Geografia dell’Apocalisse

GEOGRAFIA DELL’APOCALISSE

Nel suo capolavoro La città di Dio, Sant’Agostino ha espresso sull’Apocalisse la seguente considerazione:

“Nell’Apocalisse vi sono veramente molti passi oscuri per esercitare la mente di chi legge, ma ve ne sono altri la cui evidente chiarezza permette – come se fossero le tracce di una pista – di scoprire, sia pure con sforzo, anche quelli oscuri, specialmente perché Giovanni ripete tante volte le stesse cose in modo che sembra che dica cose diverse, mentre invece si comprende che parla sempre delle medesime, in modo differente”[1].

A questo proposito, per provare a fare ulteriore luce sull’Apocalisse, ho pensato di evidenziare le implicazioni geografiche dei punti di riferimento forniti da Giovanni. In altre parole, vorrei verificare se è possibile associare dei luoghi fisici concreti a certi versetti dell’Apocalisse. Qualche lettore si domanderà il motivo di questo mio intendimento. Rispondo facendo notare che i luoghi dell’Apocalisse sono stati spesso sottovalutati, per non dire snobbati, dagli studiosi. C’è stato addirittura chi ha sostenuto che quelle alle sette chiese dell’Apocalisse sono lettere fittizie, negando pertanto il legame di tali oracoli con le città dell’Asia Minore menzionate da Giovanni. Pertanto, ritengo necessaria una lettura che presti attenzione alle località che emergono dalla narrazione del sacro testo. A tale scopo, utilizzerò i commenti di due autori che si sono dimostrati fin qui davvero preziosi: Kenneth Gentry e il prof. Edmondo Lupieri.

Cominciamo proprio dalle lettere alle sette chiese. Scrive Gentry:

L’Apocalisse menziona chiaramente sette chiese cristiane esistenti in antiche città conosciute, il che è in linea con l’approccio preterista (storico) all’Apocalisse. Giovanni registra specifici nomi di città: Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatira, Sardi, Filadelfia e Laodicea. […] Questi non sono nomi simbolici, come quelli che compaiono in altri luoghi dell’Apocalisse (ad esempio Sodoma, 11, 8; Babilonia, 14, 8); si tratta di città ben note che esistevano nel primo secolo. In realtà, tre di esse vengono specificamente menzionate altrove nel Nuovo Testamento come sedi di comunità cristiane: in particolare Efeso (Atti 18, 19ss.; 19, 1ss.; 1Co 15, 32; 16, 8; Efesini 1, 1; 1Ti 1, 3; 2Ti 1, 18; 4, 12), ma anche Tiatira (Atti 16, 14) e Laodicea (Col 2, 1; 4, 13, 16)[2].

Efeso. Efeso era la città più vicina a Patmos, da dove Giovanni scrive. Le altre sei città si trovavano tutte entro un raggio di circa centosessanta chilometri da Efeso, e ciascuna distava uno o due giorni di cammino rispetto all’altra. Secondo Gentry, questi sette centri vennero scelti a quanto pare per due ragioni:

  • Cristo vuole che queste sette chiese rappresentino tutte le chiese, essendo il sette il suo numero favorito nell’Apocalisse.
  • Queste particolari chiese erano eccellenti centri di comunicazione per l’intera Asia Minore. Per quanto riguarda Efeso, la prima delle sette città di Giovanni, sappiamo che la rete stradale era tale da rendere questa città la più facilmente accessibile da tutte le zone dell’Asia.

Efeso viene frequentemente menzionata nel Nuovo Testamento, non solo nell’Apocalisse. Era ubicata sul fiume Caistro, a circa centodieci chilometri di distanza da Patmos. Distava circa settanta chilometri da Smirne, la città successiva dell’elenco, e circa centosessanta chilometri da Laodicea, l’ultima città. Apprendiamo da Wikipedia, che “Efeso era fornita di un importante scalo portuale, sbocco delle principali vie carovaniere dell’Asia. Durante il regno di Ottaviano Augusto, Efeso divenne la capitale della provincia romana nell’Asia Minore, sede del prefetto romano e si trasformò in una metropoli centro di commerci con più di 200,000 abitanti”. Fu estremamente importante nella prima diffusione del cristianesimo sotto l’apostolato di Paolo. Paolo non solo vi svolse il suo apostolato per tre anni (Atti 19,8-10; 20,31), ma utilizzò Efeso come base centrale per la promozione del Vangelo in Asia Minore (At 18,19-20,38). Lì, la sua attività condusse alla fondazione delle chiese di Laodicea e di Gerapoli (Colossesi 4, 13). Nell’oracolo destinato alla Chiesa di Efeso, l’Apocalisse menziona (2, 7) quello che Lupieri traduce come “legno della vita”. Si tratta chiaramente dell’albero del paradiso terrestre. Secondo Gentry, il predetto versetto potrebbe costituire un’allusione all’albero sacro che nell’antichità veniva venerato nel tempio di Artemide a Efeso, albero sacro citato, tra gli altri, dal poeta Callimaco (Inno ad Artemide)[3].

