Gian Pio Mattogno
IL DESTINO FINALE DEI CRISTIANI NELLA LETTERATURA ASHKENAZITA MEDIEVALE
IN UN SAGGIO DI DAVID BERGER
Il secolare odio giudaico contro la civiltà cristiana non fu la diretta conseguenza delle persecuzioni, come si ostina a ripetere certa apologetica ebraica truffaldina e mistificatrice.
Le persecuzioni possono tutt’al più aver esacerbato un odio giudaico atavico contro i non-ebrei, già connaturato all’essenza stessa della religione ebraica.
Lo aveva ben compreso il filosofo ebreo (ancorché scomunicato) Baruch Spinoza nel suo Tractatus theologico-politicus, quando osservava che l’odio intensissimo e pio provato per le altre nazioni era così favorito dal culto quotidiano ebraico che dovette convertirsi in natura, e di conseguenza le altre nazioni a loro volta dovettero provare nei confronti degli ebrei un odio altrettanto intenso (B. Spinoza, Trattato teologico-politico, Milano, 1999, pp. 585-587).
Fortunatamente non manca, neppure fra gli studiosi ebrei, chi affronta determinati argomenti con onestà intellettuale e obiettività scientifica.
È questo il caso di David Berger, professore emerito di storia ebraica presso la Yeshiva University, autore di un eccellente saggio sul destino dei non-ebrei nella letteratura ashkenazita medievale: The Fate of the Gentiles, «Tablet», October 22, 2021, che compendia le argomentazioni svolte in altri suoi lavori in materia.
Il sottotitolo suona significativamente: Perché gli ebrei medievali immaginavano la punizione divina dei cristiani alla fine dei tempi? Sorprendentemente, non solo perché i cristiani cercavano sempre di ucciderli.
Nel suo scritto Berger non fornisce indicazioni bibliografiche. Per un primissimo inquadramento storico-bibliografico si possono consultare:
‒ G.P. Mattogno, La disputa di Parigi del 1240. Il Talmud e i cristiani, Effepi, Genova, 2015.
‒ L. Benotti, Un manuale ebraico di polemica anti-cristiana del XIII secolo. Il manoscritto Or. 53 della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. Introduzione, traduzione e commento [Tesi], Università degli Studi di Padova, a.a. 2011-2012.
‒ J.C. Attali, Isaac Abravanel. La mémoire et l’esperance, Paris, 1992.
Il Sefer Nizzahon Yashan, di cui lo stesso Berger ha curato una nuova edizione critica, fu pubblicato per la prima volta dall’ebraista cristiano Johann Christoph Wagenseil nel suo Tela Ignea Satanae, Altdorf, 1681, pp. 1-260. Fu Wagenseil a chiamarlo Vetus, per distinguerlo dal Sefer Nizzahon di Yom-Tob Ben Solomon Lipmann-Mülhausen (XVI-XV sec).
Berger esordisce affermando che l’atteggiamento ostile nei confronti della società cristiana che si riscontra nella letteratura ashkenazita medievale è ben noto e non ha bisogno di essere dimostrato. In tutta questa letteratura si ritrovano espressioni di amara animosità verso il cristianesimo e i suoi seguaci, soprattutto nella poesia liturgica, anche prima della catastrofe della prima crociata (1096).
Berger ricorda che anche un altro autorevole studioso, Israel Yuval, specialista del giudaismo medievale, «ha recentemente sostenuto che queste espressioni di animosità non sono semplici reazioni alle persecuzioni medievali, ma piuttosto affondano le radici in un’antica visione del mondo più ampia, associata a idee apocalittiche sulla redenzione finale. Tuttavia, egli ammette che i sanguinosi eventi del 1096 resero certamente più aspra questa animosità e rafforzarono il desiderio di vendetta degli ebrei. Gli attacchi senza precedenti e il martirio di migliaia di ebrei si radicarono a lungo nella coscienza collettiva askenazita, rafforzando i sentimenti di repulsione verso il nemico omicida e la sua falsa religione. Le cronache ebraiche che trattano di questi eventi sono piene di maledizioni ed espressioni di rimprovero nei confronti della fede cristiana e del suo fondatore. Tali espressioni non si ritrovano solo durante il periodo emotivamente carico della catastrofe stessa; anche negli anni successivi al 1096 la letteratura ashkenazita contiene numerose espressioni di estrema derisione e degradazione per tutto ciò che il cristianesimo considera sacro. Questo fenomeno si riscontra soprattutto nella letteratura polemica, che si concentra principalmente sulla questione della vera religione».
