Gian Pio Mattogno
IL PADRE I.B. PRANAITIS
E IL SUO CHRISTIANUS IN TALMUDE IUDAEORUM
C’è una vecchia locuzione latina che suona: “Unum castigabis, centum emendabis” (lett. “Ne castigherai uno, ne correggerai cento”).
Gli apologeti giudei e i loro ausiliari hanno aggiornato questa vecchia locuzione nel seguente modo: colpirai una parte per colpire il tutto.
È un’abile strategia che consiste nel denunciare e colpire alcuni errori e travisamenti eventualmente presenti nelle opere di critica al giudaismo rabbinico-talmudico per attaccarne l’intero contenuto.
Lo si è fatto ad esempio con il Talmudjude di August Rohling, che la stessa “Civiltà Cattolica” riconosceva «per autore in parte romanzesco ed inventore di citazioni a casaccio» (Della questione giudaica in Europa. Anno quarantesimoprimo. Volume VIII. della serie decimaquarta, 1890, p. 8), opera peraltro emendata nelle successive versioni francesi, dove le citazioni rabbiniche sono riportate correttamente.
Lo si è ribadito con I.B. Pranaitis e il suo Christianus in Talmude Iudaeorum (Christianus in Talmude Iudaeorum sive Rabbinicae Doctrinae De Christianis Secreta quae patere fecit I.B. Pranaitis S. Theologiae Magister, Linguae Hebraeae in Academia Caesarea Rom. Cath. Ecclesiastica Petropolitana Praeceptor, Presbyter Dioeceseos Seinensis, Petropoli, 1892).
Ma in quest’ultimo caso, come vedremo, si sono dati la zappa sui piedi.
Che quest’opera fosse destinata a diventare un’altra bestia nera di Israele, lo si comprende dalla recensione che ne fece fin da allora la “Civiltà Cattolica”:
«È il libro che da qui innanzi servirà di guida e di norma a quanti vorranno penetrare i segreti del giudaismo e a rivelarli ai non giudei, massime ai cristiani, a’ quali importa maggiormente saperli. Noi ce ne siamo avvaluti nella trattazione sul Giudaismo, compresa nel precedente quaderno ed in questo.
«Fra quante opere abbiamo alle mani su tale argomento, e non sono poche, niuna per nostro avviso è più acconcia di questa a illuminare i cristiani circa quello che pensa, vuole e tenta contro di loro la Sinagoga.
«Il libro del ch. Pranaitis è di piccola mole, ma vale una biblioteca. Quivi trovasi condensata la dottrina del Talmud e dei dottori ebrei intorno alla persona di Gesù Cristo, e al Cristianesimo. Quivi leggonsi gl’insegnamenti e i precetti del giudaismo talmudico circa i non giudei, massime cristiani; e le cose che vi si dicono sono così atroci e opposte alla stessa legge di natura che non si crederebbero neppur possibili, ove il ch. Autore non avesse avuto la precauzione di rapportare gli stessi testi ebraici con la citazione delle opere onde avevali estratti; di guisa che ognun che il voglia possa assicurarsi da se medesimo della verità di quanto egli afferma.
«E poiché la lingua ebraica è da pochi conosciuta, il ch. Autore ebbe cura di apporre al testo ebraico la traduzione latina. La lettura di questo libro prezioso sarà per tutti come fu per noi, un raggio di luce, una rivelazione novella, che mette il lettore sulla vera via da penetrare fino al fondo i tenebrosi misteri del giudaismo talmudico, nemico della società cristiana, e d’ogni regnante per grazia di Satana e disgrazia nostra»
(Rec. a Pranaitis I.B., Christianus in Talmude Iudaeorum …, «La Civiltà Cattolica». Anno quarantesimoquarto. Vol. V della serie decimaquarta, 1893, pp. 350-351).
