Aspetti della polemica antigiudaica in Italia nel XIX secolo: Francesco Gambini e l’emancipazione civile degli ebrei

 

ASPETTI DELLA POLEMICA ANTIGIUDAICA IN ITALIA NEL XIX SECOLO:

FRANCESCO GAMBINI E L’EMANCIPAZIONE CIVILE DEGLI EBREI

 

(Premessa di Gian Pio Mattogno. ‒ Come contributo per lo studio della questione ebraica in Italia nel XIX secolo, presentiamo con questo titolo una breve antologia di pagine concernenti il pensiero dell’avvocato astigiano Francesco Gambini, tratte nell’ordine da: Roberto Mazzetti, Orientamenti antiebraici della vita e della cultura italiana. Saggi di storia religiosa, politica e letteraria, Modena, 1939, pp. 73-83; Della Cittadinanza Giudaica in Europa. Problema di Francesco Gambini Astigiano, Asti, Raspi, 1857, rec. in «La Civiltà Cattolica», Serie III, Volume VIII, 31 ottobre 1857, pp. 352-357; K., Della cittadinanza giudaica in Europa. Problema di Francesco Gambini, «L’Annotatore Piemontese ossia Giornale della lingua italiana per Michele Ponza», Fasc. 4° e 5°. Vol. 2°. ottobre e novembre 1835, pp. 243-247, che giudica giustissime le esposizioni storiche e le investigazioni politiche e religiose dell’autore, ma non le conseguenze che ne deduce, e a cui risponde implicitamente la “Civiltà Cattolica”).

Francesco Gambini (1759-1835), giureconsulto, ex giacobino, «distinto economista e valente politico» dalle idee liberali (Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte. Estratto dal Dizionario di Diritto Amministrativo dei Signori Avv. L. Vigna e V. Aliberti, Torino, 1848, p. 29. Si veda: M. Traverso, Diritto penale e strategie di mantenimento dell’ordine pubblico nel Regno di Sardegna (1814-1861). Il delitto di “grassazione”, [Tesi di dottorato], Università degli Studi di Milano, a. a. 2016-2017, passim; Id., “Migliorare la patria legislazione in una delle essenziali sue parti”. Il diritto penale sabaudo dalle Regie Costituzioni al codice penale albertino, Torino, 2022, pp. 19 sgg. e passim), già membro della consulta legislativa in Italia sotto Bonaparte e poi del Corpo Legislativo in Francia durante l’Impero, si occupò della questione ebraica in due scritti:

Dell’ebreo possidente, Torino, 1815;

Della cittadinanza giudaica in Europa. Problema, s. l. ma Asti, 1834 (Seconda edizione arricchita di una nuova Prefazione e di Note Illustrative, s. l. ma Asti, 1857).

Riguardo al contesto storico, oltre all’opera citata, cfr. R. Mazzetti, L’antiebraismo nella cultura italiana dal 1700 al 1900. Antologia storica, Modena, 1939, che riporta alcune pagine dell’Ebreo possidente (pp. 20-30) e Della cittadinanza (pp. 54-63), nonché La questione ebraica in un secolo di cultura italiana, Modena, 1938, dove però stranamente il Gambini non compare.

La «Civiltà Cattolica» definisce Francesco Gambini «eruditissimo a nostra notizia (benché più che un poco anche lui razionalista) tra tutti i moderni scrittori di cose ebraiche» (Di un recente libro “Pro Iudaeis”. Articolo IX. Il Giudaismo presente è l’antico Fariseismo, CC., Serie XII, Vol. XII, fasc. 849, 28 ottobre 1885, p. 297).

Simon Levis Sullam (I critici e i nemici dell’emancipazione degli ebrei, in Storia della Shoah in Italia, Torino, 2010, p. 54, n.8) parla di Gambini come di un «laico osteggiatore dell’emancipazione ebraica».

Se perfino uno scrittore liberale, per di più anticlericale, come Gambini, «politico per altri aspetti di idee avanzate» (B. Di Porto, Il movimento di riforma nel contesto dell’ebraismo contemporaneo, in Storia religiosa degli Ebrei di Europa. A cura di Luciano Vaccaro, Milano, 2013, p. 275) al pari di non pochi illuministi del Settecento, ha nutrito sentimenti critici nei confronti del giudaismo, qualche domanda giudei e giudeofili di complemento dovrebbero pur farsela.

Antonio Manno (Aneddoti documentati sulla censura in Piemonte dalla Restaurazione alla Costituzione, in: Biblioteca di Storia Italiana Recente (1800-1850). Volume I, Torino, 1907, p. 111) ricorda che, dopo la pubblicazione del volume sulla cittadinanza giudaica, la Congregazione israelitica del Piemonte supplicò il Ministro dell’Interno Barbaroux di sospenderne la vendita, per timore di possibili tumulti antiebraici a seguito delle tesi esposte nel libro. Il Ministro ritenne non esservi luogo a temere tumulti contro gli ebrei e soprassedette alla richiesta della Congregazione, riservandosi per l’avvenire la possibilità che il libro non venisse più ristampato (In realtà, come detto, il libro conobbe una seconda edizione nel 1857).

Nella nota biografica dedicata a Gambini, Giuseppe Maria De-Rolandis (Notizie sugli scrittori astigiani, Asti, 1839, p. 61) scrive:

«Ebreo possidente 1815. Della cittadinanza Giudaica in Europa 1834. Nella prima opera persuadeva che s’interdicesse agli Ebrei di possedere terre, nella seconda si faceva a dimostrare che i Giudei come Giudei non avrebbero mai potuto affratellarsi cogli altri membri dell’umana famiglia. Questi due opuscoli accurati nella parte storica, profondi nell’esame dell’edifizio sociale, giustissimi nella esposizione di alcuni generali principii potevano forse ravvisarsi da alcuni meno giusti nelle conseguenze che l’autore ne deduceva: ma le questioni che prendeva ad esaminare le chiamava egli stesso un problema, e lo scioglimento è serbato all’avvenire».

Riserve condivise dal recensore del Gambini su «L’Annotatore Piemontese», il quale concede che l’avvocato astigiano, «con erudita investigazione», presenti, a ragione, sulla base delle dottrine talmudiche, gli ebrei come implacabili nemici di tutti i popoli, odiatori delle stesse genti che offrono loro ospitalità, sordidi, vili etc., salvo poi dichiararsi favorevole alla loro emancipazione nell’ingenua speranza che il giudeo «si tolga dal culto giudaico per diventare cittadino».

Secondo Gadi Luzzatto Voghera (Il prezzo dell’eguaglianza. Il dibattito sull’emancipazione degli ebrei in Italia (1781-1848), Milano, 1998, p. 66) il Gambini avrebbe disgiunto il problema ebraico dalle sue radici teologiche, privilegiando un approccio politico-economico.

