Gian Pio Mattogno: Gli ebrei e l’imperialismo britannico nel XIX secolo

Gian Pio Mattogno

ANGLIA JUDAICA:

GLI EBREI E L’IMPERIALISMO BRITANNICO NEL XIX SECOLO 

 

Il connubio tra giudaismo e casta dominante inglese, che s’è venuto formando già a partire dall’epoca di Cromwell (cfr. ANGLIA JUDAICA: OLIVER CROMWELL E LE ORIGINI GIUDEO-PURITANE DELL’IMPERIALISMO BRITANNICO, andreacarancini.it) ha conosciuto la sua massima espressione nel secolo XIX in quello che non è improprio definire imperialismo anglo-giudeo-massonico, per via del ruolo centrale che vi giuocarono (oltre le logge massoniche, di cui si dirà in altra occasione) il capitalismo giudaico e la plutocrazia britannica, e di cui l’ebreo Benjamin Disraeli fu il padre politico e spirituale (cfr. ANGLIA JUDAICA: L’EBREO DISRAELI E LA COSTRUZIONE DELL’IMPERO ANGLO-GIUDEO-MASSONICO DEI MERCANTI, andreacarancini.it).

Per comprendere appieno il ruolo giuocato dagli ebrei nella prassi criminale imperialistica della Gran Bretagna  nel XIX secolo, prima ancora di esaminare i tratti essenziali dell’imperialismo britannico e il peso specifico che vi ebbe il capitale giudaico, occorre ripercorrere brevemente le fasi salienti della penetrazione ebraica nella società inglese, i cui prodromi risalgono all’epoca normanna (cfr. ANGLIA JUDAICA: LA PRIMA IRRUZIONE DEGLI EBREI E DEL CAPITALE USURAIO IN GRAN BRETAGNA, andreacarancini.it).

Sappiamo che già all’epoca di Cromwell, prima ancora della loro riammissione ufficiale ed a maggior ragione anche nei decenni seguenti, capitalisti ebrei come Salomon Medina, Samson Gideon e Manasseh Lopez seppero approfittare della loro rilevante potenza economica per infiltrarsi nel tessuto della società inglese e perfino fra le classi alte della politica.

Se sulla genesi e la formazione del capitalismo inglese fino alla rivoluzione industriale esiste una letteratura smisurata, i tempi e i modi della penetrazione degli ebrei nella società britannica sono meno esplorati, e per lo più da una storiografia in generale appiattita sulla narrazione ufficiale filo-ebraica.

Fortunatamente non mancano studi critici che consentono di avere un quadro più aderente alla realtà storica a cominciare da How Jewry turned England into a Plutocratic State. A Historical Survey («World Service», Special Number 12.6.1940.

(Una versione francese è apparsa nel numero speciale de «Le Cahier Jaune», n. 7, août 1942 (L’Angleterre et les Juifs) col titolo: Comment les Juifs ont fait de l’Angleterre un État ploutocratique. Di questo scritto esiste una versione italiana, parziale e non sempre impeccabile: Origini della plutocrazia britannica. L’asservimento dell’Inghilterra all’ebraismo, «L’Idea di Roma», giugno-luglio 1940, pp. 181-214).

Un’abile tattica messa in atto dagli ebrei per penetrare nella società inglese fu quella delle false conversioni, di cui Samson Gideon rappresenta un esempio emblematico.

Come giustamente sottolinea «World-Service», il finto battesimo e la finta conversione di Samson Gideon, uno dei capitalisti ebrei più ricchi ed influenti dell’epoca, come pure quella di altri capitalisti ebrei, non fu per il capitale giudaico che un lasciapassare allo scopo di penetrare più agevolmente nel tessuto della società cristiana inglese ed esercitarvi il suo proprio potere economico e politico.

Lo scrive esplicitamente anche H. Pollins, Economic History of the Jews in England, London and Toronto, pp. 55-56. Gideon era una figura prominente nel panorama finanziario dell’Inghilterra del XVII secolo, ma la sua accettazione all’interno dell’alta società era impedita dalla religione ebraica da lui professata; in quanto ebreo, non poteva entrare nel mondo politico, né ottenere il titolo nobiliare cui aspirava; cercò di ottenerlo in grazia dei servigi finanziari resi al governo, ma senza successo; allora «l’intera famiglia abbandonò la comunità ebraica».

Con questo stratagemma Gideon poté ottenere da “cristiano” quello che non aveva potuto ottenere da ebreo. Ma non fu che un’astuta manovra, come riconoscono anche gli storici ebrei.

Qui ci limitiamo a ricordare quanto riportato nella voce Gideon, Samson della «Jewish Encyclopedia», vol. 5, pp. 663-664, dove leggiamo che era figlio di Rowland Gideon, un mercante delle Indie Occidentali il quale, stabilitosi in Inghilterra, cambiò il suo nome dal portoghese Abudiente e divenne membro della Paper-Stainers Company.

Samson Gideon iniziò la sua attività nel 1720 con un capitale di £ 1.500, che si accrebbe così rapidamente che nel 1729 fu ammesso come agente (broker) giurato con un capitale di £ 25.000, investito principalmente in proprietà terriere. La sua fortuna continuò ad accrescersi a tal punto che nel 1740 era diventato “il grande oracolo e leader della Jonathan’s Coffe House in Exchange Alley”.

Le sue speculazioni erano condotte con tale prudenza che raramente subiva perdite. L’enciclopedia ebraica ricorda poi come Gideon abbia tratto astutamente profitto dalle vicende del Pretender e come la speculazione sui titoli gli abbia consentito in breve tempo di raddoppiare la sua fortuna, ed infine come negli anni seguenti il governo si affidasse quasi interamente a lui per ottenere prestiti.

Il grande obiettivo della vita di Gideon era quello di fondare una famiglia terriera, cosa pressoché impossibile da realizzare come ebreo. «Di conseguenza» (accordingly), nel 1754 si distaccò dalla congregazione sefardita e da quel momento allevò i suoi figli nella fede cristiana».

I primi risultati della “conversione” non tardarono a farsi vedere, come rileva l’enciclopedia ebraica: «Grazie alla sua influenza su Sir Robert Walpole riuscì ad ottenere uno speciale atto del Parlamento che sanciva l’acquisto di una tenuta da lui tanto ambita, e nel 1759 fu conferito il titolo di baronetto a suo figlio Samson, allora un ragazzo di quindici anni che stava studiando a Eton».

Ma subito dopo apprendiamo che Samson Gideon «morì nella fede ebraica, lasciando £ 580.000, £ 1.000 delle quali furono lasciate alla sinagoga Bevis Marks a condizione che fosse sepolto nel cimitero ebraico. Si scoprì che per tutta la vita aveva pagato le sue quote d’iscrizione alla sinagoga col nome “Almoni Peloni”».

Su Samson Gideon finanziere cfr. L.S. Sutherland, Samson Gideon and the Reduction of Interest, 1749-50, «The Economic History Review» 16 (1946), pp. 15-29; Id., Samson Gideon: Eighteehth Century Jewish Financier, «Transactions (Jewish Historical Society of England)» 17 (1951-52), pp. 79-90.

Un elenco di 618 ebrei naturalizzati, o che acquisirono, dietro pagamento, uno status particolare di cittadinanza ad personam inferiore alla piena cittadinanza, è in A List of Jewish Persons Endenizened and Naturalised 1609-1799. Compiled by the late W.S. Samuel, and edited with a foreword by R.D. Barnett and A.S. Diamond, «Transactions & Miscellanies (Jewish Historical Society of England)» 22 (1968-1969), pp. 111-144.

Qualunque ricerca sulla penetrazione del capitale giudaico nella società britannica non può prescindere dal lavoro di Werner Sombart, Gli Ebrei e la vita economica. I. Il contributo degli Ebrei all’edificazione dell’economia moderna, Padova, 1980; II. La vocazione degli Ebrei per il capitalismo, ivi, 1989, e ciò non tanto per via della sua tesi circa il ruolo primario degli ebrei nella genesi del capitalismo, discussa e discutibile, quanto perché, in forza del materiale scientifico a sua disposizione, descrive l’ascesa del capitale ebraico all’interno del tessuto economico delle varie società cristiane.

Sombart ricorda (I, pp. 55 sgg. e passim), citando Hyamson, che già prima della loro ammissione nel paese, gli ebrei avevano nelle loro mani un dodicesimo di tutto il commercio. Dai libri dell’Alderman Backwell, che registrava il volume d’affari in sei mesi del 1663 delle principali case commerciali ebraiche risulta che i volumi d’affari degli ebrei Jacob Aboab, Samuel de Vega, Duarte da Sylva, Francisco da Sylva, Fernando Mendes da Costa, Isaac Dazevedo, George & Domingo Francia e Gomes Rodrigues oscillava fra circa 13.000 e oltre 40.000 lire sterline (II, p. 45).

In una corrispondenza apparsa sullo «Spectator» del 27 settembre 1712 si legge che gli ebrei sono talmente disseminati in tutti i centri commerciali del mondo da diventare gli strumenti per il cui tramite nazioni distanti le une dalle altre possono comunicare tra di loro stabilendo strette relazioni fra tutti i gruppi del genere umano. «Sono ‒ soggiungeva il giornale – come i cavicchi e i chiodi in un grande edificio: privi per sé di qualsiasi valore, risultano tuttavia assolutamente necessari per mantenere l’unità» (II, pp. 33-34).

Sombart documenta come nei secoli XVII e XVIII le finanze inglesi, al pari di quelle di altri Stati, subissero l’intensa influenza degli ebrei. Le necessità del Long Parlament richiamarono ricchi ebrei in Inghilterra. Ancor prima che l’ammissione venisse sanzionata da Cromwell, ricchi cripto-ebrei provenienti dalla Spagna e dal Portogallo immigrarono da Amsterdam in Inghilterra, il principale dei quali era Antonio Fernandez Carvajal, che divenne il finanziere del “Commonwealt”.

Il potere dei magnati ebrei aumenta sotto gli ultimi Stuart, dove si incontrano i de Sylva, i Mendes, i da Costa, con tutto il loro peso economico. Nel contempo ha inizio anche l’immigrazione degli ebrei ashkenaziti, tra cui il magnate capitalista Benjamin Levy. Poi ecco i Salomon Medina, i Suasso, i Manasseh Lopez.

All’inizio del 1700 (I, pp. 88 sgg.) gli ebrei costituiscono la maggiore potenza finanziaria del paese e riescono a coprire un quarto del prestito contratto dal governo. La casa bancaria ebraica di maggior prestigio è quella di Samson Gideon, “consigliere accreditato del governo”, “pilastro del credito dello Stato”, amico personale di Walpole. Dopo la sua morte, la casa ebraica Francis e Ioseph Salvador diviene la maggiore potenza finanziaria dell’Inghilterra.

Sombart ricorda anche che gli ebrei furono tra i principali azionisti delle due Compagnie delle Indie. In un rapporto trasmesso a Cromwell da Manasseh ben Israel leggiamo che gli ebrei posseggono una discreta quantità di azioni della Compagnia olandese delle Indie Orientali e Occidentali. Alla fine del XVII secolo la Borsa di Londra (dal 1698 divenuta il “Change Alley”) «pullula di ebrei», come scrive un contemporaneo. Essi sono talmente numerosi che una parte speciale dell’edificio prende il nome di “Jews Walk”.

Oltre a Salomon Medina, che deve considerarsi il fondatore della speculazione di Borsa in Inghilterra, scrive Sombart, «noi conosciamo numerosi potenti finanzieri ebrei vissuti al tempo della regina Anna, i quali si dedicavano a speculazioni di Borsa in grande stile. Sappiamo ad esempio che Manasseh Lopez aveva guadagnato una grossa fortuna sfruttando il panico provocato dalla falsa notizia della morte della regina e acquistando tutti i titoli di Stato, il cui corso aveva subito un improvviso ribasso. Analoga occasione era stata colta in seguito da Samson Gideon, conosciuto tra i Gentili come “the great Jew broker”.

     «Per rendersi conto della potenza finanziaria degli Ebrei londinesi del tempo, basti pensare che all’inizio del XVIII secolo le famiglie ebraiche il cui reddito annuo raggiungeva un livello variante tra le 1.000 e le 2.000 sterline erano 100, e 1.000 invece le famiglie con 300 sterline di reddito (Picciotto) ‒ mentre Ebrei come Mendes da Costa, Moses Hart, Aaron Franks, Baron d’Aguilar, Moses Lopez, Pereira, Moses (o Anthony) da Costa (che alla fine del XVII secolo divenne direttore della Banca d’Inghilterra) e altri figuravano tra i mercanti più ricchi di Londra» (I, p. 138).

A questi bisogna aggiungere i numerosi mediatori giurati della Borsa di Londra che giunsero da tutti i punti della terra e divennero così numerosi che, come osserva un contemporaneo, alcuni di essi da mediatori si trasformarono in aggiotatori. Nella pratica di influenzare artificiosamente i mercati determinando nel pubblico disposizioni favorevoli o sfavorevoli si distinsero successivamente i Rothschild.

Il processo di giudaizzazione dell’aristocrazia britannica è stato ricostruito da Wilfried Euler, Das Eindringen jüdischen Blutes in die englische Oberschicht, «Forschungen zur Judenfrage», Band 6, Hanseatische Verlagsanstalt Hamburg, 1941, pp. 104-252.

Sulla scorta di una vasta documentazione scientifica, l’autore riporta con certosina precisione nomi, cognomi e circostanze, fornendo un quadro impressionante della «penetrazione del sangue ebraico nella casta dominante inglese» e dei rapporti degli ebrei con la famiglia reale.

Una rapida ma incisiva carrellata di figure di ebrei più o meno imparentati con la casta dominante britannica, nonché di personaggi della famiglia reale più o meno amici degli ebrei, è in Ernst Clan, Lord Cohn ossia La penetrazione giudaica nella casta dominante inglese da Disraeli a Hore Belisha, Roma, 1941.

Così vediamo delinearsi dinanzi a noi le figure di Disraeli, ‒ “il vecchio giudeo di Londra”, come amava definirlo Bismarck ‒, colui che fondò l’imperialismo britannico; il principe di Galles, Alberto Edoardo, con le sue frequentazioni ebraiche; la lunga teoria dei membri della Casa Reale iniziati alla massoneria secondo il Freimaurer-Lexikon, assieme ad altri importanti personaggi, cosa che ha fatto scrivere al “Freemasons Chronicle”: «La grandezza della Gran Bretagna è opera della massoneria».

Poi i Rothschild, i Montagu, i Beit, etc., e gli altri grandi esponenti della City, fino all’ebreo Hore Belisha, ministro del gabinetto Chamberlain.

Scrive nella Premessa il curatore Agostino Toso:

«Questa rapida corsa di Ernst Clan nell’alta società dorata e blasonata della Gran Bretagna, inquinata da più di cent’anni di sangue giudaico, mette a nudo un altro aspetto di quel “vecchio mondo” che ha scatenato la guerra senza quartiere al “mondo nuovo”. In uno stile brillante, con frequenti richiami storici e politici, l’autore documenta gli stretti vincoli che uniscono da circa un secolo il giudaismo e la massoneria non pure alla classe borghese, ma anche alla aristocrazia ed alla stessa casa regnante della vecchia Inghilterra (…)

     «Questa lega aristo-giudaico-massonica, che costituisce la colonna vertebrale della oligarchia che domina l’Inghilterra, e per estensione e comunanza d’interessi e di fini anche della dispotica plutocrazia nord-americana (…) ha potuto formarsi durante il secolo XIX all’ombra della famiglia reale della Gran Bretagna e più precisamente sotto la Regina Vittoria, il cui regno s’identifica con la massima prosperità britannica e con l’affermazione del moderno imperialismo inglese ad opera di un figlio di Giuda, Lord Beaconsfield, al secolo Beniamino Disraeli» (p. 5).

Nell’Introduzione, l’autore scrive:

«Naturalmente non esiste un Lord Cohn. Il titolo del presente volume non va interpretato in senso rigidamente letterale. Comunque, troviamo in Inghilterra dei nobili Isaac, Samuel, Simon e Rothschild. Ma sono pochi. Assai più numerosi sono i vari Lords Burnham, Southwood, ecc., che a loro volta fino a pochi anni or sono si chiamavano ancora Salzer e Levy» (p. 7).

E nell’Appendice, così chiosa la sua ricerca:

«Sintomatico per la penetrazione giudaica nella casta dominante britannica è l’albero genealogico della famiglia Rothschild. Vediamo che in un primo tempo questa schiatta permise soltanto matrimoni tra correligionari. Sino al 1880 si può constatare una serie impressionante di unioni contratte tra consanguinei, in parte unioni contratte con rami parigini, viennesi e napoletani dei Rothschild. Poi di botto diventano più frequenti i matrimoni contratti tra i Rothschild e l’aristocrazia britannica.

