
Nation of Islam Research Group
IL SISTEMA SCHIAVISTICO DEI MERCANTI EBREI NEI CARAIBI
(The Ways of the Jewish Slave Traders, March 2015, noirg.org).
La storia dell’esperienza ebraica americana, che la maggior parte degli ebrei vuol credere e che vorrebbe dare ad intendere al mondo intero, è quella di un vittimismo storico pressoché infinito.
Insistono nel dire di essere sfuggiti all’oppressione antisemita in Europa, e di essere approdati sani e salvi a Ellis Island molto tempo dopo la fine della Guerra Civile nel 1865, e certamente alcuni ci riuscirono.
Ci sarebbero riusciti grazie al loro duro lavoro, ai forti legami religiosi e al rispetto per l’istruzione comunitaria, contro ogni previsione, diventando, come esorta Isaia[1], “una luce del mondo”.
Secondo la storia che raccontano, essi furono totalmente estranei al brutto affare della schiavitù nelle piantagioni. Ma se fossero stati lì, ci assicurano, gli ebrei sarebbero stati alla testa degli abolizionisti. Dopotutto, il loro presunto essere stati schiavi del Faraone li avrebbe resi, fra tutti i gruppi di persone caucasiche, più solidali con le sofferenze dei neri.
Per un popolo fedele e credente nella Bibbia, questo autoritratto ebraico sembra plausibile, ed è coerente con la dottrina cristiana che santifica il popolo eletto da Dio, i cosiddetti figli d’Israele (Deut. 6, 6-11).
Ma coloro che oggi si definiscono ebrei si sono scontrati coi loro stessi storici e studiosi ebrei, i quali hanno presentato una versione completamente differente e molto più inquietante della storia ebraica americana e del ruolo centrale degli ebrei nel più grande crimine della storia mondiale: l’olocausto dei neri africani.
Per la maggior parte, gli americani, bianchi e neri, ignorano totalmente che, quando la tratta transatlantica ebbe inizio nel XVI secolo, questa si concentrava sul trasporto di schiavi africani verso le piantagioni di zucchero del Sud America e delle isole caraibiche, secoli prima di estendersi ai campi di cotone del Sud America verso la metà del XVIII.
Nell’intera storia della schiavitù nell’emisfero occidentale, ben 9 africani su 10 furono trasportati in quei climi tropicali, non in Mississippi, Alabama, Georgia o Carolina del Sud (…)
E durante tutta questa tragedia razziale senza precedenti, gli ebrei affermano che erano occupati in Europa, e dunque lontani dalla scena del crimine.
Robert Swierenga contesta decisamente questo alibi ebraico spesso ripetuto:
«Alla nascita degli Stati Uniti nel 1787 gli ebrei delle isole degli schiavi [Caraibi] superavano di cinque volte quelli del Nord America e potrebbero aver eguagliato quelli dell’Inghilterra. Il Suriname contava millequattrocento ebrei e Curaçao millecinquecento, entrambi quasi la metà della popolazione bianca totale. Al contrario, l’intero territorio degli Stati Uniti nel 1790 contava meno di millecinquecento ebrei»[2].
In cerca della libertà religiosa?
Ma questa precoce presenza ebraica nelle “isole degli schiavi” non è forse in netto contrasto con l’immagine prevalente degli ebrei come rifugiati politici religiosi amanti della libertà?
Questo è il momento migliore per discutere seriamente sulla tratta transatlantica degli schiavi e sul ruolo che vi ebbero gli ebrei, e dobbiamo cominciare col mettere da parte l’idea infantile, tipica di questa favola ebraico-americana, secondo cui gli europei attraversarono l’oceano “in cerca della libertà religiosa”.