Ora, è bensì vero che l’autore si dice contrario all’emancipazione degli ebrei non perché giudei di religione, «ma perché immutabilmente Giudei di nazione, di costumi, d’interessi e d’affetti» (Dell’ebreo possidente), ma è altrettanto vero che siffatti atteggiamenti non erano che la conseguenza logica e naturale dei princìpi religiosi rabbinico-talmudici, come scrive chiaramente lo stesso soprattutto nell’altra sua opera (dove afferma che il segreto del giudaismo è nei suoi libri religiosi e definisce il giudaismo «una vera repubblica religiosamente esclusiva») e come spiegano bene Mazzetti e la «Civiltà Cattolica».

Correttamente Mario De’ Bagni (Francesco Gambini ed “il problema della cittadinanza giudaica”, «La Difesa della Razza», a. II, n. 2, 20 Novembre XVII, p. 29) osserva che Gambini confermava in proposito l’opinione dell’ebraista Luigi Chiarini e di tutti i dotti italiani che l’avevano preceduto, andando però oltre, in quanto faceva risalire l’ispirazione degli atteggiamenti giudaici non solo al Talmud, ma anche al mosaismo (evidentemente nell’esegesi rabbinico-talmudica), cioè esattamente alle “radici teologiche” del giudaismo.

Per contro, la posizione giudeofila può essere compendiata da un articolo commemorativo della figura del marchese Roberto d’Azeglio, apparso sulla rivista ebraica «Il Vessillo Israelitico» (La commemorazione di Roberto d’Azeglio, a. LXI, 1913, p. 409), dove si riportava l’elogio fattone dal deputato al Parlamento Paolo Boselli, il quale ebbe ad esaltare l’opera del d’Azeglio a favore della libertà degli Israeliti, e sul Gambini si espresse in questi termini:

«Francesco Gambini, uomo autorevole nei pubblici negozi, negava agli Israeliti, con libri che parevano dotti, ed erano di appassionato sofista, il possesso della terra ed il diritto della cittadinanza; e proclamava lo stato di guerra tra essi e gli altri abitatori del Regno; e quei libri, col patrocinio del Governo, si leggevano, si propagavano».

 

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(Roberto Mazzetti)

 

I particolari motivi antiebraici del Sessa, D’Arco, Rossi trovano uno sviluppo nel pensiero del piemontese Francesco Gambini. Il Gambini, vissuto fra il 1749 e il 1834, è uomo, a un tempo del settecento e del Risorgimento. Messo a riposo dai governi della restaurazione, (perché, uomo di idee liberali e nazionali, era stato, sotto Napoleone, membro della Consulta Legislativa in Piemonte e membro del Corpo Legislativo di Francia) egli si dedicò a studi economici, giuridici e politici (G.M. De Rolandis, Notizie sugli scrittori astigiani, Asti, pp. 69-70).

Anche in questi studi, egli, non poteva fare a meno di portare quello spirito liberale e nazionale unitario che aveva dominato i suoi più giovani anni (…)

Uomo del Risorgimento, come non lo furono affatto altri nostri scrittori antiebrei di quel tempo, come il Jabalot e Monaldo Leopardi, il Nostro non trovava nessuna contraddizione fra le sue fedi liberali e nazionali e il suo antiebraismo. E non era questo, nato in lui per una improvvisazione sentimentale.

Già nel 1815 si era occupato del problema ebraico scrivendo: L’ebreo possidente (Asti) e nel 1834 dedicava allo stesso problema un altro studio dal titolo: Della Cittadinanza giudaica in Europa (Asti).

Fra le sue opere inedite lasciava, inoltre, uno studio dal titolo: Dei Giudei e dei Turchi nell’Europa civile e politica (Nota pure, fra parentesi, che lasciava anche un’opera inedita dal titolo significativo: Del Piemonte come potenza italiana nel sistema politico d’Europa).

Quando il Gambini, nel 1813, scriveva il suo inno All’Italia, fra i mali che allora si deploravano era anche quello dell’espulsione di molti italiani dai loro poderi: a quei mali, appunto, faceva cenno il Nostro quando notava: «Parte ne invade il già ramingo Ebreo, / Or fatto cittadin, ricco d’usura».

Questi versi furono considerati illiberali e antifilosofici, e il nostro autore, che già nel 1800 quando «la gallica moral influenza spiegava sgraziatamente in Italia tutta quella prevalida forza, con cui la fortuna dell’armi e l’esempio de’ potenti sogliono soggiogar gli spiriti» (Francesco Gambini, Dell’Ebreo possidente, Torino, 1815, p. 14) aveva già in modo solenne reso noto il suo motivato pensiero antiebraico, si accinse a spiegar meglio il suo atteggiamento, in proposito.

L’opera che allora scrisse aveva il titolo: Dell’Ebreo possidente. Per il Nostro, esiste una grande diversità di pubblica importanza tra le proprietà mobili e le proprietà rurali.

Infatti: «i possessori ed i coltivatori delle terre, sono le due classi che propriamente costituiscono la nazione, di cui formano in un certo modo la base ed il fondo» (Op. cit., p. 8); inoltre le qualità particolari di dette classi conseguentemente determinano necessariamente il carattere generale della nazione medesima.

In breve, a mente sua, il giudeo può esercitare il commercio e l’industria con vantaggio suo e altrui: non può con vantaggio della nazione divenire proprietario.

Per il Gambini, che aveva presente solo l’esperienza agricola e politica del suo Piemonte, la fonte dello spirito nazionale, della tradizione, della milizia, della vita politica stava solo nell’agricoltura. Il giudeo che diventa proprietario di terra, espelle necessariamente dalla terra elementi e forze indigene e nazionali e si accinge a dar la scalata allo Stato.

Il giudeo che diventa proprietario è pur sempre legato da fedi, vincoli, riti con altri giudei; mantiene contro gli elementi nazionali sempre il suo spirito segregativo; si impossessa di una forza sorgiva della vita nazionale dove non è neppure cittadino.

«Non essendo dunque gli Ebrei né cittadini, né in caso di divenirlo per sé stessi, non possono acquistar terre, stabili, se non per tolleranza o per concessione. Questo principio di diritto pubblico fu da’ Governi d’Europa, rispetto a’ Giudei generalmente osservato; cosicché non furono essi abilitati all’acquisto di beni stabili, come neppure a qualunque altro diritto di cittadinanza, se non per concessione» (Op. cit., p. 66).

Ora: «una facoltà precaria è sempre limitabile, e revocabile da chi la tollera o la concede» (Op. cit., p. 67).

Esaminati a fondo, i giudei non sono che stranieri: meritano la protezione delle leggi fin che sono nel paese altrui, ma non hanno diritto di restarvi quando essi vengono a trovarsi in contraddizione coll’ordine pubblico e col bene dello Stato.