     «Vediamo così Constance Rothschild andare sposa con Lord Battersea, una Hannah impalmare l’Earl of Rosebery, Bertha il barone Leonina, Helene il barone von Zuilen, Margherita il duca Alessandro di Grammont. Gli ebrei hanno raggiunto la meta: sono diventati membri equiparati dell’aristocrazia britannica, i loro figli, le loro figliole sposano i discendenti delle più antiche e illustri stirpi britanniche» (pp. 94-95).

(Qualche anno prima era stato pubblicato l’opuscolo di Arnold Spencer Leese, Our Jewish Aristocracy. A Revelation, Imperial Fascist League, London, 1936. Euler, op. cit., p. 105, n.3, scrive che l’opuscolo riporta solo una minima parte dei casi e contiene errori e imprecisioni, ma che comunque a suo avviso va salutato come un segno del risveglio di una coscienza razziale britannica. Quello di Leese, un inglese, non era un caso isolato. In quegli stessi anni, un americano d’origine norvegese, Jacob Thorkelson, membro della Camera dei rappresentanti degli USA, 1° distretto del Montana, in un opuscolo (Jewish Inroads into British Royalty. Rematks of Hon. J. Thorkelson of Montana in the British House of Representatives, Wednesday , August 21, 1940, islam-radio.net)  denunciava parimenti che «per molto tempo uno dei metodi ebraici per raggiungere il dominio del mondo è stato quello di penetrare nei circoli privilegiati dove maggiore è il potere politico» e in conclusione invitava i lettori inglesi ad unirsi nella comune battaglia atta a risvegliare «quel che resta della grande nazione britannica alla coscienza razziale»).

Alcune pagine illuminanti di William D. Rubinstein, prolifico scrittore filo-ebreo, se non egli stesso ebreo, docente di storia e sociologia in varie Università, ci introducono al tema dell’ascesa del capitale giudaico nell’Inghilterra del XIX secolo (La sinistra, la destra e gli ebrei, Bologna, 1986).

     Dapprima Rubinstein rammenta le quattro fasi che avrebbero caratterizzato i mutamenti dell’élite ebraica moderna e contemporanea: nella prima fase (dal 1815 fino al 1870 circa) una piccola élite sefardita o tedesco-askenazita consegue un «grande potere economico e considerevole influenza nell’ambito della comunità ebraica di molti paesi occidentali»; nella seconda fase (tra il 1870 e il 1914) «l’influenza di questa élite continuò a crescere, benché in presenza di una crescente reazione antisemita»; la terza fase (dal 1918 al 1945) è il momento peggiore della moderna storia ebraica, nel quale «il potere, la ricchezza e la capacità di guida della vecchia élite crollarono»; nella quarta fase, infine (dal 1945 fino agli anni ‘80), si registra una «ascesa globale delle comunità ebraiche occidentali (…) in un quadro di generale abbondanza di risorse economiche e di sostanziale perdita d’influenza dei movimenti antisemiti» (pp. 5-6)

Rubinstein ‒ che estende la sua ricerca anche alle comunità ebraiche di Stati Uniti, Australia e URSS e Israele ‒ si sofferma soprattutto sull’Inghilterra, in quanto questo modello di sviluppo sarebbe individuabile con precisione proprio nella moderna collettività ebraica inglese, di cui ripercorre brevemente le fasi salienti a partire dal Settecento.

«Sebbene gli ebrei siano stati riammessi in Gran Bretagna da Cromwell nel 1653 (erano stai espulsi da Edoardo I nel 1290), soltanto verso la metà del XVIII secolo essi cominciarono a ricoprire un ruolo di rilievo nel mondo economico inglese. Dal momento che non erano numerosi – alla fine del XVIII secolo erano solo 25.000 gli ebrei insediati localmente ‒ non erano mai stati oggetto di diffuso antisemitismo né, d’altra parte, l’antisemitismo religioso rivestiva importanza particolare nelle principali religioni presenti in Gran Bretagna.

     «Al contrario, molti motivi ispiratori dell’anglicanesimo suggerivano di considerare con favore gli ebrei. Diversi gruppi protestanti, specialmente quelli influenzati dal calvinismo, si consideravano anzi discendenti spirituali degli ebrei del Vecchio Testamento; altri reputavano un segno del favore di Dio sia lo stabilirsi degli ebrei in Gran Bretagna sia la loro prosperità economica» (pp. 6-7).

Inoltre la Gran Bretagna «era la sola nazione europea a garantire l’assoluta parità di diritti nelle leggi che regolavano le proprietà e i possedimenti di ogni genere, inclusi quelli conseguiti con l’esercizio dell’“usura”. C’era inoltre nell’aristocrazia inglese, piccola, sicura di sé e immensamente ricca, una singolare assenza di pregiudizi verso gli uomini di affari o verso la ricchezza che dagli affari poteva derivare» (p. 7).

Rubinstein si sofferma soprattutto sui rapporti tra capitale giudaico e quella che chiama élite politica inglese nel XIX e XX secolo.

«Nel mondo degli affari, la piccola comunità ebraica di quei tempi era quasi totalmente concentrata nella City di Londra. Gli ebrei erano in massima parte commercianti, banchieri, agenti di cambio, finanzieri, o impegnati in altri tipi di attività di intermediazione finanziaria. Sefardita all’origine, l’élite ebraica di Londra nel XIX secolo divenne a poco a poco tedesco-askenazita a causa delle migrazioni dall’Europa centrale. Le sue principali famiglie – tra i quali i Rothschild, i Montefiore, i Golsdsmid, i Samuel, gli Stern, i Beddington e i Sassoon – divennero immensamente ricche, formando una casta chiusa e con stretti vincoli di parentela che divenne nota come la Cousinhood (cuginanza)» (ivi).

Rubinstein aggiunge che queste dinastie ebraiche non suscitarono particolari motivi di risentimento antisemita nei centri minori, in quanto esse ruotavano attorno alle attività commerciali e finanziarie della City di Londra e non figuravano nelle industrie ad alto impiego di manodopera del Nord.

Né costituirono motivo di pregiudizi da parte dell’élite, poiché «nel periodo in cui la Gran Bretagna era la “stanza di compensazione” del mondo, esse rappresentavano l’asse portante dei suoi “invisibili” legami commerciali con i sei continenti. Tra l’altro queste famiglie erano in massima parte dislocate nella City, sempre aperta agli emigranti e ai nuovi arrivati. La formazione della Cousinhood coincise inoltre, fortuitamente, con una crescente tolleranza religiosa, tipica dell’“età delle riforme” vittoriana» (ivi).

Sino alla fine del XIX secolo gli ebrei inglesi formavano un circolo chiuso.

«Gli ebrei praticanti erano esclusi dalla possibilità di diventare membri della Camera dei Comuni, almeno fino al 1858. Disraeli, che naturalmente era stato battezzato già da ragazzo, fu così il solo ebreo a ricoprire un posto di rilievo nella politica inglese fino agli ultimi anni del XIX secolo. Fino alla metà del XIX secolo gli ebrei praticanti furono anche esclusi dalle Università di Oxford e Cambridge, con la conseguenza che gli ebrei inglesi ebbero un ruolo nella vita intellettuale di allora molto meno rilevante di quello che avrebbero avuto nel XX secolo. È difficile elencare più di quattro o cinque intellettuali inglesi che fossero ebrei: Disraeli e Ricardo (anch’egli convertito al Cristianesimo) sono forse i soli nomi che si possono ricordare» (pp. 7-8).

Rubinstein, che sorvola disinvoltamente sui crimini dell’imperialismo anglo-giudaico, a partire dalle guerre dell’oppio, sottolinea come non fu difficile a questa Cousinhood (l’autore precisa che agli inizi del Novecento circa il 20% di tutti i milionari inglesi erano ebrei) ‒ ben rappresentata da Nathan Rothschild (morto nel 1833), fondatore del ramo inglese della famosa banca d’affari, il quale «era probabilmente il più ricco borghese della prima metà del XIX secolo» ‒ di far valere la propria pesante influenza economica  per entrare nell’élite inglese.

«Date queste enormi ricchezze, nel tardo Ottocento divenne relativamente facile entrare a far parte dell’élite politica inglese. Il caso dei Sassoon illustra al meglio ciò che la vera grande ricchezza rendeva possibile anche per la famiglia di più recente immigrazione. I Sassoon erano ebrei di Bagdad che non avevano mai messo piede in Europa, né mai indossato abiti occidentali prima della metà del XIX secolo. Come esercenti nell’Estremo Oriente di vari commerci (tra i quali quello dell’oppio), i Sassoon avevano accumulato un patrimonio che agli inizi di questo secolo venne valutato in 20 milioni di sterline.

     «Stabilitisi in Inghilterra solo intorno al 1850, già nel 1910 erano divenuti baronetti e membri ereditari del seggio in Parlamento per il collegio di Hythe, nella zona rurale del Kent. L’uomo politico più notevole della famiglia, Sir Philip (morto nel 1939), ricoprì incarichi ministeriali negli anni Venti e Trenta, malgrado esistesse una notevole antipatia latente nei suoi confronti in quanto ebreo» (p. 8).

«Gli anni intorno al 1890 videro anche l’emergere di un nuovo gruppo di milionari ebrei sudafricani, specializzati nel commercio di oro e diamanti, quali i Beit, i Joel e i Barnato, assieme ad altri ricchi sudafricani, questa volta gentili, quali i Wehrner e i Rhodes, e diversi nouveaux riches americani; la nuova lobby divenne oggetto di forti ostilità sia da parte della destra che della sinistra» (p. 9).

Il periodo che va grosso modo dal 1890 al 1920 vede diffondersi anche in Inghilterra un’ondata di antisemitismo, ma ciò non produsse particolari effetti sull’élite ebraica inglese.

«Al contrario si può osservare che l’influenza e il prestigio della Cousinhood non erano mai stati così alti. Sul piano politico, ebrei praticanti assunsero per la prima volta incarichi a livello di Gabinetto nel lungo governo liberale del periodo 1905-1914, mentre in campo economico, nell’età d’oro del “capitale finanziario”, le grandi banche d’affari internazionali erano al massimo della loro ricchezza e influenza. L’elevata posizione e il grado di riconoscimento sociale che questa frangia di società anglo-ebraica poté raggiungere furono esemplificati in maniere evidente dall’amicizia e dalla protezione concessale dal re Edoardo VII. Anche molti uomini politici conservatori rimasero filosemiti; in particolare Arthur Balfour, leader del partito conservatore dal 1902 al 1911» (pp. 9-10).

Se Rubinstein cerca di sottacere o minimizzare, altri utilizzano la mole di materiali scientifici oggi disponibili per interpretazioni di segno opposto.

Esemplare a tale riguardo è lo scritto di Andrew Joyce, Free to Cheat: “Jewish Emancipation” and Anglo-Jewish Cousinhhod, Part 1, «The Occidental Observer», January 16, 2022; Part 2, August 29, 2022.   Basandosi su una bibliografia scientifica mirata, l’autore ricostruisce in breve, ma con precisione, la storia delle agitazioni degli ebrei inglesi e dei loro complici (tra cui lo storico Macauly, che pure era consapevole del ruolo e del potere della finanza nella società e sosteneva che l’ebreo può governare il mercato monetario e il mercato monetario può governare il mondo, e che lo scarabocchio di un ebreo sul retro di un pezzo di carta può valere più di tre re) per ottenere la cittadinanza (le cui conseguenze per l’Inghilterra furono «lunghe e sordide, piene di ipocrisia, intrighi dietro le quinte e interessi etnici»), nonché la storia della capitolazione di un’élite britannica ormai largamente ebraizzata e la sua fusione nel sistema di dominio anglo-giudaico. Una figura emblematica al riguardo, scrive, fu Disraeli, compagno di merende di Rothschild e dei membri della “Cousinhood” ebraica, battezzato cristiano all’età di dodici anni, ma che non smise mai di sostenere gli interessi ebraici, e che nei suoi romanzi aveva sposato «un ripugnante suprematismo ebraico».

Anche se l’autore non menziona mai la massoneria, non si possono non ricordare, in merito al nostro argomento, le considerazioni di Carrol Quigley, docente alla Georgetown University, autore di varie opere, tra cui Tragedy and Hope. A History of the World in Our Time, New-York – London, 1966, riprese e ampliate nell’opera pubblicata postuma Anglo-American Establishment, New York, 1981 (trad. francese col titolo: Histoire secrète de l’oligarchie anglo-americaine, Editions Culture et Racines, 2020).

Nell’Avant-propos dell’ed. francese, riassumendo alcuni tratti salienti dell’opera, Pierre Hillard scrive che, grazie ai lavori di questo docente universitario americano, è ora possibile conoscere meglio gli arcani di quel mondo oligarchico opaco, la cui azione è stata determinante per il mondo anglosassone e, indirettamente, per l’intero pianeta.

Sulla scorta di un’abbondante documentazione d’archivio, Quigley mostra come le élites anglosassoni abbiano elaborato, nella metà del XIX secolo, un vero e proprio piano di battaglia allo scopo di consentire all’Impero britannico, associato agli Stati Uniti, di imporre un’egemonia assoluta sul mondo.

Questa volontà di potenza e di dominio è stata opera di un pugno di uomini legati all’alta finanza della City e di Wall Street. L’autore descrive i legami interni di questa ristretta cricca anglosassone dove il giudaismo e il mondo dell’alta finanza, impregnati d’una visione messianica, si adoperano a far funzionare l’enorme macchina dell’Impero britannico.

Per Quigley, questa alleanza giudeo-anglosassone-protestante è stata definitivamente sigillata a partire da Cromwell ad esclusivo profitto della City e della politica imperialistica inglese, sullo sfondo del messianismo giudaico.

Riguardo ai legami del giudaismo britannico con la famiglia reale non è senza interesse riportare quanto scrive recentemente un autorevole giornale ebraico (The Royal links that go back to “Natty” Rothschild. A hundred and thirty years ago, he made history in the relationship between the Royals and Britain’s Jews, by Zaki Cooper & John Cooper, «The Jewish Chronicle», January 15, 2020, thejc.com. John Cooper è l’autore di The Unexpected Story of Nathaniel Rothschild).

Centotrenta anni fa ‒ scrive il giornale ebraico ‒ Lord Nathaniel “Natty” Rothschild (1840-1915) fece la storia nei rapporti tra la famiglia reale e la comunità ebraica. Egli fu nominato Lord Lieutenant del Buckinghamshire, e questa fu la prima volta che un ebreo ricoprì tale carica. Natty aveva fatto un passo avanti rispetto a suo zio Mayer, il quale era stato High Sheriff del Buckinghamshire. I Lord Lieutenant svolgono un ruolo di ambasciatori nelle regioni.

In passato tra gli ebrei vi sono stati alcuni vice High Lieutenant, come Sir Samuel Montagu (1832-1911), il grande rivale di Natty, che era ortodosso e banchiere.

Rothschild non fu solo il primo Lord Lieutenant ebreo, ma anche il primo ebreo a sedere nella Camera dei Lord, dopo che gli era stato conferito un titolo nobiliare nel 1885. Il primo ministro liberale William Gladstone lo nominò pari ereditario. Nathaniel Rothschild seguì le orme di suo padre, Lionel, che era diventato il primo deputato ebreo nel 1858.

La nomina di Natty a Lord Lieutenant costituì una svolta significativa non solo per lui, ma per l’intera comunità ebraica. Il principe di Galles, futuro re Edoardo VII, strinse una stretta amicizia con Natty, del quale soleva dire: “È una brava persona e un uomo d’affari, e lui e la sua famiglia possiedono metà della contea”. Nel corso di diversi decenni lo stretto rapporto di Natty col re si intensificò.

Come capo della banca Rothschild, nel 1883 Natty mise a disposizione del principe 100.000 sterline, una somma enorme per quei tempi, accendendo un mutuo sulla tenuta di Sandringham; Edoardo espresse la sua gratitudine per la sua “gentilezza e liberalità”. Non sorprende che nel 1902 Natty fosse invitato a far parte del consiglio privato dopo l’incoronazione del re.

Rothschild ‒ continua il «Jewish Chronicle» ‒ era amico degli altri giganti della sua epoca: Disraeli, Balfour e Asquith, così come Theodor Herzl e Cecil Rhodes.

«Ha beneficiato dell’espansione imperiale della Gran Bretagna, ed in ciò ha avuto un ruolo, in particolare in Egitto e Sud Africa. La sua amicizia con Rhodes gli permise di investire pesantemente nelle miniere di diamanti del Sud Africa, in particolare De Beers, e di partecipare pienamente all’espansione delle profonde miniere d’oro nel Rand. Rhodes aveva una visione gigantesca di un Impero britannico alla conquista del mondo intero. Pensava che la Gran Bretagna dovesse conquistare l’intero continente africano. In una certa misura Rothschild condivise questa visione, e talvolta intervenne per sostenere le ambizioni politiche imperiali britanniche in Sud Africa e in Egitto.

