Gian Pio Mattogno
ANGLIA JUDAICA:
L’EBREO DISRAELI E LA COSTRUZIONE DELL’IMPERO ANGLO-GIUDEO-MASSONICO DEI MERCANTI
La costruzione di quello che è stato definito “l’impero dei mercanti” (Arthos [J. Evola], L’ebreo Disraeli e la costruzione dell’impero dei mercanti, «La Vita Italiana», settembre 1940, pp. 254-259), ma che più propriamente andrebbe definito impero anglo-giudeo-massonico dei mercanti (per via del ruolo determinante che, oltre ai capitalisti e imperialisti britannici, vi giuocarono gli ebrei e le logge massoniche, e su cui ritorneremo in altra occasione) fu il risultato logico e naturale del connubio fra le tradizionali aspirazioni messianico-mondialiste degli ebrei talmudisti e quelle imperialistiche e capitalistiche della casta dominante britannica (la quale, anche se con qualche secolo di ritardo, aveva fatto pienamente suo lo spirito mercantile-usuraio dei primi capitalisti ebrei penetrati in Gran Bretagna), e le cui premesse erano già state poste tempo addietro all’epoca di Cromwell.
(Cfr. ANGLIA JUDAICA: LA PRIMA IRRUZIONE DEGLI EBREI E DEL CAPITALE USURAIO GIUDAICO IN GRAN BRETAGNA (andreacarancini.it); OLIVER CROMWELL E LE ORIGINI GIUDEO-PURITANE DELL’IMPERIALISMO BRITANNICO (andreacarancini.it)).
Nella costruzione dell’impero anglo-giudeo-massonico, Benjamin Disraeli, poi divenuto Earl of Beaconsfield, ha avuto una parte decisiva.
Mentre la storiografia liberal-borghese in generale si è appiattita sull’apologia della politica di Disraeli e dell’impero britannico, portatore dei “valori” della civiltà occidentale, altri studiosi (muovendo dall’ideologia che traspare dalla vita e dalle opere di Disraeli) hanno per contro sottolineato la matrice ebraico-capitalistica dell’imperialismo britannico, nonché la sua prassi criminale, a partire dalle famigerate guerre anglo-giudaiche dell’oppio, che videro tra i suoi principali attori il capitalista ebreo Sassoon.
Arnold Spencer Leese, Disraeli the Destroyer, London, 1937, accusa apertamente certa storiografia di insegnare che Disraeli era un grand’uomo, rendendosi responsabile di una grande frode, «parte di una secolare campagna mondiale di frode ebraica».
Julius Evola, dopo aver rimarcato che l’infiltrazione degli ebrei nella casta dominante britannica era di lunga data e che i più ricchi tra di essi adottarono la tattica della falsa conversione per penetrare nel tessuto sociale inglese, soppiantando la vecchia nobiltà feudale con l’acquisizione di proprietà e titoli, e mescolandosi con un’aristocrazia sempre più imborghesita e avida di denaro, scrive che per questa via andò a realizzarsi una coincidenza sempre più visibile degli interessi dell’imperialismo e del capitalismo inglese, il quale a sua volta era stretto da vincoli indissolubili e sempre più complessi con quello ebraico.
L’ “Impero Britannico” fu una creazione inedita dell’ebraismo, data in dono da un ebreo alla Corona reale inglese.
Questo ebreo fu Benjmin Disraeli, primo Ministro della Regina Vittoria, innalzato alla casta nobiliare col titolo di Lord Beaconsfield.
Evola, che riportiamo ampiamente, rileva che una tale congiuntura è particolarmente interessante (si potrebbe aggiungere: un segno dei tempi), in quanto in precedenza a nessuno sarebbe venuto in mente di connettere la dignità imperiale ad un concetto di ricchezza, e solo ad un ebreo poteva venire in mente di “riformare” la concezione tradizionale, sacra e trascendente dell’Impero, nel senso di “plutocratizzarla” e di trasformarla in un materialismo imperialistico.
Questo ebreo fu appunto Disraeli, o Dizzy, come lo si soprannominava.
«Fu Disraeli che fece della regina Vittoria una “imperatrice” – come imperatrice coloniale, cioè imperatrice delle Indie. Fu lui lo strenuo sostenitore dell’idea “imperiale” inglese come fac-simile dell’idea messianico-imperialistica ebraica: come idea di un popolo, la cui potenza è la ricchezza di altri popoli, di cui esso si è impadronito, che esso cinicamente sfrutta e controlla. L’ebreo Disraeli sapeva chi stava dietro a quell’Inghilterra, che doveva dominare le ricchezze del mondo. E forse egli era fra quegli iniziati, che sapevano, non arrestarsi le ultime fila della matassa alla semplice plutocrazia britannico-ebraica. Sono infatti di Disraeli queste parole spesso citate: “Il mondo è retto da tutt’altre persone, di quel che possa pensare chi non penetra con lo sguardo dietro le quinte” (in Sybil) [recte: Coningsby].
«“Che attore, quest’uomo! Eppure l’ultima impressione che se ne ha è quella di una sincerità assoluta. Alcuni lo considerano come uno straniero. L’Inghilterra è per lui o è lui per l’Inghilterra? È conservatore o è liberale? Tutto ciò forse per lui è lo stesso. Ma la potente Venezia, la repubblica imperiale sulla quale il sole mai tramonta ‒ questa è la visione che l’affascina. L’Inghilterra è l’Israele della sua immaginazione ed egli, se avrà fortuna, sarà il primo ministro imperiale”.
«Queste parole furono scritte su Disraeli, quando egli era ancora soltanto il leader del partito conservatore, da un critico, che così si dimostrò davvero di spirito profetico. In tali parole è racchiuso il vero spirito dell’azione di “Dizzy”. Il riferimento a Venezia, materialmente, viene dal fatto, che la famiglia di Disraeli, originaria di Cento, presso Ferrara, prima di venire in Inghilterra aveva cercato fortuna a Venezia. Così quasi per famiglia era giunta a “Dizzy” la reminiscenza dell’ideale “imperiale” veneziano, al quale egli, in intima connessione con l’idea ebraica, voleva innalzare l’Inghilterra.
«Era, di nuovo, l’idea imperiale propria al mercante, la potenza di una oligarchia borghese basata sull’oro, sul commercio, i possedimenti d’oltremare, i traffici. E il resto, solo mezzo e strumento. Ma per poter realizzare questo ideale “veneziano”, dato che Venezia, almeno nominalmente, fu una libera repubblica, bisognava disarticolare ulteriormente l’Inghilterra in quel che essa ancora conservava dello spirito antico e tradizionale (…)
«Sembra tuttavia che Disraeli mirasse ancor più lontano. Lo si presume dal ciclo dei suoi libri intitolantisi La nuova Inghilterra. Nel romanzo Sybil o le due nazioni si riflette esattamente la tattica ideologica già usata dalla massoneria per preparare la rivoluzione francese. Qui Disraeli non nasconde il suo fervore per le classi più basse della società, annuncia che sono esse che faranno la storia, quando saranno guidate dai loro capi naturali, da una nuova élite illuminata e superante i pregiudizi del passato. Simili idee entusiasmarono la nuova generazione della nobiltà inglese, che sognò di assumere questa nuova funzione direttiva di aristocratici “illuminati”, cioè intesi a scavarsi la propria fossa.
«Nell’altro romanzo disraeliano dello stesso ciclo, Coningsby, il personaggio centrale è un misterioso ebreo di origine spagnola, Sidonia ‒ “un miscuglio di Disraeli e di Rothschild, o, meglio, di ciò che Disraeli avrebbe voluto essere e di ciò che egli avrebbe voluto che Rothschild fosse” (Maurois). Questo Sidonia istruisce Coningsby, simbolo della nuova Inghilterra, nella dottrina dell’“ambizione eroica”: e di nuovo si riafferma l’“ideale” del pseudoconservatorismo disraeliano.
«La soluzione indicata da Sidonia è un governo che ha principî conservatori, ma che agisce liberalisticamente. Insomma, una volta liberalizzata l’aristocrazia tory inglese e ridottene le idee a meri “principî” senza conseguenze pratiche, si trattava di lusingare l’ambizione di questo ceto, fino a che esso assumesse la parte di capi-popolo, destinati, naturalmente, ad esser scavalcati nella fase successiva della sovversione, così come accadde in Francia con l’aristocrazia che aveva accarezzato le idee nuove.