Ogni bambino a scuola impara a conoscere i coraggiosi e pii Pellegrini che nel 1620 navigarono verso Plymouth sulla Mayflower “in cerca della libertà religiosa” dal tirannico re d’Inghilterra. Ma la verità è che i “Pellegrini” erano sotto contratto con un’impresa privata chiamata Company of Merchant Adventurers, la quale si aspettava che acquistassero legname, pellicce di castoro e di lontra, e qualsiasi altra ricchezza trovata o rubata. Perciò i “Pellegrini”, che si definivano “separatisti” e non “Pellegrini”, lavoravano sotto contratto con un’impresa privata i cui investitori non si curavano minimamente della religione.
Più di un secolo prima dell’arrivo di questi separatisti, uno spagnolo [?] di nome Cristoforo Colombo fu finanziato privatamente per il suo famigerato viaggio di scoperta del 1492 da un ricco ebreo di nome Luis de Santangel. Secondo Simon Wiesenthal nel suo libro Sails of Hope (p. 168), «se non fosse stato per quest’uomo la spedizione di Colombo non avrebbe mai avuto luogo».
Esperto mercante di schiavi, Colombo catturò 600 degli aborigeni che incontrò per metterli all’asta in Spagna. E lo stesso vale per i nuovi arrivati ebrei che cercavano profitti nello zucchero, nel cotone, nel tabacco e in altre ricchezze del Nuovo Mondo.
Così li descrive lo studioso ebreo Yosef Hayim Yerushalmi:
«Questi ebrei erano impegnati in una gamma pressoché illimitata di attività economiche, portavano armi alle milizie, possedevano terre e gestivano piantagioni, ed inoltre erano rappresentati nei consigli locali. Erano arrivati al punto più vicino della piena parità giuridica per gli ebrei prima della nascita dello stato-nazione»[3].
Non cercavano la “libertà religiosa”, ma la libertà di commerciare su scala internazionale. Quando infatti, per la prima volta, fu loro impedito di acquistare schiavi neri nelle colonie in cui entrarono, gli ebrei lo considerarono un atto di “antisemitismo”! Le ricchezze che cercavano non potevano essere ottenute senza il lavoro africano, sia libero che forzato. E mentre i mercanti ebrei seguivano la loro direttiva yakubiana [da Yakub, secondo Nation of Islam un personaggio vissuto migliaia di anni fa, il quale si sarebbe adoperato per asservire la razza nera n.d.r.] – cioè far lavorare gli altri per loro – è proprio qui che ha inizio il rapporto fra neri ed ebrei in Occidente.
In effetti, nei documenti esistenti di questi primi coloni ebrei ci sono scarsi riferimenti alla fede ebraica. Nulla su Mosè, su Aronne e sui Dieci Comandamenti; nessuna menzione dell’Arca dell’Alleanza, e di sicuro nulla sulla “Luce del mondo”. Là dove non c’era profitto, non c’era la parola “ebreo”, e c’era invece molto profitto nella schiavitù dei neri[4].
Il Suriname, situato nel nord-est del Sud America, vanta la particolarità di ospitare la più antica comunità ebraica delle Americhe. Gli ebrei vi fondarono una sinagoga nel 1665.
Lo storico ebreo Cecil Roth ne fa menzione nella sua Storia dei Marrani:
«Gli ebrei [del Suriname] furono anche i primi nella repressione delle successive rivolte dei neri, dal 1660 al 1722: queste rivolte in realtà erano in gran parte dirette contro di loro, in quanto maggiori schiavisti della regione».
Ed è qui che, incredibilmente, troviamo il primo accenno alla religione ebraica. La prima preghiera ebraica pubblicata nel loro paradiso del Nuovo Mondo fu una preghiera intitolata Antica preghiera al tempo della rivolta dei negri, in cui il rabbino chiedeva al loro Dio di dar loro la forza «di conquistare e distruggere sotto i loro piedi tutti gli africani crudeli e ribelli, i nostri nemici che stanno tramando contro di noi … Amen»[5].
Così continua Roth:
«Questi sconvolgimenti, unitamente ai cambiamenti climatici, portarono infine all’abbandono dell’insediamento, di cui ora non rimangono altro che poche tracce».