Smirne. La città di Smirne dista da Efeso circa settanta chilometri mentre dista da Pergamo circa cento chilometri. Oggi esiste come la moderna città di Izmir, in Turchia. Nel 198 avanti Cristo, Smirne divenne la prima città dell’Asia ad erigere un tempio alla dea Roma. Nell’Anno Domini 23 le fu concesso il permesso di erigere un tempio a Cesare Augusto e a sua madre. Nell’anno 26, l’imperatore Tiberio designò Smirne come la custode del tempio per il culto di Tiberio. Questo ci fornisce l’importante contesto del culto imperiale dell’Apocalisse. Nel primo secolo la città aveva da 100,000 fino a, forse, 250,000 persone. Importante per l’Apocalisse e per il suo focus sanzionatorio contro Israele è il fatto che, come Efeso, Smirne “aveva una numerosa popolazione ebraica che avversava i cristiani in modo virulento”[4]. Ciò è evidente nel versetto 2, 9, dove leggiamo la forte condanna da parte di Cristo della sinagoga ebraica quale “sinagoga di Satana”. Cristo promette ai cristiani di Smirne “la corona della vita” (2, 10), forse alludendo al famoso profilo di Smirne, costruita su una collina fiancheggiata da portici e da templi. Apollonio Rodio parla della “corona di portici” di Smirne. Le monete di Smirne mostrano la dea di Smirne con una vistosa corona[5].   

Pergamo. Pergamo è un’antica città dell’Asia Minore, nell’Eolide (verso il sud-est della Troade e sud della Misia; e verso il nord dell’Ionia e nord-ovest della Lidia), posta a poca distanza dalla costa del Mar Egeo, su una collina (l’Acropoli di Pergamo) che costituisce la principale località archeologica dell’area. La città attuale è nota col nome di Bergama (provincia di Smirne, in Turchia)[6]. A quanto pare, Pergamo era densamente popolata da ebrei. Possiamo dedurlo dal resoconto di Giuseppe Flavio di un decreto di Pergamo del II secolo a.C. che menziona gli ebrei (Antichità giudaiche 14:10:22 §247-255). Ciò è suggerito anche dal fatto che nel 62 a.C. il governatore romano Lucio Valerio Flacco confiscò circa 100 libbre d’oro inviate dagli ebrei della zona al tempio di Gerusalemme. Si tratta di un’enorme quantità di ricchezza, a dimostrazione del gran numero di ebrei fedeli nella zona. Pergamo fu la prima città dell’Asia Minore ad erigere un tempio a Cesare Augusto, costituendosi perciò come la prima e principale rappresentante asiatica del culto imperiale. Di conseguenza, “il culto imperiale aveva dunque il suo centro a Pergamo”, tanto che “qui risiedeva il potente sacerdozio dedito al culto imperiale” (Charles). Questo tempio fu eretto su una collina maestosamente sporgente che dominava la città e veniva orgogliosamente raffigurato sulle monete. Accanto a questo tempio si trovavano templi dedicati a Zeus, Atena, Dionisio e ad altri dei e dee. Data la significativa presenza del culto imperiale qui (e di tutti questi altri santuari pagani), insieme al fatto che Pergamo era la capitale della provincia, “non dovremmo, quindi, spiegare con questo primato nel culto degli imperatori l’affermazione in Apocalisse 2, 13, che ‘il trono di Satana’ è a Pergamo? La città era ancora ufficialmente la capitale della provincia e, soprattutto, era riconosciuta come il centro principale del culto imperiale”[7].

Tiatira. Oggi conosciuta come Akhisar, in Turchia, Tiatira si trovava a circa ottanta chilometri a sud-est di Pergamo, sulla strada per Sardi. Abbiamo resti archeologici della città con numerose iscrizioni che menzionano varie corporazioni. La prima convertita di Paolo, Lidia, era una commerciante di porpora di Tiatira (At 16, 14-15). La città era nota per la sua tintura e per i suoi prodotti in porpora, nonché per le sue influenti corporazioni legate al tessile, alla lavorazione dei metalli e ad altre industrie. Poiché Lidia era una “adoratrice di Dio”, è possibile che in precedenza fosse stata una gentile convertita all’ebraismo, il che implica che lì vi fosse una colonia di ebrei. Questa città era notevole per il fatto che “a Tiatira si conoscono più corporazioni di mestieri che in qualsiasi altra città asiatica”[8]. Tale realtà presentava dei problemi per i cristiani, a causa dei cibi sacrificali idolatri associati alla vita delle corporazioni. Di qui, l’ammonimento di Cristo contro “il mangiare idolotiti” (2, 14).