«A tal proposito, a parte i concetti espressi nei libri, si ricordi che fu Disraeli ad introdurre il suffragio universale in Inghilterra, anche se in una forma preliminare (voto ai capi-famiglia proprietari), perché egli ebbe l’abilità di presentare la cosa come una soluzione intermedia accettabile da parte sia dei tories che dei wighs. Ma il lavoro corrosivo di Disraeli non si limitò al campo politico, esso cercò di spostarsi anche nel campo religioso. E qui l’Ebreo getta senz’altro la maschera. Bisognava che le parti sane dell’Inghilterra venissero intaccate anche in quella loro base interiore, che era la fede cristiana e soprattutto quella cattolica. Ed ecco che, a tanto, Disraeli enuncia la famosa teoria della convergenza e della reciproca integrazione di ebraismo e cattolicesimo. Ecco che cosa scrive in Sybil: “Il cristianesimo senza il giudaismo è inconcepibile così come l’ebraismo senza il cristianesimo è incompleto”.
«In Tancredi egli raddoppia le dosi e pretende che il compito della Chiesa sia di difendere in una società materialista i principî fondamentali d’origine ebraica che si trovano nei due Testamenti. E in queste tesi il Disraeli fu di una tale inattuazione, che Carlyle ebbe a dichiarare insopportabili le “insolenze ebraiche” di Dizzy e a chiedere testualmente, “fino a quando ancora John Bull permetterà a questa scimmia assurda di danzare sul suo stomaco?”.
«Ma, in fatto di ebraismo, Disraeli, che, per essere battezzato, si dichiarava cristiano, era intransigente e privo di reticenze. Con tutti i mezzi, sfidando lo scandalo, egli sostenne la tesi dell’alleanza fra i “conservatori” sfiancati, di cui sopra, e gli Ebrei. Perseguitare gli Ebrei è il più grande errore che può commettere il partito conservatore, perché per tal via esso finisce col trasformarli in capi di movimenti rivoluzionari.
«Vi è poi la quistione morale. “Voi insegnate ai vostri bambini la storia degli Ebrei – disse Disraeli in un suo famoso discorso alla camera dei Comuni ‒. Nei giorni di festa voi leggete ai vostri popoli le imprese degli Ebrei, ogni domenica, se desiderate di cantare le lodi dell’Altissimo o di consolarvi delle vostre afflizioni cercate nei canti dei poeti ebraici l’espressione di tali sentimenti. È in esatta proporzione con la sincerità della vostra fede che dovreste compiere questo grande atto di giustizia naturale … Sì, come cristiano (?) non prenderò la terribile responsabilità di escludere coloro che appartengono alla religione, in seno alla quale è nato il mio Signore e Salvatore”.
«Non si sarebbe potuto andar più oltre in fatto d’imprudenza. Vi fu, infatti, dello scandalo fra i “conservatori”, ma senza conseguenze. L’avanzata ebraica procedeva sicura e silenziosa nelle classi alte inglesi e presso lo stesso governo. È a Disraeli che si deve il colpo di mano inglese del 1875 sull’Egitto – e con l’aiuto di chi? Di Rothschild.
«Nel 1875 il Khedive d’Egitto si trovava in imbarazzi finanziari e Disraeli riesce a sapere, che egli era disposto a vendere 177 mila azioni del Canale di Suez. L’occasione era magnifica per assicurarsi la via delle Indie. Il governo esita. Rothschild no. Ecco le battute del colloquio storico fra Disraeli e Rothschild: “Che avete da dare per garanzia?” ‒ e Disraeli: “Il governo britannico”. ‒ E l’altro: “Avrete domani i cinque milioni” ‒ e glieli dà “ad interessi bassissimi”; naturalmente, gli interessi veri e importanti della clique ebraica si trovavano su di un piano diverso e meno visibile (…)
«Né Disraeli trascurò di facilitare agli Ebrei in Inghilterra la stessa osservanza rituale della legge giudea. Episodio poco noto, il cosiddetto “sabato inglese” non è altro che il sabato ebraico, il giorno rituale di riposo degli ebrei. Esso fu introdotto in Inghilterra proprio da Disraeli, presso ad una adeguata copertura “sociale”.
«Mentre dunque, per vie varie, si compiva l’ebraizzazione dell’antica Inghilterra feudale, mentre l’antica aristocrazia veniva gradatamente disossata e vaccinata con le idee più atte a renderla facile preda dell’influenza materiale e spirituale ebraica e massonica, Disraeli non trascurava l’altro compito, cioè quello di accrescere e rafforzare la potenza del nuovo impero dei mercanti, della nuova “Venezia imperiale”, della risorgente Israele della Promessa».
Evola è poi ritornato sul tema della “perversione gerarchica” dell’idea di impero, di cui l’ebreo Disraeli è un esempio specifico, osservando che questa è la prima nazione europea che ha “profanato” il titolo imperiale, e nella quale si affermò il mercante e lo spirito mercantile, un naturale connubio con elementi ebraici, che assunse l’amministrazione e lo sfruttamento di ciò che restava dell’antica grandezza, ora ridotta al servizio degli interessi ebraico-capitalistici
(L’Inghilterra e la degradazione dell’idea di impero, «Lo Stato», 1940, pp. 322-332. La misura dell’estensione dell’imperialismo anglo-giudeo-massonico – di cui si dirà più specificatamente in altra occasione ‒ è visibile plasticamente nella cronologia delle conquiste e delle annessioni nel corso dei decenni e nell’impressionante elenco dei territori dominati dalla Gran Bretagna in tutte le regioni del mondo che compaiono in Paul Ritter, Lebensgrundlagen britischer Weltherrschaft, München, 1941, pp. 141-143, e in Ferdinando Gral, L’Inghilterra annette ossia Le conquiste inglesi nelle cinque parti del mondo, Roma, 1941, pp. 4-9, 37 sgg.).
Sulla scorta di una analisi puntuale delle sue opere letterarie, Hans Rühl, Disraeli Imperialismus und die Kolonialpolitik seiner Zeit, Leipzig, 1935, pp. 15-20, 154-158, mette a fuoco le radici ebraiche dell’imperialismo di Disraeli.
«Il romanzo storico “Alroy” apparve contemporaneamente a “Contarini Fleming”. Quando nel 1831 Disraeli ritornò dal suo viaggio in Oriente, il romanzo era già terminato, anche se fu dato alle stampe solo nel marzo 1833. La figura di Alroy era familiare a Disraeli fin dalla gioventù; egli si decise a scrivere il romanzo durante il suo viaggio in Palestina.
«Alroy vive all’epoca del dominio ebraico sulla Turchia. Egli uccide un principe turco e, consigliato dal suo ex maestro, l’eremita e cabalista Jabaster, comincia la sua battaglia per la libertà del popolo ebraico. In una visione sente dentro di sé una vocazione messianica. Riesce anche ad entusiasmare il suo popolo e alla fine ad entrare da vincitore a Bagdad. Qui però cede alla tentazione: si innamora della bella figlia del califfo, Schirene, la sposa e, nonostante gli avvertimenti del pio Jabaster, si converte alla religione maomettana. Trova un nuovo consigliere in Honain, fratello di Jabaster, che ha anch’egli abbandonato la religione ebraica, e aspira soltanto al potere mondiale.
«Lo scopo non è più la realizzazione del regno di Dio col tempio di Gerusalemme come centro, ma l’usurpazione dell’impero turco con la sua capitale Bagdad. I motivi etico-religiosi vengono sostituiti da quelli pratici di potere politico. Ma così il suo agire perde ogni giustificazione e necessità interiore. L’imbattibile popolo guerriero di Dio diviene un variopinto ed eterogeneo miscuglio di partiti in lotta tra di loro, che si scannano l’un l’altro. Scoppia la rivolta, il tronfio impero va a pezzi e l’ambizioso Alroy vien fatto prigioniero dai turchi. Durante la prigionia riconosce le sue colpe e con rimorso fa ritorno a Dio. Con l’orgoglio tipico della sua razza e della sua religione rifiuta le proposte allettanti dei nemici e muore come martire del suo popolo e del suo Dio.