     «Sino alla fine della vita di Herzl, Natty sostenne i suoi progetti di colonizzazione a El Arish e nell’Africa orientale (…) Natty era una figura di spicco della sua epoca e intratteneva un rapporto particolarmente stretto con la famiglia reale. Era un uomo dai molteplici aspetti, ma in tutto ciò che ha fatto, il suo ruolo di Lord Lieutenant ha evidenziato i suoi stretti rapporti con la famiglia reale e ci ricorda che non c’è nulla di nuovo sotto il sole nell’impegno positivo di oggi tra la nostra comunità e la famiglia reale».

Il riferimento all’«espansione imperiale della Gran Bretagna», di cui i Rothschild seppero beneficiare da par loro, ci porta ora direttamente al cuore dell’imperialismo anglo-giudaico.

Il capitale giudaico adesso era abbastanza forte e influente da avventurarsi nell’intrapresa imperialistica, e lo faceva sulla base della coincidenza di interessi fra le aspirazioni messianiche di dominio mondiale degli ebrei talmudisti e quelle della plutocrazia britannica che mirava all’egemonia politica ed economica internazionale.

In generale la ricerca storiografica sull’argomento si divide fra i laudatori del sistema liberal-capitalistico e della concezione imperiale britannica e i suoi critici, fra i quali però non mancano gli smemorati e i reticenti.

Un esempio emblematico di tutto ciò è costituito dalla pur documentata ricerca di John Newsinger, Il libro nero dell’Impero britannico, Palermo, 2014.

Ogni pagina del libro di Newsinger, docente di Storia alla Bath Spa University (Inghilterra) ‒ che muove dalla rivolta in Giamaica del 1736 per arrivare fino ai giorni nostri, passando per i crimini commessi dagli inglesi in Irlanda, Cina, India, Egitto etc. ‒ è un severo atto d’accusa non solo contro l’imperialismo britannico, ma anche contro i suoi apologeti.

Nell’Introduzione alla seconda edizione (2013) (pp. 15 sgg.), l’autore rileva che le poche migliaia di copie di libri che sostengono la tesi antimperialista sono sommerse dalle enormi tirature dei libri di Niall Ferguson e compagnia cantante, alcuni opportunamente accompagnati dalla serie televisiva di turno.

A Westminster, continua Newsinger, pezzi grossi della politica, sia conservatori che laburisti, proclamano allegramente che l’Impero britannico fu cosa buona e giusta, e che non c’è nessuna ragione di scusarsi.

Come esempio delle apologie contemporanee dell’Impero l’autore cita il best-seller di Niall Ferguson, Impero. Come la Gran Bretagna ha fatto il mondo moderno (Milano, 2007), un volume inteso a caratterizzare lo spirito dei tempi (intervento in Iraq), nei giorni in cui la politica imperiale veniva celebrata come un vero e proprio dovere che s’impone alle grandi potenze nel loro rapporto con i popoli più deboli, e nel quale tra l’altro l’autore definisce «un periodo prodigioso» la sua esperienza nell’Africa coloniale, senza sottolineare che quel periodo fu reso possibile da uno dei più feroci episodi di repressione della storia imperiale britannica.

Ma lo sdegno di Newsinger si ferma alle soglie della Sinagoga.

Nelle pagine dedicate alle guerre dell’oppio (pp. 76-96), vera cartina di tornasole dell’imperialismo anglo-giudaico in Asia, egli riesce nella titanica impresa di non nominare neppure una volta il nome degli ebrei Sassoon!

È bensì vero che menziona i Rothschild tra i protagonisti della questione del Canale di Suez (p. 125), ma solo in quanto proprietari di una banca d’investimento, e non in quanto ebrei.

Mai gli ebrei compaiono nelle attività predatorie imperialistiche britanniche.

Ma il nome di Sassoon non compare neppure nel volume di Ferguson, ed anche i Rothschild stranamente vi compaiono sempre come uomini della finanza, e mai come ebrei.

Nondimeno, la natura politica degli intrecci tra plutocrazia, imperialismo britannico e affarismo ebraico emerge con tutta chiarezza da questa pagina esemplare:

«La maggior parte dei grandi flussi di denaro proveniente dai numerosi investimenti britannici oltremare scorreva verso una piccola élite di poche centinaia di migliaia di persone. Al vertice si trovava davvero la banca Rothschild il cui capitale totale tra Londra, Parigi e Vienna ammontava alla strabiliante cifra di 41 milioni di sterline, il che ne faceva senza confronti la maggiore istituzione finanziaria del mondo. La maggior parte delle proprietà della banca era investita in bond governativi, e di questi un’alta percentuale era in economie coloniali come l’Egitto o il Sudafrica. Né si può negare che l’estendersi del potere britannico in quelle economie generasse abbondanza di nuovi affari per i Rothschild e i leader politici del momento. Disraeli, Randolph Churchill e il conte di Rosebery erano tutti in modi diversi legati a loro sul piano sociale come su quello finanziario. Colpisce particolarmente il caso di Rosebery – che fu ministro degli Esteri con Gladstone e gli successe come primo ministro nel 1894 – il quale nel 1878 sposò addirittura la cugina di Lord Rothschild, Hannah» (Impero, p. 235).

Dicevamo stranamente, perché invece nella sua biografia di Rothschild (The House Rothschild. The World’s Banker 1849-1998, Penguin Books, 1999), Ferguson menziona a profusione l’ebraicità di Rotschild (ma anche dei vari Sassoon, Disraeli etc.).

Come abbiamo già osservato, la misura dell’estensione dell’imperialismo inglese è visibile plasticamente nelle cronologie delle conquiste e delle annessioni nel corso dei decenni, e nell’impressionante elenco dei territori dominati dalla Gran Bretagna in tutte le regioni del mondo che compaiono in Paul Ritter, Lebensgrundlagen britischer Weltherrschaft, München, 1941, pp. 141-143 e in Ferdinando Gral, L’Inghilterra annette ossia Le conquiste inglesi nelle cinque parti del mondo, Roma, 1941, pp. 5-9, 37 sgg.

In passato non sono mancate dure prese di posizione contro l’imperialismo britannico e i suoi crimini, soprattutto da parte di chi questo imperialismo lo ha veramente combattuto, e non solo sui libri.

     Tra i numerosi articoli sull’argomento apparsi sulla rivista «Zeitschrift für Politik» ci limitiamo a segnalare: Fritz Stellberger, Die Entstehung des britischen Imperiums,  29 (1939), pp 625-638 e Hans Wolf, Die geistige Grundlagen des britischen Imperialsmus, 30 (1940), pp. 457-471, dove l’autore non manca di sottolineare gli stretti legami del capitalismo liberale col giudaismo e di rimarcare altresì il ruolo dello «jüdische  Staatsmann Disraeli» (p. 461), «der grösste  Jude, der je dem Weltreich gedient hat» (p. 71).

Va inoltre segnalato Hermann Lufft, Der britische Imperialismus, Bremen, 1940, cui nuoce però l’assenza di note e riferimenti bibliografici, appena giustificabile in un’agile rivista di politica come quella citata, molto meno in un volume di quasi 300 pagine.

Per ciò che concerne il nostro paese, cfr. Carlo Giglio, forse il maggior conoscitore italiano dell’imperialismo britannico in Africa: L’imperialismo britannico e l’ora presente, «Nuova Antologia», settembre 1939, pp. 131-138; Storia dell’imperialismo britannico dalle origini al 1783 (Il Primo Impero), Roma, 1940; Come l’Inghilterra s’impossessò dell’Africa Occidentale, «Rivista delle Colonie Italiane», marzo 1942, pp. 259-290.; Le origini del dominio inglese in Africa Orientale, «Gli Annali dell’Africa Italiana», 1942, pp. 349-288; Come l’Inghilterra s’impadronì dell’Egitto e del Sudan, ivi, 1943, pp. 173-216; La questione egiziana dal 1798 al 1841, «Oriente Moderno», n. 11/12, Novembre – Dicembre 1943, pp. 455-500.

Si vedano anche: A. Sammarco, La verità sul Canale di Suez, «Oriente Moderno», n. 1, Gennaio 1939, pp. 1-30, e Aldo Fiaccadori, La supremazia economica inglese e le origini della sua decadenza, Milano, 1940, dove troviamo appena un cenno agli ebrei, peraltro limitato all’età medievale (p. 26), ma nulla sul processo di giudaizzazione della classe dominante inglese e sul ruolo degli ebrei nella vita economica e nell’imperialismo della Gran Bretagna.

Per contro, Ottavio Bariè, Idee e dottrine imperialistiche nell’Inghilterra vittoriana, Bari, 1953, non manca di mettere in evidenza gli innegabili tratti ebraici che caratterizzano l’imperialismo di Disraeli (pp. 91 sgg.).

Su questo argomento esiste una ricca bibliografia. Fra le opere che rivestono un interesse rilevante per la mole di informazioni e per le puntuali indicazioni bibliografiche che contengono, non si può non menzionare Chaim Bermant, The Cousinhood. The Anglo-Jewish Gentry, London, 1971 (con tavole fuori testo riportanti l’albero genealogico di vari membri della “Cuginanza” giudaica), da cui emergono tutte le sfaccettature del connubio tra imperialismo, casta plutocratica britannica e capitalismo ebraico.

Per le stesse ragioni, non meno importanti sono diversi altri scritti: W. Rubinstein, Jewish top wealth-holders in Britain, 1809-1909, «Jewish Historical Studies» 37 (20019, pp. 133-161), ‒ che si pone sulla scìa degli studi di P. Emdem, The Jews of Britain (1943), Chaim Berman, The Cousinhood. cit. e H. Pollins, Economic History of the Jews in England cit., i quali esplorano il mondo delle grandi famiglie anglo-giudaiche ed il ruolo significativo giuocato dal capitalismo ebraico nelle industrie e nel sistema finanziario britannico, riportando lunghi elenchi, anche se non esaustivi, dei principali capitalisti ebrei, vissuti lungo l’arco di un secolo, con l’ammontare dei rispettivi patrimoni, dai tre più ricchi (Nathan Rothschild, circa 4-5 milioni di sterline; Herman Stern, 3.545.000 sterline; Alfred Beit, 8.050.000 sterline) a molti altri che possedevano patrimoni più o meno consistenti.

Ranald C. Michie, Jewish Financiers in the City of London: Reality versus Rhetoric, 1830-1914, «Academic Research Journal of History and Culture» 1 (1), January 2014, pp. 1-14, esamina il ruolo, l’importanza e i successi dei finanzieri ebrei nella City di Londra nel XIX e XX secolo e le ragioni dell’ostilità che si diffuse fra il pubblico inglese in quegli stessi anni, attribuita al loro modo d’operare considerato spesso fraudolento.

Altri lavori, pur non prendendo in considerazione direttamente il ruolo giuocato dal capitale ebraico, forniscono nondimeno un importante materiale grezzo da rielaborare criticamente: Y. Cassis, Bankers in English Society in the Late Nineteenth Century, «The Economic History Review» 38 (1985), pp. 210-229; J.R. Ward, The industrial Revolution and British Imperialism, 1750-1850, ivi, 47 (1994), pp. 44-65.

Una particolare menzione meritano due importanti scritti di Benjamin Ginsberg e David Feldman, che sono altrettante autoconfessioni ebraiche dinanzi ad un ideale tribunale della storia: B. Ginsberg, The Fatal Embrace. Jews and the State, Chicago and London, 1993; D. Feldman, Jews and the British Empire c. 1900, «History Workshop Journal» 63 (1), 2007, pp. 70-89.

Benjamin Ginsberg, docente di scienze politiche alla Cornell University e alla Johns Hopkins University, dopo aver sottolineato la «extraordinary prominence» degli ebrei nella vita economica, culturale  e politica americana a partire dagli anni Sessanta del XIX secolo, e il loro «remarkable role» nell’edificazione di numerosi Stati sia nell’Europa cristiana che nel Medio Oriente musulmano fino all’età moderna, in merito al nostro argomento scrive (pp. 22 sgg.) che, anche se gli ebrei non figurano fra i creatori dello Stato liberale britannico, essi nondimeno hanno contribuito a rafforzarlo e ad espanderlo.

Fra la metà e la fine del XIX secolo gli ebrei accumularono enormi ricchezze e conquistarono una grande influenza politica: i Rothschild erano una delle due più importanti famiglie di banchieri, ma non meno importanti e influenti erano finanzieri come i Sassoon, i Cassel, gli Hirsch e i Semon.

Diverse famiglie ebraiche controllavano importanti organi di stampa, mentre un certo numero di uomini politici ebrei (a cominciare da Disraeli), tra cui G.J. Goschen, Farrer Herschell, Sir George Jessel, Rufus Isaacs, Edwin Samuel Montagu, raggiunsero «posizioni di considerevole influenza nel governo britannico».

Ginsberg richiama l’attenzione su quella che chiama «coalition» di forze aristocratiche, militari, politiche e culturali che, sotto l’influsso di Disraeli, concepì il programma imperialista in India, Medio Oriente ed Africa, e che noi chiameremmo più semplicemente “alleanza imperialistica anglo-giudeo-massonica”. Difatti, «finanzieri ed editori di giornali ebrei erano membri importanti di questa coalizione».

Alla fine del XIX secolo più di un quarto dell’intero capitale britannico era investito oltreoceano, e tra gli investitori figuravano numerosi ebrei.

«Gli interessi finanziari e affaristici ebraici furono componenti importanti dell’intrapresa imperialistica. Ad esempio, la rete ferroviaria che Sassoon aiutò a finanziare era strettamente connessa all’amministrazione imperiale, e l’agenzia di stampa di Julius Reuter funzionava come un meccanismo di comando e di controllo del governo coloniale. A volte il governo britannico si rivolgeva anche a case bancarie ebraiche per finanziare l’espansione coloniale.

     «Ad esempio, l’acquisto del canale di Suez nel 1878 fu reso possibile grazie agli estesi contatti che Henry Oppenheimer aveva in Egitto e grazie ad un prestito di quattro milioni di sterline da parte di Lionel Rothschild. Il ruolo giuocato dal capitale ebraico nella creazione dell’impero britannico nel XIX secolo non sfuggì ai suoi critici. Nella sua classica opera che divenne la base della teoria dell’imperialismo di Lenin, J.A. Hobson affermò che “uomini di una razza unica e particolare, che ha dietro di sé secoli di esperienza finanziaria” costituiscono “il ganglio centrale del capitalismo internazionale”» (p. 24).

Feldman, docente di storia e direttore del Birbeck Institute for the Study of Antisemitism, School of Science, History and Philosophy, Birbeck, University of London ‒ considerato uno dei massimi esperti al mondo di storia dell’antisemitismo, il che non gli impedisce, dissimulando le vere ragioni dell’antisemitismo, che risiedono soprattutto nel secolare odio ebraico contro i non-ebrei,  di ripetere sulla genesi dell’antisemitismo le solite banalità trite e ritrite a base di “pregiudizio”, “supersessionismo” e “cospirativismo” (cfr. Antisemitism: The Past, Present & Future. A conversation with Professor David Feldman, thougtheconomics.com) ‒ denuncia il silenzio degli studiosi riguardo al rapporto che aveva l’impero britannico con gli ebrei all’inizio del XX secolo, e si chiede se l’identificazione dell’imperialismo con la finanza ebraica da parte di J.A. Hobson e di altri critici radicali non abbia reso tale rapporto un problema difficile da tramandare alle future generazioni.

Eppure, osserva, l’argomento non manca di chiarezza.

Se si guarda ad alcune delle istituzioni centrali della comunità ebraica inglese, scrive Feldman, si scopre che esse avevano già una dimensione imperiale.

Il rabbino capo era il capo delle Congregazioni Ebraiche Unite non solo dell’Inghilterra, ma di tutto l’impero britannico.

Il sostegno del giudaismo britannico all’impero era addirittura smaccato (fulsome).

Nel 1897 il giubileo della regina Vittoria fu celebrato in ogni sinagoga della Gran Bretagna.

Il rabbino capo, Nathan Adler, ebbe a dichiarare con entusiasmo che «niente nella storia del mondo è stato più notevole della crescita e dell’espansione, a passi da gigante, della prosperità dell’impero, della sua popolazione e della sua ricchezza, del suo commercio ed industria».

Un paio d’anni dopo, il rabbino capo Adler sottolineò in un sermone che la dottrina religiosa ebraica coincideva col patriottismo imperiale.

Il ministro della sinagoga di Hammersmith, Michael Adler, dopo aver esaminato la condizione politica degli ebrei in quegli anni dell’impero, la trovò migliore che in qualsiasi periodo precedente dell’esilio.

Il Board of Deputies of British Jews, che rappresentava gli ebrei presso il governo britannico, «cercò di influenzare gli affari coloniali quando riteneva che fossero in gioco interessi ebraici».

Ma non è solo nelle istituzioni ufficiali e semiufficiali dell’anglo-giudaismo che si poteva trovare una presenza imperiale. Società ebraiche di beneficenza e di amicizie davano al loro nome un prefisso “imperiale”.

