Gian Pio Mattogno
LA DONNA NON EBREA NEL TALMUD E NELLA TRADIZIONE RABBINICA
In non pochi luoghi del Talmud e della letteratura rabbinica i goyim (plur. di goy = non-ebreo, gentile) vengono definiti empi, impuri, malvagi e assimilati agli animali, poiché “uomo” (adam) in senso vero e proprio, cioè creatura fatta ad immagine del Dio giudaico, si dice propriamente soltanto dell’ebreo (G.P. Mattogno, La non-umanità dei gojim nel Talmud e nella letteratura rabbinica, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 2011. Qui impiego la traslitterazione goy-goyim perché di uso più comune).
Tra queste fonti rabbiniche ve ne sono alcune che riguardano specificatamente la donna non ebrea (goyah).
La concezione ebraica della goyah è il risultato dell’esegesi rabbinica della Torah.
Nella Bibbia ebraica la donna non ebrea è chiamata nokhriah (plur. nokhrioth; femm. di nokhri = straniero), cioè donna straniera. Il termine nokhriah ha una connotazione fortemente negativa.
Bisogna guardarsi «dalla donna perversa, dalle lusinghe della lingua della straniera (nokhriah)» (Prov. 6,24).
La nokhriah è definita «pozzo angusto» e viene esplicitamente associata alla zonah (prostituta), «fossa profonda» (Prov. 23, 27-28).
In Gen. 31,15 Rachele e Lia si lamentano per essere state trattate dal padre Labano come «donne straniere (nokhrioth)».
Non bisogna invaghirsi di una donna estranea (zariah), né stringere il seno di una donna straniera (nokhriah) (Prov. 5,20).
Ci si deve guardare dalla donna estranea (zariah) e dalla donna straniera (nokhriah) che proferiscono parole lusinghiere (Prov. 2,16; 7,5).
Secania, figlio di Ieiel, confessa ad Esdra che gli Israeliti sono stati infedeli con il loro Dio perché hanno sposato «donne straniere (nokhrioth) dei popoli della terra» (Esdra 10,2). Sposando donne straniere (nokhrioth), gli Israeliti hanno commesso un grave peccato (Esdra 10,10,14; 17,18, 44; Neemia 13,26,27).
Nella letteratura rabbinica ogni donna non ebrea è considerata nashgaz, acronimo di niddah (donna mestruata), shifhah (schiava), goyah (donna gentile, e dunque idolatra), zonah (prostituta).
Questo acronimo compare in Sanhedrin 82a nel contesto di una discussione relativa alla punizione da infliggere all’ebreo che ha avuto rapporti con una donna non ebrea. La Mishnah Sanhedrin 9,6 stabilisce che l’ebreo che ha pubblicamente rapporti sessuali con una Aramea, gli zelanti possono punirlo. Alcuni (a partire da Rashi) intendono il verbo nel senso di uccidere. V. Castiglioni, il primo traduttore della Mishnah in italiano (Mishnaioth, a cura di V. Castiglioni, Roma, 1962 sgg.), il quale rende «lo possono atterrare a morte», commenta: «Con questo vocabolo (Aramea) s’intendeva sempre una pagana. Deve trattarsi di una pagana figlia di un pagano, nel momento in cui compie l’atto in pubblico, cioè davanti ad almeno dieci Israeliti. Se manca una di queste condizioni, non è permesso di ucciderlo» (Ordine IV: Nezikim , p. 153 e n. 41).
- Goldschmidt, il traduttore del Talmud babilonese in tedesco con testo ebraico a fronte, precisa che il termine Aramea designa la donna non ebrea e segnatamente la donna romana (Der Babylonische Talmud, Berlin und Wien, 1925 sgg. Bd. VIII, p. 342).