«Un confronto di “Alroy” con la satira anti-colonialista “Paponilla” mostra a prima vista che con “Alroy” Disraeli ha abbandonato il principio della limitazione territoriale finora sostenuto. Lo indica già solo la scelta dell’argomento: Alroy, il conquistatore e dominatore ebreo dell’Asia! Qui per la prima volta Disraeli ha rappresentato un’aspirazione imperialistica. Emerge inoltre dalle idee esposte nel romanzo che Disraeli non voleva solo rappresentare l’imperialismo ebraico, ma anche glorificarlo!
«È vero, Alroy fallisce. Deve fallire, perché ha abbandonato la via predeterminata da Dio e si è lasciato andare ad una ricerca egoistica del potere, perché ha preferito l’impero universale al regno di Dio sulla terra. Ma la sua morte eroica prelude ad una ancor più splendida resurrezione. Attraverso Alroy l’idea continua a vivere in ogni coscienza. La sua opera non è una fine, ma un inizio. Così sua sorella potrà consolarlo: «You have shown what we can do and shall do».
«Il romanzo si conclude addirittura con un appello alla edificazione del dominio mondiale ebraico, dell’impero messianico nel senso veterotestamentario.
«Una ricerca delle fonti di “Alroy” porta allo stesso risultato. Disraeli si è ispirato alla versione latina di una cronaca ebraica: Germen Davidis di Ganz. Qui si trova l’idea messianica, il tentativo di Alroy di lottare per la libertà e la fine tragica dell’eroe. Ma mentre nel romanzo l’eroe viene riconosciuto come messia, nella fonte questi appare come un mago e come uno che travia il popolo, come un parassita. Gli ebrei cercano di dissuaderlo dai suoi piani, perché temono i Persiani. Essi non vogliono essere liberati!
«È chiaro che Disraeli ha rappresentato la storia in maniera molto idealistica. Neppure nella fonte si dice alcunché del grande impero di Alroy ed inoltre manca la contrapposizione tra il regno di Dio e l’impero universale. Motivi simili si trovano nel romanzo d’argomento orientale “Vathek” (1786) di Beckford e nei “Persiani” di Eschilo, e all’epoca della redazione del suo romanzo entrambe le opere erano note a Disraeli.
«Vathek è un califfo megalomane ed empio, che alla fine viene condannato alle pene dell’inferno, mentre nei “Persiani” viene rappresentata la punizione dello sregolato Serse ad opera degli dèi. L’impero asiatico di Alroy e il suo rapporto con la principessa Schirene ricordano la storia di Alessandro. L’argomento in sé e in particolare la sua elaborazione con altri motivi lascia trasparire uno spiccato amore per il modo di ragionare imperialistico e una cosciente tendenza a glorificare l’imperialismo ebraico.
«L’idea imperialistica emerge per la prima volta in Disraeli nell’ “Alroy”. Da dove ha tratto l’ispirazione decisiva, dove sono le radici del suo imperialismo? Abbiamo visto che la volontà di potenza di Disraeli era innata e che questa volontà era orientata sempre più fortemente verso il raggiungimento del potere politico. E se in “Paponilla” Disraeli prende posizione contro il colonialismo, contro la politica espansionistica imperialistica, sebbene proprio qui egli avrebbe potuto soddisfare la sua volontà di potenza, ciò si spiega col fatto che Disraeli era rimasto profondamente deluso dalla disastrosa speculazione in Sud America.
«Ma l’ambizione smisurata e la volontà di potenza di uno come Disraeli prima o poi doveva necessariamente oltrepassare i confini angusti dell’Inghilterra. L’impulso decisivo verso il pensiero e le aspirazioni imperialistiche Disraeli lo ebbe dal suo viaggio in Oriente, che lo mise in stretto contatto con il giudaismo, col popolo ebraico, con la sua storia e la sua visione del mondo.
«Nella storia ebraica egli trova la figura di Alroy, e alla religione ebraica attinge l’idea messianica e la dottrina della predestinazione. Questo aspetto imperialistico della credenza giudaica lo affascina. Dio è il capo delle schiere celesti, Mosè il grande conquistatore, la religione giudaica è la “religion of conquest”. “There is no career except conquest” ‒ questa è la quintessenza di “Alroy”. La volontà imperialistica di Disraeli deriva dal giudaismo ed in esso è radicata.
«Ma al tempo stesso le concezioni ebraiche sono per lui un ostacolo, nel momento in cui le preoccupazioni etico-religiose si oppongono alla realizzazione pratica dei piani politici di potere. La volontà imperialistica si manifesta dapprima in “Alroy” sotto il principio religioso. Successivamente avviene un cambiamento. In “Tancredi” scompare il contrasto tra impero universale e regno di Dio. Qui l’imperialismo nel senso di Carlyle ottiene la sua legittimazione davanti a Dio e agli uomini già solo per via del suo successo. Nella sua politica durante la guerra russo-turca emerge finalmente la propria brama di potere, senza veli e non ostacolata da preoccupazioni religiose. In Inghilterra questa strada porta dall’imperialismo della religione ebraica al gingoismo.
«In “Alroy” abbiamo ancora a che fare con un imperialismo puramente giudaico; non vi troviamo una connessione con gli interessi della politica inglese. Ma una volta che questa volontà imperialistica si è risvegliata, essa si trasferisce subito sul terreno della politica inglese. Quando nel 1832 Disraeli inizia la sua carriera politica, si impegna immediatamente a favore di una politica imperialistica, senza che già allora gli sia riuscito di operare una sintesi tra imperialismo giudaico e imperialismo inglese.
«La connessione compiuta dal puritanesimo dell’imperialismo veterotestamentario con quello inglese per un ebreo razzialmente orgoglioso come lui era inaccettabile, perché presupponeva la rinuncia alla predestinazione ebraica. E questo spiega anche perché lui non abbia nutrito alcuna vera simpatia per Cromwell e i puritani. È vero che una volta esalta le vittorie di Cromwell come vittorie dello spirito ebraico, ma in un altro passo dice: “We have baffled a wit like Oliver Cromwell”. Si aggiunga poi che egli non condivide il regicidio di Cromwell “. La vittima di Cromwell, Carlo, è per lui “degna d’ammirazione” e “martire benedetto”.
«Un compromesso tra imperialismo ebraico e imperialismo inglese Disraeli lo realizza solo in “Tancredi” (1847). Il fatto che egli reputi necessario fare questa sintesi dimostra che l’imperialismo ebraico di Disraeli, così come appare in “Alroy”, era più che una semplice fantasia, più che una sciocchezza casuale. Disraeli era ebreo, orgoglioso della sua razza e pienamente legato alla sua tradizione (…)
«Nato ebreo, per tutta la vita Beaconsfield è rimasto pienamente consapevole delle sue origini e della sua appartenenza razziale. Nel giudaismo risiedono anche le radici della sua forza. Dopo che i numerosi fallimenti in Inghilterra hanno vanificato ogni speranza e fiducia, egli trova la via nella terra dei padri. Per lui il viaggio in Oriente significò molto di più che la solita crociera nel Mediterraneo, come per i suoi contemporanei snob. Per lui essa fu, come per Tancredi, una crociata nella terra promessa, anche se forse non cercò e non trovò Dio così tanto come trovò la sua propria anima.
«Il suo spirito si accende nel giudaismo, che solo può toccarlo nel più profondo dell’anima. La sua volontà di potenza, finora senza scopo e senza progetti, va a sposarsi con l’ambizione di potere del popolo ebraico. Così in “Alroy” Beaconsfield diviene l’annunciatore di un imperialismo ebraico. Lo scopo è la realizzazione della teocrazia tramite il popolo ebraico, separato da tutti gli altri popoli sul piano politico, religioso e razziale, la razza superiore degli ebrei separata dai gentili. In questa forma per la prima volta il suo imperialismo si contrappone a noi. Il suo sguardo è rivolto all’Asia.
«La realizzazione dell’impero ebraico è la sua “ideal ambition”, un progetto ambizioso che al tempo stesso diviene anche la radice del suo imperialismo britannico, nel momento in cui sorge un conflitto tra l’imperialismo ebraico e l’imperialismo britannico, che in apparenza sembra essere irrisolvibile. Infatti in Asia gli interessi ebraici e quelli britannici erano direttamente in conflitto, e qui siamo al nocciolo del suo sistema politico. Così il suo giudaismo lo porta a spostare l’attenzione della politica inglese verso l’Asia.
«Questo spiccata predilezione per l’imperialismo in Asia appare chiara fin dall’inizio, e attraverso la storia del suo imperialismo si snoda come un filo rosso “che tutto lega e tutto connota”.