Un’edizione tedesca accresciuta (con in appendice un utilissimo indice analitico delle persone e delle cose, senza però i testi ebraici) apparve un paio d’anni dopo a cura di Joseph Deckert (Das Christentum im Talmud der Juden oder Die Geheimnisse der rabbinischen Lehre über die Christen. Enthüllt von J.B. Pranaitis …Uebersetzt und erweitert von Dr. Joseph Deckert Pfarrer in Wien, Wien, 1894).
La prima versione italiana fu pubblicata nel 1939 (I.B. Pranaitis, Cristo e i cristiani nel Talmud. Edizione coi testi ebraici a fronte ed una introduzione di Mario De’ Bagni. Traduzione di R.B., Roma-Milano, 1939. Di fatto riprende l’ed. originale, tralasciando però colpevolmente tutta la parte iniziale compresa la bibliografia).
Di questa versione nel 1939 apparve un articolo-recensione di J. Evola sulla rivista di Giovanni Preziosi (Arthos [J. Evola], I Cristiani e il Talmud, «La Vita Italiana», Novembre 1939, pp. 571-577).
Nel tempo l’opera di Pranaitis ha conosciuto molte versioni nelle principali lingue del mondo, praticamente quasi tutte disponibili in rete.
Riguardo alle recensioni positive apparse successivamente, che sono altrettanti contributi alla comprensione del giudaismo rabbinico-talmudico, segnalo: Rev. Marian Palandrano, O.S.J., The Talmud Unmasked, «Common Sense», N. 5526, November 1, 1968; Don Curzio Nitoglia, Mons. Pranaitis: Cristo e i cristiani nel Talmud, «Sodalitium», N. 36, dicembre 1993-gennaio 1994, pp. 14-21; I segreti della dottrina rabbinica (Centro Studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza. Comunicato n. 78/06 del 27 giugno 2006).
Come c’era da aspettarsi, il libro di Pranaitis ha scatenato la rabbiosa reazione della Sinagoga, la quale ha mobilitato i suoi apologeti, sia ebrei che Shabbath goyim, per attaccare tanto la persona di Pranaitis quanto il suo libro.
Tralascio la spazzatura sub-apologetica, e mi limito a Ruggero Taradel, un recente avvocato di Israele che qui si atteggia anche a specialista di cose talmudiche, e che rappresenta emblematicamente la narrazione dominante.
Dopo aver sprezzantemente definito quello di Pranaitis un libro «famigerato», «di livello ancora più basso, se possibile, del famigerato Talmudjude scritto da Rohling vent’anni prima» (R. Taradel – B. Raggi, La segregazione amichevole. “La Civiltà Cattolica” e la questione ebraica 1850-1945, Roma, 2000, pp. 186, 33), Taradel ritorna più diffusamente sull’argomento un paio d’anni dopo:
«Nel 1892 il sacerdote cattolico Iustinus Pranaitis pubblicò (…) un libro scritto in lingua latina dal titolo altisonante: Christianus in Talmude Iudaeorum sive Rabbinicae Doctrinae de Christianis Secreta. Il testo era di appena 130 pagine, ma prometteva di svelare una volta per tutte le dottrine talmudiche concernenti i cristiani.
«Il libro, dedicato allo Zar Nicola II, riproponeva in forma estremamente concentrata le peggiori leggende sul Talmud [sic!]. Pranaitis esordiva dicendo che secondo i rabbini i cristiani sono “idolatri, la peggior specie possibile, molto peggiori dei Turchi, assassini, fornicatori, animali impuri, contaminati come lo sterco, indegni di essere chiamati uomini, bestie in forma umana, degni dei nomi degli animali, bovi, asini, maiali, cani, peggio che cani; essi si propagano come le bestie, sono di origine diabolica; le loro anime procedono dal diavolo, e dopo la morte ritornano al diavolo nell’inferno; e che quindi il cadavere di un cristiano non è diverso da quello di un animale”.
