Ebrei e non-ebrei nel giudizio del padre Joseph Bonsirven S.J.

EBREI E NON-EBREI NEL GIUDIZIO DEL PADRE JOSEPH BONSIRVEN S.J.

Bonsirven, Il Giudaismo palestinese al tempo di Gesù Cristo, Torino-Roma, 1950, pp. 34, 35, 44, 47, 48, 49, 50, 52, 54-55, 100, 106-107. Il giudizio del padre gesuita Joseph Bonsirven (1880-1958) è tanto più significativo, in quanto egli non era affatto, come usa dire, un cattolico pregiudizialmente ostile agli ebrei, ma al contrario si adoperò attivamente per combattere l’antisemitismo dilagante ai suoi tempi. Semmai, il paradosso è che gli antisemiti da lui combattuti impiegavano nella loro polemica antigiudaica gli stessi argomenti che compaiono in questo e in altri suoi scritti! (Cfr. G. P. Mattogno, Sinai Sinah Horeb. La genesi dell’odio rabbinico-talmudico contro i popoli del mondo, Effepi, Genova, 2020, pp. 65-81).

 

L’elezione di Israele è presentata da un teologo ebreo, Kaufman Kohler[1] come “il punto centrale della teologia giudaica e la chiave che fa comprendere la natura del giudaismo”: è dunque un articolo di fede fondamentale che si impone alla adesione degli ebrei (…)

Spesso è detto che tutti i benefici concessi da Dio ad Israele, in particolare quello della liberazione dalla servitù egiziana, sono dovuti ai meriti dei Padri; si sa che essi intercedono costantemente per i loro figli.

Osserviamo che il tema, nella sua forma semplice e primitiva, è di origine biblica: la Bibbia contiene preghiere in cui si supplica Dio di non dimenticare il suo popolo in ricordo di Abramo, Isacco e Giacobbe, e menziona le grazie divine che sono state impartite in considerazione di questi patriarchi.

Ma è facile l’abuso, che consiste nel credere che il fatto di appartenere alla razza di Abramo sia un pegno di salvezza.

Questa sufficienza razziale è denunciata da Giovanni Battista: “Non dite: noi abbiamo Abramo per padre; io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo”[2]. Queste ultime parole sono l’anticipazione della dottrina paolina che stabilisce, contro le illusioni in cui si cullano gli Ebrei, il vero carattere dell’elezione. Infatti, secondo l’Apostolo, le promesse fatte ad Abramo sono il principio di tutte le grazie soprannaturali in cui Dio vuole colmare la discendenza di lui, ma si tratta della discendenza secondo lo spirito, non secondo la carne: i veri figli di Abramo sono coloro che ne imitano la fede[3].

All’opposto, gli Ebrei nel loro particolarismo nazionale, hanno ristretto, fino ad annullarla, la portata delle promesse fatte ad Abramo (…)

È una costante convinzione presso tutti gli ebrei che la nazione di Dio debba prevalere su tutte le altre, come pure la Terra santa che fu divisa fra le sue tribù. Israele è un popolo eterno: esso non passerà come il cielo e la terra, i quali, d’altronde, sono stati creati per lui, e se si obietta che il cielo e la terra passeranno, si risponde che passeranno per essere rinnovati, e che Israele sarà allo stesso modo rinnovato[4].

È anche un grande popolo[5], un popolo impareggiabile e illustre[6], un popolo di razza potente[7] (…)

Convinto della propria superiorità, Israele non poteva mancare di provare, nei riguardi delle altre nazioni, distacco, disprezzo ed odio: atteggiamento che non si riduce unicamente ad un cieco orgoglio, ma che possiamo, sotto molti aspetti, scusare e spiegare. Israele vedeva in queste “nazioni del secolo” dei nemici di Dio, i quali l’oltraggiavano con la loro idolatria ed immoralità; non era un dovere religioso perseguirli con un odio sacro? (…)

Sotto l’imperio di queste disposizioni, come non scoprire, nei piani divini, la condanna delle nazioni?

L’elezione divina, di cui Israele è l’oggetto, è concepita e risolta in un piano di esclusivismo, diretto contro le nazioni.

Secondo Simeone ben Johai (circa il 150), Dio dice ad Israele: “A voi soli io ho unito il mio nome; io non sono chiamato il Dio degli idolatri; ma il Dio di Israele”[8].