«All’inizio vi è l’imperialismo giudeo-asiatico di Alroy. Disraeli segue con attenzione la prima guerra afgana (1838-42). Nel 1840 giubila per la vittoria di Palmerston sulla Siria, con la quale assieme a Mehemed Ali anche la Francia deve riconoscere la superiorità dell’Inghilterra. Nel 1843 alla Camera Bassa chiede la protezione della Turchia e la sicurezza dei Dardanelli contro le mire della Russia. Dobbiamo inoltre osservare che a quel tempo le questioni di politica interna erano assolutamente al centro degli interessi e ad es. a mala pena si poneva attenzione alle questioni asiatiche. In “Tancredi” (1847) egli poi proclama il grande programma di un impero anglo-giudaico con la Siria e l’India come pietre angolari.
«Ma la prassi politica non può essere realizzata così rapidamente, essa deve procedere lentamente, e l’audace imperialista deve adeguarsi al ritmo di essa. La Francia, rivale dell’Inghilterra in “Tancredi”, diviene l’alleata nella guerra di Crimea (1854-56). Approfittando di questa occasione ed anche dei torbidi d’India (1857-58), Beaconsfield si adopera ad assicurare la posizione dell’Inghilterra in Asia. Egli desidera legare indissolubilmente Inghilterra e India.
«A tal fine fa approvare anche lo scioglimento della Compagnia inglese delle Indie Orientali e il collegamento diretto dell’India con la Corona. Negli anni seguenti delle guerre per l’unità mette la politica estera inglese al servizio dell’imperialismo in Asia. Quando, dopo una lotta più che quarantennale, ha finalmente scalato l’apice della piramide politica, egli dà avvio ad una politica asiatica in grande stile e mostra di aver completamente dimenticato i suoi progetti di federazione imperiale. Nulla ora lo trattiene dal perseguire il suo scopo principale, anche a rischio di una guerra con la Russia e a dispetto delle proteste dei numerosi avversari dell’imperialismo e del gingoismo.
«La regina Vittoria riceve l’orgoglioso e significativo titolo di Regina dell’India. Il Canale di Suez viene posto sotto l’influenza inglese e così contemporaneamente l’Inghilterra mette piede in Egitto. Viene acquisita Cipro, l’isola di cui in “Tancredi” aveva detto che domina la Siria! Gli riesce inoltre di tenere in scacco la Russia e di assicurarsi il favore della Francia. Per quanto possibile, Beaconsfield ha realizzato l’audace programma del “Tancredi”: Canale di Suez, imperatrice dell’India, Cipro. La realizzazione di questo programma continua anche dopo la sua morte, cosicché alla fine della guerra mondiale Egitto, Arabia, Palestina, Mesopotamia, Persia cadono tutte in qualche modo sotto l’influenza inglese.
«Il merito indiscutibile di Beaconsfield consiste in ciò, che egli ha perseguito e cercato di realizzare spietatamente l’espansione e la salvaguardia delle sfere di potere inglesi in Asia. Quel che un politico della statura di Palmerston e uno ricco di fantasia come Ellenborough avevano solo osato accennare, lui lo ha reso visibile al popolo inglese come un’ovvia verità. Ma anche se gli ulteriori sviluppi hanno dato sicuramente ragione a Beaconsfield, proprio dal punto di vista inglese sono state sollevate perplessità contro il suo imperialismo. Beaconsfield era in primo luogo ebreo, e quindi il suo legame con l’Inghilterra non era che accidentale.
«Egli non è vissuto unicamente per l’Inghilterra e l’impero; gli interessi ebraici gli stavano più a cuore. Fu solo una fortunata coincidenza che la sua predilezione ebraica per l’Asia coincise con la politica inglese. L’aver legato la civiltà e l’imperialismo inglese col giudaismo ha causato dei danni; sì, è proprio a lui che si deve lo sradicamento del popolo inglese dalle sue vere profonde radici. Egli ha causato danni facendo degenerare in gingoismo l’imperialismo orientale inglese, un modo di procedere che, di nuovo, derivava dal suo essere ebreo; difatti per lui, in quanto ebreo, il genuino imperialismo inglese doveva essere sempre un immorale imperialismo di potenza.
«Beaconsfield ha sostenuto l’imperialismo britannico solo fino a che la realizzazione dell’impero giudaico era impossibile. Il suo interesse al mantenimento dell’unità dell’impero è determinata dalle sue riflessioni di politica interna e segnatamente dalle sue ambizioni di potere. Al suo imperialismo britannico manca un fondamento ideale; esso è unicamente politico, nasce dalla sua ambizione politica e dalla sua volontà di potenza. Invece il suo imperialismo ebraico nasce da un precetto etico, dai doveri verso il suo popolo, che proprio per questo reputa eletto da Dio.
«All’inizio, le aspirazioni ebraiche ed inglesi convivono slegate l’una dall’altra. La spinta delle circostanze esterne fa sì che Beaconsfield cerchi di perseguire l’imperialismo ebraico attraverso la politica asiatica inglese. Ma il legame con il genuino imperialismo politico inglese, da Beaconsfield ritenuto immorale, diventava dannoso, provocava una degenerazione dell’imperialismo ebraico. Il compromesso del “Tancredi” crolla e col tempo la conquista del potere diventa lo scopo fine a se stesso della sua politica. Così anche il suo imperialismo orientale perde il suo proprio fondamento ideale e, come il suo imperialismo britannico, si fa espressione di tutta la sua personalissima volontà egoistica di potenza. Nietzsche ha detto: “La verità è la specie di errore senza di cui una determinata specie di esseri viventi non potrebbe vivere”.
«Anche Beaconsfield ha fatto proprio questo “errore” e forse non se ne è mai allontanato, ma col tempo si è rivelato sempre più chiaramente il vero nucleo centrale del suo essere. “Beaconsfield in fondo era ritenuto un puro politico di potere; il momento politico ideale non era in lui che qualcosa di accessorio”.
«Questo conflitto tra il dovere verso un’idea e l’aspirazione al potere è già presente nella concezione veterotestamentaria del regno di Dio sulla terra. Quante volte nella storia del popolo ebraico è apparso un falso Messia! Anche Beaconsfield ha vissuto questo conflitto e ciò appare già in “Alroy”. Quanto più forte è la volontà di potenza, tanto più debole è il compromesso; in Beaconsfield esso viene meno.
«L’imperialismo ebraico di Alroy si fonda su basi religiose; quello anglo-semitico in “Tancredi” si fonda su basi biologico-culturali in veste religiosa; quello successivo anglo-asiatico si fonda invece su di un puro fondamento di potere politico; qui non viene ricercata né simulata una sottostruttura ideale: il diritto è il potere».
L.F. Gengler non teme di apostrofare Disraeli come il padre dei deliri mondialisti anglo- giudaici (L.F. Gengler, Benjamin Disraeli der Vater des englisch-jüdischen Weltmachtwahns, «Mitteilungen über die Judenfrage», n. 11/12. Mai 1940, pp. 43-46).
«1. Chi era Benjamin Disraeli? Nel registro delle circoncisioni della comunità ebraica di Londra – la pagina relativa è stata pubblicata in fotocopia nello “Jüdisches Lexikon” (Bd. 1, Berlin 1927 col. 774) ‒ alla data 21 dicembre 1804 si trova scritto che il figlio di Isaac e Mirjam Disraeli, Benjamin, è stato circonciso secondo lo stretto rituale. Il giovane figlio del ricco scrittore ebreo, ritenuto un “ragazzo prodigio” dai suoi contemporanei, all’eta di 13 anni fu battezzato cristiano, ma, come scrive Paul Goodmam, anch’egli ebreo, conservò “per tutta la vita un profondo affetto verso il giudaismo”.
«Già negli anni della gioventù si vantava orgogliosamente di essere ebreo con questa frase caratteristica: “Una metà del mondo adora un ebreo, l’altra metà una ebrea”. Da questo punto di vista il battesimo per lui fu solo un mezzo utile per raggiungere i suoi precisi obiettivi ebraici di potere.