Sardi. La distanza tra Sardi (città antica) e Smirne è di 122 chilometri. La distanza tra Sardi (città antica) e Tiatira è di 75 chilometri. Sardi ebbe un passato glorioso come capitale del regno di Lidia nel VII secolo avanti Cristo. Apprendiamo da Wikipedia che questa città viene citata esplicitamente per la prima volta nella tragedia di Eschilo intitolata “I Persiani”. In epoca romana, sotto l’imperatore Tiberio fu distrutta da un terremoto ma venne ricostruita, continuando ad essere una delle grandi città dell’Asia Minore bizantina. Aveva una grande comunità ebraica che datava dal quinto o quarto secolo avanti Cristo. A causa di ciò, “la città fu un centro importante, e forse molto antico, della diaspora ebraica”, il che fece di Sardi un luogo di “indiscutibile importanza” per gli ebrei. Disponiamo di “abbondanti prove extra-bibliche sulla loro presenza” qui[9]. Flavio Giuseppe cita due importanti documenti politici che mostrano un’eminente presenza ebraica a Sardi insieme alla protezione di cui gli ebrei godettero da parte dei romani (Antichità giudaiche 14: 10:17 §235; 14:10:24 §259-261). A ovest di Sardi si trova una necropoli, un “grande cimitero antico”, che era “imponente e stranamente magico se visto dalla città di Sardi”. Questa caratteristica degna di nota di Sardi probabilmente costituisce lo sfondo locale del rimprovero di Cristo alla Chiesa quando lamenta: “Conosco di te le opere, poiché hai nome che vivi, e sei morto” (3, 1c)[10].

Filadelfia. Questa città è menzionata nel Nuovo Testamento solo nell’Apocalisse (1, 11 e 3, 7). Era situata circa quarantasei chilometri a est di Sardi e circa centotrenta chilometri a est di Smirne. La moderna città di Alasehir, in Turchia è ubicata sul sito dell’antica Filadelfia. Sembra essere stata la più recente delle sette città menzionate dall’Apocalisse, probabilmente fondata intorno al 138 avanti Cristo da Eumene II di Pergamo o da suo fratello Attalo Filadelfo. Purtroppo, il sito antico non è mai stato scavato, lasciandoci nell’oscurità riguardo a gran parte della sua storia. Sebbene non abbiamo prove archeologiche di una forte comunità ebraica lì, è evidente dall’oracolo stesso che gli ebrei vi erano influenti. In effetti, erano importanti al punto tale da costituire un pericolo per i cristiani.

Laodicea. Nel Nuovo Testamento, Laodicea è menzionata nella lettera ai Colossesi di San Paolo come pure nell’Apocalisse. La città fu sede di una numerosa comunità ebraica e, quindi, fu oggetto della predicazione di san Paolo e destinataria della predetta lettera. Laodicea distava centosessantacinque chilometri da Efeso e meno di venti chilometri da Colossi. Verso la fine del primo secolo avanti Cristo, Laodicea diventò una città ricca che “crebbe rapidamente di importanza, al punto da rivaleggiare e poi sorpassare la confinante Colossi”[11]. In effetti, “se uno dovesse elencare le città più ricche dell’Asia durante i primi due secoli… Laodicea certamente figurerebbe nell’elenco”[12]. Gran parte della sua ricchezza era dovuta al fatto di essere un centro finanziario (Strabone, Geografia 12:8:16), come pure al suo essere situata su una delle due rotte commerciali nella provincia orientale (Frigia) da ovest. Inoltre, era nota per la sua lana di un colore nero intenso e per la produzione di indumenti, che generava notevoli entrate: “i Laodicesi ne ricavano ingenti entrate” (Strabone, Geografia 12:8:6). Nei versetti 3, 15-16 Cristo rimprovera la chiesa di Laodicea perché “non sei né gelido né ardente” bensì “tiepido”. Questo riflette una caratteristica notevole della zona, in quanto “Laodicea fu costruita su un sito scelto esclusivamente per la sua posizione su un importante incrocio stradale. Era priva di un approvvigionamento idrico naturale, poiché non vi erano sorgenti sul sito e il fiume Lico si prosciugava d’estate. Evidentemente doveva attingere l’acqua da una sorgente situata a sud, poiché il tratto terminale di un acquedotto proveniente da quella direzione è ancora esistente. Consiste in due condotte di pietra, fortemente ostruite da materiale minerale simile a quello depositato dalle sorgenti termali di Hierapolis, a poche miglia di distanza”[13]. La vicina Colossi (circa 13 km a sud-est), tuttavia, disponeva di acqua fredda, eccellente e potabile. Laodicea doveva attingere l’acqua da Gerapoli tramite un acquedotto in pietra, ma poiché l’acqua era calda, al suo arrivo a Laodicea era tiepida. Pertanto, “tale acqua non sarebbe stata né terapeuticamente calda né rinfrescante”, quindi erano preferibili le acque calde e medicinali di Gerapoli o le fredde acque potabili di Colossi. Come accennato in precedenza, Laodicea era anche una città piuttosto ricca. Disponeva di risorse tali da potersi ricostruire senza l’aiuto imperiale dopo un violento terremoto nel 60 d.C. Tacito (Annali 14, 27) scrive: “Una delle città più famose dell’Asia, Laodicea, fu distrutta nello stesso anno da un terremoto e, senza alcun soccorso da parte nostra, si ricostruì con le proprie risorse”. Cristo allude a questo orgoglio locale quando li rimprovera: “Voi dite: ‘Sono ricco e non manco di nulla’” (3, 17). Li incoraggia anche a “ungere i tuoi occhi con collirio, così che tu veda” (3, 18), un’allusione alla locale scuola medica. Ciò è particolarmente significativo in quanto “troviamo prove circostanziali considerevoli” che un collirio venisse prodotto proprio in questa città[14].