Come punto di partenza Berger prende in esame soprattutto le tre principali fonti della letteratura polemica ashkenazita: Sefer Yosef ha-Meqqanne, Sefer Nizzahon Yashan (Nizzahon Vetus) e la disputa di R. Yehiel di Parigi. La sua indagine tuttavia si allarga anche alla letteratura polemica proveniente da altre aree e da periodi successivi, nonché da altri rami della letteratura ebraica medievale.
A prescindere dalla contingenza storica e dalle sofferenze dell’esilio, gli autori della letteratura polemica delle varie regioni ed epoche erano principalmente interessati a identificare la vera religione e ritenevano che ci fosse uno stretto legame tra una religione di verità ed un popolo di verità.
Gli ebrei avevano di sé un’immagine di assoluta superiorità rispetto al gentile cristiano, che ritenevano “degenerato”.
- Joseph Kimhi sottolineava la superiorità etica degli ebrei sui cristiani. Altre opere polemiche, come il Milhemet Mitzvah di R. Meir di Narbonne, una compilazione askenazita attribuita a R. Moses di Salerno, il commentario tosafista Da’at Zeqenin al Pentateuco e il Sefer ha-Ge’ullah di Nahmanide riferivano ai cristiani l’espressione di “nazione degenerata” che compare in Deut. 32,21.
Ai loro occhi, la persecuzione del popolo ebraico non era che una conseguenza della immoralità e della degenerazione etica dei cristiani.
I cristiani ‒ così Berger riassume la polemica ebraica anticristiana ‒ credono in una falsa religione, si contaminano con peccati abominevoli e perseguitano il popolo eletto.
Quale sarà dunque il loro destino finale?
Da un lato, c’è il destino personale di ogni singolo cristiano dopo la morte; dall’altro, c’è il destino collettivo del “Regno di Edom” (espressione con cui i rabbi indicavano la Roma pagana prima e la Roma cristiana poi) e dei suoi abitanti alla fine dei giorni.
Scrive Berger che «in generale, gli autori polemici ashkenaziti risposero alla domanda sul destino personale del cristiano in modo davvero molto netto: un cristiano è destinato all’inferno. Non c’è nulla di innovativo e sorprendente in questo, ma dovremmo rimarcare il ragionamento che viene esposto al riguardo: il cristiano merita questa punizione non perché odia gli ebrei, ma perché crede nella fede cristiana. In certi periodi, quando l’ideale di tolleranza iniziò a svilupparsi, alcuni ebrei cominciarono a considerare i cristiani come “genti giuste”, che osservano i sette comandamenti noachidi; tuttavia, la tradizione talmudica include il divieto di idolatria tra questi sette comandamenti, e in conformità con una semplice e diretta comprensione di questo divieto, è difficile sfuggire alla conclusione che chi adora Gesù commette idolatria».
Il Sefer Nizzahon Yashan riporta una conversazione tra R. Nathan e un gruppo di sacerdoti cristiani. Usando un argomento “a fortiori” R. Nathan dice che la generazione di Mosè errò nell’adorare un vitello d’oro e Dio chiese conto dei loro peccati e rifiutò di concedere loro il perdono completo. A maggior ragione non lo concederà ai cristiani:
«Certamente, quindi, voi errate quando dite che qualcosa di santo è entrato in una donna in quel luogo puzzolente, … sarete certamente consumati da “un fuoco non attizzato dall’uomo” [Giobbe 20,26] e scenderete nel più profondo degli inferi».