Anche gli ebrei, cui l’impero offriva opportunità di carriera, furono direttamente coinvolti nelle lotte e nell’amministrazione dell’impero.

Tra il 1893 e il 1903 il numero della presenza ebraica aumentò in modo rilevante. «La famiglia Nathan evidentemente considerava l’impero una sorta di impresa familiare». Nel primo decennio del XX secolo, Sir Matthew Nathan fu Governatore della Gold Coast, Hong Kong e Natal. Un fratello, Sir Nathaniel Nathan, era procuratore generale e capo della giustizia a Trinidad, ed un secondo fratello, Sir Robert Nathan, divenne segretario privato del Viceré dell’India e Officiating Chief Secretary del Governatore del Bengala orientale e dell’Assam. Hermann Kish entrò nel Civil Service nel 1873, dove, attraverso una serie di incarichi, divenne direttore generale delle Poste del Bengala.

Sir Lionel Abrahams divenne assistente segretario permanente dell’India Office, ricoprendo tale incarico nello stesso periodo in cui Edwin Montagu era sottosegretario parlamentare per l’India.

«Ovviamente, l’impero era un campo dove perseguire il profitto. La casa Rothschild si occupava soprattutto di prestiti a governi ed enti pubblici. Nel 1890 fu inoltre coinvolta nell’estrazione di diamanti ed oro nel Rand. Quando Sir Alfred Beit e Julius Wernher lanciarono la Rand Mines nel febbraio 1893, ai Rothschild furono assegnate 27.000 delle 100.000 azioni. Gli scandali che afflissero la plutocrazia ebraica edoardiana illustrano anche il coinvolgimento degli ebrei nell’impero come “money-making enterprise”».

Feldman ricorda inoltre lo scandalo Marconi del 1912, incentrato sull’accusa che quattro ministri del gabinetto liberale avrebbero tratto profitto da un contratto assegnato alla English Marconi Company. Due dei ministri in questione, Sir Rufus Isaacs e Herbert Samuel, erano ebrei, e il capo della società inglese Marconi era Geoffrey Isaacs, fratello di Sir Rufus. Tuttavia, ciò che non viene notato è che quello era un contratto per costruire una catena di stazioni “su scala imperiale”.

Feldman ricorda infine lo scandalo dell’argento, scoppiato nel 1912, che vide anch’esso coinvolti dei capitalisti ebrei, la cui vicenda rivelò indiscutibilmente «la capacità dell’impero di provvedere opportunità per alcuni ebrei di perseguire il profitto per sé stessi e per le proprie aziende». Insomma, «l’impero britannico fornì un campo d’attività in cui gli ebrei furono in grado di giustificare la loro emancipazione»  (Anni addietro Feldman s’era occupato dello stesso argomento: Les Juifs et la question anglaise, 1840-1914, «Genèses», 4, 1991, pp. 3-22).

Da parte sua, Jacques Attali, Gli ebrei, il mondo, il denaro, Lecce, 2003, evidenzia il ruolo del capitale ebraico nella rivoluzione finanziaria in Gran Bretagna a partire dal 1700 (pp. 311 sgg.).

Dall’inizio del XVIII secolo l’ebraismo inglese è interamente rivolto alla sistemazione delle finanze pubbliche e a costruire le fondamenta della nuova potenza. «Si inizia una sorta di nazionalizzazione delle finanze pubbliche con ebrei ai comandi, che portano dall’esterno le risorse necessarie e aiutano ad organizzarle». Nel 1700 una prima sinagoga viene edificata a Londra. Lo stesso anno un banchiere ebreo olandese, Salomon de Medina, viene fatto cavaliere da Guglielmo III.

«Medina ha fatto fortuna pagando al Maresciallo di Malborough, durante tutte le sue campagne, un canone annuo di 6.000 sterline per essere il primo a sapere l’esito delle armi alla fine delle battaglie di Ramillies, Oudenarde e Malplaquet (Blenheim per gli inglesi) ‒ informazioni da cui trarre subito profitto in Borsa».

Grazie al concorso del capitale ebraico, in breve tempo l’Inghilterra diventa il cuore dell’economia-mondo. «Alcuni ebrei vi giocano un ruolo assai importante: banchieri, mediatori, finanzieri del debito pubblico, protagonisti (fra gli altri) della rivoluzione finanziaria preliminare necessaria alla rivoluzione industriale».

Attali si adopera inoltre a sfatare il mito secondo cui il popolo ebraico sarebbe passato semplicemente accanto alla rivoluzione industriale che ha consentito lo sviluppo del capitalismo (pp. 322-323). «Nulla di più falso». Gli ebrei s’erano già fatti notare agli inizi dell’industria olandese, britannica, tedesca, polacca e austriaca nei secoli XVI, XVII e XVIII.

«E ancora di più nel XIX secolo: gli ebrei saranno al primo posto nelle prodigiose trasformazioni tecnologiche, industriali e finanziarie che renderanno possibile la produzione di massa».

Molti storici e contemporanei, tra cui lo stesso Disraeli, continua Attali, hanno sostenuto che gli ebrei non hanno giuocato alcun ruolo nella rivoluzione industriale, non vedendo gli ebrei nell’industria, ma credendoli occupati unicamente nella finanza.

In realtà, il loro è stato un ruolo notevole e incredibilmente sottostimato. Attali cita nomi, fatti e circostanze relativi alla presenza di ebrei, il cui elenco è impressionante, sia nell’attuazione delle principali rivoluzioni tecnologiche e industriali, che nell’attività finanziaria delle infrastrutture pubbliche e delle imprese private necessarie al progresso industriale, dai Rothschild ai Warburg, dagli Hambro agli Haber, fino a tutta la pletora di banchieri ebrei che hanno contribuito allo sviluppo del sistema capitalistico (pp. 337 sgg.).

A.R. Rollin, The Jewish Contribution to the British Textile Industry, “Builders of Bradford, «Transactions (Jewish Historical Society of England)» 17 (1951-52), pp. 45-51, ha evidenziato il ruolo rilevante del capitale ebraico nello sviluppo dell’industria tessile della lana a Bradford, nello Yorkshire, a partire dal mercante ebreo Jacob Behrens, giunto in Inghilterra dalla Germania nel 1832. I mercanti ebrei furono i principali fattori nell’espansione dell’industria tessile di Bradford.

Per ricostruire le carriere e l’influenza del giudaismo inglese nell’amministrazione dell’impero (tra i funzionari ebrei in India: Rufus Daniel Isaacs, alias Lord Reading; Sir Abraham Raisman; Henry Edward Goldsmid; Benjamin Cohen; Edwin Samuel Montagu) sono molto importanti le biografie politiche dei vari ebrei piazzati nei posti chiave, per le quali si possono utilizzare ricerche sul modello di: G. Dominy, The first Jewish Governor in the British Empire, Sir Matthew Nathan: An “outsider” in Africa and Ireland, «Jewish Historical Studies» 49 (2017), pp. 162-187; A.P. Hadyon, The Good Public Servant of the State Sir Matthew Nathan as Governor of the Gold Coast 1900-1904, «Transactions of the Historical Society of Ghana» 11 (1970), pp. 105-121.

(Lo stesso vale per i principali capitalisti britannici che giuocarono un ruolo determinante nella costruzione dell’impero e dei quali, oltre ai legami col capitalismo ebraico, va sempre indicata l’eventuale affiliazione massonica, come è il caso tra gli altri di Cecil Rhodes).

Un severo critico dell’imperialismo britannico, William Dalrymple, scrive che «in Gran Bretagna, lo studio dell’impero è ancora ampiamente assente dal curriculum di storia» e che «per gran parte della storia siamo stati una forza aggressivamente razzista ed espansionista, responsabile di violenza, ingiustizia e crimini di guerra in ogni continente» (W. Dalrymple, Robert Clive was a vicious asset-stripper. His statue has not place on Whitehall, «The Guardian», giugno 2020).

È tutto vero, ma peccato che il suo pervicace antimperialismo, al pari di altri risoluti critici dell’attuale “turbocapitalismo”, si fermi alle soglie di una sinagoga, ed anche … di una loggia massonica.

Se un ebreo come Disraeli fu il padre spirituale e politico dell’imperialismo britannico, altri ebrei furono coinvolti nei suoi crimini, a cominciare dalle guerre dell’oppio combattute contro la Cina, di cui fu protagonista la casa bancaria ebraica Sassoon.

Nell’India, dominio britannico, gli inglesi si misero ad impiantare vaste coltivazioni di papavero, da cui veniva estratto l’oppio.

«Gli affari prosperarono subito per la “Compagnia delle Indie”, tanto che il governo inglese stimò conveniente sostituirsi ad essa. Fu così che l’oppio divenne monopolio del governo inglese; e inglesi, papaveri e oppio divennero una cosa sola.

«Non che in Cina non si conoscesse l’oppio, ma veniva adoperato lecitamente, soltanto come sostanza medicamentosa. Gli inglesi s’incaricarono di divulgarne e diffonderne l’uso, organizzando, con tutte le regole dell’arte, il traffico e il commercio dello stupefacente, e rendendolo accessibile a tutte le case e a tutte le borse. Commercio floridissimo e soldi a palate per gl’inglesi. Dall’India l’oppio veniva trasportato in Cina. Alcune cifre daranno, meglio delle parole, l’idea di come andava a gonfie vele l’affare. Nel 1762 le casse d’oppio sbarcate in Cina erano state 200; cinque anni dopo, cioè nel 1767, le casse furono mille. Poiché ogni cassa conteneva Kg. 62,5 di droga vuol dire che nel 1767 il quantitativo totale importato fu di Kg. 62.500.

«Il crescendo diventa negli anni successivi veramente pauroso, come si ricava dal seguente prospetto.

Casse introdotte
Anno 1800-1801 3.947
Anno 1810-1811 4.891
Anno 1820-1821 8.045
Anno 1830-1831 11.726
Anno 1837 44.800

 

«La cosa, come si vede, si faceva un po’esagerata e allora il governo cinese stimò necessario prendere qualche provvedimento. Alla fine del mese di maggio del 1839 fece distruggere nei magazzini di Canton una quantità enorme di oppio che vi si trovava depositata, facendo gettare a mare le casse. In più, il commissario imperiale inviato a Canton, Lin-Tsen-Ssiì, proibì ai mercanti stranieri (vale a dire inglesi) di detenere oppio.

«Che fa l’Inghilterra che è stata sempre alla difesa della civiltà, dell’autodecisione dei popoli, del rispetto altrui, sacrificandosi spesso per questi ideali? L’Inghilterra trasporta i suoi confini dove erano i capannoni pieni di oppio (…) e dichiara guerra alla Cina.  La guerra terminò col trattato di Nanchino del 26 agosto 1843 col quale venne imposto alla Cina l’obbligo di aprire al traffico inglese cinque dei porti: Canton, Amoy, Fu Cheu, Ning Po, Sciangai. In più venne imposta alla Cina, per la cattiva condotta tenuta, un’indennità. E a complemento di tutto l’Inghilterra si prese l’isola di Hong-Kong.

«Il commercio dell’oppio, che non era stato interrotto nemmeno durante la guerra, riprese floridissimo subito dopo di essa. Le cifre dicono tutto.

 

Casse introdotte
Anno 1840-41 29.432
Anno 1850-51 52.040
Anno 1855-56 70.606
Anno 1872 80.000

 

«Vuol dire dunque che nel 1872 l’oppio introdotto dagli inglesi in Cina fu nientemeno che 5.000.000 di chilogrammi: roba da addormentare tutta l’Asia!

«Nel 1856 la Cina tentò di reagire ancora una volta al losco sopruso britannico, ma l’Inghilterra dichiara un’altra volta la guerra alla Cina. A questa seconda guerra partecipano anche Stati Uniti e Francia (…) La guerra terminò, si capisce, con la vittoria inglese e fu firmato il trattato di Tientsin. Il commercio dell’oppio riprende subito a prosperare di nuovo.

«Il governo cinese tenta per la terza volta di reagire, e il governo inglese per la terza volta gli dichiara guerra. Questa volta gl’inglesi ne hanno abbastanza dei cinesi e per finirla presto devastano il palazzo imperiale d’estate a pochi chilometri da Pechino, nel quale “deliberatamente” fu distrutta col fuoco la più ricca collezione di libri, opere, documenti, gloriosa testimonianza della civiltà cinese millenaria.

«La guerra termina col trattato di Chefoo del 1876. L’autodecisione e la libertà … dei papaveri e dell’oppio ha trionfato. Nel 1879 si registra un’importazione di 105.508 casse, vale a dire un quantitativo di oppio di 6.594.250 chilogrammi; bastevole per addormentare per sempre – cioè distruggere – parecchie generazioni di cinesi» (A.T., Le tre guerre dell’oppio, «La Difesa della Razza», n. 13, 1939, p. 15).

Wolf Meyer-Christian, L’alleanza anglo-giudaica. Lo sviluppo e l’azione del dominio capitalistico sul mondo, Roma, 1941, pp. 55-61, 105-111, scrive che i Sassoon, cui si deve la famigerata guerra dell’oppio, hanno pienamente meritato il titolo di “Rothschild indiani”, e ciò non solo per l’imponenza della loro ricchezza messa assieme a furia di truffe, ma anche per i loro metodi di affari.

«Per secoli la famiglia visse nelle diverse città del grande impero ottomano, all’ultimo a Bagdad dove nel 1792 nacque David Sassoon, vero capostipite della famiglia nobilitata in Inghilterra. Con una dozzina di figliuoli egli si trasferì – o fuggì – a Bombay nel 1832, dove fondò la Banca David Sassoon e C. Se si volesse prestar fede alle fonti giudaiche su questa famiglia, si dovrebbe supporre che David e i suoi figli altro non abbiano fatto in India se non fondare istituti di beneficenza, ospedali, scuole e sinagoghe. La realtà dà un quadro ben diverso dell’attività di questa famiglia.

«David Sassoon che deve aver già portato un notevole patrimonio da Bagdad, poté mettere assieme a Bombay una propria flotta commerciale con cui all’inizio trasportò merci di terzi. Dal 1834 però fornì egli stesso il carico per la sua flotta: esso consisteva esclusivamente in oppio, del cui commercio con la Cina e il Giappone aveva quell’anno preso in appalto dalla Società per le Indie Orientali il monopolio. Il veleno del papavero, prodotto in India da contadini pagati miserevolmente veniva da lui comprato in quantità sempre crescente ai prezzi più bassi, per venderlo, dopo la sua elaborazione, al popolo cinese.

«I particolari dei suoi affari e le loro conseguenze fanno parte di un altro capitolo. Basti qui constatare che, alla sua morte nel 1864, come la persona più ricca di Bombay, poté lasciare la bagatella di 5 milioni di sterline. L’erede principale fu suo figlio Abdallah David, nato anch’esso a Bagdad nel 1817, che morì nel 1896 nel suo castello di Brighton, celebre stazione balneare di moda della società londinese sulla costa meridionale inglese. Egli continuò con lo stesso successo l’attività di suo padre, il lucroso commercio dell’oppio, ed ebbe l’adeguata parte politica in India.

«Come membro dell’Assemblea legislativa ottenne che fosse innalzata una statua colossale del Principe di Galles il quale sembra non essere affatto andato in collera per l’importunità di questo ebreo a lui allora sconosciuto. La sua influenza infatti rese possibile l’accoglimento, avvenuto nel 1872, nella aristocrazia inglese dell’ebreo orientale come Baronetto.

«Un altro conferimento di titolo nobiliare seguì nel 1890: Abdallah diventò Barone, facendo così parte dell’alta aristocrazia. Le sue relazioni con Edoardo VII, iniziate con tanta adulazione, si svilupparono fino a diventare una intima amicizia personale. Come uomo di fiducia di Edoardo, questo Sassoon ha avuto per due decenni una parte decisiva nel mondo finanziario londinese. Eppure si era trasferito a Londra solo nell’anno dopo la sua elevazione alla nobiltà, e cioè nel 1873. I suoi due palazzi, a Knightsbridge e a Brighton, in cui teneva corte come un Principe, diventarono un centro della così detta buona società.

«Per l’affarismo di Abdallah è significativo il fatto che egli valutando prudentemente le limitate possibilità future del commercio dell’oppio, che suscitava sdegno e resistenza in tutto il mondo, cominciò a investire i suoi capitali nella costruzione di cotonifici in India. Centinaia di migliaia di lavoratori indiani nel corso dei decenni han perduto la salute e si son rovinati in questo lavoro da schiavi. Al sorgere del problema indiano che oggi più che mai grida vendetta al cielo, i cotonifici dei Sassoon hanno contribuito moltissimo coi loro metodi inumani (…)

«La guerra più insidiosa che uno Stato abbia mai fatto contro la popolazione di un altro, è la guerra anglo-giudaica del veleno contro il popolo cinese. Non necessità di Stato, non ostilità la dettarono, ma solo e unicamente la fredda ricerca di guadagno. L’Inghilterra ha raggiunto la sua posizione assolutamente ingiustificata di potenza in Cina avvelenando con l’oppio il popolo cinese. I milioni che ne scaturirono, andarono a riempire le casse della famiglia giudaica Sassoon.