Conclude Gentry:

“Dobbiamo tenere presente, tuttavia, che una tale consapevolezza del contesto e della cultura di ciascuna città non implica che i messaggi alle chiese siano assolutamente limitati a quelle singole congregazioni. Ogni proclamazione contiene un’esortazione al plurale: “Chi ha orecchio ascolti che cosa lo Spirito dice alle chiese” (2, 7, 11, 17, 29; 3, 6, 13, 22). Infatti, il versetto 2, 23 menziona espressamente “tutte le chiese”. Per la maggior parte, le lettere del Nuovo Testamento erano epistole occasionali che trattavano di questioni locali specifiche (la lettera agli Efesini potrebbe essere un’eccezione degna di nota), pur consentendo un’applicazione più ampia. Inoltre, la scelta di queste chiese specifiche sembra essere almeno in parte dovuta a ragioni strategiche: le sette città erano importanti centri di comunicazione per la diffusione del messaggio in tutta la regione”[15].

Personalmente, concordo con Gentry, come pure mi trovo d’accordo con quanto affermò a suo tempo l’esegeta preterista Milton Terry:

L’intero libro [dell’Apocalisse] ha lo scopo di confortare e di incoraggiare la chiesa di quel primo periodo: la chiesa apostolica”[16].

Non così la pensava il prof. Eugenio Corsini. Secondo lui, le lettere alle sette chiese dell’Apocalisse non sono vere lettere ma rappresentano invece un “vero e proprio compendio di storia della salvezza”[17], dalla caduta di Adamo (lettera a Efeso) fino al giudaismo contemporaneo di Gesù che Giovanni stigmatizzerebbe nella lettera a Laodicea. In particolare, secondo Corsini, “ciascuna lettera si riferirebbe a un episodio o a un periodo della cosiddetta «storia sacra», che a un certo punto viene a coincidere con la storia religiosa del popolo ebraico, narrata in tutto l’arco dell’Antico Testamento. Seguendo questa chiave di lettura, la lettera a Smirne rifletterebbe la situazione di persecuzione e di povertà sperimentata dagli ebrei durante la loro permanenza in Egitto. La lettera a Pergamo alluderebbe alla permanenza degli Ebrei nel deserto dopo la liberazione dall’Egitto, mentre la lettera a Tiatira adombrerebbe il regno di Salomone. Così anche la lettera a Sardi e la lettera a Filadelfia sarebbero un’eco di periodi storici veterotestamentari: rispettivamente, la distruzione dei due regni di Israele e di Giuda e il periodo del ritorno dall’esilio.

Quello che non mi convince nell’impostazione di Corsini è che la sua lettura finisce per obliterare la gravità e soprattutto l’urgenza degli ammonimenti rivolti da Cristo alle sette chiese. Quelli di Cristo infatti sono ammonimenti a breve termine (2, 16: “vengo da te presto”; 3, 11: “vengo presto”) che si spiegano con la situazione di imminente persecuzione che le chiese descritte da Giovanni stavano per sperimentare. Quindi gli appelli contenuti in queste lettere sono reali e non fittizi, a differenza di quanto risulterebbe seguendo Corsini.

