Vincenzo Vinciguerra: Rieducazione

RIEDUCAZIONE

Di Vincenzo Vinciguerra

Il caso di Emanuele De Maria, condannato ad una pena minima per l’omicidio di una giovane tunisina, ammesso al lavoro esterno dopo pochi anni di carcere durante il quale uccide un’altra donna e tenta di fare lo stesso con un uomo, per finire poi suicida, ripropone per l’ennesima volta il problema della rieducazione dei detenuti.

L’amministrazione penitenziaria e i Tribunali di sorveglianza, in realtà, non si pongono l’obbiettivo di rieducare i condannati ma solo quello di indurli a mantenere una buona condotta carceraria, di essere “educati e rispettosi” nei confronti dei secondini, di ammettere i reati commessi e dichiararsi pentiti per averli compiuti.

Tutto qui.

Le parole non costano nulla e i detenuti fanno presto a comprendere quello che devono dire e fare per ottenere quanto prima i benefici di legge.

I secondini civili ed uniformati, primi fra tutti i cosiddetti educatori, non hanno gli strumenti culturali e, spesso, intellettivi e morali per valutare la sincerità delle parole e dei comportamenti dei detenuti ai quali, viceversa, impongono di simulare e mentire.

In un mondo di oppressione, il più delle volte ingiustificata e stupida, gli uomini cercano di sopravvivere alla meno peggio, così che mai si misurano con la propria coscienza, anche perché manca il confronto con chi potrebbe indurli a farlo.

La malavita non nasce dalla povertà e dall’emarginazione bensì dal desiderio di vivere bene, “alla grande”, possedendo denaro, bei vestiti, automobili di lusso, ville e tutto ciò che può rendere piacevole la vita.

Se per quella minoranza di poveri e di emarginati sarebbe sufficiente trovare un lavoro e una casa per indurli a non commettere altri reati, cosa che il carcere non fa, per altre categorie sarebbe necessario invitarli a riscoprire i valori che hanno perduto.

I carcerieri non sono in grado di farlo.

Svolgono costoro un lavoro di routine che cura la forma ed ignora la sostanza, ovvero danno relativa importanza ai reati commessi e si concentrano sul comportamento mantenuto dal condannato all’interno del carcere.

Il caso De Maria è esemplare: aveva ucciso una ragazza ma, in carcere, aveva mantenuto un comportamento esemplare, aveva frequentato i corsi, aveva studiato, era stato sempre “educato e rispettoso” e, quindi, si era guadagnato la fama di detenuto modello.

Il risultato della sua “rieducazione” lo conosciamo.

Il sospetto che un uomo che uccide una donna per futili motivi possieda un istinto omicida, non è venuto agli esperti del carcere, che mai si erano confrontati con lui per approfondire la sua personalità.

Aveva fatto, De Maria, un “bellissimo percorso” e tanto è bastato per autorizzarlo ad uccidere ancora, ancora una donna.

Fermo restando che il comportamento degli italici secondini induce la grande maggioranza dei detenuti a delinquere e mai a redimersi, rimane da considerare un’altra forma di rieducazione, quella che va sotto il nome di “Giustizia riparativa”.

Non è un caso che di questa legge in carcere non se ne parli, che nessuno degli educatori ne faccia cenno ai detenuti, perché ritengono che la via che essa indica sia difficilmente percorribile dai detenuti ai quali offrono, in alternativa, un percorso facile che non implica alcun esame di coscienza.

La “Giustizia riparativa”, viceversa, fa proprio appello alla coscienza degli uomini e li invita a toccare con mano le sofferenze che hanno inflitto agli innocenti.

Non è facile, è vero.

La “Giustizia riparativa” prevede, difatti, un confronto fra i rei e le loro vittime e/o i familiari delle stesse. Chiede, cioè, di compiere un percorso congiunto che è, senza dubbio, difficile per gli uni e per gli altri.

Un percorso tormentato come la coscienza di coloro che ne sanno ancora ascoltare la voce.

Non è un’utopia.

La “Giustizia riparativa” traccia una via che sarà impossibile per molti ma percorribile per tanti.

In un mondo oscuro come il carcere, dove s’impone agli uomini di peggiorare e non di migliorare, obbligandoli alla simulazione e alla menzogna, al servilismo e alla delazione, all’egoismo più sordido e non alla generosità, la “Giustizia riparativa” chiede una riflessione e un atto di coraggio che ponga gli uomini dinanzi ai loro errori e alle loro vittime spianando, in questo modo, loro la strada del riscatto sociale e della redenzione morale.

Questa è rieducazione.

A presentare e a spiegare ai detenuti cosa sia la “Giustizia riparativa” in questo carcere sono due persone esterne: la volontaria, signora Giovanna Musco, e la docente universitaria, signora Claudia Mazzucato.

Le due signore, prive di alcun supporto interno, non portano avanti un discorso politico-ideologico ma affrontano un problema sociale di grande rilevanza come quello del recupero di migliaia di detenuti ed il loro reinserimento nella società, non come ex ma come uomini che, dopo un percorso difficile, hanno ritrovato la giusta via.

Ad emanare la legge sulla “Giustizia riparativa” è stata la cattolica signora Cartabia, la cui rettitudine si pone in contrasto con il malcostume politico imperante, e questa è illustrata qui dalle due signore già citate, di pari rettitudine.

Dopo tanti anni di vita all’interno dei carceri italiani, nel corso dei quali ho potuto verificare l’ipocrisia delle leggi e dei regolamenti, l’inettitudine criminale dell’amministrazione penitenziaria, non posso che condividere questa legge che potrebbe, quando applicata con il giusto impegno, lenire tanti dolori e salvare tante vite oggi perdute.

Opera, 14 maggio 2025

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