Gian Pio Mattogno: “Per amore della pace”

Gian Pio Mattogno 

“PER AMORE DELLA PACE”

Fra le accuse che i polemisti antigiudei muovono agli ebrei talmudisti vi è quella di un uso sistematico della menzogna come arma dialettica e apologetica.

HERMAN DE VRIES DE HEEKELINGEN, L’atteggiamento del Talmud di fronte al non-ebreo (andreacarancini.it) rammenta il caso di Isacco Samuele Avigdor, deputato ebreo al Gran Sanhedrin convocato da Napoleone nel 1807, il quale, affinché i suoi correligionari ottenessero dei benefici dall’imperatore, tra l’altro fece l’apologia dei Papi, dichiarando che essi avevano sempre aiutato gli ebrei.

Anni dopo il giornale ebraico Univers israélite ammise che quelle parole non erano sincere, e che Avigdor le aveva pronunciate con grande abilità al solo fine di raggiungere il suo scopo.

De Heekelingen chiosa che Avigdor non aveva fatto altro che applicare il precetto talmudico: «Per amore della pace è lecito mentire» (Jebamoth 65b).

In effetti l’espressione ricordata da Vries De Heekelingen ricorre nel Talmud e nella letteratura rabbinica. Essa suona: mipnei darkei shalom (lett. «a causa delle vie della pace»).

Lo ammette candidamente Michaël Wygoda (Le statut juridique de l’étranger. Droit hébraïque et droit de l’homme, in La fin de l’étranger? Mondialisation et pensée juive, «Pardès», n. 52, 2012/2, pp. 105-114), il quale spiega egregiamente i termini essenziali della questione.

La figura intellettuale di Wygoda è al di sopra di ogni sospetto.

Dottore in diritto presso l’Università Ebraica di Gerusalemme, direttore del dipartimento di diritto ebraico del Ministero israeliano della Giustizia, è autore di diversi libri ed articoli, ed è stato curatore di Vehalsh Moshe, opera collettiva in ebraico e francese pubblicata in occasione dell’80° anniversario della Yeshiva Etz ‘Hayyim di Montreaux (Michaël Wygoda, menorah.info).

L’autore esordisce con una ammissione se non di colpevolezza, certamente di grave imbarazzo:

«Lo stato giuridico dello straniero nel diritto ebraico è fonte di malessere per l’ebreo moderno che aderisce ai valori dei diritti dell’uomo, di uguaglianza e di libertà delle nostre società democratiche».

Egli aggiunge che, se è vero che nella Torah troviamo «meravigliosi versetti sull’ideale di uguaglianza fra il cittadino e lo straniero» (ma nei limiti e nelle condizioni che lo stesso Wygoda ammette subito dopo) ignorati nel mondo antico, nondimeno resta il fatto che, se analizziamo più da presso lo statuto giuridico dello straniero, «vi troviamo numerose forme di discriminazione».

Ma, come osserva correttamente l’autore, nei testi biblici citati (Num. 15,15-16; Es. 22, 20; 23,9) e nei precetti ribaditi dai Saggi nel Talmud (Baba Mezia 59b), è bensì vero che si afferma che la stessa legge e lo stesso diritto valgono per gli israeliti e per lo “straniero”, e che lo straniero non va né oppresso, né molestato, ma questo straniero non è assolutamente il nokhri, ossia il non-ebreo idolatra che la tradizione rabbinica chiama goy. Questo straniero è il ger toshab, il forestiero residente, che soggiorna stabilmente presso di loro, riconosce la sovranità del Dio d’Israele, e il cui stato giuridico viene equiparato a quello degli israeliti.

     In altre parole, lo straniero cui sono riferiti i «meravigliosi versetti» della Torah non è altri che il non-ebreo ebraizzato ed ebraizzante che si è messo al servizio del popolo “eletto” e del suo Dio, e non già il nonebreo in generale, come spesso afferma, mentendo sapendo di mentire, certa apologetica giudaica.