L’ebraismo non è solo una religione è anche un popolo; ed è un popolo che rimane identico a sé e contrario ad ogni processo di naturalizzazione, come rimane identica a sé la sua religione refrattaria ad ogni processo di umanizzazione e di superamento.

«Gli Ebrei, scrisse più d’uno, son divenuti pessimi, perché non cittadini. Si osservino i fatti e le già citate leggi nel loro ordine cronologico, e si vedrà che gli Ebrei furono già cittadini, o possidenti prima d’esser segregati: cosicché non furono già tristi, poiché non cittadini, ma cessarono d’essere cittadini, perché tristi» (Op. cit., p. 76).

Siamo, forse, con queste idee inumani, si chiede il Gambini? Risponde: noi «sappiamo che oltre la pura fraternità umana, vi è anche una fraternità civile e politica; e sappiamo pure che nulla può giammai derogare alla prima e che son soggette a molte eccezioni le due altre. I Giudei potranno dunque esser felici fra noi, per quanto la loro singolar condizione il comporti» (Op. cit., p. 77).

L’antiebraismo del Gambini rappresenta la prima consapevole dichiarazione italiana di inconciliabilità fra ebraismo e spirito nazionale moderno.

«Una nazione è un ente morale, avente uno spirito proprio che la vivifica, e per cui trovasi necessariamente attaccata alla propria conservazione e al proprio nome. Quel popolo che ha perduto ogni opinione di sé stesso, ed ogni principio di orgoglio nazionale, è pervenuto all’ultimo grado della sua corruzione» (Op. cit., p. 90).

Ora, l’antiebraismo, appunto, per il Nostro, è soprattutto espressione di coscienza nazionale, di orgoglio nazionale.

In conclusione: «non si vogliono i Giudei cittadini perché giudei di religione, ma perché immutabilmente giudei di nazione, di costumi, d’interessi e di affetti: si desiderano per essi anche dei favori tranne che questi non siano poi mali per i nostri contadini, proprietari, cittadini; tranne che quei favori non stiano per diventare un male irrimediabile per la nazione» (Op. cit., p. 96).

Il problema che si prefigge il Nostro è il seguente: Posta la libertà di culto; i Giudei come Giudei, possono essi confondersi indistintamente con altri membri dell’umana famiglia nell’unità collettiva di un corpo politico?

A mente del Gambini già gli ebraisti della fine del XVII sec. e del principio del XVIII come Bartolocci, i due Buxtorf e altri: «furono generalmente d’opinione che l’indole giudaica non poteva conciliarsi col comun diritto politico e civile» (Gambini, Della cittadinanza giudaica in Europa, II Edizione, Asti, 1857).

A questi autori ne succedette un’altra serie, la quale, persuasa della fine d’ogni influenza religiosa sul carattere civile degli uomini, dichiarò che le dottrine religiose degli ebrei non contenevano nulla di speciale e che le poche dottrine perniciose del Talmud erano opinioni e non autorità persuasive.

«Uscì finalmente alla luce l’insigne opera dell’Abate Chiarini, col titolo di Teoria del Giudaismo. L’oggetto dell’opera essendo la riforma de’ Giudei, n’espose egli il disegno cogli opportuni mezzi d’eseguimento. Fra questi mezzi era certamente importantissimo quello da lui propostosi della traduzione del Talmud in una lingua moderna comunemente intesa, acciocché il maggior numero di leggitori e anche d’autori non giudei, potesse avere facilmente sott’occhio la dottrina giudaica in tutta la sua nudità: e trovar in essa la risposta a quegli scritti, ed anche a quegli atti pubblici, che non avrebbero altro fondamento che alcuni luoghi comuni, ed alcuni pregiudizi de’ tempi.

«Quanto a’ Giudei, i quali per sé non han bisogno della traduzione del Talmud, che in cattivo ebraico hanno sempre tra le mani, sarebbe certamente ottimo il mezzo dal Chiarini proposto, cioè di alienarli dallo studio del Talmud, riducendoli a quello della Bibbia, onde cangiar almeno in tal modo il loro assoluto giudaismo in un semplice mosaismo. Non vi è dubbio sul vantaggio dell’operazione, s’ella fosse possibile, il che non pare: cade poi gravissimo il dubbio sull’estensione de’ suoi buoni effetti politici e civili, cioè sino a qual grado di cui si è lusingato l’Autore: e particolarmente sull’articolo della lor cittadinanza in Europa» (Op. cit., p. 14).

Il Gambini si trovò, così, ad occuparsi di materie giudaiche, come di un serio affare di Stato, quando, nella Restaurazione, si trattò di ricondurre gli ebrei all’osservanza degli antichi regolamenti: operazione difficile «soprattutto per la quantità di beni stabili di cui i Giudei si erano in breve tempi impossessati» (Op. cit., p. 11).

Nacque, in quel modo, il suo studio: L’ebreo possidente.

«Trattandosi – spiega il Gambini – di un regolamento destinato ad un popolo il quale esistendo in mezzo ad un altro, non si poteva però confondere ed identificare, e dovendosi intanto conformar le disposizioni del regolamento alla particolar natura di un tal popolo, rendevasi indispensabile l’esaminare, prima d’ogni altra cosa, l’origine e la base di tale particolarità. Non vi è che un popolo d’istituzione teocratica il quale possa trovarsi in simile circostanza: tutto il segreto doveva dunque essere riposto ne’ suoi libri religiosi» (Op. cit, pp. 9-10).

Da questi, soprattutto, il Nostro trae l’idea dell’assoluta insociabilità e inconfondibilità del popolo d’Israele, la cui natura è la dispersione permanente e il distacco dagli altri popoli in mezzo a cui esso vive.

Il Gambini passa quindi, in rassegna, con severità critica, i principali filosemiti europei del settecento e del primo ottocento

Le idee dell’inglese Toland (che in certe sue Origini Giudaiche aveva preteso di trovare una conformità di principio, nella natura divina, tra i libri di Mosè e il sistema di Spinoza, e che nell’opera: Reasons for naturalising the Jews (London 1715) aveva messo in evidenza le ragioni per cui dovessero in Inghilterra naturalizzarsi i Giudei), ebbero, nel settecento, un grande spaccio ma rimasero pura teoria.

Più fortunata fu l’opera del prussiano Dohm col titolo Della Riforma politica de’ Giudei (Berlin und Stettin). Dopo il corifeo Toland, l’opera di Dohm, confutata da Michaelis, copiata, commentata e difesa da Mirabeau, e quindi da Gregoire, fu quella che diede occasione ed impulso ad una quantità d’altre opere sullo stesso soggetto, e quel che è più, ad atti pubblici non men fra loro contrarii che non lo fossero gli autori di tali opere.