Come ho mostrato nel mio lavoro già citato, quando nella disputa di Parigi gli fu chiesto se davvero il Talmud condannava i minim (eretici) cristiani all’inferno, R. Yehiel cominciò ad arrampicarsi sugli specchi per salvare capra e cavoli e, mentendo sapendo di mentire, rispose che quell’affermazione talmudica non si riferisce ai cristiani.
Berger spiega onestamente i termini principali della questione.
L’accusatore Nicholas Donin citò un’affermazione del Talmud secondo cui i minim sono condannati al fuoco eterno dell’inferno. Quando R. Yehiel rispose che il passo in questione non si riferisce ai cristiani, ma a coloro che negano la validità della Torah orale, Donin indicò il commento di Rashi sul passo, che considera i cristiani un esempio classico di minim. Al che R. Yehiel replicò che non c’è bisogno di accettare il commento di Rashi come prova determinante, ma, anche se lo accettassimo, lui in realtà si riferiva ai primi discepoli di Gesù, che erano ebrei e quindi obbligati ad osservare i comandamenti della Torah. I cristiani gentili, invece, non sono destinati a soffrire così dure pene infernali.
Berger sottolinea che comunque, anche quando era sotto la pressione dell’incalzare delle domande dei vescovi, R. Yehiel si rifiutò di affermare esplicitamente che i cristiani hanno parte nel mondo a venire, un’espressione talmudica la quale indica che essi non si salveranno dal castigo infernale. Egli iniziò col dire che i cristiani possono avere un inferno leggermente meno freddo rispetto ai primi discepoli di Gesù, che erano ebrei apostati; continuò poi sostenendo che l’osservanza dei sette comandamenti noachidi è l’unico mezzo attraverso il quale i gentili possono salvare le loro anime, ma evitò (furbescamente) di dire esplicitamente se un cristiano, per via della sua fede in Gesù Cristo, violi o meno il primo e più importante di quei comandamenti, e cioè il divieto di idolatria.
Più esplicito (e onesto) nella risposta fu Meir ben Simon di Narbonne, il quale nel suo libro Milhemet Mitzvah riferisce che un cristiano gli pose esattamente la stessa domanda che i vescovi avevano posto a R. Yehiel. E R. Meir risponde che i gentili sono tenuti ad osservare i sette comandamenti noachidi, il primo dei quali è credere che l’universo ha un creatore, uno, vero, primordiale, senza inizio né fine, che veglia su tutte le sue creature e ricompensa le azioni di ognuno.
Il cristiano gli dice che anche lui crede in tutto ciò, ma R. Meir replica:
«E tuttavia, se chiedessi a qualcuno che crede in ciò, chi sia questo creatore e lui rispondesse che è un certo uomo, nato da una donna, che ha subito tutte le vicissitudini del corpo, compresa la morte, un tale credente, se è vero che la sua affermazione è falsa, sarebbe uno che nega il creatore dell’universo, e sarebbe condannato all’inferno».
Quanto alla questione del destino collettivo dei gentili, Berger sostiene che il quadro si fa più complesso. Secondo Yuval, se da un lato gli ebrei ashkenaziti attendevano con ansia una campagna del Signore dell’Universo che, avvolto nella veste regale intrisa del sangue di generazioni di martiri, avrebbe inflitto la distruzione totale a tutte le nazioni, dall’altro lato gli ebrei di altre regioni auspicavano una conversione in massa di tutti gli abitanti della terra.
Avraham Grossman indica fonti ashkenazite che descrivono anch’esse la conversione dei gentili alla fine dei giorni. Yuval ha poi meglio chiarito la sua posizione sostenendo che, sebbene l’enfasi della vendetta fosse molto più forte presso gli ebrei ashkenaziti, questa tuttavia non era che la prima fase del processo escatologico, la seconda essendo quella della conversione e della redenzione e di gentili.
Questa opzione, che viene definita erroneamente “universalista” (in realtà si tratta di una sorta di particolarismo “allargato”), è stata fatta propria da Maimonide nel suo codice Mishneh Torah.