«I due autori che in passato si sono occupati a fondo della vita e dell’opera di Disraeli, per via del loro atteggiamento nei confronti della questione ebraica, non potevano neppure lontanamente rivelare la verità storica: l’uno, l’ebreo danese Georg Brandes, ha fatto del suo libro “Lord Beaconsfield (Benjamin Disraeli)”, apparso nel 1879, uno sfacciato canto di lode, mentre l’ebreo francese André Maurois, nel suo “Benjamin Disraeli”, pubblicato nel 1928, neppure una volta ha osato fare il tentativo di esaminare fattualmente questa dubbia personalità e la sua politica priva di scrupoli.
«Perciò proprio l’evoluzione di Disraeli e la sua influenza decisiva sulla politica interna ed estera inglese devono diventare il punto di partenza delle nostre considerazioni.
«Disraeli viene dipinto dagli ebrei soprattutto come il grande letterato e romanziere del suo tempo che, contro le sue proprie inclinazioni, è poi passato alla politica. Eppure, già fin dalla gioventù le aspirazioni di Disraeli dovevano essere orientate in senso puramente materialistico e capitalistico, se è vero che gli erano ben chiari gli scopi da perseguire: “Signore e padrone del mercato monetario mondiale, e quindi di fatto anche signore e padrone di tutto il resto” (“Coningsby”, libro 4, cap. 10, pp. 198 sgg). Dopo il successo del suo primo romanzo “Vivian Grey”, rilevante anche dal punto di vista finanziario, nel 1826 egli fece un lungo viaggio in Oriente e visitò anche Gerusalemme.
«Dopo ulteriori successi letterari, intraprese la carriera politica come deputato del partito conservatore, da cui si aspettava grossi passi avanti nelle sue ambizioni di potere. Nel 1848, l’anno della rivoluzione, era già diventato capo dei conservatori e quattro anni dopo per la prima volta ministro. Nel 1868 diventa primo ministro, poi, di nuovo, nel 1874. In quello stesso anno riceve la dignità di Pari col titolo di conte di Beaconsfield. Ora è all’apice del potere, e nei decenni a venire sarà lui a determinare la politica dell’Inghilterra.
«Al Congresso di Berlino il “vecchio ebreo” – come lo chiama il suo grande avversario Bismarck – si rivela il più implacabile odiatore della Russia, allora ufficialmente ostile agli ebrei, e il difensore degli interessi puramente ebraici nei Balcani. Inoltre accusa davanti ai russi l’“onesto mediatore” Bismarck come presunto colpevole dei fallimenti della politica di Mosca. La cooperazione russo-tedesca, intollerabile per gli scopi plutocratici di dominio mondiale, deve minare la sua azione politica. Già in precedenza con Cipro e col Canale di Suez ha edificato i pilastri per il dominio sul Mediterraneo orientale.
«Nella stessa Inghilterra Disraeli ha ottenuto l’ammissione degli ebrei (non battezzati) alla carica di membri della Camera Bassa e Alta. Secondo il giudizio dei suoi biografi ebrei, per tutta la vita egli è rimasto nei più cordiali rapporti con l’Inghilterra, con i Rothschild, che con la loro potenza finanziaria dominavano mezzo mondo, e con il più autorevole ebreo del suo tempo, Sir Moses Montefiore, col quale aveva altresì una lontana parentela.
«L’importanza di Disraeli per il giudaismo mondiale viene così attestata da Paul Goodmam (op. cit., col. 776): “I successi politici di Beaconsfield furono tanto più considerevoli, in quanto egli era il capo di un partito che rappresentava la nobiltà d’Inghilterra, ma al tempo stesso, per via della sua specificità e delle sue simpatie, si sentiva assolutamente legato al suo vecchio popolo”.
«2. L’autoconfessione di Disraeli sulla politica mondiale ebraica dell’impero. Nel 1844 apparve il romanzo di Disraeli “Coningsby” col sottotitolo: “O della nuova generazione”. In esso, con protervia e prepotenza, l’autore descrive nell’ebreo Sidonia il rappresentante del dominio mondiale ebraico e della sovranità ebraica del denaro. Brandes e Maurois concordano nel fatto che Sidonia è una figura chiave sia per Disraeli che per il Rothschild inglese. Prima di Rothschild, l’uomo più ricco d’Inghilterra era l’ebreo Medina, immigrato dalla Spagna.
«Al fine di non renderlo troppo riconoscibile agli occhi dei suoi contemporanei, per l’illuminante personaggio del suo romanzo Disraeli scelse la seconda parte del nome del duca Medina-Sidonia. In diversi luoghi del romanzo egli descrive l’influenza degli ebrei della finanza: “L’Europa aveva bisogno di denaro e Sidonia era pronto a prestarlo all’Europa. La Francia chiese qualcosa, l’Austria di più, la Prussia un po’, la Russia parecchi milioni. Sidonia poteva accontentarli tutti” (libro 4, p. 199).
«A proposito della questione ebraica – per quel tempo in Inghilterra ancora una rarità – così Disraeli-Sidonia si esprime sprezzantemente, consapevole del suo potere ancora limitato: “In ogni generazione gli ebrei devono diventare più potenti e pericolosi per la società in cui penetrano … La potente rivoluzione si si sta preparando attualmente in Germania … si sta svolgendo interamente sotto la direzione degli ebrei, che hanno quasi il monopolio delle cattedre universitarie della Germania (l. 4, pp. 232 sgg.) … Come vede, mio caro Coningsby, il mondo è governato da personaggi molto diversi da ciò che immaginano coloro che non sono dietro le quinte”. Qui echeggia una concezione che Disraeli illustra nel suo romanzo “Endymion” con le seguenti parole (Tauchnitz-Ausg. Bd. 2, pp. 18 sgg.): “Nessuno può trattare la questione razziale con indifferenza. Essa è la chiave della storia mondiale; e se la storia appare spesso così confusa, è perché viene descritta da gente che non conosce la questione razziale. Non sono la lingua e la religione a determinare la razza, ma il sangue”.
«Quale fosse la vita interiore di un ebreo del suo tempo, Disraeli lo rivela in “Coningsby” con l’esempio del suo Sidonia (l. 4, pp. 202 sgg.): “Sidonia appariva come un individuo senza scrupoli e senza morale … privo di fede, di patria e di carattere … Era un uomo privo di temperamento. Per lui la donna era un giocattolo, l’uomo una macchina; fede, patria, classe, carattere erano per lui ugualmente indifferenti”.
«Così descrive brevemente la situazione in Inghilterra fino alla inevitabile rifrazione di questo innaturale predominio ancora oggi in atto (ivi, p. 234): “Se un tempo l’Inghilterra era governata da Alfred ed Elisabeth, oggi essa è governata da Downing Street”. Difficilmente può essere mostrata in modo più chiaro la dipendenza dei monarchi-ombra britannici (alla regina Vittoria Disraeli conferì il titolo di “Imperatrice delle Indie”).
«I veri burattinai Disraeli li rivela nel suo discorso del 20 settembre 1879 ad Aylesbury: “Gli uomini di Stato di questo secolo devono avere a che fare non solo con governi, imperatori, re e ministri, ma anche con le società segrete, elementi di cui si deve tener conto. Queste possono distruggere ogni accordo. Hanno ovunque agenti, agenti scrupolosi, che commettono omicidi e sono in grado di causare un bagno di sangue se lo ritengono opportuno”. L’agire sotterraneo pericoloso e distruttivo della massoneria, come pure successivamente dei servizi di Intelligence, è stato dunque tratteggiato da una persona esperta.
«3. Il padre dei piani di dominio mondiale anglo-giudaico. La volontà imperialistica di Disraeli è radicata nel suo giudaismo. Nel romanzo giovanile “Alroy” egli ha già tentato di unire in un comune denominatore imperialismo inglese e imperialismo ebraico. In “Tancredi” rivendica sostanzialmente una fusione anglo-giudaica. I suoi ragionamenti intendono provare agli inglesi la superiorità degli ebrei su tutte le altre razze e popoli, al fine di condurli ad un’assimilazione priva di scrupoli. Sempre di nuovo cerca di dire agli inglesi che essi, a causa dell’isolamento della loro isola, sono “il popolo più importante d’Europa”, ma che senza gli ebrei la loro forza vitale è spezzata. Dalla forza traboccante di una antica razza, secondo Disraeli ancora intatta ‒ quella ebraica ‒, l’invecchiata Inghilterra deve trarre nuove forze.
«Il romanzo di Disraeli “Tancredi” si conclude con il fidanzamento di una ebrea con un nobile inglese, una via imboccata da secoli dallo strato dominante inglese. Oggi nei circoli governativi della società inglese prevale l’opinione che gli inglesi siano addirittura i discendenti biologici delle tribù scomparse di Israele (Dibelius, England, Leipzig, 1929, Bd. 2, p. 79).