Il Dohm riteneva che il Talmud non rappresentasse che opinioni teologiche, quindi non impegnative per gli Ebrei e credeva, pure, che tolta di mezzo l’autorità del Talmud e delle sue pessime dottrine, e ridotto il Giudaismo alla sola Bibbia, la capacità civica de’ Giudei non potesse più incontrare veruna difficoltà.

L’emancipazione civile e politica degli ebrei, la concessione fatta ad essi di comprare e possedere anche beni immobili ecc. – aggiungeva Mirabeau – non porterebbero calamità diverse di quelle che caddero su Venezia, Livorno, Amsterdam e su tutte le città che hanno accolto gli Ebrei: la popolazione, il commercio, l’industria, la ricchezza ed ogni sorta di prosperità.

Il Gambini si scaglia contro queste asserzioni del Mirabeau:

«Per verità se Mirabeau voleva parlare del commercio d’Italia, e dell’influenza che vi ebbero gli Ebrei, doveva almeno consultare gli autori italiani che ne avevan trattato. Egli avrebbe veduto, per esempio, che Sessa nelle sue osservazioni italiane ch’egli appose al suo trattato de Judaeis, attesta francamente che il commercio de’ panni lani era dal 1680 in poi grandemente decaduto, perché essendovisi rivolti gli Ebrei, avevano screditata la merce coi loro monopoli e colle loro frodi.

«E precisamente in riguardo a Venezia, se Mirabeau avesse consultata l’erudita opera Dell’influenza del Ghetto nello Stato, di G.B. Conte D’Arco (Venezia 1782) egli vi avrebbe trovato come il ricchissimo smercio, che i Veneziani facevano in Levante, de’ loro broccati, venisse screditato da’ Giudei, col sostituir l’oro falso al buono che vi s’intesseva.

«Tutti sanno quanta parte avessero i lanificii di Firenze, ed i setificii di Venezia nella ricchezza commerciale de’ bei tempi d’Italia: e dai due citati autori si vede come i Giudei l’abbiano servita sì negli uni che negli altri» (Op. cit., p. 106).

L’assioma principale del Gregoire e del Mirabeau: far diventare i Giudei cittadini come gli altri significa farli smettere dell’aver vizi loro proprii, trova nel Gambini una ferma confutazione.

Il civismo degli ebrei si involge – spiega il Nostro – in una insanabile contraddizione.

«Una patria o cittadinanza, fuori della Giudea o della nazion Giudaica, ed in un Giudeo che intende di restar Giudeo, è … una vera contraddizione in termini; ed a cui neppur Dio potrebbe dar senso, giacché neppur Dio può realizzare il contraddittorio» (Op. cit., pp. 109-110).

Messe, poi, in luce le varie vicende attraverso cui in Francia, con Napoleone, l’Ebreo poté esser riconosciuto come cittadino ed anche come pagato cittadino, il Nostro scrive:

«Con tutto ciò non sarebbe forse da consigliarsi a’ Giudei una gran confidenza nella stabilità della loro attual fortuna. Tutto ciò che è straordinario è caduco, tanto più se fondato sul falso; ed i Giudei, come Giudei, sono tutti intimamente conscii, che la nuova attuale fortuna loro non è fondata che sull’errore altrui. Essa ha per conseguenza contro di sé la forza che nell’ordine moral delle cose è la più potente: la forza della verità» (Op. cit., pp. 130-131).

A conti fatti, è un male – scrive il Nostro – conceder la cittadinanza europea al popolo d’Israele.

«Il Giudeo è fra tutti i popoli dell’universo un popol d’eccezione, che non poté in mezzo agli altri esister mai, se non sottoposto a leggi d’eccezione: dalle quali sciolto talvolta per inavvertenza o per caso, vi fu sempre con suo maggior danno nuovamente ridotto» (Op. cit., p. 131).

Ammettere che la tristizia giudaica sia frutto unicamente delle persecuzioni antiebraiche equivale ad ammettere che le antichissime, fra quelle persecuzioni, fossero un effetto senza causa.

Consideriamo, ora, gli ebrei quali effettivamente sono.

«Il Giudeo disperso, e fra noi profugo, ci assedia e ci insidia, non men per bisogno che per avidità; ma noi lo conosciamo o dobbiam conoscerlo; e non negandogli per reazione quegli stessi uffizii d’umanità ch’egli a noi nega per instituto, dobbiam nel tempo stesso premunirsi in modo, che il ben che noi faremo al Giudeo, non si converta in nostro grave male; disposti nel resto a tollerar qualche cosa, giacché gli uomini, tanto individualmente quanto collettivamente, sono sempre nel caso di doversi fra loro perdonare qualche menda» (Op. cit., p. 133).

Non ci si faccia, adunque, illusioni.

«Il Giudaismo è un morbo asiatico che, come la peste bubbonica ed il vaiuolo, penetrato una volta in Europa, non fu più possibile lo spegnerne il germe, né si poté far altro che limitarne l’espansione e moderarne la malignità» (Op. cit., p. 136).

«La segregazione Ebraica nacque col nome d’Ebreo ed accompagnò inseparabilmente gli Ebrei e poi i Giudei … Il chiamar cittadini di una repubblica non giudaica i Giudei, non toglie nulla all’intrinseca segregazione del giudaismo, il quale costituisce per sé una vera repubblica religiosamente esclusiva, e di cui il Giudeo non può cessar d’esser membro senza cessar d’esser Giudeo» (Op. cit., p. 138).

Che cosa propone il Gambini per limitare l’espansione e moderare la malignità d’Israele?

1) Obbligar il giudeo ad abitar in città sotto l’occhio vigile del governo in rinnovate condotte;

2) interdirgli ogni vagante traffico nella campagna e tanto più l’aprirvi botteghe e banchi feneratizi e questo collo scopo di difendere i nostri contadini dall’usura ebraica;

3) troncare ogni rapporto agli ebrei con la campagna, interdire loro di comprare e possedere terre giacché essi diventerebbero ben presto padroni d’immensi possessi prediali e chi è padrone della campagna è padrone della città e chi è padrone del suolo è padrone dello Stato;

4) aprire loro tutte le scuole d’arti e di scienze e pretendere che i rabbini prima di esercitare abbiano frequentato dei corsi alle nostre università, affinché qualche raggio di luce scientifica penetri nel ghetto a moderarne in qualche parte il tristo spirito.

«Ciò però che non potrà interdirsi mai al Giudeo, cittadino o non cittadino, si è lo spirito e l’arte di arricchire, con tutta quella libertà di mezzi che la sua morale gli permette. L’Europa non ne ebbe forse mai, come a’ tempi nostri, esempi sì straordinari; e non è senza qualche ragione ciò che a questo proposito osserva il cavalier Bail. Il sistema de’ prestiti, egli dice, a cui è ridotta la maggior parte de’ governi dell’età nostra, ha posto i capitalisti giudei alla testa degli affari di finanze ne’ principali stati della Cristianità e renduto tutto ad un tratto a questa nazione un’importanza ch’ella non aveva più.