«Da questa concezione, secondo Pranaitis, derivano i precetti del Talmud sui cristiani: essi non sono solo da evitarsi in quanto perniciosi, ma da sterminarsi con tutti i mezzi possibili e immaginabili: direttamente o indirettamente. Secondo Pranaitis, nel Talmud “l’ebreo che uccide un cristiano non pecca, ma offre un sacrificio offerto a Dio” e a “coloro che uccidono i cristiani viene promessa una suprema posizione in Paradiso”. Ovviamente, aggiungeva Pranaitis, “nessuna festività, per quanto grande, può impedire l’uccisione dei cristiani”» (R. Taradel, L’accusa del sangue. Storia politica di un mito antisemita, Roma, 2002, p. 131).
Taradel insinua nel lettore la convinzione che le accuse di Pranaitis siano frutto di quella che oggi, con un termine alla moda, chiameremmo “giudeofobia”, mentre da una semplice occhiata alle citazioni e alle note appare chiaro che esse si fondano sui testi stessi della tradizione rabbinica, che Pranaitis riporta puntualmente nell’originale ebraico e aramaico.
Taradel aggiunge che se Rohling aveva «saccheggiato» Eisenmenger, Pranaitis fa la stessa cosa con Rohling.
In realtà, nella bibliografia posta all’inizio dell’opera, Pranaitis scrive di aver utilizzato («mihi ad manus erant in conscribendo hoc opuscolo») come fonti:
Talmud Amstelodiamiense (Biblioth. Nostra);
Schulchan Arukh R. Iosephi Karo, Venetiis editum anno 1594, sine commentariis (Biblioth. Caesarea publica Petropol.);
Iore dea, Cracoviensis editionis;
Zohar editum Amstelodami a. 1805. III volum. (Bibl. Nostra);
Mikra gedola. Amstelodam. a. 1792. XII volum.; Basileensis 1620. II Vol. in fol. (Biblioth. nostra); Venetiana (Bibl. publ. Petrop.);
Hilkoth Akum R. Maimonidis; edit a Vossio 1675 (Bibl. nostra).
E come opere ausiliarie (Pranaitis non cita Eisenmenger, anche se non è improbabile che vi abbia attinto, mentre di Rohling stranamente non menziona il Talmudjude, ma bensì l’altra opera: Die Polemik und das Menschenopfer des Rabbinismus, Paderborn, 1884):
Ioanni Buxtorfii:
Lexicon Chaldaicum, Talmudicum et Rabbinicum. Basileae. 1640 (Bibl. nostra);
De Abbreviaturis Hebraicis, Operis Talmud Recensio, Bibliotheca Rabbinica, in uno volum. Basileae 1640 (Bibl. nostra);
Synagoga Iudaica. Basileae a. 1712 (Bibl. Seminarii Seinensis);
Ioh. Christophori Wagenseilii: Sota. Altdorfi Noricorum. 1674 (Bibl. nostra).
Georgii Eliez. Edzardi: Tractatus talmudici “Avoda Sara” caput primum. Hamburgi 1705 (Bibl. Aulae Imperatoris Austriae Vindobon.);
Jacobi Ecker: Der “Judenspiegel” im Lichte der Warheit. Paderborn 1884.
Prendendo a pretesto il processo Beilis, la narrazione ufficiale vuole insinuare una presunta incompetenza scientifica in materia di Pranaitis.
La tattica è abbastanza scoperta, e viene ammessa candidamente da tutti i critici di Pranaitis.
Una volta rilevata l’incompetenza scientifica di Pranaitis, le sue accuse contro il giudaismo rabbinico-talmudico vengono automaticamente a cadere tutte una dopo l’altra, e il Talmud è salvo!
Nel 1913 Pranaitis fu chiamato a deporre come perito dell’accusa nel corso del processo di Kiev contro Menachem Mendel Beilis, accusato di omicidio rituale, e poi assolto. (Sulla questione dell’omicidio rituale ebraico mi sono già espresso altrove).