Veniamo ora al rotolo “sigillato con sette sigilli” del capitolo quinto. Secondo Gentry, si tratta del certificato di divorzio con il quale Dio e l’Agnello ripudiano l’Israele infedele che ha fatto uccidere il Messia Gesù. Una tesi che condivido e di cui ho già parlato in precedenza. Qui, mi limito a riassumerla per sommi capi. Nell’Antico Testamento la relazione tra Dio e Israele viene frequentemente descritta come analoga a quella che intercorre tra marito e moglie. Esiste infatti un’analogia tra il patto tra Jahve e Israele e i contratti matrimoniali: la metafora del “matrimonio” tra Dio e il suo popolo si trova con particolare frequenza nei profeti. Ma l’Israele storica ha infranto il patto crocifiggendo Gesù e perseguitando i suoi discepoli. Di qui il ripudio da parte di Dio, un ripudio del resto già profetizzato più volte da Gesù nei Vangeli. Ma questo i miei lettori già lo sanno. Parlando però di geografia dell’Apocalisse, troviamo proprio nel capitolo 6 del libro di Giovanni un riferimento alla “terra” intesa in senso specifico: la Terra di Israele. Per i profeti veterotestamentari, infatti, non solo il popolo ebraico ma la stessa terra promessa viene ritenuta “sposata” con Dio. Leggiamo il versetto di Isaia 62, 4:

“…e la tua terra (sarà chiamata) «Sposata», perché Jahve si è compiaciuto in te, e la tua terra sarà sposata. Come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà il tuo creatore”[18].

Chiosa a tal proposito il noto esegeta Giuseppe Ricciotti:

È l’idea comunissima presso i profeti, che il Dio Jahve è lo sposo spirituale della nazione ebraica”.

Ma se Gentry ha ragione – e io penso che abbia ragione – nel vedere nel predetto rotolo il libello di divorzio di Dio contro la nazione ebraica, allora la “terra” menzionata nel capitolo 6 (settenario dei sigilli) – e nei settenari delle trombe e delle coppe –  è necessariamente la terra di Israele. Inoltre, il settenario dei sigilli è strettamente legato al discorso “escatologico” di Gesù riportato dai Vangeli sinottici, e sappiamo già che tale discorso riguarda innanzitutto la fine di Gerusalemme.

Sorvolo sugli “abitanti della terra” parimenti nominati nel capitolo 6 (e sui “re della terra”) di cui mi sono occupato a suo tempo; qui, mi limito a ricordare che tali espressioni hanno anch’esse un significato locale: si tratta degli ebrei che abitavano la Palestina nel primo secolo. In particolare, l’espressione “re della terra” designa, secondo Gentry, l’aristocrazia religiosa giudaica.

Ma torniamo al significato della parola “terra” (gē). Ad esempio, ecco come ricorre tale espressione nel versetto 8, 5:

E l’angelo prese l’incensiere e lo riempì del fuoco dell’altare dei sacrifici e lo gettò sulla terra, e furono tuoni e voci e lampi e sismo”.

Anche qui, la “terra” in questione è la terra di Israele, non il pianeta terra. il focus di Giovanni nell’Apocalisse è infatti prevalentemente “la casa di Israele, e in particolare la Giudea”[19]. A questo proposito, Gentry fa rilevare il seguente dato statistico:

La parola gē ricorre ottantadue volte nell’Apocalisse, quasi un terzo delle volte in cui ricorre nell’intero Nuovo Testamento (250x). La traduzione ‘la Terra’ [di Israele] dovrebbe comparire più frequentemente di quanto non avvenga nella maggior parte dei commentari”[20].

Nel suo commento all’Apocalisse, Gentry ha anche approntato una tabella sulle occorrenze del vocabolo “gē” nel testo di Giovanni, da cui si evincerebbe che tale vocabolo assume il significato di “Terra” (di Israele) nel 64% dei casi, mentre non lo assume nel 29% dei casi (rimane un 6% in cui il significato è incerto)[21].

Che il focus dell’Apocalisse riguardi innanzitutto la Terra di Israele è poi confermato dai versetti 14, 19-20:

“E gettò l’angelo la sua falce sulla terra e vendemmiò la vite della terra e gettò le uve nel tino dell’ira di Dio, quella grande. E fu calpestato il tino, fuori della città, e uscì sangue dal tino fino alle briglie dei cavalli, per mille seicento stadi”.

Gentry fa notare che:

Secondo l’Itinerarium (scritto intorno all’Anno Domini 200) di Antonio da Piacenza, la lunghezza della Palestina è di 1664 stadi. Così, la distanza è approssimativamente la lunghezza della Palestina da nord a sud”[22].