«L’attual sistema de’ prestiti ha però per sé stesso una ben altra importanza politica ed economica, che non sia quella di cui pochi capitalisti giudei abbiano potuto rivestire la totalità della lor nazione. Del resto la non men disastrosa che umiliante importanza politica, civile ed economica de’ Giudei, non metterà mai profonde radici in veruno stato finché la legge non permetterà loro d’invadere la proprietà del suolo» (Op. cit., pp. 136-137).

Conclude, così, il Gambini:

«Frattanto i moderni Giudei non debbono dimenticar mai, che la ricchezza de’ Giudei del medio evo fu una delle principali cause de’ loro mali; e che le esorbitanti ricchezze de’ Giudei moderni, con tutte le perniciose ed odiose lor conseguenze, potrebbero, oltre il pubblico risentimento, eccitar anche il buon senso politico a rigettar i sofismi che le promuovono e proteggono: ed a conchiuder finalmente, che se il frenare i Giudei non è possibile, il tollerali non è necessario» (Op. cit., p. 141).

Quando comparve nel 1834: La Cittadinanza giudaica in Europa, alcuni pubblicisti fra cui Carlo Cattaneo, negli Annali di statistica, ed Angelo Brofferio nel Messaggere Torinese si preoccuparono di attenuare le premesse e le conseguenze antiebraiche del Gambini.

Si iniziava, infatti, proprio in quel torno di tempo in Italia, con nobile fervore d’ideali cristiani e umani, una ricca molteplice agitazione ed opera culturale per l’emancipazione civile degli ebrei.

Quell’agitazione ed opera culturale a cui parteciparono in vario senso, i migliori uomini del nostro Risorgimento non è che l’espressione dell’idealismo morale di quegli uomini la cui opera, in quelle determinate circostanze storiche, ebbe la sua essenziale ragion d’essere, mentre, essa opera, poi, non fu affatto imitazione servile del genio democratico francese, se essa ha avuto la sua preparazione in quel settecento italiano, in cui, del resto, ha le sue radici autonome tutto il nostro Risorgimento.

Può essere, però, significativo il fatto che nel bel mezzo del secolo XIX e cioè nel 1857 si ristampasse ad Asti l’opera sopracitata di Francesco Gambini, con una prefazione degna di rilievo.

Dopo aver notato come il «generoso» voto del Cattaneo e del Brofferio per l’emancipazione degli ebrei (espresso già quando uscì l’opera in esame del Gambini), specie per l’intervento «di quelle splendide e incontaminate intelligenze di Roberto e Massimo D’Azeglio» (Op. cit., p. 4) fosse, pochi anni dopo, realizzato, il prefatore scriveva:

«Non solo partecipano ora ad una assoluta uguaglianza, ma in alcune parti della cosa pubblica, come in quella che ad eterna vergogna del Piemonte è tutt’ora indirizzata dagli Aporti e dai Fava, gli Ebrei provano agevolezze sopra l’immensa maggioranza dei Cristiani. Sapranno mostrarsi meritevoli e degni dell’insigne beneficio, o meglio della conseguita riparazione? Smentiranno col fatto, rendendo senza scopo ed inapplicabili ai loro figli le verità proclamate dall’astigiano statista?

«E qui non intendiamo gettar fango od imprecare a veruno de’ nostri fratelli, ma lo stolto e feroce rammarico espresso da un brioso garzone con altri suoi coetanei di non poter, in pochi istanti sterminare l’affollata moltitudine accorsa la sera del 10 ora scaduto Aprile alla mesta commemorazione del sacro Enterro, attesta purtroppo che il sentimento di probità, di onoratezza, di buona fede sperimentato in alcuni nostri conoscenti ed amici non venne ancor diffuso, quanto parevano assicurarlo 10 anni di libertà e di eguaglianza.

«È ben vero, che i grandi principii della morale sono di tanta e di evidente necessità, che né precetto di vera religione falsamente interpretato, né sforzo d’ingegno, né violenza mai valsero a cancellarli dal cuore dell’uomo. Tuttavia questa suprema verità in certe intermittenze di menzogna, d’interesse, d’orgoglio, d’ipocrisia, può essere sfigurata, abbandonata, negata.

«Soltanto coll’accettarla, col praticarla senza restrizioni e fini secondari verrà inaugurata e radicata cogli Ebrei quella fratellanza, la quale, ponendoci in grado di giovare a tutti e di essere da tutti giovato ci solleva dall’umile nostro posto a farci strumento della massima del Creatore qual è il consorzio degli esseri intelligenti: e solo allora ravviseranno in Francesco Gambini un amico leale, anziché un perfido nemico ed infame calunniatore, come esclamava il più facoltoso dei nostri Israeliti, all’udirne la morta avvenuta in Monale il 20 luglio 1835» (Op. cit., Prefazione, pp. 5-6).

Si porga attenzione: il Gambini è fermo nel concetto che il giudaismo è un morbo asiatico.

Questa intuizione, come s’è visto, non è nuova nella cultura italiana: è, comunque, rivelatrice di un dramma che sta alle radici della moderna civiltà europea.

 

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(La Civiltà Cattolica)

 

Fu opportuno il momento: questa operetta promossa già da un Ministro della Gran Brettagna in Piemonte (p. 4) si ripubblicava testè dall’editore astigiano nel momento appunto che il problema della cittadinanza giudaica, agitandosi clamorosamente nel Parlamento inglese, ridestava l’attenzione di tutti i pubblicisti.

A dir vero, non sarebbe stata necessaria quella strepitosa discussione, perché i politici sentissero l’importanza del problema, sorgendo questo in molti paesi di Europa, specialmente in Germania, pei richiami non infrequenti delle popolazioni tribolate e pei vari provvedimenti con che i Governi cercano di acquetarle.

Cionondimeno la quistione inglese era molto più atta a dare importanza al libretto, non essendovi paragone, quanto all’eccitare rumore, tra i decreti di un Monarca e le chiacchiere d’un Parlamento: specialmente poi del britannico, di cui gli stupidi ammiratori sono assai più numerosi che gli estimatori assennati. Or pensate se costoro hanno dovuto scuotersi al vedere il senno inglese titubante infra due, e il piato ingigantire, e i Comuni avventarsi ai Lordi, e i Lordi incampucciarsi nella toga de’ Magistrati, e tutti i partiti accapigliarsi per traforare pel rotto della cuffia un Ebreo nel Parlamento a dispetto della legge, del clero, della quondam onnipotente aristocrazia. “Ah, ah! Dovettero dire aprendo tanto di bocca, gran nodo debb’essere cotesto, se la spada medesima di cotesti Alessandri non basta a reciderlo!”