Riporto ampiamente quanto annota Taradel al riguardo.
Pranaitis, scrive Taradel, tentò di «convincere i giurati che l’omicidio rituale era una pratica che faceva parte integrante della religiosità ebraica (…) Era dunque necessario distruggere completamente la credibilità di Pranaitis agli occhi della giuria [sottolineatura mia]. Occorsero alla difesa pochi giorni per ottenere questo risultato. I controinterrogatori cui fu sottoposto Pranaitis dai difensori di Beilis furono sotto questo punto di vista tanto efficaci quanto devastanti. Il colpo di grazia fu assestato a Pranaitis inserendo nella lista di domande cui gli fu richiesto di rispondere una domanda-trabocchetto. Il momento culminante del controinterrogatorio di Pranaitis fu il seguente.
«“D.: Qual è il significato della parola Hullin? R.: Non lo so. D.: Qual è il significato della parola Eruvin? R.: Non lo so. D.: Qual è il significato della parola Yevamot? R.: Non lo so. Quando è vissuto Baba Bathra, e qual era la sua attività? R.: Non lo so”.
«A questo punto buona parte del pubblico e degli osservatori non riuscì più a trattenere le risate. Che Pranaitis non avesse idea di cosa significassero le prime tre parole, che indicavano rispettivamente delle parti del Talmud sulla preparazione del cibo animale (Hullin), la questione dei limiti alla deambulazione durante lo Shabbat (Eruvin), e le leggi matrimoniali (Yevamot), era già clamoroso, ma fu la risposta alla quarta domanda che distrusse completamente la sua credibilità.
«Baba Bathra non era infatti una persona ma un trattato talmudico concernente le questioni relative alle leggi di proprietà. In russo, però, la parola Baba significa contadina o nonna. Pranaitis, il sedicente esperto di cose talmudiche, aveva quindi pensato che gli venisse chiesta qualche informazione non su di un trattato talmudico ma su di un personaggio (forse immaginava che fosse una contadina ebrea vissuta chi sa quando) di cui, ovviamente, non sapeva nulla.
«Questa amnesia di Pranaitis è particolarmente interessante: i trattati Eruvin, Yevamot e Hullin venivano infatti tutti citati nel pomposo “Christianus in Talmude Iudaeorum” del 1892. Il Baba Bathra, in particolare veniva citato e indicato come un trattato “de societate et commerciis, de hereditatibus et successionibus, de emptionibus et venditionibus”.
«Questo dettaglio costituisce la prova indubitabile del fatto, sospettato anche all’epoca da più parti, che Pranaitis fosse un diligente scopiazzatore di fonti secondarie, e che non aveva nessuna conoscenza dei testi di cui si proclamava esperto» (pp. 252-253).
Per Pranaitis, chiosa trionfalmente Taradel, fu una débacle.
La sua credibilità era andata completamente distrutta.
Ma se Pranaitis veramente non aveva idea di che cosa significassero Hullin, Eruvin e Yevamot e pensava davvero che Baba Bathra fosse una persona, dopo che ne aveva trattato in dettaglio appena una ventina d’anni prima, allora dovremmo concludere che più che un grande incompetente egli era un grande smemorato!
Le cose in realtà stanno molto diversamente.
Il brano di Taradel è un concentrato di falsità.
Innanzitutto, il controinterrogatorio, così come viene riportato da Taradel, non compare nella trascrizione ufficiale degli atti del processo, e questo per la semplice ragione che non è mai avvenuto.
Esso è inventato di sana pianta!
La fonte di Taradel è Ezekiel Leikin (The Beilis Transcripts. The Anti-Semitic Trial that Shook The World, Northwale, New Jersey – London, 1993, pp. 15-16), il quale a sua volta la riprende da Maurice Samuel (Blood Accusation. The Strange History of the Beilis Case, New York, 1966, pp. 15-16).