Nella Gemarah dello stesso trattato Sanhedrin, R. Kahana rammenta a Rab le parole di Malachia (2,11): “Giuda ha tradito e un’abominazione fu compiuta in Israele e in Gerusalemme. Sì, Giuda ha profanato il santuario del Signore, quello che ha amato e ha sposato la figlia di un dio straniero”. Rab allora ricorda ciò che aveva appreso: sposando la donna non ebrea, Giuda ha commesso un atto idolatrico, un abominio (Lev. 18, 22), una prostituzione (Deut. 23,28).
- Higa b. Abbuyah afferma che «avere rapporti con una donna idolatra equivale a contrarre matrimonio con l’idolatria».
Vengono poi riportate le parole di R. Dime e Rabin:
«Arrivò [a Babilonia dalla Palestina] R. Dime e disse: il Beth-din [tribunale rabbinico] degli Asmonei ha stabilito che, se uno ha rapporti con una donna non ebrea, è colpevole come se avesse avuto rapporti con una donna mestruata (niddah), una schiava (shifhah), una donna gentile idolatra (goyah) e una donna non sposata (esheth). Arrivò Rabin e disse: nashgaz [niddah, shifhah, goyah, zonah] sì, ma non esheth, in quanto essi [i non-ebrei] non conoscono matrimonio [sia perché sono promiscui, sia perché il matrimonio di un goy non ha valore legale]. E tutti gli altri [gli ebrei]? Questi certamente esigono dalle loro mogli un comportamento non licenzioso» (Sanhedrin 82a).
In Aboda Zara 36b vengono riportate le medesime parole di R. Dime, e si precisa altresì che la proibizione di qualunque rapporto con donne non ebree è una legge data da Mosè sul monte Sinai, in relazione all’episodio di Finees narrato in Num. 25,1-8.
Stabilitosi in Sittim, «il popolo cominciò a fornicare con le figlie di Moab»; queste «invitavano il popolo ai sacrifici dei loro dèi e il popolo mangiava e si prostrava dinanzi ai loro dèi». Allora Jahvè ordinò di impiccare tutti i capi del popolo. Ed ecco arrivare un Israelita con una donna madianita; e Finees, figlio di Eleazaro, figlio di Aronne il sacerdote, prese una lancia, entrò nell’alcova e «trafisse i due, cioè l’Israelita e la donna, nel basso ventre».
Secondo la Halacha ‒ l’insieme delle norme civili, penali e religiose stabilite dai rabbini cui l’ebreo deve attenersi in ogni momento della sua vita ‒ la donna non ebrea è impura, cioè si trova in uno stato di impurità corrispondente allo stato di niddah della donna ebrea. Con il termine niddah (lett. “la respinta”) ‒ la cui normativa, fissata in modo sistematico nell’omonimo trattato talmudico, è stabilita in Lev. 15,9-32) ‒ si indica lo stato di impurità della donna ebrea durante il periodo della mestruazione e, per estensione, il periodo di isolamento cui è tenuta fino al rito di purificazione con il bagno rituale (mikveh).
Questo stato di impurità è particolarmente grave e va purificato senza indugi, come avverte Jahvè:
«Fate che i figli d’Israele si tengano lontani dalle loro impurità affinché non muoiano a causa di esse, per la contaminazione della mia dimora che è in mezzo a loro» (Lev. 15,31).
Assimilando la donna non ebrea alla niddah, i rabbini intendono sottolineare che, diversamente dalla donna ebrea che è impura solamente durante il periodo della mestruazione, la donna non ebrea è intrinsecamente impura proprio in quanto non ebrea.
A due riprese (Aboda Zara 36b, Shabbath 16b-17a) vengono riportate le parole di R. Nahman b. Isaac, secondo cui «le figlie degli idolatri sono considerate mestruate [e di conseguenza impure] sin dalla nascita».
Mentre infatti nella donna ebrea la niddah è una condizione provvisoria dalla quale costei è in grado di purificarsi, nella donna non ebrea è una condizione di impurità permanente, un segno indelebile e infamante connesso alla stessa natura idolatrica della goyah.