Ora a coteste bocche aperte ecco un boccone opportunissimo. L’Autore, antico Deputato in due Corpi legislativi, uno dell’Italia repubblicana, l’altro della Francia napoleonica (p. 119), non può essere sospetto di soverchie preoccupazioni clericali. E sebbene non ci ricordi d’avervi incontrata parola che disdica ad uomo credente, tutto nondimeno il tessuto del libro è d’uomo politico, il quale ragiona intorno alla cittadinanza degli Ebrei, tenendo perpetuamente fisso lo sguardo agl’interessi politici.

E se qui e colà accenna a quelle ragioni che nel Medio Evo eccitarono lo zelo (talora anche indiscreto) di regnanti, di crociati, di magistrati, che tante volte la Chiesa dovette frenare con l’autorità dei suoi canoni e col timore delle sue censure (p. 89)[1]; queste ragioni vengono proposte non come argomento oratorio, ma come fatto storico, essendo appunto storico tutto il tenore della scrittura.

Questa nacque in occasione che dovette obbligare l’Autore alle più serie riflessioni, quando, liberata dai Francesi l’Italia nell’anno 1814, uno degli Stati risorti trattò di ricondurre i Giudei all’osservanza degli antichi regolamenti, che erano altronde al giudaismo assai bene appropriati ed ai Giudei anche favorevoli (p. 9).

Volendo conformare il regolamento alla natura di un tal popolo, popolo che esiste in mezzo ad un altro, senza potervisi confondere e identificare per cagione dell’istituzione teocratica, dalla quale ne dipende l’esistenza civile; il Gambini comprese che, a ben risolvere il problema, tutto il segreto doveva essere riposto nei suoi libri religiosi (p. 10).

A questi dunque ricorre l’Autore, e incomincia dall’accennarne sommariamente la compilazione, mostrando come agli scritti biblici i Giudei nell’ultima loro età aggiunsero per commento quelle false tradizioni che venivano loro rimproverate fin dai suoi tempi dal Redentore Nazareno, e che vennero successivamente raccolte nella Misnà, poi nelle due Gemare, la gerosolimitana e la babilonica; tutto compreso sotto il nome generale di Talmud.

La Bibbia e il Talmud sono dunque i libri religiosi, da cui debbesi argomentare il carattere intrinseco ed immutabile dei Giudei, per giudicare della convenienza dei regolamenti, a cui debbono sottoporsi (p. 12, 13).

Tal è il principio fondamentale, per mezzo del quale egli spera risolvere il problema, se posta la libertà di culto, i Giudei come Giudei, possono confondersi nell’unità collettiva di un corpo politico?

Se l’Autore dimostrasse essere impossibile cotesta (come oggi dicono) fusione; vede il lettore che dal pareggiamento del popolo giudeo con una nazione qualunque nei diritti civili e politici, dee sgorgare necessariamente o lo Status in Statu, l’esistenza cioè di due diversi popoli e governi sopra un territorio medesimo con perpetua ostilità, o la prevalenza del più forte e più ostinato, che distruggerà a suo tempo la pretesa uguaglianza.

Se questa conseguenza fosse legittima, non è politico avveduto che non rispondesse tosto al problema, perniciosa dover riuscire ad uno Stato cristiano la perfetta uguaglianza civile e politica conceduta agl’Israeliti.

E tale appunto è l’opinare dell’Autore contro tutti coloro che, o per bontà di cuore non regolata dalla prudenza, o per rabbia da miscredenti accesi di brama di fare onta ai Cattolici, o per vanità e ambizione politica uccellante a plausi volgari, tolsero a difendere, con immenso danno politico delle nazioni cristiane, il preteso diritto degl’Israeliti.

E a dimostrare l’impossibilità della loro fusione nelle nazioni, l’Autore incomincia dal considerare nel Capo secondo lo spirito generale del Mosaismo qual è ridotto in forza del Rabbanismo[2]; spirito di separazione da ogni altro popolo e di strettissima fratellanza fra di loro. Il quale spirito reso già necessario per liberare il popolo dalle influenze idolatriche, alle quali era sì miseramente propenso, venne da Mosè fortificato con tanta mole di esterne osservanze religiose, intrecciate assiduamente in tutto l’andamento della vita domestica e della civile, che l’Israelita non potesse senza grave molestia addomesticarsi con altro popolo, finché non si risolvesse ad apostatare dalla propria religione.

È dunque impossibile al Giudeo il concetto di fratellanza universale, quale si comprende dal cattolico (p. 26): ma a crescerne l’impossibilità si aggiunge la condanna d’idolatria, nella quale essi involgono sotto il nome di Gojim tutti i Cristiani (p. 27), e l’orgoglio e la vendetta ispirati dall’idea del diritto che a sé attribuiscono di dominare il mondo, e dal vedersi in fatto il più avvilito popolo della terra (p. 22, 23 e sgg., 58).

E che cotesto spirito abbia veramente governato quel popolo in tutte le sue relazioni internazionali, viene dimostrato dall’Autore storicamente, ornandolo, per così dire, in tutte le sue vicende di cattività, di emigrazioni, di ribellioni dal primo suo nascere fino ai tempi presenti. Nel quale proposito egli ride di coloro che con troppa bonarietà di affetto, invece di attribuire le persecuzioni sofferte dai Giudei al loro mal animo verso le altre nazioni, pretendono attribuire il mal animo alle persecuzioni sofferte.

Quanti secoli, domanda, passarono e quante persecuzioni soffersero i Cristiani dalla Sinagoga, prima che la stancata loro pazienza sorgesse a reazione? Né cotesto odio, cotesta vendetta è puro sfogo di passione; ma è dottrina formalmente sostenuta nel Talmud babilonico, secondo il quale è indegno della carica e del titolo di Rabbino, colui che non alimenta l’odio e non si vendica de’ nemici. Ed essi perciò aspettando ansiosamente l’epoca della solenne generale vendetta … commisero poi tante atrocità nelle loro sollevazioni armate (p. 59).

Spererà forse taluno che cotesto reo spirito siesi potuto mutare col tempo. Ma chi riflette all’elemento religioso, ond’egli s’informa, comprenderà ben presto che l’apparente mitigazione è una semplice ipocrisia coonestata dai Talmudisti, ai quali la necessità di vivere, ed anche la sola avidità di guadagnare fecero in più casi superare gli scrupoli (p. 57). Il bisogno dunque di esistere e il desiderio di guadagnare, senza cangiare l’animo dei Giudei, poterono modificarne gli atti secondo le circostanze (p. 62).

Ma quando il timore della vendetta pubblica non li trattiene, essi continuano anche oggidì in tutte le osservanze a segno, che un consigliere municipale in Avignone, ricusandosi come Giudeo ad un atto eminentemente civico (la sottoscrizione degli atti), dichiarava sé stesso incompatibile con la cittadinanza, di cui altri intendeva di rivestirlo (p. 57).