In realtà, Samuel non aveva registrato il testo originale del controinterrogatorio, ma si era limitato a riportare la personalissima ed erronea parafrasi fatta da un testimone oculare del processo, Benzion Katz (Cfr. Shnayer Z. Leiman, From the Pages of Tradition. Benzion Katz: Mrs. Baba Bathra, «Tradition» 42:4 (2010), pp. 51-57), che compare nelle sue memorie, apparse a Tel Aviv nel 1963.
Benzion Katz era un giornalista e storico ebreo, ed aveva quindi tutto l’interesse a screditare Pranaitis.
La trascrizione esatta del controinterrogatorio ristabilisce la verità (R. Weinberg, Blood Libel in Late Imperial Russia. The Ritual Murder Trial of Mendel Beilis, Indiana University Press, 2014, pp. 150 sgg.).
Poiché i difensori dell’imputato volevano trasformare il controinterrogatorio in un vero e proprio esame delle sue competenze, prassi stigmatizzata come inopportuna dal procuratore Shmakov e dallo stesso Presidente del tribunale, Pranaitis, sentendosi trattato con arroganza come uno scolaretto, decise di non rispondere più alle domande che gli venivano poste.
Perciò negli atti non compare mai l’espressione “non lo so”, bensì le espressioni “rimane in silenzio” o “mi rifiuto di rispondere”.
E quando uno dei difensori, Zarudnyi, chiese che si mettesse agli atti che l’esperto “ha detto che non sa rispondere”, il Presidente lo riprese, sottolineando che egli “ha detto che non desidera rispondere”.
Questa e non altra è la verità.
Un altro sprovveduto avvocato di Israele (Le Talmud démasqué, wikimond.com) cita una pagina dell’opera di Pranaitis in cui l’autore scrive che «la Ghemarah è seguita da aggiunte chiamate tosaphoth» e aggiungerebbe che «apparve il Perush del rabbino Moshe ben Maimon» ed obietta:
«Una confusione concerne il termine tosaphoth (…) Ora, le tosaphoth sono i commenti medievali del Talmud, scritti dai discepoli di Rashi negli stessi folii. Un’altra confusione concerne il termine Perush, che in ebraico significa interpretazione e non libro, come indicato».
Ma le tosaphoth, di cui in nota Pranaitis dà anche l’etimologia, sono esattamente delle aggiunte che si trovano alla sinistra del testo della Ghemarah nelle edizioni classiche a stampa del Talmud.
Inoltre, Pranaitis non scrive che il termine Perush significa libro (termine che nel testo non compare affatto), ma semplicemente cita il Perush Hamishnaioth di Maimonide, che in ebraico indica il commentario di Maimonide alla Mishnah.
Le riserve che possono essere avanzate sul lavoro di Pranaitis ‒ a cominciare dal titolo stesso, in quanto, oltre al Talmud, l’autore cita spesso anche Maimonide, Kimhi, lo Zohar, lo Shulhan Aruch ed altre opere, per cui il titolo più appropriato dovrebbe essere tutt’al più: Il cristiano nel Talmud degli ebrei e nella letteratura rabbinica o, meglio ancora: Il cristiano e il non-ebreo nel Talmud e nella letteratura rabbinica ‒ sono in realtà tali da non pregiudicare minimamente il quadro d’insieme.
Pranaitis scrive che fra i nomi attribuiti dal Talmud ai cristiani vi sarebbe anche quello di am-haretz (che traduce correttamente con “idiota”, “populus terrae”), il quale in realtà è l’ebreo incolto, che ignora la Torah e non la insegna ai figli, e che come tale è disprezzato dai Saggi, anche se l’autore sostiene che vi sono testi in cui questa espressione designerebbe anche gli idolatri.
E questo è un errore, poiché in ogni caso l’am-haretz di per sé non è mai un cristiano.