«Al fine di perseguire la sua politica mondiale di potenza a partire dal 1870, Disraeli si è servito dei mezzi più svariati per costringere gli inglesi a seguirlo in modo incrollabile. Anche la sua attività parlamentare e ministeriale è stata oggetto di notevoli oscillazioni, e così è riuscito per lungo tempo a vincolare l’Inghilterra ad un imperialismo orientale che serve quasi esclusivamente interessi giudaici. Egli rimase fermo alla autocoscienza dei popoli che ai suoi tempi si affermava sempre più potentemente, alla quale fornì solo un nazionalismo inglese sotto direzione giudaica, incomprensibile e negativamente beffardo.
«L’attuazione di un dominio mondiale ebraico o almeno sotto il controllo degli ebrei rimane sempre una “ideal ambition” di Disraeli, un’ambizione che diventa il fondamento del nuovo impero. Innanzitutto l’Asia è la parte della terra, verso la quale si orientano queste aspirazioni. In “Tancredi” (1847) Disraeli annuncia la futura edificazione della potenza mondiale anglo-giudaica, con la Siria e l’India come pietre angolari. Al fine di incatenare indissolubilmente Inghilterra e India l’una all’altra, egli fa approvare lo scioglimento della Compagnia delle Indie Orientali ed il collegamento diretto della Corona con l’India.
«Ma con tutti questi successi egli ha finito per danneggiare gravemente l’Inghilterra, facendo degenerare in gingoismo la spinta della politica inglese nel Vicino Oriente, ed alcuni fra gli stessi inglesi perspicaci non hanno mancato di denunciare la politica di odio delirante e guerrafondaia intrapresa sotto l’influenza di Disraeli contro gli altri popoli.
«Questo ebreo (…) alla fine viene così giudicato dal suo biografo ebreo Brandes (op. cit., p.384): “Un essere come lui non nascerà più. La civiltà del secolo non lo tollera. Era, come è, solo possibile soltanto, poiché la sua affermazione “del principio semitico” coincise con il grande movimento romantico-religioso. Ma quando penso che dopo di lui si sono aperte agli ebrei soltanto due possibilità, o la vita trascorsa all’interno del semitismo, o l’aperta professione della moderna e onnicomprensiva religione dell’umanità, Disraeli non mi appare solo come un eccellente rappresentante del giudaismo: io lo definirei l’ultimo ebreo”».
La figura di Disraeli, che «andò fiero tutta la vita del suo giudaismo» (Binjamin Jaffe, L’ebreo Beniamino Disraeli, «La Rassegna Mensile di Israel» 15 (1949), p. 517), è oggetto di tutta una letteratura critica che non manca di rimarcare le parole che Disraeli fa pronunciare a Sidonia, un ebreo dall’immensa ricchezza, nel suo romanzo Coningsby.
Dopo aver sottolineato che gli ebrei hanno giuocato un ruolo importante nei grandi movimenti intellettuali europei, che la rivoluzione che si sta preparando in Germania «is entirely developing under the auspices of Jews» e che gli ebrei influenzano la politica di vari stati europei, Sidonia afferma:
«So you see, dear Coningsby, that the world is governed by different personages from that is imagined by those who are not behind the scene» («Come vedete, mio caro Coningsby, il mondo è governato da personaggi molto diversi da quelli che immagina chi non si trova dietro le quinte») (Coningsby; or, The New Generation by B. Disraeli, London, 1844, vol. II, pp. 201, 204).
Rudolf Craemer, Benjamin Disraeli, «Forschungen zur Judenfrage», Bd. 5 (1941), pp. 22-147, poi pubblicato in volume, Hanseatische Verlagsanstalt, 1941(trad. franc.: Benjamin Disraeli par Rudolf Craemer, Paris, 1943), ricostruisce la vita letteraria e la politica imperialistica anglo-giudaica di Disraeli, un uomo la cui carriera personale, scrive, illustra l’ascesa del giudaismo nel XIX secolo, e che ha aperto la strada ad un impero mondiale, per cui il suo nome appartiene alla storia dell’Inghilterra non meno che a quella del giudaismo.
È dunque normale, aggiunge, che gli ebrei considerino Disraeli un eroe, uno di loro. Anche se era stato battezzato e s’era immedesimato nello spirito inglese, egli ha sempre proclamato il suo attaccamento alla razza ebraica e alle tradizioni di Mosè, ed ha predicato la missione universale degli ebrei.
Non a caso, aggiungiamo noi, il nome di Disraeli figura nel Plan of Dictionary of Anglo-Jewish Biography [English, American and Colonial] di Lucien Wolf (Reprinted from the “Jewish Chronicle”, November 4-11 1887, p. 5).
Tutti i suoi biografi e gli studiosi dell’impero britannico concordano nel sostenere che Benjamin Disraeli, poi Lord Beaconsfield, fu il vero artefice e il vero fondatore dell’imperialismo anglo-giudaico.
Carlo Giglio, autore di numerosi scritti sull’imperialismo britannico, è tornato sulla questione, delineando in poche magistrali pennellate il ruolo di Disraeli nella politica imperialistica inglese, sottacendo però la sua specificità ebraica.
Dopo aver ricordato che il termine imperialism si fa risalire a Disraeli, il Primo Ministro inglese che dominò la vita del suo popolo dal 1874 al 1888, Giglio scrive:
«Rovesciando gli indirizzi e i principi della scuola di Manchester (anticolonialismo e politica estera inattiva), che dal 1846 al 1874 avevano ispirato l’azione dei governi inglesi quasi tutti whig e liberali (meno i brevi gabinetti tory e conservatori del 1852, 1858-59, 1866-68), Disraeli attuò su vasta scala una politica estera e coloniale estremamente attiva (la così detta forward policy).
«Se si esclude l’annessione del Transvaal e l’occupazione di Cipro (1878), Disraeli non ingrandì di molto territorialmente il dominio coloniale inglese, ma il suo influsso fu determinante nel dare alla nazione inglese un nuovo animus, cioè l’animus imperandi, la volontà di affermazione dell’Inghilterra, della razza inglese nel mondo. Il famoso acquisto delle azioni della Compagnia del Canale di Suez (1875), la ferma opposizione alla Russia nella crisi balcanica (1875-78), con il conseguente trionfo di Berlino, e negli eventi afghani (1879); l’attribuzione alla regina Vittoria del titolo di imperatrice delle Indie (1876) furono i maggiori eventi materiali esteriori, in cui si concretò lo spirito imperialistico di Disraeli.
«Ma l’influsso di Disraeli andò ben oltre questi ultimi fatti. Infatti, alle elezioni del 1880 fu sconfitto per l’abile propaganda di Gladstone, che, avendo attaccato l’avversario per la sua politica imperialistica, finì, però, una volta andato al potere, per essere imperialista quanto e più di lui, non restituendo Cipro alla Turchia né il Transvaal ai Boeri, acquisti che egli aveva già definiti disonorevoli per l’Inghilterra e occupando addirittura l’Egitto (1882).
«Dopo morto, Disraeli vide il trionfo integrale dei suoi principi, delle sue idee, delle sue convinzioni: l’Inghilterra, dominatrice degli oceani e dei punti strategici vitali, dominatrice nei traffici, nei commerci, nelle industrie; conquistatrice di territori e popoli, l’Inghilterra prima potenza del mondo, guidata solo dal principio che l’interesse inglese è misura del bene e del male, verso qualunque Stato, grande o piccolo.
«Disraeli fu il bardo dell’imperialismo inglese e sulla sua scia per circa cinquant’anni l’Inghilterra s’impose agli altri Stati della Terra con la diplomazia, con le attività economiche, con i capitali, con le conquiste, con la giustizia e l’ingiustizia, spesso con l’inganno e la sopraffazione. Per oltre cinquant’anni, l’inglese si credette il popolo eletto, prescelto da Dio a dirigere il mondo, a governare e civilizzare popolazioni arretrate, il popolo dalla costituzione perfetta e dal regime sociale-economico più progredito» (C. Giglio, Fine o evoluzione degli imperialismi?, «Il Politico» 16 (1951), pp. 158-159).