Una sì rabbinica osservanza di minutissime pratiche non lascia certamente supporre mutazioni di spirito, specialmente veduto i richiami di tante popolazioni che ancora ne soffrono gli effetti, benché i Giudei sieno lungi tuttora da un totale affrancamento.

Tutta questa parte del libro mostra nell’Autore molta erudizione dei documenti ebraici, e ricevono poi valida confermazione dall’eruditissime note aggiuntevi in questa edizione da un valoroso teologo piemontese, che si mostra non meno perito nella lingua santa, che osservatore accorto dei fatti contemporanei, co’ quali conforta le dottrine dell’Autore.

Cionondimeno la parte che sembraci acchiudere maggiore rilevanza è quella compresa negli ultimi capi dal duodecimo al decimosettimo, ove si considera la condizione de’ Giudei nelle nazioni incivilite, il profitto che trassero (a dir vero, un po’ scarso) dalla loro ammessione nelle Università, gli apologisti che sortirono, (Tolando, Mirabeau, Gregoire ecc.), nomi che sventuratamente per loro, faceano poco onore alla causa: gli argomenti de’ quali vengono dall’Autore gagliardamente confutati.

Esamina poscia le cause che indussero Napoleone I a formare quell’inutile ed impotente corpo centrale degl’Israeliti che si chiamò il Sinedrio di Parigi, e che, nell’atto stesso di condiscendere al Potente che l’interrogava, seppero deriderlo e deluderne le intenzioni.

Né meglio corrisposero nei tempi seguenti, benché accarezzati per ogni maniera, specialmente dal partito libertino. Il quale in sostanza null’altro poté ottenere al fin de’ conti, se non introdurre in alcuni dei più dotti fra i loro Rabbini quell’incredulità panteistica, che gioverà mirabilmente ad attizzare in essi e l’ambizione della monarchia universale e la sete insaziabile di ricchezza e l’odio di ogni nazione che alla loro si contrapponga.

È facile al lettore il comprendere quale debba essere dopo tali premesse la conclusione dell’Autore. Separazione da tutti i popoli, avidità di guadagno, odio e vendetta sono vizii de’ Giudei usciti di Palestina, sono effetto costante di immutabile causa legale, per cui non possono cessare d’essere viziosi, senza cessare d’essere Giudei; benché possano dissimulare per proprio vantaggio, come in tal caso lo permette il Talmud (p. 126).

Se questo è indubitato, concedere ai Giudei i diritti civili, vale altrettanto che allettarli ad usureggiare in modo da trasricchirne; trasricchiti che sieno, (e già in molti luoghi sono) comprarsi a poco a poco l’intero territorio di una nazione (p. 137); sul territorio comprato la loro popolazione ben presto trascenderà la popolazione nazionale, essendo notissima l’eccessiva forza propagatrice fomentata in cotesta gente dalle istituzioni mosaiche (p. 81). Fate che cotesto popolo così cresciuto si formi in un esercito disciplinato ed agguerrito: mettetelo in comunicazione con tutti i Giudei della terra; e ditemi chi potrà resistere a cotesta potenza.

Ma per ben comprenderlo ricordatevi che a dispetto di tutti i sogni filantropici il chiamar cittadini di una repubblica non giudaica i Giudei, non toglie nulla all’intrinseca segregazione del Giudaismo: il quale costituisce per sé una vera repubblica religiosamente esclusiva, e di cui il Giudeo non può cessare d’esser membro, senza cessar d’essere Giudeo (p. 138).

Tale è il contesto generale di questo libretto, degnissimo per la sua gravità e saldezza d’essere conosciuto nonostante la picciola mole, in un tempo, in cui anche libri di gran mole riescono sulle bilance del senno leggieri ed effimeri. Noi esortiamo a procacciarselo e leggerlo sì i politici che hanno fra le mani i destini dei loro connazionali, sì certi censori dei vecchi tempi, che si lasciano trascinare troppo agevolmente dalla maldicenza di chi vitupera senza riverenza ogni istituzione dei padri nostri, sì quei dabben filantropi che credono aver fatto un atto di stretta giustizia e, chi sa?, forse anco di carità cattolica, con lo spalancare ai concittadini israeliti tutti gli aditi della ricchezza e del potere.

Se cotesta carità non conducesse ad altro che a rendere meno penosa per gl’infelici figli di Giacobbe questa fugace esistenza, prenderemmo parte ben volentieri alla loro pietà filantropica, e la battezzeremmo volentieri con le acque della carità cristiana.

Ma tale più non sarebbe la nostra indulgenza, se esponesse, come dice l’Autore, la nazione indigena alla fatal sorte del serpe della favola, che avendo ospitalmente accolto il riccio nella sua tana, fu dalla spinosa cotenna di questo obbligato di uscire egli stesso (p. 137).

 

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(L’Annotatore Piemontese)

 

Molti e diversi sono ancora ai dì nostri i giudizii che si portano dai pubblicisti sulla considerazione in cui hanno a tenersi i Giudei nelle regioni della incivilita Europa.

Caduto il tempio e il popolo d’Israello, si ridussero i Giudei ad uno stuolo di fuggitivi che a norma dei tempi, dei paesi, e delle vicende, furono ora tollerati, ora cacciati, ora spenti senza che venissero pur mai considerati come parte dell’umana famiglia, e governati non fossero da leggi di eccezione.

Finalmente dopo un lungo succedersi di peregrinazioni, e di sventure, videsi la Francia verso il tramonto del secolo decimo ottavo, aprire il seno a tutti i Francesi, senza porre diversità fra essi, e chiamare i Giudei alla comune cittadinanza.

Non seguì però questo mutamento senza concitare vivissime dissenzioni nella assemblea legislativa, ma confermato in appresso dalle leggi imperiali, confermato ancora dal governo della restaurazione parve indicare all’Europa che il miglior mezzo di condurre gli Ebrei ad essere amici della società, quello fosse di non trattarli da nemici.

Tuttavia l’esempio della Francia non ha potuto trarre a sé l’assentimento di tutti. I pareri sono ancora divisi, e fra quelli che sorgono a muover guerra alla cittadinanza giudaica nessuno mostrasi così formidabile avversario come il rinomato autore dell’opera che abbiamo annunziata.

Già il preclaro Francesco Gambini ci ha presentati di parecchi altri scritti in cui mal sapresti se più sia da commendarsi la profonda dottrina o il sottile ingegno, o il generoso sentire. Ma sebbene ei si dichiari in tutte le sue opere caldo e sincero amico di ogni utile progredimento non può tuttavolta acconsentire a non mostrarsi avverso a coloro che raccomandano l’emancipazione politica degli Israeliti.