Qui Roth tocca un argomento che potrebbe essere difficile da comprendere per i più. Non solo gli ebrei erano presenti nelle Americhe molto prima della fondazione effettiva degli Stati Uniti, ma erano «i più grandi schiavisti» in una delle principali destinazioni degli schiavi africani. Inoltre, questi stessi ebrei “in cerca della libertà” andarono effettivamente in guerra contro gli africani fuggiti dalle piantagioni ebraiche!
Scrive lo studioso Steven Sallie:
«Non c’è dubbio tuttavia che gli ebrei fossero spesso incaricati di compiere incursioni e punire severamente i maroon [schiavi fuggitivi]. In risposta alle crudeltà di alcuni ebrei, i maroon attaccavano spesso determinate piantagioni ebraiche. Questi conflitti fra ebrei e africani erano numerosi e ben organizzati, e persistettero fino al 1800. Dati i loro nomi, i leader erano forse musulmani»[6].
Va inoltre rimarcato che gli studiosi su menzionati, tutti di alto livello accademico, hanno utilizzato il termine collettivo di “ebrei”, senza fare sul termine alcuna precisazione che limiti la responsabilità o colpevolezza a questo o a quello, a una parte o alla comunità ebraica nella sua interezza. Ciò è particolarmente importante data l’entità del crimine da loro descritto: la schiavitù dei neri.
Due autorevoli associazioni storiche ebraiche concordano su ciò e approfondiscono questo aspetto generalmente sconosciuto del ruolo ebraico nella schiavitù dei neri.
L’American Jewish Historical Society (AJHS), fondata nel 1892, è la più antica e importante. Il rabbino Marc Lee Raphael, che ne fu a lungo il curatore delle pubblicazioni, scrisse nel 1983 che nei Caraibi e in Sud America «i mercanti ebrei giocarono un ruolo importante nella tratta degli schiavi. Infatti, in tutte le colonie americane, francesi (Martinica), britanniche o olandesi, i mercanti ebrei erano spesso dominanti. E questo non era meno vero nel continente nordamericano, dove durante il XVIII secolo gli ebrei presero parte al “commercio triangolare” che portava gli schiavi dall’Africa alle Indie Occidentali …».
«Frequentemente dominato» e «ha giocato un ruolo importante» sono espressioni usate dal rabbino Raphael quasi un decennio prima che Nation of Islam pubblicasse il primo volume del libro sugli ebrei e la tratta degli schiavi The Secret Relationship Between Blacks and Jews, mai veramente confutato.
Swierenga, Sallie, Raphael e Roth affrontano tutti una sorprendente contraddizione (duality) nel rapporto fra neri ed ebrei durato 500 anni: l’immagine ebraica di sé come di un popolo desideroso di libertà contraddice direttamente il fatto reale che il popolo ebraico era attratto e spesso dominava le economie proprio nei luoghi in cui esistevano le forme più brutali di schiavitù.
L’American Jewish Archives (AJA) è stato fondato nel 1947 dal “Decano degli studiosi ebrei americani”, il rabbino Jacob Rader Marcus[7]. Vi sono depositate “dieci milioni di pagine di documentazione” sulla storia ebraica nelle Americhe. A quanto pare, l’AJA ha molto da dire su questi primi ebrei “oppressi” che emigrarono dall’Europa e in qualche modo trovarono una prosperità senza precedenti nelle “isole degli schiavi”.
In diversi articoli l’AJA fa casualmente diversi riferimenti al rapporto di interdipendenza fra le forme più brutali di schiavitù e i Pellegrini ebrei: «Singoli individui ebrei possono essere trovati su quasi ogni isola dei Caraibi prima dell’abolizione della schiavitù a metà del XIX secolo»[8], collegando così saldamente la schiavitù alla presenza stessa degli ebrei.