«La Compagnia commerciale inglese per le Indie Orientali che riforniva monopolisticamente all’Europa merci cinesi di esportazione: tè, seta e porcellana, voleva, all’inizio del secolo XIX, estendere i suoi commerci, ma urtò contro il chiaro rifiuto dell’Imperatore della Cina che si oppose ad ogni importazione dall’Inghilterra. Questa rispose inondando d’oppio la Cina. In tal guisa doveva essere fiaccata la forza di resistenza del popolo cinese contro l’importazione di merci straniere.

«La speculazione era escogitata fin troppo bene: a poco a poco infatti l’affascinante veleno cominciò ad attrarre nel suo potere debilitante tutte le classi del popolo primitivo, dal semplice coolie fino al mandarino. Esso spalancò le porte alla corruzione e influì sull’atteggiamento della corrotta burocrazia nella maniera desiderata dagli inglesi. Per giunta il commercio del veleno procurava enormi guadagni.

«Sorvegliati da soldati, i contadini indiani debbono coltivare gli sterminati campi di papavero appartenenti alla Compagnia commerciale delle Indie Orientali; il loro compenso è minimo, tanto più grande è l’utile che ne ritrae la Compagnia rivendendo nei porti cinesi per 18 scellini la libbra l’oppio che le costa solo 3 scellini. Ogni cassa di oppio del peso di 70 chili arreca dunque un guadagno di più di 100 sterline.

«Nel 1817 furono vendute 6 mila casse e nel 1834, 30 mila; è quindi facile farsi un’idea di ciò che guadagnava la Compagnia in questo commercio. Fino al 1839 il guadagno netto tratto dal commercio dell’oppio viene valutato ‒ si badi bene: in base ad un computo fatto da inglesi – a non meno di 300 milioni di sterline. Questa importazione era fin dall’inizio illegale ed era severissimamente proibita dalle leggi cinesi. La quantità di veleno importato e venduto in Cina, malgrado le leggi, rivela chiaramente in quale misura tale commercio abbia concorso a minare l’organismo statale cinese.

«Secondo una valutazione fatta verso il 1830 due milioni di cinesi erano in balia del pernicioso vizio. In 60 anni il loro numero si è decuplicato causando la rovina del popolo cinese. Come pagava la Cina questa enorme importazione? Ben presto il tè, la seta e la porcellana non bastarono più; i compratori ricorsero al pagamento con l’argento, la cui esportazione rovinò in breve tempo ed in guisa irreparabile le finanze statali cinesi, rendendo povero come lo vediamo ora il paese altra volta così ricco. Questo argento andò a fluire nelle casse della Ditta Sassoon che aveva assunto il monopolio della Compagnia per le Indie Orientali, scaduto nel 1834. Nel 1838 Sassoon inviò non meno di 34 mila casse in Cina, realizzando – in un anno solo! – un guadagno di 16 milioni di sterline.

«Tali successi commerciali rendono comprensibile come il capo della ditta, David Sassoon fosse oltremodo furente allorché l’imperatore cinese, appunto nel 1838, rese nota la decisione di por fine una volta per sempre al giuoco che veniva svolto a danno della forza vitale del suo popolo. Dal Sovrintendente generale del commercio inglese in Cina, Sir Charles Elliot, egli richiese, in una nota, che nessuna nave inglese trasportasse più oppio in Cina. Il consenso fu dato, ma lasciò tutto immutato, poiché le navi di Sassoon erano navi “indiane” e non “inglesi”. Il cristiano e il giudeo non potevano quindi provare rimorso alcuno ingannando in tal modo il pagano.

«L’Imperatore cinese rispose con l’esecuzione di tutti i cinesi che partecipavano al commercio dell’oppio, e riuscì a imporre a Elliot la consegna di 20 mila casse di oppio, che fece bruciare pubblicamente a Canton. Così facendo egli aveva sfidato il milionario giudeo che doveva prendere su di sé tutti i danni. L’invocazione di soccorso lanciata da Sassoon a Londra trovò benevolo ascolto. L’Inghilterra, indotta dalla Ditta Sassoon, come è ormai stabilito storicamente, dichiarò la guerra alla Cina: la famigerata guerra dell’oppio.

«Dopo le azioni svolte per tre anni dalla gloriosa flotta inglese contro le inermi città costiere cinesi, la guerra finì con la sottomissione della Cina segnata dalla pace di Nankino. La flotta inglese, la “Grand Fleet” si comportò in questa guerra con tale barbarie e bassezza che si può, davvero, solo ammirare la propaganda inglese che fino ad oggi ha saputo mantenere nel mondo per la sua marina la fama di alto spirito militare, benché i malpagati ufficiali di essa fossero addirittura spinti ad arricchirsi con la rapina e i suoi equipaggi, costretti al servizio militare, fossero di per se stessi composti da briganti, assassini e saccheggiatori di professione o per passione.

«“Io non conosco nessuna guerra e non ho letto di nessuna guerra che sia stata più ingiusta nella sua origine e più adatta a coprire di vergogna l’Inghilterra. Se la bandiera inglese non potesse essere issata, che come viene issata ora sulle coste della Cina, noi dovremmo rabbrividire di orrore alla sua vista”. Con tali parole un uomo come lo statista inglese Gladstone caratterizzava l’8 aprile 1840 nella Camera dei Comuni questa guerra fatta per mantenere le sue fonti di ricchezza alla famiglia giudea Sassoon. Ma anche questo pio puritano dové cambiare la sua opinione quando con l’accettazione delle condizioni di pace da parte della Cina, si manifestò chiaramente che il dio degli inglesi aveva benedetto tale intervento per gli affari ebrei.

«L’Inghilterra nella pace di Nankino ricevette:

«1. Il possesso di Hongkong;

«2. La cessione, con privilegi speciali, dei cinque più importanti porti cinesi Shangai, Canton, Ampy, Fu-Ciau e Ningpo quali “porti del contratto”;

«3. Il diritto di istituire stabilimenti coloniali extraterritoriali, in numerose città (…)

«4. Un pagamento in denaro di complessivi 20 milioni di sterline: 10 milioni di indennità di guerra, 3 milioni di indennità per le casse d’oppio distrutte, un milione per il danno subito dal commercio inglese in genere e 6 milioni di indennizzo per pretese spese di guerra.

«“Espresso in parole piane, il principio per il quale noi combattemmo nella guerra cinese era il diritto della Gran Bretagna di imporre ad un popolo straniero, contro le proteste del Governo di questo, un particolare commercio – il commercio dell’oppio. Naturalmente questo motivo della guerra non fu confessato” (McCarthy, Storia della guerra cinese).

«Due anni dopo la conclusione della pace, nel 1844, la Ditta Sassoon, poté istituire delle vere e proprie filiali in Cina, che curarono amorevolmente quella che più tardi fu la specialità della ditta stessa, il commercio dell’argento, portando via dalla Cina quanto più argento potettero. Elias David Sassoon passò, per dirigere queste filiali, da Bombay a Shangai dove prima di lui non vi era stato alcun ebreo. Complessivamente però la guerra dell’oppio, coronata da tanto successo, non aveva potuto soddisfare in pieno gli interessi inglesi ormai stimolati. Perciò il fermo posto di nuovo nel 1856 dal Governo cinese ad un piroscafo inglese carico di oppio, servì da gradito pretesto per la guerra, per la seconda guerra dell’oppio cui si associò anche la Francia avida di bottino. Dopo atrocità durate quattro anni, questa guerra finì nel 1860 con la presa della città imperiale di Pechino. I suoi risultati per l’Inghilterra furono:

«1. Il riconoscimento da parte del Governo cinese del commercio dell’oppio;

«2. L’apertura del fiume Yantsze alla “navigazione internazionale” cioè al commercio inglese;

«3. L’istituzione del controllo inglese sulle dogane marittime cinesi (…)

«In tal guisa l’impero del centro era definitivamente “Aperto alla civiltà europea”. La vendita dell’oppio della ditta Sassoon e dei suoi seguaci ammontò nel 1870 a non meno di 100 mila casse. L’indebolimento della forza vitale cinese aumentò dunque ancora più, nella stessa misura in cui aumentavano le entrate dei “Rothschild asiatici”. Solo dopo il 1900 la vendita diminuì perché il popolo cinese che, metodicamente sottratto all’influenza dei suoi governanti, già da tempo non produceva più merci per l’esportazione, per comprensibile economia si era dato a coltivare il veleno nel proprio paese.

«Così il commercio perdé ogni interesse per la nobile casa Sassoon. I figli più giovani si erano saputi nel frattempo creare qualcosa di equivalente, un monopolio per la filatura del cotone in India, così che oggi si trova in Cina solo un ramo della famiglia che attende al disbrigo degli affari in corso, non perché intenda realizzare dei guadagni, ma per rappresentare una “onorevole” tradizione che impone degli obblighi».

Sulla scìa di questi e di altri studi apparsi in passato (M.-C., Der englisch-jüdische Opiumskrieg, «Mitteilungen über die Judenfrage», 18. April 1940, Nr. 9/10, pp. 40-42; G. Dell’Isola, Gli ebrei, gli inglesi e la guerra dell’oppio, «La Difesa della Razza», n. 23, 1940, pp. 34-36; Cina, inglesi e oppio, «La Svastica», maggio 1941, pp. 11-14), è sorta tutta una pubblicistica anticonformista, certamente minoritaria, ma non per questo meno agguerrita, che ha continuato a denunciare le malefatte dell’ebreo Sassoon e dell’imperialismo anglo-giudaico in Estremo Oriente.

Pochi anni dopo la fine della guerra, Arnold Leese pubblica un breve articolo (Chinese Communism? Yes, but it was Jewish when it started  [1949?], Sons of Liberty, Hollywood, 1976), dove tra l’altro scrive:

«Fu la famiglia Sassoon a trasformare in odio la normale antipatia e sfiducia dei cinesi nei confronti degli stranieri. David Sasson commerciò l’oppio in Cina dal 1832 fino alla sua morte, avvenuta nel 1864. La sua famiglia portò avanti il commercio sotto la nostra bandiera e accumulò enormi fortune. Gli inglesi si presero la colpa, ed ora i cinesi ci odiano; proprio come ci siamo presi la colpa delle atrocità ebraiche a Norimberga, Spandau e altrove in Germania, così che i tedeschi ora ci odiano.

     «Sostenuto dai Sassoon, il monopolio dell’oppio di Shanghai esistette fino al 1917 sotto l’ebreo Edward Ezra, il cui comitato direttivo era composto interamente da ebrei e indiani. Non solo la bandiera britannica proteggeva i Sassoon in questo commercio abominevole che i Manciù fecero tutto il possibile per prevenire, anche a costo di una guerra, ma questi ebrei, invece di essere ostracizzati, furono addirittura accolti in Inghilterra. I reali li ossequiarono ed essi si imparentarono con aristocratici ariani.  Così alcuni divennero baronetti ed uno ministro del Governo».

A proposito di Edward Isaac Ezra, un capitalista ebreo che, al pari di Sassoon, con cui era imparentato, aveva accumulato un ingente patrimonio, principalmente tramite il commercio dell’oppio, Alain Roux scrive che nel 1913, quando il commercio dell’oppio era un’attività legale, le due società Sassoon, la David e quella di Edward Ezra, che ne era stato eletto presidente, avevano formato la società Shanghai Opium Merchant’s Combine (A. Roux,“Le pacte avec le diable”. Du Yuesheng, l’opium et les consuls de la Concession française de Shanghai, «Savoir/Agir», 2019/4, n. 50, pp. 15-23; H. Derks, History of the Opium Problem. The Assault on the East, ca. 1600-1950, Brill, 2012, p. 690).

Un testo esemplare pur nella sua brevità è quello più recente a firma Alice Kingslay, che riporta anche foto della famiglia Sassoon e testi tratti dalla «Jewish Encyclopedia»:

«Avete mai sentito parlare dei Sassoon conosciuti come i “Rothschild d’Oriente”? Riuscirono a costruire un’immensa fortuna con il commercio dell’oppio e del cotone, dal mercato della Cina verso quello della Gran Bretagna. David Sassoon era il figlio del ricco banchiere, tesoriere del Pascià e capo della comunità ebraica, che “fuggì” in India dopo un’accusa di corruzione. A Bombay gettò le basi del suo impero, che portò i Sassoon ad essere gli ebrei più ricchi del mondo.

     « Sassoon mandò i suoi figli a gestire il commercio di oppio in Cina e in Giappone, in un anno ne trafficarono 18.956 casse, guadagnando milioni di sterline, di cui una parte andavano alla Regina Vittoria Coburgo-Ghota ed al Governo Britannico. Per gestire gli affari si avvalse esclusivamente di “suoi fratelli” e ovunque li mandasse faceva costruire sinagoghe e scuole per loro. Finché la dipendenza dall’oppio non divenne endemica e l’imperatore ordinò che il commercio venisse sospeso. La guerra che ne scaturì fu una vera e propria ritorsione dei Sassoon contro la Cina e fu facile averla vinta su un esercito indebolito dalla droga che loro stessi avevano diffuso.

     «La Gran Bretagna si garantì la sovranità territoriale e i Sassoon il monopolio dell’oppio. Intanto tutta la famiglia si era stabilita a Londra; la Monarchia corrotta li onorò con titoli nobiliari; Sir Albert, che nel frattempo aveva preso il posto del padre David, venne nominato Cavaliere dalla Regina Vittoria. Suo figlio Edward Albert Sassoon successivamente sposò indovinate chi? Aline Caroline de Rothschild, e fu così che le fortune dei Sassoon si unirono a quelle dei potenti banchieri, ed ancora oggi il loro impero è lì, più potente di ogni Monarchia» (en.rattibha.com).

Un altro esempio, altrettanto significativo, ma più articolato, è: Hong Kong Founded As Sassoon Drug Center, «The Truth at Least», n. 399, pp. 6-7, che ricostruisce la carriera criminale del “Rothschild dell’Est”, dal momento in cui la famiglia si trasferisce in India da Bagdad.

Qui in breve tempo i Sassoon riescono ad ottenere dal governo inglese, con la complicità di Rothschild, i diritti di monopolio sulla manifattura di cotone, seta e ‒ più importante di tutto – oppio, la droga principale fra quelle che danno assuefazione. Citando fonti ebraiche l’autore ricorda che i Sassoon espansero il traffico dell’oppio in Cina e Giappone, che David Sassoon sistemò i suoi 8 figli nei principali centri di scambio dell’oppio in Cina e che ovunque andavano costruivano sinagoghe e scuole per le varie comunità ebraiche. Fra il 1830 e il 1831 trafficarono 18.956 casse di oppio, guadagnando milioni di dollari. Parte dei profitti andarono alla regina Vittoria e, soprattutto, ai Rothschild.

Quando nel 1839 l’imperatore della Cina, per difendere la salute del suo popolo, ordinò di fermare il traffico della droga e sequestrò e gettò nel fiume 2.000 casse, Sassoon invocò dal governo britannico una rappresaglia, che fu l’inizio delle guerre dell’oppio. Alla fine la Cina non solo dovette risarcire il costo dell’oppio confiscato, ma anche rimborsare gli inglesi di 21 milioni di sterline per ripagare i costi della guerra.

Non a torto l’autore di uno scritto pubblicato su islam-radio.net (Hong Kong Founded as Sassoon Drug Center) afferma che, dopo il sequestro e la distruzione da parte dell’imperatore Manciù di 2.000 casse d’oppio, «un indignato David Sassoon chiese alla Gran Bretagna di vendicarlo. Così le guerre dell’oppio iniziarono con l’esercito britannico che combatteva come mercenario dei Sassoon».

È vero che, anche nella storiografia accademica, non manca eccezionalmente chi parla dei Sassoon come di una famiglia di «criminals», «the largest opium profiteers», che con questo traffico guadagnò enormi ricchezze (Hans Derks, History of the Opium Problem cit. pp. 596, 635-636), ma in generale la cosa più singolare in tutta questa faccenda è che da un lato vi sono studiosi non ebrei i quali, come il già menzionato Newsinger, parlano bensì delle guerre dell’oppio, ma ne dissimulano ogni riferimento agli ebrei, e se per avventura citano i Sassoon si guardano bene dal sottolinearne la specificità ebraica, mentre dall’altro vi sono studiosi ebrei, a partire dalle stesse enciclopedie ebraiche, che fanno pacificamente menzione del commercio dell’oppio, non vi trovandovi però, bontà loro, nulla di male, perché “legale”, ma dimenticano le guerre dell’oppio, che evidentemente per loro non sono mai storicamente avvenute! (Cfr. la voce Sassoon nella «Jewish Encyclopedia» e nella «Encyclopaedia Judaica»).