Sulla valutazione riguardante la cifra dei milleseicento stadi, il prof. Edmondo Lupieri concorda:

anche questa cifra sembra indicare Israele. Is. 63, 6 presenta Dio che «calpesta» le genti e dichiara di fare «scorrere per terra il loro sangue»; Giovanni sembra voler dare la misura di tale «terra», così da chiarire di chi e di cosa egli stia parlando. La critica ha osservato, infatti, che «mille seicento stadi» era ritenuta la lunghezza di Israele (Bauckham 1993, p. 48 con rinvii). La riprova dell’esistenza di una speculazione giudaica sulle dimensioni di Israele o di Gerusalemme che aveva come fondamento il numero 1600 (centuplo del quadrato di 4, doveva prestarsi bene a indicare una misura di superficie o di lunghezza, date le 4 direzioni della terra o i 4 lati del muro del tempio e/o di Gerusalemme), viene ora dal Rotolo del Tempio. In esso la lunghezza del muro esterno della città escatologica è appunto espressa in «mille seicento cubiti» … Il numero, quindi, spinge a interpretare «la città» con Gerusalemme e i «calpestati» dall’«ira» con i giudei”[23].

Quella dei predetti versetti è un’immagine iperbolica che profetizza l’enorme dispendio di sangue e le immani distruzioni che caratterizzarono la Guerra giudaica. Così il preterista David Chilton ne riassume il significato:

I fiumi di sangue che scorrono diventano un grande Mar Rosso, che raggiunge ‘le briglie dei cavalli’ in una ricapitolazione del rovesciamento dei cavalli e dei carri del Faraone (Esodo 14, 23, 28; 15, 19)”[24].

I settenari dei sigilli, delle trombe e delle coppe focalizzati sulla rovina della Terra di Israele costituiscono appunto quella “ripetizione delle medesime cose in modo differente” di cui parlava Sant’Agostino.

C’è poi un’altra considerazione da fare riguardo al versetto 14, 20: la menzione del tino dell’ira di Dio che viene calpestato fuori della città. A me sembra un chiaro riferimento al fatto che il luogo della crocifissione di Gesù si trovava appunto fuori della città (Giovanni 19, 20). Si tratta quindi, nella mente del veggente di Patmos, di un divino contrappasso che va a ricadere sulla nazione giudaica colpevole del deicidio.

Ometto in questa sede di prendere in considerazione il riferimento dell’Apocalisse al “grande fiume Eufrate”[25], se non per dire che nella Bibbia l’Eufrate costituisce la frontiera settentrionale della Palestina: un altro indizio che i castighi dell’Apocalisse riguardano in primo luogo Israele.

Tralascio parimenti di occuparmi qui dell’importantissimo versetto 11, 8 (quello che designa la città di Gerusalemme con i nomi di “Sodoma ed Egitto”): dico solo che si tratta di uno di quei passi chiari dell’Apocalisse di cui parlava Sant’Agostino, e che permettono di fare luce su passi meno chiari del testo di Giovanni, come dimostrò brillantemente a suo tempo lo studioso Alan Beagley.  

Esaminiamo adesso il versetto 11, 13:

“E in quell’ora fu un sismo grande e la decima parte della città cadde e furono uccisi nel sismo nomi di uomini sette migliaia, e i restanti furono impauriti e diedero gloria al Dio del cielo”.

Scrive Gentry:

“Questa “decima parte” = “sette migliaia” probabilmente non è intesa come un calcolo matematicamente esatto (non più di “un quarto” e “un terzo” menzionati nei versetti 6, 8 e 8, 7 e segg.). Ma si adatta abbastanza bene alla probabile popolazione di Gerusalemme nel I secolo: circa 70.000 abitanti. Come accennato in precedenza, Giuseppe Flavio (citando Ecateo) presenta la popolazione di Gerusalemme intorno ai 120.000 abitanti. Lee Levine, professore di Storia e Archeologia Ebraica presso l’Università Ebraica di Gerusalemme, conclude, sulla base della densità di popolazione e dell’analisi della superficie, che ‘la città contava circa 70.000-75.000 residenti permanenti’. Egli ritiene che ciò sia confermato da John Wilkinson, che studiò il sistema di approvvigionamento idrico della città e concluse che gli abitanti erano circa 75.000’”[26].

Prosegue Gentry:

“La cifra dell’Apocalisse non si adatta certamente alla popolazione di Roma, che molti commentatori identificano come ‘la grande città’. La popolazione dell’antica Roma si aggirava intorno a 1.000.000 di abitanti. Piuttosto, il numero di Giovanni suggerisce che è corretto riconoscere questa città come Gerusalemme, poiché ‘forse non a caso questa cifra [7000] sarebbe stata un decimo della popolazione di Gerusalemme nel periodo non festivo’”[27].

Le predette osservazioni di Gentry mi sembrano sensate e condivisibili: nel capitolo 11 dell’Apocalisse si parla di una sola città e la “città, quella grande”, non può che essere Gerusalemme, perché è quella “dove anche il loro signore fu crocifisso”. Come pure è sensato vedere nella cifra dei 7000 un decimo della popolazione effettiva di Gerusalemme.