Nella colonia di piantagioni del Suriname, sottolinea l’AJA, gli ebrei «se la passavano bene, grazie all’abbondanza di schiavi e piantagioni»[9].
Rabbi Raphael aggiunge che «il commercio degli schiavi era una caratteristica importante della vita economica ebraica del Suriname, che costituiva un importante punto di sosta nel commercio triangolare. Sia gli ebrei nordamericani che quelli caraibici giocarono un ruolo chiave in questo commercio: i registri di una vendita di schiavi del 1707 rivelano che i dieci maggiori acquirenti ebrei spesero più del 25% del totale dei fondi scambiati»[10].
Un’analisi più recente degli ebrei del Suriname condotta da Aviva Ben-Ur non fa che confermare questo collegamento e aggravarne gli orrori:
«La libertà di cui godevano gli ebrei era indissolubilmente intrecciata con la coercizione violenta … Gli schiavi africani venivano regolarmente torturati ai bordi delle strade del villaggio o lungo la recinzione che circondava la piazza della sinagoga»[11].
L’AJA affronta un tema più e più volte ripetuto:
«L’abolizione della tratta degli schiavi nel 1819 e l’emancipazione formale degli schiavi nel 1863 resero le piantagioni non più redditizie, e decimarono il commercio ebraico a tal punto che [gli ebrei] praticamente scomparvero».
Badate bene all’importanza di questa affermazione: la liberazione degli schiavi neri decimò il commercio degli ebrei e fece scomparire la comunità ebraica.
Gli ebrei erano presenti sull’isola di Barbados intorno al 1628, e lo storico Stephen Fortune scrisse che «la riconosciuta prosperità degli ebrei contrastava con la difficile e ingiustificabile situazione degli schiavi»[12].
Gli ebrei accorrevano in massa in questo inferno sulla terra, e qui di nuovo l’AJA recita il solito ritornello ebraico: «Sfortunatamente, la depressione economica causata dal terremoto e l’emancipazione degli schiavi portarono all’emigrazione di molti ebrei dell’isola»[13].
Essi presentano la liberazione degli schiavi africani come un disastro simile al terremoto, che costrinse gli “sfortunati” ebrei a fuggire definitivamente.
L’Encyclopaedia Judaica (EJ) riferisce che l’isola di Curaçao era chiamata “Madre delle comunità ebraiche caraibiche”; eppure gli studiosi descrivono l’isola come un centro di distribuzione per la tratta degli schiavi[14], «un grande deposito di schiavi»[15].
L’AJA afferma che «la tratta degli schiavi aiutò Curaçao a prosperare, e la sua comunità ebraica crebbe rapidamente», costruendo persino una sinagoga «per la comodità dei proprietari delle piantagioni che vivevano fuori città»[16].
Gli ebrei infatti possedevano l’80% delle piantagioni di Curaçao e i mercanti di schiavi ebrei erano responsabili della distribuzione degli schiavi da Curaçao ai porti ispano-americani in tutti i Caraibi e in Sud America[17].
Nel 1765 la famiglia Jerusun possedeva un numero record di 366 persone di colore; il gentile che si avvicinava di più aveva 240 schiavi. In un caso documentato del 1701, i fratelli ebrei Senior organizzarono la spedizione di 664 africani. 205 perirono durante il tragitto verso Curaçao[18]. E lo storico dell’isola Johan Hartog conferma un tema ebraico familiare: la comunità ebraica subì un «forte declino» l’anno stesso in cui fu ridotto il commercio degli schiavi[19].
La EJ[20] ammette che, quando gli ebrei si stabilirono ad Haiti, «si specializzarono nelle piantagioni agricole», ma che «con le rivolte degli schiavi alla fine del XVIII secolo, gli ebrei abbandonarono gradualmente Haiti per stabilirsi in altre isole caraibiche o negli Stati Uniti (New Orleans, Charleston)». Gli ebrei non s’erano affatto fermati qui ad Haiti per la libertà dei neri, né avevano contribuito ad ottenerla. Ed infatti, non appena l’emancipazione divenne una realtà, gli ebrei abbandonarono Haiti per ambienti più schiavisti.