Così, tanto per fare un altro esempio, sia in una nota di Joseph G. Alexander (apparsa alla fine del XIX secolo), che pure era “Hon. Sec. Society for the Suppression of the Opium” e che pretendeva di dire la “verità” sulla guerra dell’oppio (The Truth about the Opium War, «The North American Review» 163 (1896), pp. 381-383), sia, più recentemente, in S. Y. Sheng e E. H. Shaw, The Evil Trade that Opened China to the West, «Charm 2007», pp. 193-199, e in G. Béroud, Les guerres de l’opium dans la Chine du XIXe siècle, «Psychotropes», Vol. VI, n. 3, hiver 1991, pp. 59-72,  incredibilmente (ma non troppo) non compare neppure una volta né la parola “Sassoon” né tantomeno la parola “ebreo”.

Da parte sua, anche Harold Pollins, Economic History of the Jews in England cit., p. 112, menziona bensì i Sassoon tra le nuove imprese ebraiche, ma dimentica di rilevare il suo coinvolgimento nelle guerre dell’oppio.

Il giornale ebraico «Jewish Daily Israel Today» (Baghdadi Jews of India and the Sassoons, Tuesday, August 25, 1987) ci informa che la famosa casa Sassoon, i Rothschild dell’Est, era attivamente impegnata nel commercio dell’oppio, che – si affretta a precisare ‒ allora era «legitimate», e che grazie ad esso accumulò un’immensa fortuna.

Più recentemente, un altro giornale ebraico, «The Times of Israel» (The rise and fall of the opium-fueled Sassoon dynasty, the “Rothschilds of the East”, 26 november 2022), recensendo e riassumendo il volume di un discendente di questa famiglia, il prof. Joseph Sassoon, The Sassoon: The Great Global Merchant and the Making of an Empire, ribadisce nel sottotitolo che sì, la sua lontana famiglia costruì, assieme alla famiglia reale, un impero fondato sul commercio di stupefacenti, ma tiene anch’esso a precisare che questo commercio era «legal», salvo subito dopo contraddirsi riconoscendo che in Cina esso era illegale.

I Sassoon, che hanno fatto milioni come commercianti di oppio, cotone, tè e seta, «hanno fondato un impero commerciale globale che si estendeva su tre continenti, e sono diventati amici e confidenti dell’aristocrazia e della famiglia reale britannica».

In India, David Sassoon «unì il suo intuito commerciale all’abilità politica. Dal momento del suo arrivo a Bombay, condividendone la convinzione nell’importanza del libero scambio e dell’impresa, David si allineò strettamente agli interessi imperiali britannici. Fu una mossa astuta. Nella prima guerra dell’oppio del 1839-42, la Gran Bretagna represse lo sforzo della Cina di arginare il flusso del potente narcotico nel paese. David vide l’opportunità, inviando il ventiquattrenne Elias, “energico e vivace”, a esplorare il territorio e cercare nuovi clienti. Il dado era tratto. Nei decenni successivi, i Sassoon soppiantarono i commercianti più grandi per diventare l’attore dominante nell’esportazione di oppio dall’India alla Cina».

I profitti del traffico dell’oppio vennero successivamente investiti in altre attività commerciali. Come disse un concorrente: “Argento e oro, sete, gomme e spezie, oppio e cotone, lana e grano, tutto ciò che si muove per mare o per terra sente la mano o porta il marchio di Sassoon & Co.”

Il fatto che all’epoca il commercio dell’oppio in generale fosse legale (H. Derks, op. cit., p. 688, sostiene però che ad Hong Kong David Sassoon già negli anni 1830 s’era dedicato «on the illegal opium business») non è una circostanza attenuante per i traffici e la furia bellicista dell’ebreo Sassoon, ma un’aggravante. Difatti, da un lato, come è stato rilevato, già allora si sapeva dell’estrema pericolosità di una droga che creava forte assuefazione, e Sassoon ne conosceva benissimo gli effetti letali, se è vero che «la famiglia licenziò senza fare troppo rumore (quietly) alcuni dei suoi dipendenti cinesi a causa della loro dipendenza dall’oppio» (Rebecca Schiffman, The Jewish Museum’s Sanitized. History of an Opium Dinasty, «Hyperallergic», July 5, 2023), e dall’altro continuò imperterrito nel suo traffico di oppio in Cina, pur essendo pienamente consapevole che questo fosse stato vietato dall’imperatore, e dunque ufficialmente dichiarato illegale.

Per il giornale ebraico prima citato l’allineamento dell’ebreo Sassoon agli interessi imperiali britannici e le guerre dell’oppio furono solo «una mossa astuta».

Sarà pur vero, ci assicura un altro recensore ebreo dell’opera del prof. Joseph Sassoon, che, una volta stabilitisi a Bombay, i Sassoon «divennero a poco a poco padroni (…) dell’enorme redditizio commercio dell’oppio con la Cina» e che «difesero la loro attività, sostenendo che per la maggior parte dei consumatori l’oppio non era peggio del tabacco», arrivando perfino a mettere un papavero sul loro stemma, ma, aggiunge colmo d’orgoglio, «i Sassoon erano filantropi eccezionalmente generosi» che costruirono ospedali, scuole, biblioteche e sinagoghe, a Bombay come altrove (David Abulafia, Masters of the opium trade: the fabulous wealth of the Sassoons, «The Spectator», 19 February 2022).

Insomma, tanto rumore per nulla!

Egitto, India e guerra anglo-boera furono altrettanti momenti del coinvolgimento del capitale giudaico nell’intrapresa criminale imperialistica della Gran Bretagna.

Franco Catalano così riassume i tratti essenziali della questione del canale di Suez, che vide protagonista in prima persona Disraeli operare a nome del governo inglese:

«È noto in proposito che il Khedive Ismail (1830-1895), succeduto al fratello Mohammed Said pascià nel 1863, animato da idee riformistiche e piuttosto spendereccio, doveva far fronte il 1° dicembre 1875 ad una scadenza di 80-100 milioni di franchi. La maggior parte delle sue risorse era ipotecata. Non c’erano Banche disposte a fargli ancora credito. La situazione del Khedive era dunque precaria. In tale frangente gli fu suggerito di vendere le azioni del canale di Suez di sua proprietà. Il pacchetto azionario che egli possedeva, proveniente dalla sottoscrizione fatta a suo tempo da Mohammed Said e parzialmente aumentato per acquisti successivi, comprendeva circa 177.000 azioni su 400.000, che erano state emesse dalla Compagnia del Canale.

«Vi era però un serio ostacolo alla operazione prospettatagli, poiché nel 1869 il Khedive, avendo bisogno di denaro, aveva alienato per 25 anni le cedole delle azioni alla Compagnia precitata. Egli non aveva perciò facoltà di votare, ma una transazione amichevole gli permetteva di delegare, durante le assemblee generali della Compagnia, il suo potere al presidente della stessa. Tuttavia le azioni in possesso del Khedive, pur essendo senza cedole, avevano un sicuro valore di negoziazione. Verso il principio di novembre 1875 un ex-banchiere francese di Alessandria, Edouard Dervien, si mischiò nell’affare. Ottenne dal Khedive Ismail un’opzione valida fino al 16 novembre; poi si recò a Parigi dove ebbe un’accoglienza poco premurosa dalle grandi Banche alle quali si rivolse.

«Dervieu modificò i suoi progetti. Invece di una vendita vera e propria prospettò un’anticipazione su titoli. Ferdinando di Lesseps (1805-1894), che prendeva viva parte all’operazione, pregò il duca Decazes, ministro degli affari esteri di Francia, d’intervenire presso il Crédit Foncier, che particolarmente si opponeva alla transazione, al fine di concludere favorevolmente la medesima. L’aspetto politico della questione era evidente. L’acquisto delle azioni possedute dal Khedive da parte di un gruppo bancario parigino avrebbe trasformato la Compagnia del Canale di Suez in un’impresa esclusivamente francese. Decazes però era riluttante. La Francia era quasi isolata in Europa e non poteva inimicarsi anche l’Inghilterra.

«In quel preciso momento Disraeli fu informato delle intenzioni del Khedive di volersi disfare delle azioni del Canale. Il “Premier” fiutò l’affare. Il Parlamento era chiuso; fortunata coincidenza questa, che evitava lunghe discussioni e inutile pubblicità intorno alle trattative che dovevano essere condotte celermente e segretamente. Ma dove trovare la somma occorrente, circa quattro milioni di sterline? Disraeli e la tesoreria non disponevano di una cifra così alta per poter finanziare la combinazione. “Il tempo di respirare, ma l’operazione deve essere fatta”, scrisse Disraeli alla Regina Vittoria. Il Governo francese non creava ostacoli. Il Duca Decazes, che desiderava vivamente l’appoggio inglese verso la Germania, indusse i banchieri francesi a rinunziare all’opzione. Ma occorrevano quattro milioni di sterline!

«Il giorno della deliberazione del Gabinetto, Montagu Corry, segretario di Disraeli, attendeva nell’anticamera. Il Primo Ministro, sporgendo appena la testa tra i battenti socchiusi, disse: “Sì”. Dieci minuti dopo Corry giunse da Rothschild, che era a tavola, ed al quale comunicò che Disraeli aveva bisogno di 4 milioni per l’indomani. Rothschild, che stava mangiando dell’uva, mise un chicco in bocca, buttò via la buccia e chiese: “Quale garanzia?”. “Il Governo britannico”. “Li avrete”. Subito dopo la conclusione della transazione, Disraeli diresse alla Regina Vittoria la seguente lettera: “Disraeli con i suoi umili ossequi a Sua Maestà: È fatto; le azioni sono vostre, Signora … Quattro milioni di sterline! E quasi immediatamente. Una sola Casa poteva farlo: i Rothschild. Si sono comportati in modo ammirevole; hanno prestato il denaro a un interesse assai basso e tutte le azioni del Khedive sono ora nelle vostre mani, Signora”.

«La cronaca registra che la Regina ne fu felice. Mai Disraeli l’aveva vista così sorridente. Lo tenne a desinare con sé e gli fece mille piccoli complimenti amichevoli.

«Va però notato che la citata lettera di Disraeli contiene due grossolane menzogne. Anzitutto l’Istituto competente per l’esecuzione di simili affari, la Bank of England, era assolutamente in grado di procurare al Governo la somma necessaria, come Gladstone dimostrò ad abundantiam nella sua critica sulla transazione effettuata da Disraeli. In verità il “Premier” non volle far partecipare la Bank of England al lucroso affare, ma piuttosto far incassare milioni all’amico Lionel Rothschild. Disraeli infatti ebbe cura di far accordare dal Governo alla Banca Rothschild quale “commissione” il 2 ½ % del prezzo di acquisto delle azioni, cioè 100.000 sterline. Nel contempo Rothschild si era fatto garantire dal Khedive, che in lui vedeva il suo agente, il 5%, cioè altre 200.000 sterline. In tal modo Rothschild guadagnò complessivamente 300.000 sterline, cioè il 7,50%. Ma poiché il Governo britannico ebbe bisogno del denaro per 2-3 mesi al massimo, Rothschild, auspice il compagno di razza Disraeli, percepì l’interesse del 15%.

«Dieci anni, a partire dal 1859, i francesi guidati da Ferdinando di Lesseps, che si appropriò delle ricerche, delle esperienze e degli studi dell’italiano Luigi Negrelli (1799-1858) di Primiero (Trento), avevano lavorato alla costruzione del canale, superando innumeri difficoltà ed ostacoli frapposti particolarmente dall’Inghilterra. Nel 1869 il Canale fu infatti solennemente inaugurato. Sei anni dopo, per opera di due ebrei, l’Inghilterra s’insediò nell’amministrazione della Compagnia del Canale. Per uno di quegli ebrei, cioè per Rothschild, la transazione avvenuta fu un ottimo affare, per l’altro (Disraeli) fu in un certo senso il coronamento della sua scaltra e sottile politica tendente ad inserire la Gran Bretagna nel Vicino Oriente e quindi ad interessarla alla Palestina, verso cui già si puntavano gli sguardi di Israele» (F. Catalano, Disraeli e il Canale di Suez, «La Difesa della Razza», n. 22, 1942, pp. 14-16. Cfr. anche C. Barduzzi, Un secolo di soprusi giudeo-britannici in Egitto, ivi, n. 19, 1940, pp. 12-17).

Riguardo all’intento di Disraeli di riaffermare il predominio della Gran Bretagna sulla scena europea e al tempo stesso di perseguire una più aggressiva politica imperialistica in Asia, Caroline A. Reed, della Harding University, sottolinea l’importanza della questione del Canale di Suez per le strategie imperialistiche inglesi.

Disraeli era fermamente convinto che l’India fosse completamente territorio della Gran Bretagna, e per raggiungere i suoi obiettivi fece una mossa politica essenziale con l’acquisto delle azioni del Canale di Suez. Il controllo del Canale di Suez era per l’Inghilterra d’estrema importanza dal punto di vista strategico e commerciale, permettendo tra l’altro di accorciare la rotta dalla Gran Bretagna di diverse settimane e quasi 6.000 miglia (C. A. Reed, Disraeli and the Eastern Question: Defending British Interests, «Tenour of Our Times», vol. 5, Spring 2016, pp. 17-38).

Il Canale di Suez era stato aperto nel 1869 sotto la proprietà di finanzieri francesi e del khedive d’Egitto. In seguito all’accordo col khedive, Disraeli ottenne il 44% delle azioni al prezzo di 4.00.000 di sterline, ovverosia 365.289. 693.52 sterline in valuta odierna.

Matthew Hefler, The Suez Canal Purchase and the making of modern Britain, Engelsberg Ideas, 2023 (engelsberg.com), spiega che l’acquisto fu presentato dalla stampa inglese dell’epoca come un successo per gli interessi commerciali britannici. Stando alla copertura mediatica di «The Times» e «Punch», quello che Hefler definisce il colpo di stato imperiale di Disraeli fu popolare soprattutto per ciò che l’impero simboleggiava per la posizione della Gran Bretagna nell’ordine mondiale e come dichiarazione simbolica di forza ai rivali. Vide lontano «The Times» quando scrisse che le azioni del Canale avrebbero costituito una garanzia sulla principale autostrada per l’India, ma vide ancora più lontano Lord Derby, il predecessore di Disraeli, che pure nel suo diario definì l’acquisto universalmente popolare e un successo completo, ma al tempo stesso vi vide il presagio di una «forza di sentimento che potrebbe in certe circostanze assumere la forma di un grido di guerra».

Non si può infine non menzionare quanto dichiarato dal Cancelliere dello Scacchiere Sir Stafford Northcote poco tempo prima dell’acquisto delle azioni:

«Cosa dirò in merito alla connessione fra la nostra politica coloniale e la nostra politica estera? Qual è lo spirito che governa l’Inghilterra e la induce a mantenere e ad aggrapparsi a questo suo grande impero…? È semplicemente uno spirito di egoistica esaltazione? …No. È una politica di aggressione? È una politica che minaccia la pace nel mondo? No, è il contrario di tutto ciò. È una politica del tutto in accordo con quello che credo essere il vero genio dell’Inghilterra. È una politica in accordo con il nostro desiderio di promuovere la pace e la civiltà in tutto il mondo, di portare il commercio, e con il commercio le benedizioni della pace e dell’amicizia in tutto il globo civilizzato».

A questo capolavoro di ipocrisia e menzogna si contrappone tutta la storia dell’imperialismo britannico, caratterizzato esattamente proprio da quello spirito di esaltazione egoistica e da quella volontà di aggressione negati da Northcote.

Una pagina di J. Newsinger, Il libro nero dell’impero britannico cit., illustra egregiamente la questione del Canale di Suez come preludio all’invasione dell’Egitto:

«Il canale di Suez può essere visto come il primo passo lungo la strada della bancarotta e dell’acquisizione dell’Egitto da parte britannica. La sua realizzazione, durata dal 1859 al 1869, costò 16 milioni di sterline, di cui 4 milioni e mezzo a carico degli azionisti e il resto del governo egiziano. Il grosso dei profitti derivanti dall’apertura del Canale andò ciò nonostante agli azionisti e non al governo. Cosa ben peggiore, il governo egiziano dovette prendere in prestito i soldi della propria quota di investimento a condizioni proibitive, tanto che nel 1873 aveva pagato 6 milioni di sterline di soli interessi.

     «Secondo uno storico dell’economia “le difficoltà finanziarie dell’Egitto hanno origine con la costruzione del canale di Suez”: oltretutto, laddove il Canale fu di notevole beneficio al commercio europeo e a quello inglese in particolare, esso “non poteva giovare in alcun modo all’Egitto stesso”. Nel 1876 il governo egiziano aveva contratto prestiti all’estero pari a 68 milioni di sterline e prestiti interni pari a oltre 14 milioni; il debito fluttuante era di 16 milioni di sterline. Un terzo circa delle somme prese in prestito non erano mai effettivamente giunte nelle casse dell’erario egiziano, trattenute dalle banche sotto forma di “sconti e commissioni che erano gonfiate al limite ‒ e oltre il limite ‒ della fraudolenza”.