Passiamo ora ad uno dei passi più celebri dell’Apocalisse, quello – nel capitolo 13 – che menziona la “bestia che sale dal mare”:

E vidi dal mare una bestia che saliva, con dieci corna e sette teste e sulle sue corna dieci diademi e sulle sue teste un nome di bestemmia”.

Gentry esamina il mare menzionato dal predetto versetto sia dal punto di vista geografico che simbolico. A noi adesso interessa il punto di vista geografico. Ecco cosa scrive lo studioso americano:

“Guardando verso ovest, sia da Israele (il focus principale dell’Apocalisse) che dall’Asia Minore (il luogo dei destinatari originari di Giovanni), Roma sembrerebbe sorgere dal Mar Mediterraneo, dall’Italia, un’enorme penisola. In effetti, questo sarebbe stato vero per la maggior parte delle province romane, poiché si trovavano sulle rive del Mare. Come afferma Prigent, ‘Per la popolazione del Medio Oriente nel primo secolo, il mare è ciò che si trova tra loro e Roma’, quindi ‘il dettaglio geografico dell’Apocalisse [13, 1] è un’allusione alla situazione politica attuale’. Inoltre, la bestia proviene ‘dal mare, proprio come fecero le truppe romane quando invasero il Mediterraneo orientale’”[28].

Molto interessante, riguardo al mare da cui sorge la bestia apocalittica, è anche un’osservazione del prof. Lupieri:

si noti che il «mare», in quanto sede delle «isole», cioè dei regni pagani, è una proiezione mitizzata del Mare Grande occidentale, cioè di quel Mediterraneo da cui proviene il potere di Roma”[29].

Veniamo adesso alla seconda belva apocalittica, quella che “sale dalla terra”. Secondo Gentry, la seconda bestia rappresenta il sommo sacerdozio ebraico, legato a filo doppio al potere imperiale romano[30]. Lupieri offre una spiegazione non troppo dissimile, che riporto a seguire, data la sua pregnanza (le sottolineature sono mie):

“La seconda bestia è il potere religioso asservito al potere politico-militare della prima bestia. L’allusione va in primo luogo al culto imperiale, celebrato in ampia parte dell’impero romano e importante soprattutto a Oriente […]. Anche qui, però, il discorso di Giovanni assume toni generali, come generale e diffusa era la divinizzazione dei sovrani, anche fuori dei confini dell’impero. Inoltre impressiona la massa di riferimenti a realtà religiose giudaiche per descrivere la bestia falsamente profetica. Questa, allora, non indicherebbe tanto o soltanto la religione pagana, ma la corruzione del giudaismo, vendutosi agli interessi del mondo pagano. Ci potremmo anzi chiedere se la «terra», nominata con tanta insistenza (quattro volte in quattro versi) non sia in primo luogo la «Terra» per eccellenza, cioè Israele; in ogni caso, la bestia costituirebbe una feroce parodia delle pretese universalistiche del giudaismo non cristiano. Giovanni quindi riprenderebbe anche in questa parte del cap. 13 l’accusa tradizionale dei profeti a Israele, di essersi corrotta e dedicata all’idolatria. Quel popolo e i suoi sacerdoti, che avevano lottato per impedire che i Romani erigessero la statua di Caligola nel tempio (nel 40), avendo rifiutato il messia che era stato loro inviato, sarebbero spiritualmente colpevoli di paganesimo; anzi, avrebbero rinunciato alla propria funzione nella storia della salvezza e si sarebbero asserviti agli interessi religiosi del mondo pagano, cioè del Satana e della bestia che sale dal mare”[31].

Per quanto riguarda l’identità della città-prostituta, designata con il nome simbolico di Babilonia, di cui Giovanni parla nei capitoli 17-19 dell’Apocalisse, rimando a quanto da me scritto più e più volte: si tratta sempre di Gerusalemme, come ha dimostrato inoppugnabilmente il prof. Lupieri nel suo commento al testo di Giovanni[32].

Così, l’impero romano e il sommo sacerdozio ebraico sono le due potenze adombrate rispettivamente nella “bestia che sale dal mare” e nella “bestia che sale dalla terra” le quali, con l’ascesa al potere di Nerone, si coalizzano per perseguitare la Chiesa primitiva. Ma, è Giovanni a dirlo, le due bestie sono destinate alla distruzione: Nerone si suiciderà nell’Anno Domini 68, mentre i sommi sacerdoti ebraici soccomberanno nel corso della Guerra giudaica terminata nell’anno 70.  