Da parte sua Berger osserva che nella stragrande maggioranza delle fonti non esiste una vera conversione universale che faccia dei gentili, alla fine dei tempi, una parte inseparabile del popolo ebraico.
In sintesi: la letteratura polemica ebraica fornisce una duplice prospettiva circa il destino finale dei non-ebrei: secondo la prima prospettiva periranno solo le nazioni che hanno oppresso Israele; secondo l’altra prospettiva tutti i non-ebrei indistintamente saranno sterminati.
Tali prospettive vanno però a conciliarsi nell’unica prospettiva di un futuro annientamento e asservimento delle nazioni idolatre, cioè praticamente dell’intera umanità.
Scrive Berger che «la soluzione più diffusa, che assumeva forme diverse, prevedeva la distruzione di intere nazioni o di molti individui di quelle nazioni, e la sopravvivenza del resto in una condizione di maggiore o minore inferiorità, dopo aver riconosciuto che il Signore, Dio di Israele, è re e il suo governo domina su tutti».
Ed ancora:
«I gentili rimanenti [cioè quelli sopravvissuti allo sterminio totale dei non-ebrei nell’èra messianica, n.d.r.] adottano la fede in un solo Dio, ma rimangono separati e inferiori al Popolo Eletto, ne accettano l’autorità e lo servono. Alcune fonti parlano addirittura della distruzione totale di un intero settore del genere umano, piuttosto che della semplice morte di molti gentili».
La prospettiva di un futuro annientamento e asservimento delle nazioni idolatre, divenuta predominante fra gli ebrei ashkenaziti, è basata sul seguente passaggio talmudico:
«Ulla contrappone due versetti della Scrittura. È scritto: “Eliminerà la morte per sempre, e il Signore asciugherà le lacrime da ogni volto” (Is. 25,8). Ma è anche scritto: “Perché il fanciullo morirà a cent’anni” (Is. 65,20). Non c’è contraddizione. Il primo versetto [il quale afferma che le persone saranno immortali] si riferisce al popolo ebraico, mentre l’altro versetto [il quale afferma che le persone moriranno solo in età avanzata] si riferisce alle nazioni del mondo. Ma perché ci saranno le nazioni del mondo? Come è scritto [o “Questo si riferisce a coloro di cui è scritto”]: “E gli stranieri staranno a pascolare i vostri greggi, e i figli degli stranieri saranno i vostri contadini e i vostri vignaioli” (Is. 61,5)».
Berger chiosa che «si tratta di un passaggio talmudico che pone esplicitamente la questione se i gentili sopravviveranno alla fine dei giorni, e risponde che essi – o alcuni di essi – rimarranno in vita per servire il popolo ebraico».
Nel Sefer Nizzahon Yashan, che costituisce la forma più estrema di vendetta apocalittica contro i non-ebrei, troviamo, scrive Berger, «un passo tagliente sulla servitù dei gentili». L’autore ashkenazita non si limita a sostenere la superiorità sociale ed economica degli ebrei nel XIII secolo, che dà per ovvia e scontata, ma «si riferisce anche al futuro, quando i gentili continueranno (!) [il punto esclamativo è di Berger] a servire il popolo ebraico».
I non-ebrei comunque “qualche speranza” la avranno: quella di non essere completamente annientati!
«Affermano con veemenza ‒ leggiamo ancora nel Sefer Nizzahon Yashan ‒ che è sconveniente per gli incirconcisi e gli impuri servire gli ebrei. Dite loro: al contrario, se non fosse per il fatto che servono gli ebrei, sarebbero stati condannati alla distruzione, poiché è scritto in Isaia: “Sorgi, risplendi, perché la tua luce è giunta. Perché la nazione e il regno che non ti serviranno periranno; sì, quelle nazioni saranno tutte sterminate” (Is. 60,1,12). D’altra parte, fintantoché servono Israele hanno qualche speranza, come è scritto: “E gli stranieri staranno a pascolare i vostri greggi …” (Is. 61,5). Di conseguenza, dovrebbero servirci in ogni momento, così da poter adempiere la profezia: “Il maggiore servirà il minore” (Gen. 25,23).