«L’idea di un potere mondiale ebraico – scrive da parte sua Hannah Arendt – accompagnò Disraeli per tutta la sua vita, dalla giovinezza alla fine; solo che le forme da lui attribuite a tale potere mutarono col crescere della sua esperienza politica. Nel suo primo romanzo, Alroy (1833), egli espose il piano di un impero ebraico in cui gli ebrei avrebbero assunto la posizione di casta dominante rigorosamente separata. Il libro rivela l’influenza delle ingenue opinioni correnti sulla potenza ebraica oltre che l’ignoranza del giovane autore circa le effettive condizioni del suo tempo [sic!] (…)
«In un nuovo romanzo, Coningsby, egli abbandonò il sogno di un impero ebraico e tracciò il fantasioso quadro del mondo, in cui il denaro ebraico decide dell’ascesa e della rovina di dinastie e imperi e domina sovrano sulla diplomazia. Non abbandonò mai nella sua vita questa seconda idea di una segreta e misteriosa influenza degli uomini eletti della razza eletta, con cui sostituì il primitivo sogno di una casta di dominatori apertamente costituita. Essa divenne il perno della sua filosofia politica» (H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Torino, 1999, pp. 105-106).
Secondo la Arendt, Disraeli sarebbe rimasto vittima di una «incredibile ingenuità», «di una singolare allucinazione» (!) (p. 107).
Per Norman Cohn, Licenza per un genocidio, Torino, 1969, p. 12, quella di Disraeli è invece solo una «battuta un po’ di cattivo gusto» (sic!!).
Al contrario, quest’uomo discendente di una ricca famiglia ebraica sefardita convertitasi al cristianesimo e battezzato nel 1817, all’età di tredici anni, perseguì lucidamente i suoi obiettivi, sia come romanziere che come statista.
Nonostante la conversione, Disraeli rimase ebreo nell’intimo dell’anima. Fu legato da stretta amicizia ai Rothschild, sia nel campo politico che in quello finanziario e costruì il personaggio di Sidonia sulla figura di uno dei Rothschild, Lionel Nathan (Rothschild, in «The Jewish Encyclopedia», p. 502; Rothschild, in «Encyclopaedia Judaica», col. 341).
Suzanne Raine, Affiliate Lecturer presso il Center for Geopolitics dell’Università di Cambridge e Visiting Professor al King’s College London, compendia attraverso lo sguardo di Charlotte de Rothschild i rapporti di Disraeli con Lionel Rothschild (Disraeli and the Rothschild provide a study in the power of political patronage, engelsbergideas.com).
Il sottotitolo suona significativamente: I diari di Charlotte de Rothschild mostrano, attraverso il suo rapporto con Mary Ann Disraeli, i complessi legami emotivi tra i politici e i loro finanziatori.
Charlotte von Rothschild, figlia di Carl von Rothschild della casa di Napoli, aveva sposato il cugino Lionel de Rothschild nel 1836. Due anni dopo si trasferì col marito a Londra, dove si fece un’importante cerchia di amici, fra i quali quel Disraeli, che le fu particolarmente devoto, e sua moglie Mary Ann, che divenne sua cara amica (Cfr. Charlotte von Rothschild (1819-1884). The Rothschild Archive. The Rothschild Family, family.rothschildarchive.org).
L’autrice ricorda l’episodio avvenuto nella casa di Charlotte (da quest’ultima menzionato nel suo diario), allorché Mary Ann scoprì per caso, da una lettera inviata da Disraeli a Lionel, che il marito era profondamente indebitato e perseguitato dall’usura nel modo più violento, ed implorava il sostegno dei Rothschild. Difatti nel 1848, ancora all’inizio della sua carriera politica, Disraeli era in forti difficoltà economiche, avendo già perso soldi giocando d’azzardo in borsa e in altre imprese, ed era un abituale debitore di fondi. Il diario di Charlotte rivela un Disraeli le cui finanze personali erano caotiche e che spesso doveva fare affidamento agli amici per mantenere la sua posizione pubblica.
Mary Ann era già andata in sposa a Wyndham Lewis (morto nel 1838), il quale aveva prestato denaro a Disraeli per le spese elettorali all’inizio della sua carriera politica, quando nel 1837 s’era candidato per un seggio a Maidstone. Tra i due, impegnati entrambi in politica sebbene in partiti diversi, vi furono degli screzi: Lionel rimproverò Disraeli di non fare abbastanza per la causa dei Rothschild, al che Disraeli replicò che aveva sacrificato cinque anni della sua vita, non ricevendo in cambio che ingratitudine.
Ad ogni modo vi fu poi una riconciliazione, e da allora in poi il legame tra i due si rinsaldò e tale rimase per tutta la loro vita politica, come dimostra tra l’altro l’affare delle azioni del Canale di Suez. Grazie a Disraeli, Lionel riuscì ad ottenere il seggio parlamentare cui fortemente aspirava. La relazione tra Lionel Rothschild e Disraeli durata tutta una vita, conclude Raine, rientra in una tradizione più ampia di ricche comunità che arrivano in Gran Bretagna e cercano accettazione e influenza attraverso la finanza e il credito.
Ma, come è stato giustamente rilevato, Sidonia era anche l’autoritratto psicologico e politico di Disraeli, il suo alter ego, la figura ideale cui Disraeli aspirava, un ebreo ideale (Katharine Thayer, Benjamin Disraeli, Lionel de Rothschild and Nineteenth-Century Anglo-Jewry, Princeton, 2011, pp. 33, 37, 38).
Sul mito della superiorità razziale ebraica in Coningsby e Endymion cfr. A. Diniejko, Benjamin Disraeli’s Pro-Semitism in Coningsby and Endymion, victorianweb.org).
Non è quindi un caso che i destini politici dell’imperialismo britannico e quelli affaristici di Rothschild e della cricca plutocratica anglo-giudaica abbiano finito per coincidere.
Che le aspirazioni politiche di Disraeli non fossero per nulla delle improvvisate e fantasiose esternazioni di uno spirito allucinato, ma venissero da lontano, lo si può arguire da quanto scrive un suo biografo, Pereira Mendes: «Senza la tradizione sefardita e la sua maestà ebraica non sarebbero sorti né Alroy, né Sidonia, né Tancredi» (B. Jaffe, La Comunità portoghese di Londra e la famiglia Disraeli, «La Rassegna Mensile di Israel» 16 (1950), p. 120). Jaffe riporta alcuni brani della ricerca che Disraeli fece sul padre Isaac, in cui ricorda come il nonno, che divenne cittadino inglese nel 1784, era d’origine italiana ed i suoi avi avevano deposto il loro cognome esotico e preso quello di Disraeli, che prima d’allora nessuna famiglia ebraica aveva portato:
«Quando mio nonno si stabilì in Inghilterra il Capo del Governo, Pelham, era favorevole agli ebrei. Fra le altre famiglie ebree che avevano portato grandi ricchezze sulle coste britanniche, va segnalata la Famiglia Villa Real, che si era legata per mezzo di matrimoni alla aristocrazia inglese e ai nostri parenti Lara, Medina, Mendes da Costa» (p. 118).
Jaffe rammenta altresì gli albori dell’insediamento della ricca comunità portoghese in Inghilterra, «che si avvicinò alla società inglese e vi si mescolò. Colla cospicua ricchezza, colla nuova cultura e la nuova società non c’era più bisogno né ragione dell’isolamento confessionale e dei valori sociali ebraici. Nella famiglia dei marrani Mendes da Costa oriundi del Portogallo, che si ricollegavano per nobiltà di natali a Don Josef Nasì, Duca di Nasso, si ebbero molti matrimoni misti. Nella famiglia di Gideon Abudiente, marrani da Lisbona, abbandonò il Giudaismo Samson Abudiente, uno degli speculatori della City e governatore della Banca d’Inghilterra. I membri della famiglia Eden (compreso Antony Eden) sono lontani nipoti di Samson Abudiente. Non pochi generali, ammiragli, duchi e conti sono discendenti cristiani di membri della Comunità portoghese, staccatisi colle loro famiglie dal seno dell’Ebraismo (…) La famiglia Disraeli fu una di queste famiglie» (p. 117).
La convergenza di interessi fra la casta dominante britannica e l’emergente capitalismo ebraico, nonché la loro fusione nell’anglo-giudaismo – con tutta la politica opportunistica delle conversioni e dei matrimoni misti (Jaffe scrive apertamente che una delle ragioni delle conversioni degli ebrei inglesi era la mancanza di diritti, per cui «tutte le cariche dello Stato erano precluse agli Ebrei» e l’abiura fu «la via più breve per uscire al largo») ‒ non potrebbe essere spiegata più chiaramente.