E quando le nazioni, commosse dalla fedeltà eroica d’Israele per il suo Dio, gli propongono di unirsi a lui, esso risponde: “Voi non avete parte in comune con Dio; il mio diletto è mio, ed io sono il suo”[9].

Esclusivismo che sfocia nell’odio: Dio odia le nazioni perché esse danno il nome di colui che ha creato il cielo ad un pezzo di legno. Non dovrebbero esse comprenderlo, dal momento che Tineius Rufus si adira nel sentirsi chiamare un cane “Rufus” e la cagna “Rufina”[10].

Ed ecco riferita da Esdra[11] l’ultima parola del disprezzo divino: Nihil esse quoniam salivae assimilatae sunt, et quasi stillicidium de vase similasti abundantiam eorum [(le altre genti) non contavano nulla ed erano come uno sputo, e la loro quantità l’hai paragonata ad una goccia (che stilla) da un vaso].

Per conseguenza, Dio si mostra parziale nei loro confronti (…) Dio si mostra parziale anche nell’esercizio della giustizia. Quando giudica le nazioni, il suo esame è lungo, minuzioso e spietato, mentre per Israele si mostra indulgente[12]; la parte che egli riserva loro è la Geenna[13]; per essi non vi è parte nel secolo futuro[14]; le gravi pene di cui saranno colpiti rallegreranno Israele[15].

Dio tratta così le nazioni perché esse lo meritano a causa del loro congenito e profondo pervertimento. “Razza dalla innata malizia; razza maledetta fin dall’origine” scrisse l’autore della Sapienza di Salomone (12,10,11) (…)

I Gentili sono tutti cattivi[16] e posseduti da spiriti di peccato[17].

Si rimproverano loro, in particolare, i tre grandi peccati irremissibili: idolatria, lussuria, omicidio.

Atei per natura, li definisce S. Paolo[18], che ignorano Dio e lo combattono[19].

L’immoralità, assicura la Sapienza (14,12 …) è una conseguenza inevitabile dell’idolatria , così tutti i pagani sono posseduti dallo spirito della voluttà[20]; tutte le loro mogli sono adultere, cosicché i fanciulli egiziani, adulterini tutti, erano anche primogeniti[21]; la bestialità ed ogni deviazione sessuale sono da temersi nei loro confronti; donde le riserve e le precauzioni consigliate e comandate nei rapporti che si possono mantenere con essi[22].

Essi sono egualmente sospetti di versare volentieri sangue innocente (…)

Questo odioso disprezzo si traduce in diverse massime: i Gentili non sono uomini[23]: così, vengono designati – specialmente i Romani – con nomi di animali e degli animali più odiosi. Ne abbiamo testimonianza in diverse visioni apocalittiche, le quali rappresentano le nazioni sotto immagini di bestie. Se facciamo fede ad un testo isolato[24] sarebbe stato Meir che avrebbe, per primo, appioppato a Edom-Roma il soprannome di “porco”, e lo giustificava con un giuoco di parole: alla fine Roma restituirà (Hazir = porco) l’impero al suo vero padrone.

Se essi non sono uomini, le loro ossa, non più delle ossa degli animali, non possono contaminare con l’impurità che si contraeva col contatto di un cadavere[25]. Peraltro, per diverse ragioni, si può considerare il loro contatto, la loro saliva e, per conseguenza, il semplice loro avvicinarsi, come mezzi di comunicazione d’impurità. Già molto tempo prima della venuta di Gesù Cristo, i dottori avrebbero dichiarato che i loro paesi erano impuri (…)

Se il giudaismo si apre per l’ammissione dei proseliti, è con lo scopo di trasformare costoro in Giudei integrali, tanto per la loro religione, quanto per la loro nazione. Essi sono sottratti (e gli autori latini, primo tra essi Tacito, se ne lagnano) alla patria e ai costumi dei padri; anche essi sono diventati dei separati, degli stranieri.

Questo geloso separatismo può trovare la sua giustificazione nella necessità di conservare, nella loro intera purezza, la religione rivelata e il popolo che aveva ricevuto la missione di conservarla e di propagarla. Un esclusivismo così rigido non era un ostacolo insormontabile alla diffusione della religione divina, fatta per tutti i popoli?