     Ed infatti subito dopo Wygoda enumera tutta una serie di discriminazioni (l’autore ne omette pudicamente altre assai più gravi, come i precetti di ingannare, derubare e perfino uccidere gli idolatri, cioè praticamente tutto il genere umano non ebraico) che la Torah e Halacha, la normativa ebraica, stabiliscono nei confronti del nokhri/goy, cioè del non-ebreo in generale.

Divieto di sposare un non-ebreo (Deut. 7,3).

Divieto di vendergli terreni in Eretz Israele (Deut. 7,2).

L’anno sabbatico non cancella il suo debito (Det. 15,3).

Permesso di prestargli a interesse (Deut. 23,21).

È proibito commerciare con un non-ebreo durante le sue festività (Aboda Zara 1,1).

Permesso di non restituirgli un oggetto trovato (Baba Kamma 113b).

Un non-ebreo non può essere demandato a compiere qualsivoglia atto legale (Baba Mezia 71b).

Un non-ebreo non può essere nominato a qualsivoglia funzione pubblica (Jebamoth 45b).

Un non-ebreo non può rendere testimonianza (Jebamoth 47a).

Una delle discriminazioni più «choquantes», scrive Wygoda, si trova nel trattato Baba Kamma (4,3), a proposito dei danni e dei risarcimenti:

«Se il bue di un ebreo incorna quello di un non-ebreo, il proprietario non può essere citato in giudizio per danni. Per contro, se il bue di un non-ebreo incorna quello di un ebreo (…) il suo proprietario è tenuto a rimborsare integralmente il danno».

Alcune di queste discriminazioni hanno origine nella stessa Torah, come la legge sulla moratoria dei debiti alla fine dell’anno sabatico (Deut. 15,3), o quella a proposito del prestito a interesse (Deut. 23,21).

Altre sono state istituite «dai nostri Saggi», come ad es. il divieto di trarre profitto dal vino di un non-ebreo o quello di commerciare con lui durante le sue festività.

Alcune di queste discriminazioni sono motivate dalla preoccupazione di preservare l’identità ebraica e i valori di cui il giudaismo è portatore (l’autore si affretta a precisare che si tratta di identità di valori ebraici, e non già di razza ebraica).

È il caso del divieto dei matrimoni misti, o delle proibizioni riguardanti il vino dei non-ebrei, che mirano palesemente a mantenere una distanza tra ebrei e non-ebrei allo scopo di «evitare influenze religiose e culturali dannose».

Altri divieti si spiegano con la preoccupazione «di non favorire il culto idolatrico», come ad es. nel caso dei rapporti commerciali durante le festività dei goyim, giacché costoro potrebbero andare a rendere grazie al proprio dio dopo un affare giunto a buon fine (Aboda Zara 6a).

Ma, aggiunge Wygoda, «altre discriminazioni [inegalités] sembrano molto più difficili da giustificare e da ammettere, e potrebbero dare l’impressione di non essere motivate che da una forma di razzismo, come l’esempio scioccante prima ricordato».

E qui entriamo nel cuore della questione della menzogna “per amore della pace”.

Wygoda intende dimostrare che un certo numero di queste discriminazioni “de jure” nei confronti del non-ebreo non si applicano “de facto”, e questo per via di due «meccanismi halachici», l’uno stabilito dallo stesso Talmud, e l’altro invece innovato dai grandi decisori e commentatori medievali.

Il primo meccanismo previsto dalla stessa Halacha per abolire “de facto” la disparità di diritto tra ebrei e non-ebrei attiene ai concetti di darkei shalom ed eivah (termine, quest’ultimo, che indica uno stato di inimicizia tra individui o gruppi) i quali consentono di emendare alcune discriminazioni «per amore della pace e per timore delle tensioni che esse potrebbero suscitare fra ebrei e non-ebrei».

Ad es., sebbene il non-ebreo non abbia diritto di prendere i resti del raccolto destinato ai poveri, «i nostri Saggi» hanno stabilito già dall’epoca talmudica che il povero non ebreo può servirsi come il povero ebreo dei resti del campo e ciò «al fine di favorire il buon vicinato e promuovere la pace» (Gittin 61a).

