Gian Pio Mattogno
UN GIUDIZIO SPREZZANTE DI GRAMSCI
SUI MOTI POPOLARI ANTIRIVOLUZIONARI ALLA FINE DEL 1700
Spesso è dalle piccole che si capiscono le grandi cose.
È dal giudizio su eventi apparentemente di minore importanza rispetto ai massimi sistemi che si comprende meglio un certo modo di pensare, una certa ideologia, una certa visione del mondo, un certo modo di interpretare la storia e la politica.
Antonio Gramsci passa per uno dei maggiori intellettuali della nostra epoca, ma non era né un filosofo, né uno storico.
Nonostante la beatificazione postuma proclamata dai suoi laudatori, rimango tuttavia dell’opinione che il livello della sua scrittura (non lo spessore, che è un’altra cosa) sia poco più che giornalistico, con tutti i limiti che questo comporta.
Almeno per un certo periodo di tempo, sicuramente per via della sua condizione oggettiva di restrizione, ammettiamolo pure. Ma ciò vale anche per prima, quando scriveva liberamente sulle gazzette comuniste.
(Mi chiedo, tra parentesi, se, a parti invertite, un fascista russo finito a quel tempo nelle galere staliniane avrebbe avuto a disposizione carta e penna per buttare giù alcunché. Se esistono i Quaderni del carcere, a mia conoscenza non esistono Quaderni del Gulag).
A due riprese, nei Quaderni del carcere, Gramsci dà un giudizio a dir poco sprezzante sui moti popolari antirivoluzionari alla fine del XVIII secolo.
Nel Q. 9 (XIV), 1932, § (108), trattando delle relazioni presentate al Ventesimo Congresso della Società nazionale per la storia del Risorgimento, tenuto a Roma nel maggio-giugno 1932, Gramsci si sofferma sulla memoria di Giacomo Lumbroso su La reazione popolare contro i francesi alla fine del 1700:
«Il Lumbroso sostiene che “le masse popolari, specialmente contadinesche, reagirono non perché sobillate dai nobili e neppure per amor di quieto vivere (difatti, impugnarono le armi!) ma, in parte almeno, per un oscuro e confuso amor patrio o attaccamento alla loro terra, alla loro indipendenza (!?): donde il frequente appello al sentimento nazionale degli italiani, che fanno i ‘reazionari’, già nel 1799», ma la questione è mal posta così e piena di equivoci.
«Cosa vuol dire la parentesi ironica del Volpe che non si possa parlare di amor del quieto vivere perché si impugnano le armi? Non c’è per nulla contraddizione, perché “quieto vivere” è inteso in senso politico di misoneismo e conservatorismo e non esclude la difesa armata delle proprie posizioni sociali. Inoltre la quistione dell’atteggiamento delle masse popolari non può essere impostata indipendentemente da quella delle classi dirigenti, perché le masse popolari si muovevano per ragioni immediate e contingenti contro gli “stranieri” invasori in quanto nessuno aveva loro insegnato a conoscere un indirizzo politico diverso da quello localistico e ristretto. Le reazioni spontanee delle masse popolari servono a indicare la forza di direzione delle classi alte; in Italia i liberali-borghesi trascurarono sempre le masse ecc.» (A. Gramsci, Quaderni del carcere. Volume secondo. Quaderni 6-11. A cura di Valentino Gerratana, Torino, 1977, p. 1175).
Nel Q. 15 (II), 1933, § (41), Gramsci ritorna sull’argomento, esplicitando ancor più chiaramente la sua posizione.
L’occasione è una recensione di Arnaldo Momigliano del libro di Cecil Roth Gli ebrei in Venezia (1933). Gramsci concorda con le osservazioni di Momigliano, secondo cui la storia degli ebrei italiani coincide con la storia della formazione della loro coscienza nazionale, senza che per questo essi abbiano perso le loro peculiari caratteristiche ebraiche.
Questa tesi, scrive Gramsci, è da confrontare con quella di un altro ebreo, Giacomo Lumbroso, nel libro I moti popolari contro i francesi alla fine del XVIII secolo, 1796-1800 (Firenze, 1932).
«Che nei moti popolari registrati dal Lumbroso ci fosse qualsiasi traccia di spirito nazionale è un’allegra trovata, anche se tali moti siano degni di studio e di interpretazione. In realtà essi furono popolari per modo di dire e solo per un aspetto molto secondario e meschino: il misoneismo e la passività conservatrice delle masse contadine arretrate e imbarbarite. Presero significato dalle forze consapevoli che li istigavano e li guidavano più o meno apertamente e queste forze erano nettamente reazionarie e antinazionali o anazionali» (Op. cit., Volume terzo. Quaderni 12-29, pp. 1800-1801).
Ora, anche se Lumbroso non ne fa alcuna menzione, è ampiamente documentato e storicamente assodato che l’aggressione agli stati italiani da parte delle armate giacobine e napoleoniche costituì un momento di fondamentale importanza nella strategia imperialistica delle forze rivoluzionarie giudeo-massonico-borghesi.
(G.P. Mattogno, La rivoluzione borghese in Italia (1700-1815), Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 1989. In particolare: Cap. V: L’età rivoluzionaria e le repubbliche-fantoccio, pp. 135-181; Cap. VI: La dittatura massonico-borghese dalla Cisalpina al Regno Italico, pp. 183-235; Id., Sinai Sinah Horeb. La genesi dell’odio rabbinico-talmudico contro i popoli del mondo, Effepi, Genova, 2020, pp. 133-139; Id., Filosofia classica tedesca, rivoluzione massonico-borghese e questione ebraica. Paradossi dell’antisemitismo da Kant a Hegel, Effepi, Genova, 2024. Cap. III. 1789: una rivoluzione massonico-borghese, pp. 91-144).