In quanto creatura impura, la goyah genera a sua volta impurità e idolatria.
«Una donna israelitica non deve assistere al parto di una donna idolatra, perché questa alleva un figlio all’idolatria» (Aboda Zara 2,2).
Secondo il rabbino Moses Isserles l’impurità della donna non ebrea è tale che può trasmettere i suoi effetti perniciosi anche sul fisico e sul carattere del bambino ebreo:
«Non si deve far allattare un bambino [ebreo] da una donna non ebrea, se può farlo una donna ebrea, perché il latte della donna non ebrea indurisce il cuore del bambino e gli procura una cattiva indole» (Shulhan Aruch, Jore Dea 81,7 hagah).
Ancora nel XIX secolo il rabbino Shlomo Gantzfried ribadiva questo precetto nel suo Kitzur Shulhan Aruch (Milano, 2001).
È preferibile, scrive, non consentire che un neonato ebreo sia allattato da una balia non ebrea «poiché (il cibo non kosher che è alla base del suo nutrimento) agisce negativamente sulla sua sensibilità e dà origine a un brutto carattere» (Kitzur Shulhan Aruch, cap. 165, n. 8, p. 886).
Oltre che impura, la donna non ebrea è zonah, prostituta.
Vi è una analogia tra niddah e zonah.
Come riguardo alla niddah la donna non ebrea si trova in una condizione permanente di impurità, allo stesso modo, riguardo alla zonah, ella viene assimilata alla prostituta e vive in una condizione permanente di prostituzione.
Il termine zonah (lett. “donna promiscua”) indica genericamente la donna ebrea che si prostituisce per denaro, o la donna che ha avuto rapporti incestuosi o adulterini, oppure ha avuto rapporti con un non-ebreo. La zonah per eccellenza è la donna non ebrea.
Maimonide (Mishneh Torah, Leggi sui rapporti proibiti 18,1) scrive che la zonah menzionata nella Torah è una donna non ebrea, oppure una donna ebrea che ha avuto rapporti illeciti, sottintendendo con ciò che la donna ebrea è zonah solo accidentalmente, cioè quando commette peccato, mentre la donna non ebrea lo è intrinsecamente, per via della sua condizione di idolatria e della sua abituale vita dissoluta.
Tutto ciò è confermato dallo Shulhan Aruch:
«Chi è una zonah? La figlia di un non-ebreo o la figlia di un Israelita che ha avuto rapporti con uno che non può sposarla» (Eben ha-eser, 6,8).
La Torah considera zonah la donna ebrea di facili costumi (Gen. 38, 15-23; Lev. 21,7; Deut. 23, 18-19; Prov. 6, 23-27; Osea 4, 14-15), ma anche la profanazione e la contaminazione (Lev. 19, 29; Ger. 3,1-9). In relazione al culto dei goyim, zonah diventa sinonimo di meretricio e abominio idolatrico, come quando Jahvè ordina agli Israeliti di non prostituirsi davanti agli dèi dei popoli cananei (Es. 34, 15-16), o stigmatizza come zonah il culto di Moloch da parte degli Israeliti (Lev. 20, 5-6), i sacrifici ai satiri (Lev. 17,7), la fornicazione degli Israeliti con le figlie di Moab (Num. 25, 1-3), o l’adorazione degli idoli e dei demoni (Sal. 106, 34-41).
Secondo Maimonide «colui che ha relazione con una donna non ebrea è come se avesse contratto matrimonio con l’idolatria» (Mishneh Torah, Legge sui rapporti proibiti 12,6).
Il matrimonio di un ebreo con una donna non ebrea è considerato opera del Maligno.
Il rabbino David Pinto racconta che un giorno una donna, il cui figlio malato era sposato con una donna non ebrea, venne da lui per chiedere una benedizione, ma egli le rispose indignato: «Come si può concepire che Colui che ci ha dato la Torah di Verità, che ci ha prescritto di non mescolarci alle nazioni, di non imitare la loro condotta, abbia permesso ad un ebreo di sposare una donna non ebrea? O di frequentare luoghi malfamati? Questa non può essere che opera di Satana!»