«Disraeli non avrebbe potuto percorrere la sua primrose way verso gli scanni del potere se non avesse accettato il battesimo formale (…) Ma cercare d’essere ammessi alla Chiesa d’Inghilterra era una condizione necessaria per prendere parte alla vita sociale e politica, e dubito che i Disraeli provassero molta vergogna nel farlo» (F. Raphael, The Curiousness of Anglo-Jews, jewishquartarly.com).
Ma i vari Arendt, Cohn e compagnia cantando avrebbero dovuto riportare un passaggio di un articolo apparso nel 1902 sul periodico ebraico The Jewish Criterion a firma Jacob de Haas, che suona letteralmente così:
«Not only was Disraeli a Jew, but he had faith in the Semitic race, in the strength of Semitic intellect and idealism. From his unique position he could say what no other Jew dared whisper, that Semite must conquer the world, that the Jew must master humanity before it could attain to the higher flights of civilization»
(«Non solo Disraeli era un ebreo, ma credeva fermamente nella razza semitica [leggi: ebraica], nella potenza dell’intelletto e dell’idealismo semitico. Dalla sua posizione eccezionale egli poté dire ciò che nessun altro ebreo avrebbe osato bisbigliare, che cioè il Semita deve conquistare il mondo, che l’ebreo deve dominare l’intera umanità prima che possa raggiungere i più alti gradi di civiltà») (The Asian Mistery. By J. de Haas, in The Jewish Criterion, vol. XIV, n. 21, Pittsburg, May Second, 1902, p. 1).
Jacob de Haas (1872-1937), era un ebreo britannico, scrittore e giornalista prolifico, uno degli ultimi padri fondatori e leader del sionismo politico, autore di una serie di articoli per giornali e periodici, e di alcuni volumi, tra cui una biografia di Theodor Herzl, del quale durante la sua vita fu segretario, e una storia della Palestina, nonché collaboratore della Encyclopedia of Jewish Knowledge (cfr. il necrologio pubblicato nel 1937 dalla Jewish Telegraphic Agency (JTA): Jacob De Haas, Herzl Collaborator, Dead Here at 64, JTA, March 23, 1937).
Sulla politica predatoria britannica in Egitto e la questione del Canale di Suez cfr. C. Barduzzi, Un secolo di soprusi giudeo-britannici in Egitto, «La Difesa della Razza», n. 19, 1940, pp. 12-17.
Circa l’intento di Disraeli di riaffermare il predominio della Gran Bretagna sulla scena europea e al tempo stesso di perseguire una più aggressiva politica imperialistica in Asia, Caroline A. Reed, della Harding University, sottolinea l’importanza della questione del Canale di Suez per le strategie imperialistiche inglesi.
Disraeli era fermamente convinto che l’India fosse completamente territorio della Gran Bretagna, e per raggiungere i suoi obiettivi fece una mossa politica essenziale con l’acquisto delle azioni del Canale di Suez. Il controllo del Canale di Suez era per l’Inghilterra d’estrema importanza dal punto di vista strategico e commerciale, permettendo tra l’altro di accorciare la rotta dalla Gran Bretagna di diverse settimane e quasi 6.000 miglia (C. A. Reed, Disraeli and the Eastern Question: Defending British Interests, «Tenour of Our Times», vol. 5, Spring 2016, pp. 17-38).
Il Canale di Suez era stato aperto nel 1869 sotto la proprietà di finanzieri francesi e del khedive d’Egitto. In seguito all’accordo col khedive, Disraeli ottenne il 44% delle azioni al prezzo di 4.00.000 di sterline, ovverosia 365.289. 693.52 sterline in valuta odierna.
Matthew Hefler, The Suez Canal Purchase and the making of modern Britain, Engelsberg Ideas, 2023 (engelsberg.com), spiega che l’acquisto fu presentato dalla stampa inglese dell’epoca come un successo per gli interessi commerciali britannici. Stando alla copertura mediatica di “The Times” e “Punch”, quello che Hefler definisce il colpo di stato imperiale di Disraeli fu popolare soprattutto per ciò che l’impero simboleggiava per la posizione della Gran Bretagna nell’ordine mondiale e come dichiarazione simbolica di forza ai rivali.
Vide lontano «The Times» quando scrisse che le azioni del Canale avrebbero costituito una garanzia sulla principale autostrada per l’India, ma vide ancora più lontano Lord Derby, il predecessore di Disraeli, che pure nel suo diario definì l’acquisto universalmente popolare e un successo completo, ma al tempo stesso vi vide il presagio di una «forza di sentimento che potrebbe in certe circostanze assumere la forma di un grido di guerra».
Non si può infine non menzionare quanto dichiarato dal Cancelliere dello Scacchiere Sir Stafford Northcote poco tempo prima dell’acquisto delle azioni:
«Cosa dirò in merito alla connessione fra la nostra politica coloniale e la nostra politica estera? Qual è lo spirito che governa l’Inghilterra e la induce a mantenere e ad aggrapparsi a questo suo grande impero…? È semplicemente uno spirito di egoistica esaltazione? …No. È una politica di aggressione? È una politica che minaccia la pace nel mondo? No, è il contrario di tutto ciò. È una politica del tutto in accordo con quello che credo essere il vero genio dell’Inghilterra. È una politica in accordo con il nostro desiderio di promuovere la pace e la civiltà in tutto il mondo, di portare il commercio, e con il commercio le benedizioni della pace e dell’amicizia in tutto il globo civilizzato».
A questo capolavoro di ipocrisia e menzogna si contrappone tutta la storia dell’imperialismo anglo-giudaico, caratterizzato esattamente proprio da quello spirito di esaltazione egoistica e da quella volontà di aggressione negati da Northcote.
Una pagina di J. Newsinger, Il libro nero dell’impero britannico cit., illustra la questione del Canale di Suez come preludio all’invasione dell’Egitto:
«Il canale di Suez può essere visto come il primo passo lungo la strada della bancarotta e dell’acquisizione dell’Egitto da parte britannica. La sua realizzazione, durata dal 1859 al 1869, costò 16 milioni di sterline, di cui 4 milioni e mezzo a carico degli azionisti e il resto del governo egiziano. Il grosso dei profitti derivanti dall’apertura del Canale andò ciò nonostante agli azionisti e non al governo.
«Cosa ben peggiore, il governo egiziano dovette prendere in prestito i soldi della propria quota di investimento a condizioni proibitive, tanto che nel 1873 aveva pagato 6 milioni di sterline di soli interessi. Secondo uno storico dell’economia “le difficoltà finanziarie dell’Egitto hanno origine con la costruzione del canale di Suez”: oltretutto, laddove il Canale fu di notevole beneficio al commercio europeo e a quello inglese in particolare, esso “non poteva giovare in alcun modo all’Egitto stesso”.
«Nel 1876 il governo egiziano aveva contratto prestiti all’estero pari a 68 milioni di sterline e prestiti interni pari a oltre 14 milioni; il debito fluttuante era di 16 milioni di sterline. Un terzo circa delle somme prese in prestito non erano mai effettivamente giunte nelle casse dell’erario egiziano, trattenute dalle banche sotto forma di “sconti e commissioni che erano gonfiate al limite ‒ e oltre il limite ‒ della fraudolenza”. Theodore Rothstein, un marxista autore di un celebre e documentato studio sull’argomento, fornì un utile esempio dei “metodi della finanza moderna” raccontando la storia di un prestito da 32 milioni di sterline che Ismail Pascià contrattò con la banca d’investimento Rothschild nel 1873.
«I Rothschild trattennero quasi 12 milioni a mo’ di cauzione e, dei 20 milioni effettivamente versati, circa 9 furono sotto forma di obbligazioni, oltremodo sopravvalutate, del debito fluttuante egiziano. Gli egiziani ricevettero meno di metà dell’effettiva somma del prestito, ovviamente dovendo pagare gli interessi sull’intero ammontare. Questa gigantesca frode non viene ricordata dalla maggior parte degli storici».
La bancarotta fu evitata «soltanto grazie alla cessione della quota egiziana del canale di Suez proprio ai britannici, per la ridicola somma di 4 milioni di sterline» (pp. 124-125).
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