«Per questa ragione la Torah dice: “Non mangerete alcuna bestia che sia morta di morte naturale; la darai al forestiero che risiede nelle tue città perché la mangi, oppure la venderai ad un gentile” (Deut. 14,21). La Torah ci ha detto di vendere questo tipo di carne ai gentili perché ci serviranno, e Dio non rifiuta la ricompensa di alcuna creatura. Questo infatti è ciò che facciamo: diamo loro gli animali che sono ritualmente inadatti al nostro uso, e per questo stesso motivo vendiamo loro le parti posteriori degli animali».
Anche fonti non ashkenazite ribadiscono la convinzione che i non-ebrei avrebbero servito Israele.
- Saadya Gaon afferma esplicitamente che «coloro i quali correggono la loro condotta entrando nella Torah di Israele» serviranno gli ebrei alla fine dei giorni «nelle loro case … nei lavori in città e nei villaggi … nei campi e nel deserto, ma sotto il dominio del popolo ebraico».
Nel suo commento a Isaia 14,1, Rashi scrive che alla fine dei tempi alcuni gentili si convertiranno alla fede giudaica e le nazioni rimanenti accoglieranno il popolo ebraico nel loro territorio, e il popolo ebraico le accoglierà «come eredità sulla terra di Dio, come schiavi e schiave, e deprederanno coloro che li avevano depredati e domineranno coloro che li avevano oppressi».
Un altro passaggio talmudico, il quale riferisce le parole del tanna de-Bei Eliyyahu, stabilisce che tutti i non-ebrei (gli “incirconcisi”) non solo saranno sterminati e asserviti in questo mondo, ma non avranno neppure parte nel mondo a venire, cioè saranno tutti indistintamente condannati alle pene eterne dell’inferno.
«Una volta, mentre viaggiavo da una città all’altra, incontrai un uomo anziano che mi chiese: “Maestro, ci saranno i gentili al tempo del Messia?” Gli dissi: “Figlio mio, tutte le nazioni e i regni che hanno tormentato e oppresso il popolo ebraico verranno e vedranno la felicità degli ebrei, si trasformeranno in polvere e non torneranno mai più, come è detto: ‘I malvagi lo vedranno e saranno addolorati’ (Sal. 112,10), ed è detto: ‘E lascerai il tuo nome come maledizione ai miei eletti’ (Is. 65,15). E tutti i regni e le nazioni che non hanno tormentato o oppresso gli ebrei verranno e serviranno come contadini e vignaioli, come è detto: “E gli stranieri staranno a pascolare il vostro gregge … e sarete chiamati sacerdoti del Signore” (Is. 61,5-6). Ed è detto: “Poiché allora rivolgerò al popolo un linguaggio puro” (Sofonia 3,9). Ed è detto: “E chiamerà i suoi servi con un altro nome” (Is. 65,15). Questi versetti si riferiscono a quei gentili degni di vivere al tempo del Messia.
«Potreste pensare che, poiché rimarranno in vita al tempo del Messia, essi meriteranno anche il mondo a venire. Mettete ora da parte le parole che ho appena pronunciato e prestate attenzione alle parole della Torah, che sono più severe di quello che ho appena detto. La Torah dice: “Nessun incirconciso mangerà [dell’agnello pasquale]” (Es. 12,48). Se questo è vero per una questione così insignificante come il sacrificio pasquale, sicuramente dovrebbe esserlo anche per il mondo a venire, che è la questione più sacra di tutte. Nessun incirconciso dovrà mai e poi mai mangiare in esso e dimorare in esso».