Secondo i Saggi del Talmud, la donna non ebrea è sempre una zonah, ma tale è anche la donna non ebrea divenuta proselita, perché, come spiegano gli esegeti moderni, una proselita, anche se si è convertita da bambina e non ha avuto alcun rapporto, proviene pur sempre dalla progenie dei goyim, che notoriamente hanno relazioni promiscue e i cui figli nascono da unioni illecite.
Per tale ragione, ogni goyah, anche la più casta, è definita zonah, e se zonah si dice della donna ebrea che si accoppia per lussuria, a maggior ragione è zonah la donna non ebrea che, in quanto idolatra, è promiscua e lussuriosa per natura.
Secondo R. Laqish «le fanciulle non ebree si conservano integre nel luogo dell’imene e si abbandonano alla lussuria in ogni altro luogo» (Gen. R. 60,5).
Oggi, per indicare la donna non ebrea con cui un ebreo ha una relazione, gli ebrei ortodossi americani, fermamente contrari ai matrimoni misti, usano il termine jiddish shiksa. Questa parola deriva parzialmente dall’ebraico sheketz, che designa una cosa abominevole, detestabile e disgustosa, in riferimento agli animali impuri e non kosher, cioè ritualmente “non adatti”. Nel Medioevo gli ebrei chiamavano sheketz il giovane non ebreo.
I moderni dizionari rendono sheketz con animale impuro, creatura spregevole, abominio, giovane goy.
Il rabbino Harold M. Schulweis si dichiara imbarazzato e profondamente offeso per tutto ciò, e si meraviglia che molti suoi correligionari usino il termine dispregiativo shiksa pur sapendo che questo deriva da una parola come sheketz che significa abominio, creatura impura, cosa disgustosa, animale nocivo. E conclude: «Questa è una forma di razzismo che dobbiamo combattere».
I Saggi talmudisti non hanno le stesse remore.
Anche la donna non ebrea, in quanto goyah idolatra, immonda e zonah, viene assimilata alle bestie, talvolta al cane, più spesso all’asino.
In Baba Kamma 49a R. Papa afferma che, nel caso di un bue che ha incornato una schiava cananea incinta, e questa abortisce, il proprietario del bue è tenuto a risarcire la schiava per la prole abortita, «perché è come se il bue avesse urtato una semplice asina incinta (…) Come afferma il versetto, Abramo si rivolse a Eliezer, che era un cananeo, dicendo: “Rimani qui con l’asino” (Gen. 22,5). I Saggi spiegano che stava alludendo al fatto che Eliezer appartenesse ad un popolo simile all’asino. Pertanto, il caso di un bue che incorna una schiava cananea non è incluso nell’esenzione, stabilita dalla Torah, dal pagamento di un risarcimento del feto».
In altre parole, la schiava non ebrea incinta viene equiparata ad un’asina gravida.
Lo stesso concetto viene ribadito da Maimonide (Mishneh Torah, Leggi sui danni monetari 1,4) e dallo Shulhan Aruch (Choshen ha-mishpat 405,3).
Il Talmud palestinese racconta di un tale che voleva sedurre la schiava di Rabbi. Questa rifiutò, per la ragione che, come disse, poteva fare la tebilah (il bagno di purificazione dopo il coito) solo insieme alla padrona. Il seduttore allora rispose: «Tu [schiava] sei considerata una bestia, e non hai bisogno di tebilah». Al che la donna replicò: «Hai forse dimenticato che è scritto: “Colui che pecca con una bestia sarà messo a morte”?» Così desistette dal suo proposito (Talmud di Gerusalemme, Berakhoth 3,4).
La condizione della goyah che giace con un uomo viene assimilata allo status di una bestia.
