I crimini dei “buoni”. Come gli ebrei torturavano gli schiavi neri nelle loro piantagioni di zucchero

Nation of Islam Research Group 

I CRIMINI DEI “BUONI”.

COME GLI EBREI TORTURAVANO GLI SCHIAVI NERI

NELLE LORO PIANTAGIONI DI ZUCCHERO

(Torture of Black Slaves on Jewish Sugar Plantations, noirg.org)

Gli studiosi ebrei oggi riconoscono l’importanza del ruolo ebraico nella genesi, sviluppo e mantenimento delle colonie di zucchero, in particolare nel Suriname.

Da una recensione del libro di Laura Leibman del Reed College apprendiamo che «durante gli anni ’60 del 1600, il Suriname stava rapidamente diventando una delle colonie più ricche ed influenti delle Americhe. Sarebbe anche diventato sede di una delle più grandi, ricche e vivaci comunità ebraiche americane. Nel 1730 gli ebrei possedevano quasi il 30% delle piantagioni del paese e, al suo apice, la colonia contava fino a 1500 residenti ebrei, ovverosia circa la metà della popolazione bianca. Durante gli anni ’90 del 1700 gli ebrei del Suriname erano cinque volte più numerosi che in tutto il Nord America. Ancora nel 1830 vivevano più ebrei in Suriname che a New York. Il porto principale di Paramaribo ospitava tre congregazioni: sefardita, ashkenazita e una “fratellanza” afro-ebraica. La comunità ha lasciato un’immensa documentazione scritta e archeologica … Studi recenti sulla colonia hanno cominciato a cambiare il modo in cui comprendiamo le origini della storia ebraica americana. Anziché svolgere un ruolo marginale negli affari coloniali, gli ebrei del Suriname furono al centro della costruzione delle prime nozioni americane di razza, genere e sessualità … Come sottolinea [W. Wink, Creole Jews: Negotiating Community in Colonial Suriname, Rotterdam, 2008], “studiare la storia degli ebrei nel Suriname significa studiare la storia della schiavitù”».

I rapporti fra neri ed ebrei nelle colonie dello zucchero si basava sulla schiavitù dei neri mantenuta con la forza dagli ebrei.

Nel libro Jewish Autonomy in a Slave Society: Suriname in Atlantic World, 1651-1825, apparso nel 2020, Aviv Ben-Ur scrive:

«La libertà di cui godevano gli ebrei … era indissolubilmente intrecciata con la coercizione violenta … Gli schiavi africani venivano regolarmente torturati ai bordi delle strade del villaggio o lungo la recinzione che racchiudeva la piazza della sinagoga».

Apprendiamo dal leader dei B’nai B’rith Simon Wolf, della milizia ebraica del Suriname, che questa fu costituita per reprimere le rivolte degli schiavi.

I miliziani tagliavano le mani ai prigionieri per poi spartirsele fra di loro come trofei.

Uno storico ebreo, il rabbino Jacob Rader Marcus, ha incredibilmente presentato i padroni ebrei degli schiavi come vittime (sic!) quando ha scritto:

«Il problema principale che i bianchi ebbero ad affrontare nei confronti dei neri … fu la minaccia di rivolte servili. Negli anni ’80 del Settecento, il Suriname era un paese nel quale 3.356 bianchi galleggiavano su un vasto mare di quasi 50.000 neri. I bianchi si sentivano perseguitati dai loro stessi schiavi. Il risultato fu un circolo vizioso di insicurezza bianca, che provocò una repressione e una disumana crudeltà negrofobica, a cui i neri reagirono assassinando i loro oppressori bianchi e fuggendo nella giungla».

Le torture erano orribili. Esse sono state descritte dall’esploratore inglese Capitano John Gabriel Stedman [Narrative of an Expedition Against the Revolted Negroes of Surinam] il quale pure aiutò i coloni nelle loro guerre contro gli schiavi fuggitivi (noti come Maroons) e nel 1796 scrisse un resoconto delle sue esperienze.

Stedman descrisse torture che includevano frustate, mutilazioni, impiccagioni e squartamenti, annegamenti, amputazioni, morte per fame, rottura dei denti, punture di zanzare e altri insetti, e infine il rogo.

Queste sadiche torture venivano eseguite apparentemente per il puro piacere del padrone di razza bianca. Secondo un resoconto, «tagliare loro il naso e le orecchie, per ripicca privata, sono considerati uno sport». Quando il padrone moriva, «la maggior parte dei suoi schiavi veniva decapitata e sepolta assieme a lui». Ci fu un resoconto di una donna ebrea che uccise una donna nera «trafiggendola con un attizzatoio arroventato».

«È doloroso che il racconto dei miei viaggi debba così spesso rivelarsi un esempio di crudeltà e barbarie. Ma una volta per tutte devo dichiarare che racconto questi fatti solo nella speranza che possano, in un modo o nell’altro, contribuire a prevenirli in futuro. Prima della mia partenza sono stato informato di un episodio di depravazione estremamente sconvolgente, appena accaduto.

«Una donna ebrea, spinta da una gelosia infondata (poiché tale la faceva apparire il marito) pose fine alla vita di una giovane e bellissima ragazza mezzosangue col metodo infernale di conficcarle nel corpo un attizzatoio arroventato. Ma la cosa più incredibile, e che difficilmente potrebbe essere creduta in un paese civile, è che per questo crimine diabolico l’assassina fu semplicemente bandita dalla comunità [ebraica].

«Un’altra giovane donna di colore, con le caviglie incatenate così strette che riusciva a malapena a muovere i piedi, fu gettata a terra da un ebreo e picchiata finché il sangue non le uscì a fiotti dalla testa, dalle braccia e dai fianchi nudi.

«La gente di questo paese è talmente abituata, in effetti, alla tirannia e all’insolenza, che un terzo israelita ebbe l’impudenza di colpire uno dei miei soldati per aver innaffiato la recinzione del suo giardino. Su questo miscredente mi vendicai per l’intera confraternita, strappandogli di mano l’arma incriminata, che ruppi all’istante in mille pezzi sulla sua testa nuda e colpevole».

Gli schiavi neri spesso sceglievano il suicidio e a volte gettavano indietro la testa e ingoiavano la lingua, che li soffocava a morte davanti ai loro padroni. La pratica era divenuta così diffusa che i padroni cercarono di impedirla «avvicinando un tizzone ardente alla bocca della vittima».

Infine, visto che questo metodo di suicidio era stato impedito, il capitano Stedman concluse che «a causa di un uso così disumano questa infelice razza di uomini talvolta è spinta ad un tale livello di disperazione che, per finire i propri giorni ed essere liberati da una schiavitù peggiore di quella egiziana, alcuni si sono addirittura gettati nei calderoni di zucchero bollente, privando così il tiranno del suo raccolto e del suo servo».

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