Anche la Giamaica aveva una forte colonia ebraica, come scrive l’AJA:
«La crescita dell’industria dello zucchero ampliò l’immigrazione ebraica e un certo numero di ebrei divennero proprietari di piantagioni»[21].
La EJ si vanta che «gli ebrei con piantagioni agricole controllavano le industrie dello zucchero e della vaniglia, ed … erano leader nel commercio estero e nelle spedizioni»[22]. Nella sezione dedicata allo zucchero, il prodotto maggiormente responsabile della schiavitù di milioni di africani, la EJ mette all’epicentro gli ebrei:
«Gli ebrei del Brasile non erano importanti come proprietari di zuccherifici, ma piuttosto come agenti finanziari, mediatori e mercanti esportatori. Quando il Brasile tornò sotto il dominio portoghese nella seconda metà del XVII secolo, molti ebrei emigrarono in Suriname, Barbados, Curaçao e Giamaica, dove acquistarono grandi piantagioni di canna da zucchero e divennero i principali imprenditori nel commercio dello zucchero»[23].
E subito dopo rivela l’altra, oramai prevedibile, realtà ebraica:
«L’abolizione della schiavitù nei domini britannici (1833) indebolì l’economia e disperdette gli ebrei». Si noti che qui la EJ scrive che la libertà dei neri schiavizzati «disperdette» gli ebrei.
Molti di questi ebrei “si disperdettero” nella terraferma nordamericana, afferma l’AJA:
«La fine della schiavitù nei Caraibi vide ebrei provenienti dalle isole arrivare quasi quotidianamente». Molti finirono nella colonia della Georgia, descritta come «sofferente per l’insistenza idealistica dei fiduciari nel non avere schiavi o liquori»[24]. Dunque, a dire dell’AJA, “niente schiavi” equivaleva a “sofferenza ebraica”. Ed in effetti, il rifiuto dei leader della Georgia di permettere la schiavitù dei neri innescò un esodo ebraico dalla colonia! Nel 1740 erano rimaste solo tre famiglie ebree. Secondo il rabbino Marcus gli ebrei se ne andarono perché «la schiavitù dei neri era proibita, il traffico dei liquori era proibito»[25].
L’ebreo Abraham de Lyon ebbe a dichiarare d’essere partito per «mancanza di negri … mentre i suoi servi bianchi gli costavano più di quanto potesse permettersi»[26].
Dai loro stessi documenti d’archivio, i maggiori studiosi ebrei hanno dipinto un quadro allarmante dei primi padri fondatori. In ogni caso esaminato la “libertà” e la prosperità dipendevano interamente dalla schiavitù dei neri, e una volta ottenuta la libertà dei neri il mondo ebraico implose e gli ebrei fuggirono.
La EJ riassume bene la questione:
«Un declino generale delle comunità ispano-portoghesi nei Caraibi si verificò nel corso del XIX secolo. La crescente concorrenza nei prodotti agricoli, l’abbandono delle piantagioni da parte dei lavoratori afroamericani a causa dell’abolizione della schiavitù, l’assimilazione e l’emigrazione furono le cause principali di questo declino»[27].
Quindi, l’immigrazione ebraica negli Stati Uniti fu motivata principalmente dall’abolizione della schiavitù in tutti i Caraibi, e molti di quei rifugiati sbarcarono a Charleston, nella Carolina del Sud. Secondo la EJ «durante i primi decenni del 1800 Charleston, con oltre 700 ebrei» aveva «la più grande, colta e ricca comunità ebraica d’America».
Lo storico James Hagy scrive che, nel 1830, l’80% delle famiglie ebree di Charleston possedeva schiavi africani. Ma quando giunse l’ordine di emancipazione di Lincoln, gli ebrei si allontanarono da Charleston e dal suo redditizio sistema schiavistico (…)
[1] Isaia 42,6; 49,6; 60,3.