Tutto sommato, per un Giudeo del I secolo, gli uomini si dividono in due categorie:

da una parte gli Israeliti fedeli, dall’altra i pagani e i Giudei empi, i cui peccati li hanno esclusi dalla nazione santa: i primi sono amati e benedetti da Dio; i secondi odiati, respinti, maledetti e incessantemente colpiti (…)

Religione nazionale, essa lo appariva trasformando in osservanze etniche riti che prima avevano un senso puramente religioso: il sabato, la circoncisione, le leggi di purità corporale e alimentare ecc. Tutte queste prescrizioni avevano per scopo principale di circoscrivere Israele in un geloso isolamento, onde permettergli di conservare intatto il deposito della rivelazione. E ciò spiega lo Pseudo-Aristea (nel 139): “Il legislatore, istruito da Dio su ogni cosa, ci ha chiusi in barriere inviolabili e tra muri di ferro, affinché noi, conservandoci puri di anima e purificandoci dei vani pensieri, non ci confondiamo in nulla con alcuna delle altre nazioni”.

Il passaggio dal dominio religioso puro al dominio razziale etnico è già accusato ed accettato: molti Giudei, difatti, nei tempi passati e tuttora, restano fedeli alle osservanze per significare la loro fedeltà al proprio gruppo nazionale. Condannarsi a non più estendersi significa rinunziare all’universalismo della vera religione. San Paolo l’aveva ben compreso; la sua lotta instancabile contro i giudaizzanti, i quali volevano imporre ai nuovi cristiani la circoncisione con tutte le altre leggi mosaiche, aveva per scopo di salvaguardare la libertà cristiana[26], che sarebbe stata distrutta dall’asservimento alle osservanze giudaiche (…)

Essi sono il popolo unico, superiore a tutti gli altri, che può riceversi nel suo seno nella misura in cui consentono a rinunziare alla loro propria nazionalità, per divenire Giudei integrali, dal punto di vista della religione e della nazione. Israele si rifiuta di diventare il lievito che si mescola alla massa per sollevarla ed animarla, perdendosi esso stesso per compiere la sua divina missione.

Separatismo esclusivo, geloso, orgoglioso, di cui conosciamo parecchie espressioni.

Quando San Paolo riferisce[27] che Dio, nel Tempio, gli ingiungeva di andare lontano verso le nazioni, gli uditori si precipitano furiosamente su di lui, gridando che non devono lasciarlo più vivere; essi respingono l’idea, tuttavia fondamentale, e corrispondente al piano divino, d’una evangelizzazione universale. Un secolo più tardi, a dire di Giustino[28] i suoi interlocutori giudei sono “sconvolti nel sentirmi dire che anche noi (i Gentili) eravamo figli di Dio”.

Non è dunque la nozione di Chiesa che spiega l’essere e il divenire del giudaismo, ma esso è sempre più una comunità religiosa etnica, una nazione-religione. I tre termini comunità religiosa etnica sono componenti integrali della combinazione. Etnica, cioè razziale o nazionale: i Giudei, dispersi nel mondo, sono un amalgama delle più diverse razze, essendosi il sangue semita abbondantemente mescolato a molti sangui, perfino al più autentico sangue ariano; se li si può chiamare una razza, è, nel significato che intende la sociologia moderna, in virtù del possesso comune e cosciente dei tratti psicologici che costituiscono un’anima singolare (…)

Allo scopo di non contrarre impurità i Giudei erano ugualmente indotti ad evitare, il più possibile, qualunque contatto o rapporto intimo con i pagani: da questo lato le leggi di purità invitano a concepire la santità come uno stato negativo, come una separazione; e diventano esse stesse come una forma di separatismo etnico.

Noi sappiamo che lo Pseudo-Aristea presentava queste leggi di separazione come “barriere inviolabili e muri di ferro” destinati ad impedire qualsiasi mescolanza con i pagani (…)

Spesso si è osservato che la legge mosaica e la legge morale giudaica comprendono quasi unicamente un codice civile e un codice criminale: ambedue sono stabiliti non in vista degli uomini in generale, ma per l’uso della comunità nazionale.

Sappiamo in che modo un dottore della legge, volendo darsi delle arie davanti a Gesù, gli pose la domanda: “Chi è il mio prossimo”?[29] Invero i commentatori giudaici intendono il termine che noi traduciamo per prossimo nel comandamento del Levitico[30] “Tu amerai il tuo prossimo come te stesso” come: il fratello di razza, il membro della stessa comunità opposto sempre allo straniero; dicono piuttosto il “vicino”.

Gli è che, per essi, l’umanità si divide in due frazioni: gli Israeliti fedeli, gli amici di Dio, cioè i “vicini”, e gli “altri” (aherim), cioè gli apostati e i pagani tutti ugualmente nemici di Dio.