Con questo divisamento ei ci pose innanzi, già sono parecchi anni, l’Ebreo possidente, ed offre adesso alla nostra meditazione l’Ebreo cittadino.

Il maggior nerbo dell’argomentare è posto dall’autore nella disamina delle istituzioni giudaiche, e soprattutto delle dottrine Talmudiche.

Ei ci schiera d’innanzi con erudita investigazione i principii, le massime religiose, politiche e civili degli Ebrei, e a noi li dimostra per proprio immutabile istituto implacabili nemici di ogni popolo che non sia giudaico, odiatori delle genti stesse da cui ricevono cortese ospitalità, sordidi, vili, e infidi stranieri in quelle terre medesime dove nascono, dove vivono, dove stanno sepolte le ossa dei loro padri.

Seguendoli poi, sulle pagine dell’istoria, in tutte le regioni della terra dai tempi di Vespasiano sino ai dì nostri ei ci fa persuasi che gli Ebrei furono sempre i medesimi in ogni loco, in ogni età, e conchiude alla fine che i Giudei come Giudei non potranno mai confondersi indistintamente con altri membri dell’umana famiglia.

Giuste sono le esposizioni storiche dell’autore: giustissime le sue politiche e religiose investigazioni; ma sarà poi giusta egualmente la conseguenza che ne deduce?

Noi stiamo per la negativa.

E nel vero l’autore egli stesso è costretto a dichiararci non potersi negare che sia seguita qualche mutazione in alcune dottrine de’ moderni giudei; è costretto a dichiararci che il feroce giudaismo ha dovuto cedere alla forza de’ tempi, e consigliando i legislatori a governare i Giudei come Giudei pensa tuttavia che tutte le scuole sì di scienze, che d’arti, siccome anche tutte le professioni debbano essere agli Ebrei aperte e libere: così, ei aggiunge, a poco a poco qualche raggio di luce scientifica entrerà pure in ghetto per moderarne in qualche parte il tristo spirito.

Ei concede adunque che i liberi studii, e la forza de’ tempi, e l’opportunità delle leggi faranno sfavillare qualche lampo di luce alle pupille giudaiche.

Ma perché non isperare dall’opera di un generale incivilimento un più copioso frutto, una più estesa conseguenza?

Il perché ce lo addita l’autore in queste parole: Tale è il diritto pubblico de’ Giudei, e tale è la loro Talmudica antisocial morale per cui non possono essere perfetti Giudei tra loro senza essere uomini tristi per tutti gli altri. Una patria o cittadinanza fuori della Giudea o della nazione giudaica ed in un Giudeo che intende di restar Giudeo è una vera contraddizione.

Ma se non può sperarsi che il Giudeo sia mai buon cittadino, perché non si spererà che il Giudeo si tolga dal culto giudaico per diventare cittadino?

A che giovano i crescenti lumi, i facili studii, e il fratellevole commercio dei popoli, e le feconde meditazioni dei secoli se non giovano principalmente a sradicare le fanatiche superstizioni umane?

Perché le assurde Talmudiche dottrine non dovrebbero cedere anch’esse, come tutti hanno ceduto gli antichi errori alla luce della verità, alla forza della ragione?

Se disparvero dalla terra i sogni di Belo, le follie del bue Api, le bende di Vesta, i misteri di Cerere, e perché non ingombrerebbero le ridicole speranze di baciare un giorno nella Palestina il lembo e le fimbrie della quadrata veste del gran Sacerdote d’Israello?

Chi niegherà che la lunga ostinazione giudaica non sia frutto dell’ignoranza in cui si tennero i Giudei, e principalmente delle persecuzioni politiche e religiose che loro toccò di subire in varii tempi e in varie parti della terra?

Si è veduto in ogni età sorgere più feroce il fanatismo sotto la mannaja degli sgherri, e propagarsi più rapidamente le dottrine in mezzo ai roghi nemici.

Gli errori non si distruggono colla forza; si dissipano colla ragione.

Istruite i Giudei, educateli, trattateli da cittadini, considerateli da fratelli, e vedrete che i Giudei porranno in disparte tutti loro codici dell’errore, e della superstizione per diventare anch’essi cittadini del mondo.

Ci risponderà probabilmente l’autore che ciò non si ottenne mai da nessun Governo europeo, che malgrado la protezione talvolta ai Giudei concessa non solo non pensarono essi a disertare il loro culto, ma si mantennero anzi acerbi nemici di quegli stessi che li proteggevano.  Ciò può esser vero; ma la protezione che loro concedevasi era una più ampia tolleranza, non una intiera concessione di liberi diritti che li pareggiasse agli altri uomini. Essere tollerato, o protetto, fa sempre ricordato di essere schiavo, e non sorge quindi la confidenza, la gratitudine, e ciò che è più il sentire degnamente di sé per non farsi da meno di altrui.

Non vogliamo assicurare perciò, che liberare la terra dalle superstizioni giudaiche possa essere opera di pochi lustri. Basterà forse appena un secolo a tanta mole, e forse gli esperimenti dei primi anni non saranno molto felici; ma i grandi successi vanno maturandosi lentamente, e se non i nostri figli, raccoglieranno il frutto d’utili riforme i nostri nipoti.

È grave e affannoso a un popolo incivilito il convivere, il coabitare con persone che dividon seco il costume, la favella, e la patria senza poterle però considerare come amici e fratelli. Quindi ogni sforzo che si facesse per condurre queste persone alla pace, all’amicizia, alla fraternità sarebbe impresa lodevole non solo, ma generosa e grande.

 

 

[1] Le stragi che de’ Giudei fecero allora i Crociati, furono orribili; né l’opposizione de’ buoni ed in particolare del Clero, poté frenarne l’impeto (p. 89). In Italia furono i Giudei men disgraziati che altrove, in quanto non vi furono mai né sì numerosi, né sì ricchi: perché lo spirito delle leggi romane … vi fu sempre conservato ecc. (p. 90). Nell’Italia gli Ebrei furono generalmente meglio trattati che altrove. Alle ragioni di questo fatto, addotte dal nostro autore, s’aggiunse la mitezza dei costumi propria “del bel paese ove il sì suona”, e quel che più loro giovò, la protezione de’ Romani Pontefici, di cui molti reclamarono presso i Governi a favore degli sgraziati figli di Giacobbe. Si distinsero massimamente su questo punto S. Gregorio Magno, Giovanni XXII, Innocenzo III, Onorio III, Urbano V e Martino V (p. 90).

[2] Rabbaniti si dicono dai Giudei coloro che riverenti s’inchinano al Talmud e ai Rabbini suoi interpreti: Caraiti all’opposto quelli che ricusano l’autorità della Sinagoga, come i protestanti fra noi l’autorità della Chiesa (p. 12).

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