L’esperienza rivoluzionaria e napoleonica offrì all’ebraismo italiano l’opportunità di uscire dai ghetti e di saldarsi nel fronte rivoluzionario massonico-borghese.
Scrive Renzo De Felice:
«Gli atti dei processi politici istruiti nell’ultimo decennio del secolo nei vari stati italiani costituiscono una prova inoppugnabile del risveglio degli ebrei e dei loro sentimenti filofrancesi. Tutte le classi sociali e ceti dei ghetti parteciparono egualmente ad esso; anche se le comunità come tali non presero mai posizione ufficialmente, la quasi totalità degli ebrei italiani si dichiarò sentimentalmente, ed in molti casi materialmente, per la rivoluzione» (R. De Felice, Per una storia del problema ebraico in Italia alla fine del XVIII secolo e all’inizio del XIX. La prima emancipazione (1792-1814), «Movimento Operaio», settembre-ottobre 1955, p. 705).
Ma per Gramsci i moti popolari furono popolari “per modo di dire” (sic!), perché le masse popolari che combattevano e morivano per la propria terra, per la propria religione, per la propria tradizione e per i propri prìncipi e re erano reazionarie, misogine, arretrate e imbarbarite, dalla mentalità localistica e ristretta, incapaci di apprezzare le magnifiche sorti e progressive apportate dalla rivoluzione massonico-borghese!
Leggiamo in queste pagine dei Quaderni lo stesso disprezzo che l’ebreo Karl Mordechai-Marx nutriva per il sottoproletariato straccione (Lumpenproletariat) e per il contadinato “reazionario”, e questo solo perché ai suoi occhi non erano “progressivi”, cioè non potevano essere utilizzati come manovalanza al servizio della rivoluzione ebraico-capitalistica (Cfr. Leggenda e realtà di Karl Heinrich Mordechai-Marx. Note per una lettura controcorrente del marxismo, andreacarancini.it).
Anche per Gramsci ‒ il fautore della via italiana alla rivoluzione ebraico-bolscevica, almeno fino alla detenzione, quando comincia ad elaborare una nuova strategia di conquista del potere previa conquista dell’egemonia culturale nella società, una sorta di guerra di posizione incentrata sul ruolo pedagogico del Partito Comunista ‒ le “masse popolari” hanno una valenza solo in quanto, come nel caso della rivoluzione ebraico-bolscevica e della Russia giudeo-sovietica da lui tanto ammirate, esse vengono utilizzate per portare al potere i caporioni giudeo-comunisti, come denunciava anche la “Civiltà Cattolica” nel 1922 (Cfr. “La Civiltà Cattolica”: La rivoluzione mondiale e gli ebrei, andreacarancini.it).
Per Gramsci la rivoluzione coincide con la distruzione della società e della tradizione cristiana, poiché «il socialismo è precisamente la religione che deve ammazzare il cristianesimo» (Audacia e fede, in “Avanti!”, 22 maggio 1916).
Come scrive Roberto de Mattei, «l’anticristianesimo di Gramsci è sofisticato ma implacabile. Compito del comunismo, per Gramsci, è portare al popolo quel secolarismo integrale, che l’illuminismo aveva riservato a ristrette élite. Sul piano sociale, questo secolarismo ateo viene attuato mediante una eliminazione di fatto del problema di Dio, realizzata, secondo le parole del comunista sardo, da una “completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume”, cioè attraverso un’assoluta secolarizzazione della vita sociale, che permetterà alla “prassi” comunista di estirpare in profondità le stesse radici sociali della religione» (R. de Mattei, La persecuzione comunista contro il cristianesimo (27 luglio 2022), Schola Palatina, scholapalatina.it).
Il compito di questo lavorio di distruzione è affidato da Gramsci alla filosofia della praxis, espressione con cui indica il materialismo dialettico e storico:
«La filosofia della praxis presuppone tutto questo passato culturale, la Rinascita e la Riforma, la filosofia tedesca e la rivoluzione francese, il calvinismo e la economia classica inglese, il liberalismo laico e lo storicismo che è alla base di tutta la concezione moderna della vita. La filosofia della praxis è il coronamento di tutto questo movimento di riforma intellettuale e morale, dialettizzato nel contrasto tra cultura popolare e alta cultura. Corrisponde al nesso Riforma protestante + Rivoluzione francese: è una filosofia che è anche una politica e una politica che è anche una filosofia» (A. Gramsci, Quaderni del carcere cit., Volume III, Q. 16 (XXII9, 1933-1934, p. 1860).
Come appare con estrema evidenza da queste parole, il coronamento della filosofia della praxis coincide con tutto l’armamentario ideologico della borghesia rivoluzionaria e dell’emergente capitalismo nel suo assalto all’Antico Regime.
In attesa di un’improbabile rivoluzione comunista, la filosofia gramsciana della praxis si rivela per quello che realmente è, cioè una variante italiota dell’ideologia borghese-rivoluzionaria anticristiana e antitradizionale che ha avuto nella rivoluzione massonico-borghese francese il suo momento epocale.
Quella stessa rivoluzione massonico-borghese che sguinzagliò le sue armate imperialistiche nella campagna d’Italia, e contro le quali le masse popolari da lui tanto disprezzate combatterono eroicamente.
Quel traditore dei popoli italici, Gramsci, andava fatto marcire in un carcere stile gulag tanto per fargli assaggiare le sue idee liberal.comuniste della sinagoga di satana…
Cara signora, io non sono comunista ma vedo la barbarie a cui porta l’anticomunismo, quella barbarie che ha ispirato il suo commento. Purtroppo, Gramsci è morto IN CARCERE, e il suo incarceramento non è stato una villeggiatura. Altrimenti, non sarebbe morto prematuramente.