Nel Sefer Ben Sira (fol. 8, col. 2) leggiamo che il re Nabucodonosor disse a Ben Sira: «Se tu diventi il marito di mia figlia e prenderai in moglie mia figlia, ti farò regnare al mio posto». Al che questi rispose: «Io sono figlio d’uomo [cioè un figlio d’Israele] e non posso sposare una bestia, come è detto (Ez. 23,20): “La cui carne è come la carne degli asini”».
Secondo il Tanhuma (parasha Vayeshev 8), «se un ebreo giace con una donna non ebrea, questa si attacca a lui come un cane».
Qui il Tanhuma parafrasa il seguente passo talmudico:
«R. Samuel b. Nahman disse a nome di R. Yohanan: chiunque osserva una norma in questo mondo, la norma lo precederà nel mondo a venire, come è detto (Is. 58,8): “La tua giustizia ti andrà innanzi”. E chiunque commette una trasgressione in questo mondo, la trasgressione gli si attaccherà addosso e lo precederà nel giorno del giudizio, come è detto (Giobbe 6,18): “Le carovane deviano il loro cammino, si inoltrano nel deserto e si perdono”. R. Eleazar dice: Gli si attaccherà addosso come un cane, poiché è scritto (Gen. 39,10): “Egli non acconsentì di giacere al suo fianco per unirsi a lei”. “Di giacere al suo fianco”, in questo mondo; “per unirsi a lei”, nel mondo a venire» (Sotah 3b).
In verità, il passo talmudico parafrasato dice soltanto che una «trasgressione», ‒ e non già una donna non ebrea ‒ si aggrappa alla persona come un cane. Ma poiché il Talmud si riferisce all’episodio di Giuseppe e Putifar, la moglie del Faraone, il Tanhuma reinterpreta il passo talmudico riferendolo al rapporto sessuale con una donna non ebrea, che viene assimilata al cane.
Che la donna non ebrea sia equiparata ad una bestia è un assioma costantemente ripetuto dai Saggi d’Israele e dai commentatori.
A due riprese il Talmud assimila esplicitamente la goyah alla bestia: in relazione ad un rapporto proibito con un ebreo (Berakhoth 58a) e in riferimento alla natura stessa, menzognera e animalesca, attribuita dai rabbini alla donna non ebrea (Niddah 45a).
Riportiamo per esteso il passo di Berakhoth 58a nella traduzione di E. Zolli:
«Rab Shilà percosse un tale [ebreo] che ebbe rapporti con una egiziana; questi andò ad accusarlo presso il re, e disse: C’è fra i giudei un tale che emette sentenze senza l’autorizzazione del re. Egli (il re) mandò da lui un impiegato; quando arrivò (Rab Shilà) gli disse (al re: L’ho percosso) perché si unì a un asino. Gli dissero (allora): Hai testimoni? Ed egli rispose: Sì. Venne Elia (profeta), prese l’aspetto di un uomo e fece la testimonianza. Dissero allora (gli altri): Se è così, quegli merita la morte. Egli disse loro: Noi, dal giorno che fummo esiliati dal nostro paese, non siamo autorizzati a eseguire sentenze di morte. Fate voi di lui quel che volete. Mentre essi consideravano l’aspetto giuridico (della cosa), prese a parlare Rab Shilà e disse: “Tua, o Signore, è la grandezza e la forza” ecc. (1 Cron. 29,11); essi gli chiesero: Che cosa stai dicendo? Egli rispose: Stavo dicendo: Benedetto il Misericordioso, che ha amato la regalità sulla terra simile alla regalità del Cielo, e diede a voi dominio e amore di giustizia.