Nel nostro excursus sui luoghi dell’Apocalisse rimane da trattare un ultimo punto: la Gerusalemme celeste, una visione che molti commentatori – a partire proprio da Sant’Agostino – considerano puramente escatologica, e che però potrebbe rivelare delle significative implicazioni geografiche riguardanti il mondo antico. Leggiamo come la descrive Giovanni nei versetti 21, 15-16:

“E colui che parlava con me aveva una misura, una canna d’oro, per misurare la città e le sue porte e il suo muro. E la città si estende quadrata e la sua lunghezza è quanto [anche] la larghezza. E misurò la città con la canna, per dodici migliaia di stadi; la lunghezza e la larghezza e l’altezza di essa sono uguali”.

Dodicimila stadi equivalgono a oltre 2,200 chilometri. La domanda è: questa distanza equivale alla lunghezza di un lato della città quadrangolare oppure a quella dell’intero perimetro? Osserva Lupieri a tal proposito:

Al di là del valore simbolico dei numeri, un altro particolare su cui di solito non si riflette è che Giovanni dichiara che i 12.000 stadi sono la misura «della città»; quindi aggiunge che lunghezza, larghezza e altezza sono uguali, ma non dice da nessuna parte che 12.000 stadi sia la lunghezza di un lato della città. Gli oltre 2200 chilometri (se uno stadio è circa 185 metri), quindi, sarebbero il perimetro e la misura data da Giovanni sarebbe una voluta correzione o spiegazione di Ez. 48, 35, appena citato. Se questo è vero, il lato sarebbe di 3000 stadi: si tratta sempre di una misura sproporzionata alle realtà umane (circa 550 chilometri), ma potrebbe avere un riscontro biblico indiretto”[33].

Altri studiosi, come Gentry, invece hanno inteso le parole di Giovanni come se i 12,000 stadi indicassero non il perimetro bensì proprio il singolo lato. Secondo Gentry, la Gerusalemme celeste si configura come un cubo di 12,000 stadi su ogni lato. Ma queste dimensioni suggerirebbero una realtà riferibile al primo secolo dell’era cristiana. Ecco infatti cosa scrive a tal proposito lo studioso Robert Mulholland:

“La visione ha uno scopo pratico nelle dimensioni della città. Se si prende una mappa dell’area del Mediterraneo e si disegna un quadrato di 2.250 chilometri in scala, e poi si colloca il centro del quadrato su Patmos, il limite occidentale del quadrato si estende fino a Roma, quello orientale fino a Gerusalemme, e i limiti settentrionale e meridionale si avvicinano ai confini settentrionali e meridionali dell’Impero Romano nel I secolo. Al tempo della rivelazione di Giovanni, che sia avvenuta negli anni ’60 o ’90, tutte le comunità cristiane conosciute si trovavano entro quei confini”[34].

In quest’ottica, le dimensioni della Gerusalemme celeste si avvicinerebbero ai confini del mondo menzionati da Gesù nel discorso di commiato ai discepoli, prima dell’Ascensione:

L’importante per voi è che, con la discesa dello Spirito Santo, riceverete un potere divino e sarete miei testimoni a Gerusalemme, in Giudea e Samaria e fino ai confini del mondo” (Atti 1, 8).

La parola “mondo” in questo caso non indica l’intero orbe terracqueo ma lo spazio dell’impero romano attraversato dagli Apostoli nel corso del loro ministero.

[1] Sant’Agostino, La città di Dio, Edizioni Paoline, Roma 1979, p. 1235.

[2] Gentry 2024, pp. 363-364.

[3] Ivi, p. 373.

 

[4] Ivi, p. 368.

[5] Ivi, p. 374.

[6] https://it.wikipedia.org/wiki/Pergamo

[7] Gentry 2024, p. 374.

[8] Ivi, p. 369.

[9] Ivi, p. 370.

[10] Ivi, p. 375.

[11] Ivi, p. 372.

[12] Ibidem.

[13] Ivi, 376.

[14] Ibidem.

[15] Ivi, pp. 376-377.

[16] Ivi, p. 377.

[17] Corsini 2002, p. 107.

[18] La Sacra Bibbia, a cura di Giuseppe Ricciotti.

[19] Gentry 2024 p. 280.

[20] Ibidem.

[21] Ivi, p. 281.

[22] Ivi, p. 1185.

[23] Lupieri 1999, pp. 232-233.

[24] Gentry 2024, p. 1185.

[25] Essendomene già occupato in un precedente post: https://www.andreacarancini.it/2024/07/la-conversione-in-massa-dei-giudei-nellapocalisse-non-ce/

[26] Gentry 2024, pp. 967-968.

[27] Ivi, p. 968.

[28] Ivi, pp. 1047-1048.

[29] Lupieri 1999, p. 211.

[30] Ivi, p. 1129.

[31] Lupieri 1999, p. 211.

[32] Ne ho parlato qui: https://www.andreacarancini.it/2024/02/lapocalisse-di-giovanni-commentata-da-edmondo-lupieri/

[33] Lupieri 1999, p. 337.

[34] Gentry 2024, p. 1616.

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