Ed è per la medesima ragione che «i nostri Saggi» hanno stabilito la regola secondo cui il non-ebreo deve beneficiare degli stessi vantaggi sociali dell’ebreo in una città amministrata dalla comunità ebraica.

Ad esempio:

«Provvediamo alla sussistenza dei poveri delle nazioni assieme ai poveri di Israele per amore della pace».

«Questo meccanismo – spiega Wygoda – non contesta la pertinenza e la validità della legge discriminatoria ancora al giorno d’oggi, ma, prendendo coscienza delle ripercussioni che essa rischierebbe di avere nel futuro, permette di soprassedere per preservare la pace considerata all’occorrenza come un valore più importante».

Più radicale (ma, aggiungiamo noi, anche più astuta, sebbene non meno menzognera) è la posizione di R. Menahem ha-Meiri (1249-1306), celebre commentatore provenzale del Talmud, il quale, interpretando retroattivamente le leggi discriminatorie, sostiene che tali discriminazioni si applicavano solo al non-ebreo idolatra e barbaro, senza fede né legge, ma non verso i gentili civili, dotati di un sistema legale che li sottoponga a standard morali.

Tuttavia, aggiunge Wygoda, anche se questi due modelli “di fatto” le attenuano sostanzialmente, nondimeno alcune di queste discriminazioni permangono tuttora.

Due di queste riguardano infatti l’attualità:

la prima norma riguarda il divieto della Torah di vendere terra a un non-ebreo in Eretz Israel, oltre a quella che non gli consentirebbe di vivere il Israele;

la seconda riguarda il divieto fatto dalla Torah di nominare un non-ebreo negli uffici pubblici.

«Inutile dire che tali leggi offendono profondamente la coscienza democratica e costituiscono una discriminazione inaccettabile al giorno d’oggi».

Queste norme discriminatorie, precisa Wygoda, non si applicano però al ger toshab, che ha diritto di soggiorno nella terra di Israele.

Ma quale è lo status giuridico dello straniero che non sia ger toshab, cioè lo status del goy idolatra in Eretz Israel?

Secondo Maimonide, lo status di straniero può essere concesso unicamente al goy che osserva le sette leggi noachide e che ha rinunciato all’idolatria.

La maggior parte dei decisori moderni è però dell’opinione che, nonostante queste regole stabilite da Maimonide, i non-ebrei residenti al giorno d’oggi abbiano tutti uno status giuridico equivalente a quello del ger toshab.

Appare chiaro che questa riconsiderazione della normativa tradizionale è determinata unicamente “per amore della pace”, cioè dalla preoccupazione di evitare un’ostilità internazionale.

Non solo.

Oltre alle preoccupazioni di evitare l’ostilità dei goym, la tradizione rabbinica – come riconosce Wygoda ‒ stabilisce che si può seguire una condotta non discriminatoria nei confronti del non-ebreo per due altre ragioni:

dal un lato per impedire da parte del non-ebreo discriminato la profanazione del nome di Dio (Hillul Hashem), cioè per evitare che il non-ebreo, sentendosi oggetto di odio e di discriminazioni, imprechi contro il Dio giudaico;

dall’altro, perché, vedendosi ben trattato dagli ebrei, il non-ebreo potrebbe essere indotto a lodare e santificare il nome di Dio (Kiddush Hashem).

Come si vede con tutta evidenza, certi atteggiamenti benevoli riservati al non-ebreo non sono determinati da un sincero sentimento filantropico, come pretendono gli apologeti giudei e i loro ausiliari (sentimento totalmente assente nel giudaismo talmudico), ma esclusivamente dal timore di reazioni e dalla preoccupazione che il Dio giudaico non sia profanato dall’immondo goy.

     Questa è l’eccezione, ipocrita e menzognera ‒ “per amore della pace”.

     La regola ‒ cui in cuor suo si attiene l’ebreo talmudista ‒ è quella secolare, discriminatoria e carica d’odio, confessata onestamente dallo stesso Michaël Wygoda.

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