«Allora dissero gli altri: Tanto gli è caro lo splendore del governo! Gli dettero un bastone e gli dissero: Esegui il giudizio. Dopo che fu andato via, gli disse un [altro] tale: il Misericordioso fa così un prodigio a favore dei bugiardi? Egli (Rab Shilà) rispose: Malvagio! Forse essi (i pagani) non sono chiamati asini, secondo quanto sta scritto: “Che la loro carne è carne d’asino”? (EZ. 23,20). Rab Shilà vide che quel tale era andato a dire loro (a quelli del governo) che li aveva chiamati asini; egli (allora) disse: Allora quello è un persecutore, e la legge dice: se uno viene ad ucciderti, alzati e uccidilo! Lo colpì quindi col bastone e l’uccise».
Alcuni apologeti giudei obiettano che qui R. Shilà si riferisce esclusivamente ad una donna egiziana, probabilmente come reazione alle sofferenze subite dagli ebrei da parte degli antichi Egizi, e che comunque il paragone tra la donna egiziana e l’asino non deve essere generalizzato ed esteso a tutte le donne non ebree.
In primo luogo va precisato che nel testo originale non compare il termine egiziana (presente invece nelle versioni censurate del Talmud), bensì goyah, che Goldschmidt traduce puntualmente «Nichtjüdin», non-ebrea. Zolli sottolinea parimenti in nota: «Egiziana nel senso di pagana». L’ebreo invece è chiamato baal nokhrith (lett. “marito di una donna straniera”). Quindi, l’“egiziana” assimilata agli asini nel passo talmudico non è altri che una goyah , la donna gentile idolatra in generale.
Qui, come altrove, viene applicato l’assioma della non-umanità dei goyim ad un caso specifico.
In Niddah 45a si narra che un giorno una donna non ebrea di nome Justinia, figlia di Asvero (l’imperatore Alessandro Severo), figlio di Antonino, si recò da R. Yehuda (detto Giuda il principe, o Giuda il Santo, il codificatore della Mishnah) e gli chiese a quale età una donna poteva sposarsi e a quale età poteva rimanere incinta. R. Yehuda rispose che una donna poteva sposarsi all’età di tre anni e un giorno e rimanere incinta all’età di dodici anni e un giorno. Ma ella affermò di essersi sposata all’età di sei anni e di avere avuto un figlio all’età di sette anni. Allora il Talmud si chiede: può una donna concepire all’età di sei anni? E riferisce quanto stabilito dai Saggi d’Israele:
«Se vuoi, potrei replicare: “La cui carne è come la carne degli asini” (Ez. 23,20), oppure: “La cui bocca proferisce menzogne, la cui destra è una destra spergiura” (Sal. 144,8)».
Qui il testo talmudico è chiaro. Una donna al di sotto dei dodici anni non è in grado di concepire, ma Justinia sostiene di essere rimasta incinta all’età di sei anni e di aver partorito all’età di sette anni. Per risolvere questa contraddizione, i rabbi forniscono una duplice spiegazione: 1) dal momento che la carne dei non-ebrei è come la carne degli animali (Ez. 23,20), essa non obbedisce alle normali leggi della biologia umana e perciò l’utero di Justinia, essendo simile all’utero di una bestia, ha potuto concepire anche al di sotto dei dodici anni; 2) Justinia può aver mentito, in quanto, come è detto in Sal. 144,8 e confermato nel Talmud babilonese (Baba Bathra 45b) e nel Talmud palestinese (Pesahim 6,8), i non-ebrei sono abitualmente menzogneri e spergiuri.
Questi giudizi sulla goyah sono ribaditi dallo Zohar, secondo cui (I, 130b) la donna non ebrea è uno spirito impuro fonte di impurità e contamina chiunque si accosti a lei. A più riprese lo Zohar sottolinea che l’unione con una donna non ebrea è un atto di alto tradimento e di infedeltà nei confronti dell’Alleanza stipulata con Jahvè (II, 3b, 87b). Per R. Abba le giovani donne idolatre sono chiamate «cisterne semichiuse» (o «semiaperte»), mentre le donne israelite sono definite «fonte d’acqua viva», e l’ebreo che si unisce ad una donna idolatra rinnega il segno sacro dell’Alleanza (III, 266a).
