attraverso i secoli.

Il primo concilio che si occupò degli ebrei è quello di Elvira, che proibì i matrimoni misti. Altri concili, nei secoli V e VI, ribadirono questo divieto e vi aggiunsero quelli di mangiare con gli ebrei o di assistere alle loro feste.

Il concilio di Orléans (538) prese diverse misure per proteggere gli schiavi degli ebrei; un ebreo che traviava uno schiavo era punito con la perdita di tutti i suoi schiavi.

Il concilio di Mâcon (581) vietò agli ebrei tutte quelle funzioni che permettevano loro di comminare pene contro i cristiani. Era il primo divieto di entrare nella magistratura di cui siamo a conoscenza. Lo stesso concilio proibì agli ebrei di possedere schiavi cristiani. Il concilio di Toledo (633) prescrisse che tutti gli schiavi di un ebreo ottenessero la libertà se fra di loro si trovava un cristiano.

Diversi concili vietarono di affidare agli ebrei una carica pubblica, civile o militare; tale divieto fu esteso anche ai figli di ebrei convertiti. Altri concili vietarono di rivolgersi ai medici e ai domestici ebrei, di fare il bagno assieme a loro o di impiegare balie ebree.

Nel IX secolo Papa Stefano VI richiamava l’attenzione di Carlo il Semplice sulla povertà del clero e sull’opulenza degli ebrei. Un secolo dopo Gregorio VII rammenta ad Alfonso III, re di Castiglia, che è vietato sottomettere i cristiani all’autorità e al potere degli ebrei. «Questo significa svilire la Chiesa di Dio ed innalzare la sinagoga di Satana». Il concilio di Roma rimproverò parimenti al re di aver concesso agli ebrei la parità dei diritti coi cristiani.

Nel XII secolo è vietato abitare con gli ebrei. Alessandro III lamenta che Luigi VII accordi loro troppa libertà.

All’inizio del XIII secolo Innocenzo III segnala al giovane Filippo Augusto i pericoli determinati dalla debolezza di suo padre verso gli ebrei. In una lettera del gennaio 1204 il Papa ricorda al re tutto ciò che gli ebrei si permettono in Francia: bestemmie e attacchi contro la religione, violazione dei canoni dei concili lateranensi, usure e rapine intollerabili. Arrivano, dice, perfino all’omicidio commesso segretamente.

Il Papa lamenta che tutti questi atti restino impuniti e dice che è impossibile per i cristiani farsi giustizia, perché la loro testimonianza non è ammessa, mentre è ammessa quella degli ebrei, in quanto i funzionari reali si fanno corrompere dagli ebrei[15].

Quando, in seguito a queste rimostranze, il re espulse gli ebrei, il Papa non protestò. «Dunque, non trovò eccessiva questa misura»[16]. Lo stesso Papa si lamenta presso Sancho III, re di Castiglia, dei privilegi accordati agli ebrei.

Il quarto concilio lateranense ribadisce diversi divieti, soprattutto quelli relativi all’ammissione degli ebrei alle cariche pubbliche. Peraltro, già nel 1209, in occasione della sottomissione del conte di Tolosa, capo degli Albigesi, Innocenzo III aveva preteso da lui l’allontanamento degli ebrei da tutte le cariche pubbliche.

Il concilio di Vienna, in Austria, presieduto nel 1267 da un legato del Papa, fra le altre prese una decisione che ricorda singolarmente certe misure dei giorni nostri: se un ebreo copula con una donna cristiana sarà punito con la prigione e con un’ammenda di almeno dieci marchi, mentre la donna sarà frustata e cacciata dalla città[17].

Una bolla di Onorio III vieta parimenti agli ebrei di occupare cariche pubbliche.

Gregorio IX proibisce loro di impiegare domestici cristiani.

Innocenzo IV ribadisce il divieto per i cristiani di impiegare balie ebree.

Lo stesso Papa autorizzò San Luigi ad espellere gli ebrei.