È altrettanto vero che Pranaitis riferisce erroneamente ai cristiani diversi testi in cui si parla in generale di goyim ed akum (acronimo frutto della censura che significa adoratori delle stelle), come ad es. nel trattato talmudico Aboda Zara o nello Shulhan Aruch, ma anche nello Zohar e altrove, dove si fa riferimento a non meglio specificati non-ebrei idolatri.
E questo è evidentemente un altro errore, che consiste comunque nell’indicare in modo sbagliato il bersaglio dell’odio rabbinico, ma non già la realtà dell’odio rabbinico stesso.
Una corretta prassi esegetica esige che si accerti di volta in volta, in base al contesto, quando il termine goy si riferisce anche al cristiano, e quando no.
Lo stesso Pranaitis peraltro è perfettamente consapevole che con questi termini sono indicati gli idolatri in generale, ed infatti si premura di precisare i casi in cui tali termini indicano palesemente i cristiani, come ad es. nello Shulhan Aruch, dove si parla di akum che portano la croce o che celebrano il Natale.
Riguardo ad Aboda Zara indubbiamente Pranaitis commette l’errore di retro-attribuire, per così dire, ai goyim ivi menzionati la qualifica di cristiani, ma nel caso dello Shulhan Aruch l’errore è più scusabile.
Lo Shulhan Aruch è un compendio della legge rabbinico-talmudica scritto nel XVI secolo da Rabbi Joseph Caro ‒ poi corredato dalle glosse (hagahoth) di Rabbi Isserles ‒ e pubblicato per la prima volta a Venezia nel 1565-66. Quale genere di idolatri vivevano a quel tempo e in quei luoghi?
Ed in effetti, se goyim non significa propriamente cristiani, ma più in generale gentili, non-ebrei, con la diffusione del cristianesimo, ritenuto dai rabbini una forma di idolatria, nella letteratura e nella terminologia rabbinica questo termine passò a designare anche i cristiani, e goy e cristiano divennero praticamente sinonimi (Il Talmud e i cristiani nella disputa di Parigi del 1240, Effepi, Genova, 2015, pp. 63 sgg.).
Lo stesso vale per testi come ad es. Midrash Talpiyot fol. 225d, riportato correttamente, dove si afferma che gli akum, animali in forma di uomo, furono creati unicamente per servire gli ebrei giorno e notte. Anche qui non si fa esplicita menzione dei cristiani, ma questo libro venne pubblicato ad Amsterdam alla fine del XVII secolo (I non-ebrei sono animali in forma di uomo. Un passaggio del Midrash Talpiyot tradotto da Israel Shamir, andreacarancini.it).
Di nuovo, quale genere di idolatri vivevano a quel tempo e in quei luoghi?
Ma, come detto, questi ed altri errori che sono contenuti nell’opera di Pranaitis, non solo non inficiano minimamente la giustezza del quadro d’insieme, ma al contrario ne delineano più nitidamente i contorni.
Nell’Epilogo Pranaitis, che all’inizio riporta correttamente i passi rabbinici blasfemi relativi a Gesù, al suo processo e alla sua morte ignominiosa, scrive che questi testi dovrebbero essere sufficienti per dimostrare quanto siano false le affermazioni degli ebrei quando sostengono che non c’è niente nel Talmud che insegni l’odio e l’inimicizia verso i cristiani.
A dispetto dei tentativi dell’apologetica giudaica e dei suoi Shabbath goyim di colpire una parte per colpire il tutto, e alla luce dei testi da lui riportati, anche i suoi errori paradossalmente contribuiscono a smascherare la vera natura del giudaismo rabbinico-talmudico, poiché non restringono, ma allargano lo spettro dell’odio rancoroso rabbinico-talmudico dai cristiani in particolare ai non-ebrei in generale.
Come aveva ben visto la “Civiltà Cattolica”, quando stigmatizzava gli insegnamenti rabbinici e i precetti del giudaismo talmudico «circa i non-giudei, massime cristiani».
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