     «Theodore Rothstein, un marxista autore di un celebre e documentato studio sull’argomento, fornì un utile esempio dei “metodi della finanza moderna” raccontando la storia di un prestito da 32 milioni di sterline che Ismail Pascià contrattò con la banca d’investimento Rothschild nel 1873. I Rothschild trattennero quasi 12 milioni a mo’ di cauzione e, dei 20 milioni effettivamente versati, circa 9 furono sotto forma di obbligazioni, oltremodo sopravvalutate, del debito fluttuante egiziano. Gli egiziani ricevettero meno di metà dell’effettiva somma del prestito, ovviamente dovendo pagare gli interessi sull’intero ammontare. Questa gigantesca frode non viene ricordata dalla maggior parte degli storici». La bancarotta fu evitata «soltanto grazie alla cessione della quota egiziana del canale di Suez proprio ai britannici, per la ridicola somma di 4 milioni di sterline» (pp. 124-125).

Già a suo tempo fu denunciata l’attività ebraico-capitalistica in India, la quale ebbe un gigantesco impulso anche grazie all’azione della British East India Company e al suo ruolo determinante nell’affermazione dell’imperialismo anglo-giudaico nel paese asiatico (R. Frank – A. Toso, Il dominio inglese nell’India. Raccolta curata dal Dr. Agostino Toso, Roma, 1941, pp. 7-14; Ferdinand Gral, L’Inghilterra annette ossia Le conquiste inglesi nelle cinque parti del Mondo, Roma, 1941, pp. 18-25; T. Salvotti, Gli ebrei settari alla conquista dell’India, «La Vita Italiana», aprile 1940, pp. 385-392).

Alla Compagnia, fondata nel 1699 e registrata ufficialmente con Royal Charter nel 1660, fu concesso il monopolio su tutto il commercio e il traffico con le Indie Orientali. In poco tempo crebbe a dismisura sviluppando sempre nuovi mercati in Europa per indaco, salnitro, tè e tessuti indiani.

Ottenuti nuovi monopoli ufficiali come quello del sale, che costituiva l’11% dei ricavi totali della Compagnia, e dell’oppio (15% dei ricavi lordi totali), diede origine ad un circuito globale di scambi tra Gran Bretagna, Cina e India.

Nella seconda metà del XVIII secolo la Compagnia ottenne importanti diritti territoriali dai governanti indiani, ciò che le consentì di assicurarsi una base permanente nel territorio e sviluppare ulteriormente le sue attività commerciali. Sembra che a cavallo del secolo, la Compagnia delle Indie Orientali impiegasse, direttamente o indirettamente, 90.000 britannici. Sulla scia della Compagnia sorsero e si svilupparono in India le prime logge massoniche.

Ma tutto ciò, che a prima vista appare come un innocuo capitolo di storia economica, cela ben altro.

Uno scritto di William Dalrymple apparso sul «The Guardian» (The East India Company: The original corporate raiders, 4 marzo 2015), che riprende in parte l’Introduzione del suo libro Anarchy, dedicato alla storia della Compagnia britannica delle Indie Orientali dal 1599 fino all’inizio dell’Ottocento, ripercorre le fasi salienti dell’operato di questa famigerata Compagnia e i suoi stretti legami con la Corona e con la casta dominante inglese.

Ne emerge un quadro impressionante dell’imperialismo plutocratico britannico.

Già il sottotitolo è tutto un programma: «Per un secolo, la Compagnia delle Indie Orientali ha conquistato, soggiogato e saccheggiato vaste aree dell’Asia meridionale. Le lezioni del suo regno non sono mai state così rilevanti».

La storia della Compagnia ha inizio il 24 settembre 1599, quando «80 mercanti e avventurieri» presentano una petizione alla regina Elisabetta I per avviare una società. L’anno dopo un gruppo di 218 uomini, comprendente il governatore e la compagnia di mercanti che commerciavano con le Indie Orientali, ottengono una carta reale che conferisce loro un monopolio per 15 anni sul commercio con l’Oriente.

La neonata Compagnia delle Indie Orientali è una società per azioni che può emettere azioni negoziabili sul mercato aperto a qualsiasi numero di investitori, un meccanismo in grado di realizzare quantità di capitali molto elevate. Lo statuto prevede che la Compagnia ha il diritto di «fare la guerra» ove necessario.

Essa conosce una rapida ascesa, resa possibile dal catastrofico declino dei Moghul nel XVIII secolo, che portò rapidamente alla disintegrazione dell’impero. Negli anni Sessanta del secolo la Compagnia cessa d’essere una corporazione convenzionale che commercia in sete e spezie, per diventare qualcosa di molto più insolito.

Nel giro di un breve lasso di tempo 250 impiegati della Compagnia diventano i governatori effettivi del Bengala. «Una corporazione internazionale si stava trasformando in un’aggressiva potenza coloniale». Utilizzando un suo esercito privato (cresciuto a 260.000 uomini nel 1803), essa conquista e sottomette rapidamente un intero subcontinente. Invertendo la bilancia commerciale che dall’epoca romana aveva portato un continuo drenaggio di merci occidentali verso l’Oriente, comincia a trasportare oppio in Cina. All’inizio del 1800 è «un impero nell’impero» che si autodefinisce «la più grande società di mercanti dell’universo».

In breve tempo la Compagnia estende il suo dominio e quasi tutta l’India a sud di Delhi è «ormai governata di fatto da una sala riunioni nella City di Londra».

Ma quando si parla della conquista dell’India da parte degli inglesi, aggiunge Dalrymple, questa frase nasconde una realtà più sinistra. «Non fu il governo britannico a impadronirsi dell’India alla fine del XVIII secolo, ma una società privata pericolosamente non regolamentata con sede in un piccolo ufficio, lungo cinque finestre, a Londra, e gestito in India da un sociopatico instabile, Clive».

In quanto società per azioni, la Compagnia è responsabile solo nei confronti degli azionisti, senza alcun interesse per il benessere delle popolazioni locali, per cui il governo della società si trasforma in breve nel semplice saccheggio del Bengala e nel rapido trasferimento delle sue ricchezze verso l’Occidente. Carestia e tassazione danno il colpo di grazia alla provincia. Gli esattori della Compagnia per conto del Governo inglese torturano, derubano, saccheggiano. Enormi ricchezze e tesori vengono trafugati e portati in Inghilterra. Al culmine del periodo, chiosa Dalrymble, c’era un forte senso d’imbarazzo per il modo losco e trafficante in cui gli inglesi avevano agito sino ad allora, ma la propaganda ufficiale inventò il mito di una missione civilizzatrice britannica da Occidente ad Oriente.

Dalrymple sottolinea che il fattore forse più cruciale del successo della Compagnia fu l’appoggio di cui godette da parte del Parlamento britannico. La relazione tra Compagnia e Parlamento nel corso del XVIII secolo si fece sempre più simbiotica, fino a diventare quello che oggi si definirebbe un partenariato pubblico-privato.

L’esempio più emblematico è costituito dallo stesso Robert Clive, il contabile della Compagnia, colui che divenne governatore del Bengala e che stabilì la supremazia politica e militare della Compagnia su Bengala, Bihar e Orissa, gettando le basi del dominio britannico in India: costui tornava regolarmente dall’India come un nababbo e usava le sue ricchezze per comprarsi i membri del Parlamento o un seggio parlamentare, e a sua volta il Parlamento forniva alla Compagnia il sostegno pubblico.

Ma Dalrymble, che accusa per così dire di amnesia storiografica la letteratura ufficiale in quanto ignora tutti i crimini perpetrati dalla Compagnia delle Indie Orientali e dall’imperialismo britannico, è egli stesso vittima di un’altra amnesia non meno grave.

Nelle sue parole c’è bensì tutta la sacrosanta indignazione per le malefatte della Compagnia delle Indie Orientali e dell’imperialismo britannico, ma non c’è una sola parola sul ruolo tutt’altro che insignificante giuocato in tutta questa ignobile faccenda dal capitale ebraico.

Eppure i documenti non mancano (sui rapporti della Compagnia con la massoneria si ritornerà in altra occasione).

Maurice Wolf (Joseph Salvador 1716-1786, «Transactions (Jewish Historical Society of England)» 21 (1962-1967), pp. 104-137) ha illustrato fin nei minimi dettagli, con puntuali riferimenti bibiografici, le implicazioni del capitale ebraico nei traffici della Compagnia, e, di conseguenza, nell’imperialismo britannico, a partire da Joseph Salvador, appartenente ad una ricca famiglia sefardita.

Emigrato dall’Olanda in Inghilterra, Salvador diviene ben presto un importante ed influente uomo d’affari assieme al fratello Jacob.

Dopo la morte del fratello e del padre, ne rileva le azioni della East India Company del valore di 8.500 sterline e successivamente continua nel suo impegno finanziario con la Compagnia. Negli anni opera sotto l’egida della Compagnia come esportatore di coralli in India e importatore di diamanti dall’India, per un importo complessivo di 145.000 sterline.

In questo traffico lucrativo sono impegnati molti ebrei sefarditi di Londra. Salvador, che ora possiede un numero considerevole di azioni della Compagnia ed è in stretti rapporti con Robert Clive, è implicato anche nelle attività politiche dell’India House ed agisce come agente tra il Governo e la Compagnia, anche se non ne diventa direttore (Salvador fu invece direttore della Compagnia Olandese delle Indie Orientali).

In una lettera del 3 agosto 1766 parla della Compagnia britannica delle Indie Orientali come della «our Company».

Ma non il solo Salvador, bensì anche altri esponenti del capitale ebraico inglese erano più o meno implicati nei traffici della Compagnia: Aaron Franks, Serra, Mendes Da Costas, Isaac De Pinto, Henry Isaac, Judah Supino, Abr. De Fonseca, David Levy, Hermann Furhorst etc. (W.J. Fischel, Abraham Navarro – Jewish Interpreter and Diplomat in the Service of the English East India Company (1682-1692), «Proceedings of the American Academy for Jewish Research» 25 (1956), pp. 39-62; 26 (1957), pp. 25-39; Id., The Activities of a Jewish Merchant House in Bengal (1786-1798). A Contribution to the Economic History of London Jews in India, REJ 123 (1964), pp. 433-498).

A tutto ciò si aggiunga che, quando cessa il monopolio della Compagnia, il suo posto nella politica imperialistica predatoria della Gran Bretagna viene preso dai Sassoon, con la sola differenza che la Compagnia disponeva di un esercito privato, mentre i Sassoon per imporre i loro traffici in Cina utilizzarono come sicari lo stesso esercito e la stessa marina britannica.

Ma vi è un’altra cosa importante che Dalrymble dimentica di sottolineare: il ruolo della massoneria nell’edificazione dell’impero britannico e nell’imperialismo anglo-giudaico.

(Anticipando quanto si dirà in altra occasione, qui ci limitiamo a ricordare che Joseph Salvador era anche un massone (“Premier Grand Lodge of London”) (M. Schuchard, Early Jacobite Victories, Later Hannoverian Triumph, 1745-1746, academia.edu), così come massone era Robert Clive (“Lodge Rock  n. 260”) (Freemasonry in India. Extract from World of Freemasonry (2 vols)  Bob Nairn, Lindford Lodge of Research; J.F.G. Golder, Freemasonry in British India 1728-1888, academia. edu). “The Hindu Images” pubblica sul suo sito la foto della sedia donata alla “Lodge of Rock” da Clive, presentato come colui «who established the East India Company rule in India»).

La guerra anglo-boera e il dominio britannico in Sud Africa sono altrettanti esempi emblematici degli intrecci tra imperialismo, capitalismo ebraico e casta dominante inglese.

Il fatto che, come è stato rilevato, circa 200 ebrei della comunità sudafricana, ‒ che peraltro, secondo alcuni studiosi, avrebbero radicalmente rotto con le loro tradizioni passate (D.Y. Sacks, Jews on Commando, jewishge.org; Reflection. The making of a South African Jewish community on the Rand, journals.uclpress.co.uk) ‒ abbiano combattuto lealmente nelle file dell’armata boera contro gli inglesi, nulla toglie al fatto che a scatenare la guerra boera siano stati esclusivamente gli interessi della plutocrazia e dell’imperialismo anglo-giudaico.

Così Carlo Alberto Cremonini ne riassume i tratti salienti:

«Georges Batault, in un suo recente volume: Israël contre les Nations (Paris, Beauchesne, 1939), ha ricordato mediante quali intrighi la finanza ebraica riuscì a provocare, cinquant’anni or sono, lo scoppio della Guerra anglo-boera. l

«A proposito della scoperta, avvenuta nel 1885, delle miniere d’oro del Transvaal, egli scrive: “Vi fu allora, nell’Africa del Sud, una vera e propria invasione di giudei, provenienti, in gran parte, dalla Germania. I boeri, agricoltori e contadini, nutrendo un’istintiva e legittima diffidenza verso quei cercatori d’oro, avventurieri e finanzieri d’ogni risma, si sforzarono di limitarne l’influenza e di ostacolarne i piani” (…)

«Persino Conan Doyle e Rudyard Kipling (che trascorse l’inverno del 1896-97 nel Sud Africa e accompagnò nel 1900 l’esercito inglese, da corrispondente di guerra) dimostrarono di essere sinceramente convinti che lo spirito d’indipendenza dei coloni olandesi rappresentasse un grave pericolo per l’Impero britannico. Anche Winston Churchill, divenuto poi il maggior esponente degli interessi ebraici nel Regno Unito, sostenne la necessità dell’intervento, partecipò alle operazioni militari, fu fatto prigioniero dai boeri, ma riuscì a fuggire, nonostante una taglia di 25 sterline posta sul suo capo.

«Ecco brevemente come si svolsero i fatti.

«L’immigrazione di innumerevoli ebrei di varia origine, ma in gran parte naturalizzati inglesi, non riuscì, come abbiamo accennato, molto gradita ai boeri, che, mantenendosi estranei all’enorme movimento di capitali causato dall’affluenza di tanti forestieri, tentarono di porre un argine all’invadenza eccessiva dei nuovi venuti, con tasse gravose e provvedimenti amministrativi. D’altra parte gli ebrei, che dirigevano le molte imprese sorte nel frattempo per lo sfruttamento delle miniere, cominciarono a pretendere, secondo il loro costume, il riconoscimento di veri privilegi, in nome dei principî di eguaglianza e libertà.

«Sopra tutto (a ciò istigati dall’Alto Commissario inglese della Colonia del Capo, sir Alfred Milner), dopo aver costituito un partito detto dei “riformisti”, cercarono di ottenere la piena cittadinanza della Repubblica transvaaliana, ossia tutti quei diritti politici che fino allora erano stati negati agli stranieri (uitlanders).

«Fra gli amministratori ebrei delle miniere sud africane, due maggiormente si distinsero nel provocare il conflitto a loro esclusivo vantaggio: Alfred Beit a Londra e Lionel Phillips nell’Africa Australe. Il 16 giugno 1894 quest’ultimo scriveva al primo: «Mio caro Beit, naturalmente ciò che noi stiamo per intraprendere deve essere eseguito da intermediari … Occorrerà spendere una forte somma per assicurarci il favore del Parlamento … tuttavia bisogna rammentare che le sovvenzioni elettorali sono considerate, da leggi recenti, come un reato; la faccenda dovrà quindi essere trattata con precauzione».

«All’insaputa del Presidente del Governo del Capo, Cecil Rhodes, e quindi anche del Governo inglese, venne fornito al dottor Jameson, amministratore dei territori della “Compagnia britannica del Sud Africa”, il denaro occorrente per la formazione di un corpo armato di 800 uomini della Polizia a cavallo, destinato ad assalire di sorpresa Johannesburg, partendo dalla Rhodesia, ed a prestare man forte ai “riformisti”, che nel frattempo sarebbero insorti. I rivoltosi avrebbero in seguito marciato su Pretoria, capitale del Transvaal, per dichiaravi decaduto il governo boero.

«Ma contemporaneamente il governo boero fu avvertito dai principali promotori della congiura, che qualche cosa si stava preparando a suo danno. L’impresa del dottor Jameson, iniziatasi il 29 dicembre 1895, fallì perciò miseramente: dopo breve ma vivace combattimento gli uomini di truppa furono fatti prigionieri e consegnati alle autorità inglesi del capo di Buona Speranza, le quali, istruito rapidamente un processo, li rimisero ben presto in libertà.

«Ma la notizia che la colonna guidata da Jameson era già penetrata nel territorio del Transvaal, giunta in Europa, vi aveva frattanto provocato una impressione enorme. Da Berlino il Kaiser spediva a Kruger un telegramma rimasto famoso, mentre a Londra, in Borsa, il valore delle obbligazioni sud-africane subiva un crollo subitaneo.