Fra i numerosi concili del XIV secolo citiamo ancora quello di Avignone del 1337, che dopo una serie di divieti così conclude: «Ogni cristiano deve respingere e disprezzare i fetidi servigi degli ebrei. Costoro, da parte loro, si stanno innalzando troppo al di sopra della condizione servile che è loro propria»[18].

Ricordiamo che questo concilio si tenne negli Stati del Papa, dove gli ebrei, secondo quanto essi stessi ammettono, furono sempre trattati con umanità, cosa che tuttavia non impediva alla Chiesa di metterli al posto loro se era necessario.

Passiamo al XV secolo. Benedetto XIII vieta agli ebrei di Avignone le professioni di medico, chirurgo, sensale e speziale. Eugenio IV vieta agli ebrei di vivere in comune coi cristiani e di esercitare funzioni pubbliche. Callisto III conferma queste misure.

Nel secolo XVI le ribadisce anche Paolo IV, il quale vi aggiunge il divieto di esercitare ogni genere di industria, di possedere beni immobili, di lavorare la domenica, di avere domestici cristiani, di farsi chiamare signore dai cristiani poveri, di servirsi nei loro libri contabili di caratteri che non siano quelli latini, di vendere pegni prima di diciotto mesi da quando li hanno ricevuti etc.

Successivamente questo Papa fa alcune concessioni agli ebrei e fra l’altro permette loro di acquistare beni immobili. Ma il comportamento degli ebrei obbligò Pio V a ritornare su queste decisioni ispirate alla moderazione e a ristabilire in tutto il loro rigore le ordinanze di Paolo IV. Infine, nel 1569, li espulse dagli Stati della Chiesa, ad eccezione di Roma ed Ancona.

Gregorio XIII vieta ai cristiani malati di farsi curare da ebrei. Clemente VIII vieta agli ebrei di Avignone di vendere oggetti nuovi. Egli inoltre conferma la bolla di Paolo IV ed osserva che gli ebrei non hanno risposto alla mitezza dei suoi predecessori.

Si dirà che tutto ciò è lontano da noi.

Passiamo allora al XVIII secolo. Benedetto XIII vieta ai cristiani di mangiare con gli ebrei, di giocare o ballare con loro. Proibisce agli ebrei di fabbricare tessuti e di vendere oggetti nuovi. Benedetto XIV ribadisce diversi divieti e riconosce l’omicidio rituale di Andrea da Rinn.

«La Chiesa – scrive l’ab. Joseph Lémann – tanto nel X quanto nel XVIII secolo non ammette che un ebreo possa entrare in possesso o in compartecipazione di ciò che è una funzione essenziale nella società cristiana; che, ad esempio, un ebreo possa insegnare a dei cristiani, sedere su uno scranno di magistrato sotto un crocifisso, contribuire alla formazione delle leggi di uno Stato cristiano. La sua linea di condotta è sempre la stessa: tollerarli, trattarli bene, avere compassione di loro, ma a condizione che vivano fra di loro, a casa loro, e non siano introdotti in seno alla società cristiana, perché una volta entrati nel suo seno arriverebbero subito al cuore della società oppure ostacolerebbero le sue normali funzioni. Per questo il suo Non possumus è sempre così energico»[19].

Molte delle decisioni citate sono state inserite nel Corpus juris canonici.

Un vescovo austriaco, mons. Kohn, nipote di ebrei battezzati, ex docente di diritto canonico, afferma che tali decisioni non sono state mai abrogate. Auzias-Turenne osserva parimenti che nessuno potrebbe sostenere che tali disposizioni siano cadute in disuso o siano state abrogate.

Secondo il Corpus juris canonici è vietato abitare con ebrei, partecipare ai loro banchetti, fare il bagno assieme a loro, impiegarli come medici, allattare i loro figli o semplicemente essere al loro servizio come domestici. Si deve vegliare a che gli ebrei non ricoprano alcuna carica pubblica[20].

In un foglio devoto alla causa ebraica si afferma, felicitandosene, che tutto ciò non è più valido: «Se vedere gli ebrei frammischiati a cristiani nelle città e negli edifici pubblici, abitare nella stessa casa, o ebrei che hanno come domestici cristiani di ambo i sessi, ebrei che si dedicano soprattutto al commercio e diventano ricchi poteva essere oggetto di scandalo nel XVIII secolo, non lo è più nel XX secolo»[21].