Questo fatto filologico è sufficiente per sottolineare la differenza capitale tra il punto di vista cristiano del mondo ed il punto di vista giudaico. Esso è anche espresso in una opposizione stabilita da Gesù: “Voi avete imparato che è stato detto dagli antichi: ‘Amerai il tuo vicino ed odierai il tuo nemico’ ”[31].

A dispetto dell’indignazione degli apologisti del giudaismo, troviamo perfettamente esatto questo compendio che il Signore dà della morale sia biblica che rabbinica: essa esclude dalla sfera umana una metà dell’umanità e costringe a trattare da nemico colui che odia e colui che è odiato (…)

Conosciamo già i giudizi severi ed alteri che formulavano i Giudei sui pagani, nemici di Dio: abbiamo mostrato, peraltro, che i codici mosaico e giudaico sono concepiti in vista della comunità; quali saranno dunque le relazioni con i pagani?

La Tora prescrive di non lasciare sussistere in mezzo ad Israele alcun pagano ed è questo un ideale che ci si sforzerà di attuare ogni volta e sempre che si potrà: così procederà Esdra, così procederanno gli Asmonei obbligando alla circoncisione le popolazioni palestinesi.

Però, al di fuori come al di dentro della terra santa, si era obbligati, sotto il regime romano, a vivere a contatto con i Gentili. Come comportarsi?

Giuseppe definisce così le regole da seguire: “Si vedrà che il nostro legislatore ha preso le più efficaci misure per impedire nello stesso tempo di corrompere i nostri costumi nazionali e di respingere quelli che desiderano parteciparvi. Chiunque desidera vivere sottomesso alle nostre leggi, sarà accolto dal legislatore con benevolenza … Ma egli non ha voluto che immischiassimo alla nostra vita intima coloro che vengono di passaggio presso di noi”[32].

È esattamente il separatismo sistematico, ‒ αμιξία, che transige soltanto per l’ammissione dei proseliti cioè per coloro che volevano vivere in Israele non di passaggio ma in una completa assimilazione. Quest’attenzione ad evitare tutti gli impuri, praticamente tutti i Gentili, feriva questi ultimi ed aveva per effetto di restringere eccessivamente, se non di sopprimere totalmente, i rapporti sociali ed anche commerciali con i pagani poiché non si voleva cooperare alla loro idolatria (si rileggano le direttive di San Paolo a proposito degli idolatri)[33], e si temeva di essere vittima delle loro tendenze omicide e voluttuose.

Per principio, non si era tenuti nei riguardi dei Gentili, alle obbligazioni di giustizia e di carità prescritte unicamente a beneficio dei fratelli di razza. Benché far loro torto “esponga a far profanare il Nome”, si può approfittare dei loro errori, ingannarli perfino[34]; non si è tenuti a restituire gli oggetti trovati che loro appartenevano ecc.

Gli stranieri non comprendevano né sopportavano volentieri un tale atteggiamento come testimonia questo brano:

“ ‘Egli chiama i popoli’ (Deut. 33,3): ciò significa che il Santo – benedetto egli sia – non accorda il suo amore alle nazioni del secolo come l’accorda ad Israele. Sappi che egli si comporta così: così si dice che le cose rubate ad un pagano si possono conservare, ma non quelle rubate ad un Israelita. Una volta l’impero delegò due soldati dicendo loro: Andate a farvi proseliti allo scopo di veder che cosa c’è di buono nella Tora degli Israeliti. Essi andarono da Rabban Gamaliele a Uša (?) e quivi appresero la Scrittura, la Mišna, il Midraš, le halakot (decisioni giuridiche) e le haggadot (le altre dottrine). Nel congedarsi, essi dissero: La vostra Tora è del tutto buona e lodevole, salvo in un punto, cioè che gli Israeliti possono conservare una cosa rubata ad un pagano ma non quella che è stata tolta ad un Israelita (altre versioni: le donne giudaiche non devono assistere una partoriente pagana, né allattarne il figlio; mentre esse devono e possono ricevere questo servizio; non si è tenuti a riparare il torto causato ad un pagano da un bue cattivo); ma noi non ne riferiremo all’impero”[35].

Questi sono i principi: fortunatamente le necessità della vita in comune, un senso più alto della “santificazione del Nome” e doveri di umanità [?] condussero a molte deroghe teoriche e pratiche. Per il “bene della pace” si permette di salutare i pagani, di rendere loro diversi servizi di carità; di mantenere con essi relazioni amichevoli, di partecipare ai loro banchetti, come fecero ragguardevoli rabbini ecc.