«Alfredo Beit, informato minutamente dal Phillips circa lo sviluppo degli avvenimenti, con un’audace operazione riuscì a guadagnare, insieme con il suo complice, oltre un milione di sterline. Cecil Rhodes – il “Napoleone del Capo” – ritenuto a torto complice di Jameson, fu costretto a dimettersi; mentre Liones Phillips, scoperto e arrestato, fu condannato a morte, ma riuscì ad evitare la pena capitale, pagando una forte ammenda. Divenuto ricchissimo, nel 1912 fu creato baronetto.

«Il “raid” del dott. Jameson rese inevitabile la guerra, a nulla essendo valsa la grande moderazione dimostrata in tale circostanza dal governo boero; qualsiasi concessione agli “uitlanders” non avrebbe infatti potuto appagare l’Inghilterra, perché le richieste dei “riformisti” erano soltanto un pretesto per giungere all’annessione.

«Quando, nell’ottobre 1899, l’Inghilterra concentrò numerose truppe sulla frontiera dell’Orange, i due Stati afrikanders, uniti da un patto di alleanza concluso nel 1896, chiesero, con un ultimatum, che tali forze venissero ritirate, temendo una nuova invasione. Poiché la risposta del Governo inglese non fu soddisfacente, i boeri preferirono assalire che essere aggrediti e, benché con mezzi assolutamente inferiori, iniziarono senz’altro la guerra, che costrinse la Gran Bretagna a mobilitare oltre 300.000 uomini, con una spesa di sette miliardi e mezzo, e durò 29 mesi, mentre l’opinione pubblica mondiale parteggiava per i boeri ed il prestigio britannico declinava in modo sensibile.

«Il generalissimo boero Joubert, che aveva già battuto gli inglesi a Majuba nel 1881, sconfisse a Colenso il 15 dicembre 1899 le forze avversarie comandate dal generale Buller, il quale fu poi sostituito da Lord Roberts. Questi, disponendo di un maggior numero di armati, vinse la guerra l’anno seguente, occupando dapprima Bloemfontein, capitale della Repubblica di Orange, e poi Pretoria (5 giugno 1900). Ma la lotta riprese ben presto sotto forma di guerriglia, che il successore di Lord Roberts, Lord Kitchener, riuscì a far cessare soltanto dopo due anni, costruendo numerose linee di fortini per le sue truppe e togliendo ai combattenti boeri l’aiuto delle popolazioni, che furono deportate nei campi di concentramento, donne e fanciulli compresi. Nell’aprile del 1902 i generali boeri furono costretti ad arrendersi, firmando il mese successivo, a onorevoli condizioni, la pace di Wareeniging, che riconosceva l’autonomia delle due Repubbliche dell’Africa Meridionale.

«Se la guerra anglo-boera abbia giovato maggiormente all’imperialismo britannico o alla finanza ebraica, possiamo desumerlo da questa constatazione: il monopolio mondiale del commercio dei diamanti appartiene oggidì alla De Beers Consolidated Mines Ltd (capitale sociale 6.250.000 sterline), presieduta a vita da Alfredo Beit. Fra gli altri amministratori di tale Compagnia troviamo, Lord Rothschild, S.B. Joel, rappresentante del gruppo Barnato, sir Carl Meyer, del gruppo A. Goerz & C., sir George Faudel Phillips, H. Mosenthal, M. Breitmeyer e F. Hirschhorn, tutti ebrei.

«Le seguenti società risultano collegate alla De Beers:

«Gruppo Lewis Marks: South Africa Breweriers – Victoria Falls and Transvaal Power;

«Gruppo Albu: Cinderella Consolidated Gold Mines – West Rand Mines;

«Gruppo Dunkelsbuhner: Transvaal Coal Trust – British Cellulose and Chemical;

«Gruppo Samuel: Alliance Assurance – Mogadi Soda;

«Gruppo Sassoon: Hong Kong and Shangai Banking C.;

«Gruppo Jacob Picard & C.: Crome Comp. – Fanti Consolidated Mines – Ottavi Exploration Syndacate – West African Mines.

«Dalla guerra del Transvaal ritrassero ingenti profitti anche alcuni Consiglieri di Amministrazione della London Joint Stock Bank Ltd., potentissimo istituto di credito con un capitale di 500 milioni di sterline (oltre tre miliardi di lire italiane), e precisamente i giudei: sir Edoardo David Stern, A.H. Goschen e sir Sigismondo Neumann. Quest’ultimo sia come proprietario delle seguenti Compagnie: The Treasury Wolhuter – New Modderfontein – Consolidated Witt – Deep Knight – Central Driefontein Deep – African Farms – Cloverfield; sia come forte azionista o amministratore di queste altre: Randfontein Deep – West Rand Consolidated Gold Mines – Rand Mines – East Rand – Proprietary City Deep – Wolhuter Deep – Klip Deep – South Wolhuter – Suburban Banking Corporation Ltd – Premier Diamont C. Ltd , ecc.

«Per il tramite delle suddette imprese un piccolo gruppo di finanzieri israeliti controlla tutte le attività economiche dell’Africa del Sud. Due di essi, Isaac Lewis del gruppo Lewis Marks & C., e M. Chas Rube, del gruppo Breitmeyer, amministrano ben 42 Società per un capitale complessivo di oltre ottantanove milioni di sterline!  E ciò non accade soltanto per il Sud Africa, ma per tutto l’Impero» (C. A. Cremonini, Gli ebrei e la guerra anglo-boera, «La Difesa della Razza», n. 5, 1940, pp. 20-22. Cfr. anche F. Catalano, La potenza giudaica nell’Unione Sudafricana, ivi, n. 11, 1942).

Non furono gli scrittori nazional-socialisti e fascisti i primi a denunciare la potenza ebraica in Sudafrica e le implicazioni del capitalismo giudaico nella guerra anglo-boera.

Claire Hirshfield, The Anglo-Boer War and the Issue of Jewish Culpably, «Journal of Contemporary History» 15 (1980), pp. 619-631, lamenta che tali accuse circolassero già alla fine del XIX secolo, e non solo fra socialisti e marxisti, ma anche da parte di impeccabili liberali con tanto di credenziali umanitarie, i quali attaccavano la finanza e le macchinazioni dei capitalisti ebrei.

Il settimanale «Justice» scrisse che i vari Beit, Barnato e i loro confratelli ebrei miravano ad un impero anglo-giudaico che si estendesse dall’Egitto alla Colonia del Capo, progettato per accrescere le loro già immense fortune.

Il giornale attaccò anche «i signori semiti della stampa», che andavano propagandando una «guerra criminale d’aggressione» per conto dei capitalisti ebrei inglesi.

Per l’autrice tutto ciò naturalmente era frutto del «pregiudizio». Ma nel contempo ella deve ammettere che, grazie alle miniere d’oro e di diamanti, questi capitalisti ebrei erano riusciti a raggiungere una posizione di preminenza nella vita economica sudafricana, e spiega il loro operato con la peregrina giustificazione che costoro avevano pochi legami formali con la comunità ebraica (insomma, non frequentavano la sinagoga!) e perseguivano unicamente i propri interessi economici di classe, spesso addirittura in contrasto gli uni con gli altri. (Si veda anche, della stessa: The British Left and the “Jewish Conspiracy”: A Case Study of Modern Antisemitism, «Jewish Social Studies» 43 (1981), pp. 95-115).

È in questo contesto che l’economista J.A. Hobson, nella sua opera sull’imperialismo (1902), attacca «il piccolo gruppo di re della finanza», tra cui gli esponenti del capitalismo ebraico, le cui operazioni finanziarie sono sempre strettamente connesse alle aggressioni imperialistiche.

I grandi interessi finanziari, scrive, formano il nucleo centrale del capitalismo internazionale.

Questi interessi finanziari, «controllati, per quanto riguarda l’Europa, principalmente da uomini di una razza particolare», sono in una posizione unica per manipolare la politica delle nazioni.

«Qualcuno pensa davvero che uno Stato europeo potrebbe iniziare una grande guerra, o che un cospicuo finanziamento statale potrebbe venir sottoscritto se la casa Rothschild e le sue associate vi si opponessero? (…) La ricchezza di queste aziende finanziarie, l’ampiezza delle loro operazioni e la loro organizzazione cosmopolita fa di loro i principali determinanti della politica imperialista. Essi hanno gli interessi maggiori negli affari economici dell’imperialismo, e hanno anche i mezzi per piegare al loro volere la politica delle nazioni»  (J.A. Hobson, L’imperialismo, Roma, 1996, pp. 95, 96, 97).

Non c’è guerra, aggiunge Hobson, che non sia utile a queste «arpie», e la guerra boera è un esempio emblematico di tutto ciò. Per i finanzieri la spedizione di Jameson fu un colpo molto vantaggioso, e a maggior ragione lo fu la guerra boera: «Le terribili sofferenze dell’Inghilterra e del Sud Africa nella guerra che seguì l’incursione sono state una fonte di immensi profitti per i grandi finanzieri» (p. 96).

Questi uomini sono gli unici che hanno certamente guadagnato dalla guerra, e la maggior parte dei loro guadagni proviene dalle perdite pubbliche dei loro paesi o dalle perdite private dei loro concittadini.

Lo scopo che Cecil Rhodes si attribuiva come chiave della sua politica era “combinare il commercio con l’immaginazione”.

«Questa combinazione è comunemente descritta dalla parola “speculazione”, una parola il cui significato diventa più sinistro quando la politica e gli affari privati sono così inestricabilmente legati come erano nella carriera di Rhodes, che usò il legislativo della Colonia del Capo per sostenere e rafforzare il monopolio di diamanti di De Beers, mentre da De Beers faceva finanziare l’incursione, corrompere gli eletti della Colonia del Capo, e comperare la stampa pubblica in modo da organizzare la guerra che doveva procurargli il pieno possesso della sua grande “preoccupazione”, il Nord» (p. 189).

Ma già due anni prima, Hobson (The War in South Africa. Its Causes and Effects, London, 1900) aveva denunciato il ruolo del capitalismo anglo-giudaico nella guerra boera.

Nel cap. 1 della Seconda Parte (For whom are we fighting?, pp. 189 sgg.) l’autore sostiene che è difficile affermare la verità sulle azioni degli inglesi in Sud Africa senza essere tacciati di antisemitismo. Tuttavia, un resoconto chiaro delle forze economiche operanti nel Transvaal è essenziale per comprendere appieno lo stato dell’arte.

Non è esagerato affermare che una piccola cerchia di finanzieri internazionali, tra cui non pochi ebrei, controlla le risorse economiche più preziose del Transvaal. Le miniere d’oro del Rand sono quasi interamente nelle loro mani.

Hobson enumera le principali società con i rispettivi capitali nominali e sottolinea gli intrecci ebraico-capitalistici tra i vari Rothschild, Beit, Barnato, De Beers, Rhodes etc., e la loro preminenza nella Borsa, nella stampa e nella politica.

Tutto ciò, conclude, getta una chiara luce sulla vera natura del conflitto in Sud Africa:

«Stiamo combattendo per mettere al potere a Pretoria una piccola oligarchia internazionale di proprietari di miniere e speculatori» (p. 197).

Dal momento che non può negare il forte coinvolgimento del capitale ebraico nella guerra boera e nel predominio anglo-giudaico in Sud Africa, la narrazione ufficiale cerca perlomeno di minimizzarlo.

È questo anche il caso di Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo cit., pp. 279 sgg., la quale consente che la guerra «era stata patrocinata dagli investitori stranieri che chiedevano al governo la protezione dei loro enormi profitti nei paesi remoti», che questi finanzieri «erano in maggioranza ebrei» (i Barnato, i Beit, i Sammy Marks), i quali «assunsero la figura di rappresentanti dell’imperialismo nel suo periodo iniziale, pur non essendone alla fine il fattore decisivo», e che costoro erano totalmente privi di scrupoli, ma si affretta a sottolineare che la loro mancanza di scrupoli avevano gettato nella «costernazione» (sic!) le vecchie solide famiglie ebree, che erano state quindi felicissime quando qualcuno di essi aveva deciso di trasferirsi oltremare.

Vi immaginate la vecchia solida famiglia Rothschild, questa sì colma di scrupoli, salutare costernata, ma con entusiasmo, il trasferimento oltremare dei vari cattivi Barnato, Beit e Sammy Marks?

Peccato che uno dei più brutali imperialisti “totalmente privi di scrupoli” come il massone Cecil Rhodes fosse sostenuto proprio dai Rothschild, ed uno dei capitalisti ebrei “totalmente privo di scrupoli” come Alfred Beit, avesse stretti legami con i Rothschild!

A tutte queste scemenze storiografiche ha replicato egregiamente, sulla scorta di una bibliografia puntuale, Mark Weber, The Boer War Remembered, «The Journal of Historical Review», May-June, 1999, vol. 18, n. 3, pp. 14-27.

L’autore ricostruisce le fasi salienti della guerra boera, ma soprattutto pone l’accento sugli attori che ne furono protagonisti dietro le quinte, su cui qui ci soffermiamo.

Fu la scoperta dell’oro a Witwatersrand nel Transvaal nel 1886 che pose fine all’isolamento boero e rappresentò una minaccia mortale al sogno di libertà della giovane nazione dal dominio straniero.

Come una calamita, i ricchi giacimenti auriferi attirarono frotte di avventurieri e speculatori stranieri. Weber cita lo studio magistrale The Boer War dello storico britannico Thomas Pakehham, il quale rivelò dettagli prima sconosciuti sulla cospirazione di funzionari britannici e finanzieri ebrei per far precipitare il Sudafrica nella guerra.

Tra di essi, il noto capitalista inglese Cecil Rhodes (massone) ed una schiera di capitalisti ebrei che, assieme a lui, avrebbero svolto un ruolo decisivo nel fomentare la guerra boera.

Uno dei primi capitalisti ebrei ad aver avuto un ruolo importante negli affari sudafricani fu Barney Barnato (già Barnett Isaacs), che nel 1887 presiedeva un enorme impero finanziario-commerciale sudafricano di diamanti e oro, e che l’anno dopo si unì a Rhodes nella gestione dell’impero De Beers, il quale controllava tutta la produzione sudafricana di diamanti, e quindi il 90% della produzione mondiale, nonché una grande quota della produzione mondiale di oro.

Nel XX secolo il cartello di diamanti De Beers passò sotto il controllo della dinastia ebraico-tedesca degli Oppenheimer, che controllava anche il suo gemello minerario dell’oro, la Anglo-American Corporation. Con il suo monopolio mondiale sulla produzione e distribuzione dei diamanti e di gran parte della produzione mondiale di oro, questa famiglia ebrea miliardaria ha governato un impero finanziario di ineguagliabile importanza globale.

Il potere e l’influenza degli Oppenheimer in Sudafrica erano tali che gareggiavano con quelli del governo ufficiale.

Negli anni 1890 la più potente casa finanziaria era la Wernher, Beit & Co., controllata e gestita dallo speculatore ebreo tedesco Alfred Beit, su cui Rhodes faceva affidamento per acquisire e consolidare il suo grande impero finanziario-commerciale per via degli stretti legami che Beit aveva con i Rothschild e la Dresdner Bank.

Come ha rimarcato Pakenham, gli «alleati segreti» di Alfred Milner, l’Alto Commissario britannico per il Sudafrica (massone), erano gli «intrusi dell’oro» di Londra, in particolare i finanziatori della più grande di tutte le società minerarie del Rand, la Wernher-Beit.

Assieme al capitalista ebreo inglese Lionel Phillips, Beit controllava anche la H. Eckstein & Co., il più grande consorzio minerario sudafricano, e cercava di influenzare la politica prodigandosi in decine di migliaia di tangenti.

Delle sei maggiori società minerarie, quattro erano in mano agli ebrei.

Weber si sofferma poi sulle trame ordite dal capitalismo anglo-giudaico per fomentare disordini e favorire l’aggressione imperialistica britannica, fino allo scoppio della guerra boera, con tutta la sequela di atti di barbarie perpetrati dagli inglesi che ne fecero da corollario.

Per ulteriori ricerche sul modello di quella di Mark Weber, sono utilissimi strumenti di lavoro, ricchi di dati e riferimenti bibliografici: G. Blaney, Lost Causes of the Jameson Raid, «The Economic History Review» 18 (1965), pp. 350-366; D.J.N. Denoon, “Capitalist Influence” and the Transvaal Government during the Crown Colony Period, 1900-1906, «The Historical Journal» 11 (1968), pp. 301-331; Id., Capital and Capitalists in the Transvaal in the 1890s and 1900s, ivi, 23 (1980), pp. 111-131; R.V. Kubicek, The Randlords in 1895: A Reassessment, «Journal of British Studies» 11 (1972), pp. 84-103; I. Phimister, Markets, Mines, and Magnates Finance and the Coming of War in South Africa, 1894-1899, «Africa» 2 (2020), pp. 5-22.

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