Di fronte a queste esternazioni concordanti e incontrovertibili, gli apologeti giudei e i loro ausiliari chiudono gli occhi e replicano che tutto ciò non è vero, perché gli ebrei sanno anche riconoscere i pregi delle donne non ebree.
A conforto di questa tesi, il rabbino Joseph Bloch cita fra l’altro il passo talmudico Aboda Zara 20a in cui Rab sostiene che è proibito ammirare la bellezza di una donna non ebrea. Nondimeno, quando R. Shimon b. Gamliel vide una donna non ebrea particolarmente bella, esclamò (Sal. 104,24): “Quanto grandi sono le tue opere, o Signore” (J. Bloch, Israel und die Völker nach jüdischer Lehre, Berlin-Wien, 1922, p. 288).
Ma l’esclamazione di R. Shimon non ha affatto il significato che il rabbino Bloch vuole attribuirle. R. Shimon non desidera affatto lodare la bellezza di una donna idolatra, ma, come dice subito dopo, intende semplicemente ringraziare il Signore per aver creato tante cose belle nell’universo.
Questo risulta ancora più chiaramente da un passo parallelo del Talmud di Gerusalemme, dove si narra che R. Shimon b. Gamliel, vedendo una donna non ebrea molto bella, pronunziò la formula di benedizione. Il Talmud si chiede: come è possibile ciò? R. Josse b. Hanina, R. Ba e R. Yohanan non hanno forse detto che agli idolatri non deve essere attribuito alcun pregio? Forse che R. Gamliel ha l’abitudine di guardare le donne?
No, risponde il Talmud, poiché è da credere che l’incontro sia avvenuto in modo del tutto fortuito lungo una strada tortuosa, e che egli abbia guardato la donna non ebrea involontariamente. In ogni caso, aggiunge, non l’ha ammirata per la sua bellezza personale, ma ha semplicemente pronunciato la formula di giuramento («Quante cose belle ha creato Dio nell’universo»), «formula che R. Gamliel avrebbe pronunciato anche alla vista di un bel cammello, di un bel cavallo o di un bell’asino» (Talmud di Gerusalemme, Berakhoth 9,2).
In quale considerazione venga tenuta la donna non ebrea è chiarito senza equivoci da R. Akiba nel prosieguo della discussione prima citata in Aboda Zara 20a, che il rabbino Bloch si guarda bene dal riportare. Quando R. Akiba vide la bella moglie di Tinneius Rufus, dapprima sputò, poi rise e infine pianse: «sputò», perché ella, in quanto figlia di idolatri, era stata generata da un seme marcio; «rise» perché previde che sarebbe diventata una proselita ed egli l’avrebbe presa per moglie; «pianse», perché una tale bellezza col tempo sarebbe sfiorita.
La normativa tradizionale al riguardo è così compendiata dal rabbino Gantzfried:
«È proibito esprimere lodi nei loro (degli idolatri) confronti, anche solo dicendo: “Quanto è bello l’aspetto di quel non-ebreo”. A maggior ragione non bisogna elogiare le azioni (di uno di loro) o dimostrare ammirazione per quanto abbia detto, poiché anche ciò è incluso nel divieto velò technnèm nel senso di: “Non veder grazia in loro”. Qualora invece con la lode si intenda solo ringraziare il Signore che ha creato un essere così bello, allora è permesso» (Kitzur Shulhan Aruch, cap. 167, n. 15).
Idolatra, prostituta, creatura impura e fonte di impurità, intrinsecamente immorale e lussuriosa, animale nocivo, simile agli asini, generata da un seme marcio ‒ questo è dunque il ritratto della donna non ebrea quale emerge dalle fonti della tradizione rabbinico-talmudica e dalla normativa della Halacha.
Fonti e bibl. in: G.P. Mattogno, La non-umanità dei Gojim cit., pp. 62-78, 137-149.
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