Berger osserva inoltre che, se l’aspettativa che tutti i non-ebrei sarebbero stati distrutti non era frequente nella letteratura ashkenazita (prevalendo quella dell’asservimento dei gentili scampati allo sterminio delle nazioni), «la speranza della distruzione totale del regno di Edom, cioè della cristianità, era piuttosto comune, e non solo presso gli askenaziti», come appare chiaramente da questo passaggio del Sefer Nizzahon Yashan:
«Non vi vergognate di dire di colui che ha parlato e ha creato il mondo, di colui che vive in eterno, che egli ha accettato la morte e la sofferenza per te? Infatti Mosè disse in nome di Dio: “Ecco, io alzo la mia mano al cielo e dico: Come è vero che io vivo in eterno …” (Deut. 32,40), e Davide, Elia e Daniele giurarono tutti sulla vita di Dio. Inoltre è scritto: “Ora vedete che io solo sono Dio e che non vi è altro Dio all’infuori di me” (Deut. 32,39). Eppure voi dite che egli ha un compagno, che ci sono due, anzi tre dèi. Sappiate chiaramente che Dio si vendicherà di voi, come è scritto: “Perché il Signore farà giustizia al suo popolo e farà vendetta dei suoi servi … O nazioni, acclamate il suo popolo …Egli vendicherà il sangue dei suoi servi” (Deut. 32,36,43).
«E Geremia disse: “Non temere, mio servo Giacobbe, non abbatterti, Israele … perché io sono con te; distruggerò tutte le nazioni fra le quali ti ho disperso, ma non distruggerò te” (Ger. 46,27-28; 30, 10-11). Inoltre ci ha fatto questa promessa: “Non temere, mio servo Giacobbe, non abbatterti, Israele, perché ecco, io ti salverò da un paese lontano, salverò la tua discendenza dalla terra della sua cattività. Giacobbe ritornerà, e sarà in pace, e nessuno più lo spaventerà” (Ger. 46,27; 30,10), ma nessuno della casa di Esaù rimarrà o scamperà (cfr. Abdia 1,18)».
Berger chiosa che, se pure l’autore verosimilmente credesse che i gentili delle terre lontane, dove non vivevano gli ebrei, non sarebbero stati distrutti, nondimeno era pienamente convinto che nel mondo cristiano la distruzione sarebbe stata «totale».
Questa posizione compare esplicitamente anche in fonti sefardite del tardo medio evo.
Simon ben Zemah Duran scrive che i profeti avevano previsto «la distruzione di ciascuna di queste religioni [cristianesimo e Islam] … in modo commisurato al grado in cui si erano allontanate dalla verità. Infatti, riguardo alla nazione cristiana, che ha pronunciato bestemmie contro Dio, il versetto dice: “E la casa di Giacobbe sarà un fuoco … e non scamperà nessuno della casa di Esaù” (Abdia 1,18) (…) Ma siamo certi che la nazione musulmana, che ha umiliato il nostro popolo e gettato a terra la verità, sarà umiliata dinanzi a noi come sua madre [Agar] fu umiliata dinanzi a nostra madre [Sara]».
Una distinzione simile tra Edom e le altre nazioni è fatta da Isaac Abravanel nel suo Ma’yenei ha-Yeshu’ah, che include anche l’Islam fra quelli che saranno interamente distrutti.
Il bersaglio principale è tuttavia la cristianità:
«Il decreto finale contro [il popolo di Roma, la Quarta Bestia nella visione di Daniele] non sarà a causa delle loro azioni malvagie, ma a causa delle parole e delle credenze strane e aspre che il piccolo corno [nella visione di Daniele], che si riferisce al Papa, e la setta dei sacerdoti di Gesù pronunciano contro Dio, egli sia benedetto».
Abravanel prosegue affermando che il Salmo 50,16-23 ammonisce il futuro regno cristiano di Edom, e che i cristiani saranno puniti per aver pervertito le Scritture, per aver rigettato le parole dei profeti relative alla futura redenzione e per aver perseguitato il popolo d’Israele
La nazione di Edom sarà colpita dalla «grande punizione», poiché ha commesso un peccato davvero monumentale: ha cioè parlato «contro Dio, attribuendogli umanità e corporeità, come se fosse uno di noi». Essa sarà punita con la «totale estinzione». «Il regno di Roma – la nazione di Edom e la nazione degli Ismaeliti che sono entrati sotto il suo governo – periranno tutti dalla faccia della terra, e quelle nazioni saranno completamente distrutte».
Leave a comment