[2] R. Swierenga, The Forerunners: Dutch Jewry in the North American Diaspora, Detroit, Wayne State University Press, 1994, p. 36.
[3] Y.H. Yerushalmi, Between Amsterdam and New Amsterdam: The Place of Curaçao and the Caribben in Early Modern Jewish History, «American Jewish History», vol. 72, n. 2 (December 1982), p. 190.
[4] Yda Schreuder, Amsterdam’s Sephardic Merchants and the Atlantic Sugar Trade in the Seventeenth Century, New York, Palgrave Macmillian, 2019, p. 70. Cfr. anche Steven S. Sallie, The Role of the Semitic Peoples in the Expansion of the World Economy Via the Trans-Atlantic Slave Trade: A Literature Extraction and an Interpretation, «Journal of Third World Studies», vol. 11, n. 2, Fall 1994, p. 173.
[5] Miscellaneous Items Relating to Jews of North America, «Publications of the American Jewish Historical Society», vol. 27 (1920), pp. 223-224.
[6] S.S. Sallie, op. cit., p. 173.
[7] americanjewisharchives.org
[8] Malcom H. Stern, Portuguese Sephardim in the Americas, «American Jewish Archives», vol. 44, n. 1 (Spring-Summer 1992), p. 142.
[9] Allan Metz, Those of the Hebrew Nation … The Sephardic Experience in Colonial Latin America, «American Jewish Archives», ivi, p. 226.
[10] Marc Lee Raphael, Jews and Judaism in the United States: A Documentary History, New York, Behrman House, 1983, p. 24.
[11] Jewish Autonomy in Slave Society, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, p. 76.
[12] S.A. Stephen, Merchants and Jews: The Struggle for the British West Indian Caribbean, 1650-1750, Gainesville, University Presses of Florida, 1984, p. 109.
[13] M.H. Stern, Portuguese Sephardim in the Americas, op. cit., p. 143.
[14] Lavy Becker, A Report on Curaçao, «Wisconsin Jewish Chronicle», December 5, 1969.
[15] Daniel M. Swetschinki, Conflict and Opportunity in “Europe”’s Other Sea”: The Adventure of Caribbean Jewish Settlement, «American Jewish History», vol. 72, n. 2 (December 1982), p. 236.
[16] S.A. Stephen, op. cit., p. 147; Emma Fidanque Levy, The Fidanques: Symbols of the Continuity of the Sephardic Tradition in America, «American Jewish Archives», vol. 44, n. 1 (Spring-Summer 1992), pp. 184-185.
[17] M. Lee Raphael, op. cit., p. 24.
[18] Isaac S. e Susan A. Emmanuel, History of the Jews of the Netherland Antilles, Cincinnati, American Jewish Archives, 1973, p. 77.
[19] J. Hartog, Curaçao from Colonial Dependence to Autonomy, Aruba, Netherland Antilles, 1968, p. 276.
[20] Second Edition, vol. 4, p. 473
[21] S.A. Stern, op. cit., p. 151.
[22] Op. cit., p. 474.
[23] Cfr. anche James C. Boyajian, New Christians and Jews in the Sugar Trade, 1550-1750: Two Centuries of Development of the Atlantic Economy, in The Jews and the Expansion of Europe to the West, 1450-1800, eds. Paolo Bernardini and Norman Fierig, New York, Berghahn, Books, 2001, p. 476.
[24] S.A. Stern, op. cit., p. 164.
[25] Jacob Rader Marcus, Memoirs of American Jews 1775-1865, vol. 2, New York, KTAV Publishing House, 1974, p. 288.
[26] Edward D. Coleman, Jewish Merchants in the Colonial Slave Trade, «Publications of the American Jewish Historical Society», vol. 34, 1938, p. 285.
[27] Op. cit., p. p. 470.
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