Si accorda loro, a Gerusalemme, di entrare nel tempio, nel recinto loro riservato, e di offrire sacrifici. Ogni giorno si immolavano vittime a spese e secondo le intenzioni degli imperatori, si pregava per essi nelle sinagoghe; certune erano finanche dedicate a re pagani. Infine si proibiva di insultare gli dèi pagani o di criticarne il culto; attestazione di Giuseppe[36], la quale non impegnava tutti i rabbini.

 

[1] Jewish Theology, New York, 1928, p. 239.

[2] Luc. 3,8.

[3] Rom. 9,7,8.

[4] Assunz. di Mosè, II, 12; Sifre su Deut. 11,21.

[5] Mekilta su Es. 19,6.

[6] Baruch XLVIII, 20, 24.

[7] Henoc XCIII, 8.

[8] Es. Rabba XXIX, 3.

[9] R. Aqiba: Mekilta su Es. 15,2 che cita Cant. 2,16.

[10] R. Aqiba: Tanhuma teruma, 3.

[11] IV Esd.  VI, 56.

[12] Discepoli di R. Josuè Ben Hanania, al principio del II secolo: Gen. Rabba LXXXII,8.

[13] Sifre su Deut. 32,8.

[14] R. Eliezer, circa il 90: Tosefta Sanhedrin XIII, 2.

[15] R. Jehuda Ben Ilaj, circa il 150: Baba mezia 33b ecc.

[16] R. Nehemia, circa il 150: Sifre su Deut. 32,32.

[17] Giubilei XV,31.

[18] Ef. 2,12.

[19] Baruch LXXXII, 5,9.

[20] R. Simeone Ben Johai, circa il 150: Jebamot 103b.

[21] Mekilta su Es. 12,33.

[22] Tosefta Aboda Zara III,3-4.

[23] R. Simeone Ben Johai: Jebamot  61a.

[24] Eccl. Rabba I,9.

[25] Jebamot 61a, barajta.

[26] Gal. 4,31; 5,1-5.12.

[27] Atti 22,21,23.

[28] Dialogo con Trifone CXIII,9; CXXIV,1.

[29] Lc. 10,29.

[30] Lev. 19,18.

[31] Mt. 5,43.

[32] Contra Apionem II, XXVIII, § 209 sgg.

[33] 1 Cor. 8,10.

[34] Baba qamma 113b.

[35] Sifre su Deut. 33,3.

[36]Contra Apionem II, XIII, XXXIII, § 144.

One Comment
    • Giusto Bresciani
    • 13 Maggio 2025

    Al giornalista Massimo Fini, di madre ebrea, non è mai mancato il coraggio di esprimere le proprie idee, quasi sempre controcorrente: vedi la sua difesa del diritto degli Afghani a vivere secondo le proprie tradizioni. E con molto piu’ coraggio ha espresso un giudizio anticonformistico sulla fiaba degli Ebrei, eternamente innocenti ed eterno bersaglio della ferocia altrui. Ha scritto infatti nel suo blog (https://www.massimofini.it)
    sotto il titolo “L’evangelizzazione come totalitarismo”, tra l’altro queste righe interessanti:
    “Gli ebrei, bisogna dirlo, non hanno questo vizio [l’evangelizzazione], la generosità è loro estranea. Non fanno proseliti e gli altri vadano pure a scopare il mare. (…) Nel loro Dna c’è la vendetta e non certo il misericordioso “porgi l’altra guancia” del Cristo, questo affascinante borderline che, con magie da “illusionista”, alla Iniesta, moltiplicava i pani e i pesci, camminava sulle acque, risuscitava i morti, ridava la vista ai ciechi (anche se in questo caso l’operazione gli fu più difficile). Del resto sono o non sono il “popolo eletto”, il prediletto da Dio quello nato sul territorio sacro della Palestina mentre altri pur originari di quei luoghi, i palestinesi appunto, devono essere cancellati dalla faccia della Terra con i metodi più brutali come stiamo vedendo in questi giorni e in verità dal 1948? Peraltro con questa concezione del “popolo eletto” gli ebrei hanno declassato tutte le altre genti a popoli di serie B, ponendo le basi di quel razzismo antropologico di cui poi saranno tragicamente vittime.”

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