Senza volerlo, l’autore giudeo-cristiano indica la piaga di cui soffriamo, ci mostra fin dove siamo caduti. Ciò che stupiva nel XVIII secolo, non stupisce più ai giorni nostri (…)

«Queste norme canoniche – scrive mons. Delassus – hanno ispirato un gran numero di ordinanze reali, grazie alle quali, per tanti secoli, la Francia è stata preservata dall’invasione semitica così minacciosa ai giorni nostri»[22] (…)

L’ab. Joseph Lémann osserva parimenti che le ordinanze contro gli ebrei erano emanate per limitare e fermare la loro libertà di conquista.

«Gli accessi che portano al cuore della società cristiana sono chiusi loro accuratamente. La grande regola di prudenza adottata nei loro confronti è la seguente: nessuna carica strettamente connessa con la struttura stessa della società cristiana può essere affidata loro»[23] (…)

 

[1] Mgr. Henry Delassus, La conjuration antichrétienne, Lille, 1910, t. III, p. 1119.

[2] Ab. J. Lémann, L’entrée des Israélites dans la société française, 1886, p. 251.

[3] È curioso osservare che gli ebrei ricordano volentieri che questo Papa biasimò il vescovo di Terracina per aver tolto una sinagoga agli ebrei, ma dimenticano di accennare al fatto che questo stesso Papa si era rifiutato di dare al vescovo di Palermo e a quello di Cagliari il permesso di costruire sinagoghe. Era concesso loro di conservare le sinagoghe già esistenti, ma era proibito costruirne di nuove [Altrove però l’autore sottolinea che le parole di Avidgor non erano sincere, perché dettate al solo fine di accattivarsi la simpatia di Napoleone e dei cristiani di Francia].

[4] J. Crétineau-Joly, L’Église romaine en face de la révolution, 1860 [recte: 1859], t. I, pp. 399-402.

[5] J. Basnage, Histoire des Juifs, 1707, cit. Dall’ab. J. Lémann, op. cit., p. 164.

[6] A.M. Weiss, Apologie du christianisme, Paris, 1894, t. VI, p. 33.

[7] Dominique Roland-Gosselin, in «Roma», 8 luglio 1937, p. 293.

[8] Mons. Delassus, op. cit., t. III, p. 1160.

[9] H. Graetz, Volkstümliche Geschichte der Juden, Wien-Berlin, t. II, pp. 453-454; S. Dubnow, Weltgeschichte des jüdischen Volkes, Berlin 1925-1930, t. V, pp. 12, 22.

[10] Il p. Constant, Les juifs devant l’Église et l’histoire, Paris, 1897, p. 131.

[11] H. Graetz, op. cit., t. II, pp. 453-454.

[12] I due segni distintivi sono stati riprodotti in «Témoignage de notre Temps», settembre 1933, p. 25.

[13] A. Mossé, Histoire des Juifs d’Avignon et du Comtat venaissin, Paris, 1934, pp. 112-113.

[14] E. Fleg, Le Juif du Pape, Paris, 1935, p. 31.

[15] Ch. Auzias-Turenne, La question juive et le droit ecclésiastique, «Revue catholique des institutions et du droit». Octobre 1893, p. 296 [Trad. it.: La questione ebraica e il diritto ecclesiastico, in «La Questione Ebraica», I , Agosto 1998, pp. 89- 104].

[16] Il p. Constant, op. cit., p. 56.

[17] Ch. Auzias-Turenne, op. cit., p. 296.

[18] Ivi, p. 297.

[19] Ab. J. Lémann, op. cit., p. 286.

[20] Ch. Auzias-Turenne, op. cit., p. 198.

[21] Oskar de Férenzy, in «La Juste Parole», 5 gennaio 1938, p. 5.

[22] Op. cit., t. III, p. 1162.

[23] Op. cit., p. 202.

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