Gian Pio Mattogno: L’idealismo tedesco e la rivoluzione massonico-borghese del 1789

Gian Pio Mattogno 

L’IDEALISMO TEDESCO E LA RIVOLUZIONE MASSONICO-BORGHESE DEL 1789,

PRELUDIO ALLA RIVOLUZIONE EBRAICO-CAPITALISTICA CONTRO LA CIVILTA’ CRISTIANA

 

(Il testo che segue riprende sostanzialmente la Premessa a: Filosofia classica tedesca, rivoluzione massonico-borghese e questione ebraica. Paradossi dell’antisemitismo da Kant a Hegel, Effepi, Genova, 2024).

 

In alcune pagine della sua Storia dell’antisemitismo dedicate alla filosofia tedesca e gli ebrei, Léon Poliakov denuncia apertamente il «prodigioso astio antiebraico» da cui, scrive, a tratti sono viziate le costruzioni concettuali di Kant, Fichte e Hegel.

Anche in costoro «il grano della speculazione filosofica era soffocato , appena si trattava degli Ebrei, dal loglio dei pregiudizi e dell’effusione dei sentimenti»[1].

Quella di Kant è l’«ostilità viscerale di un pensatore che, in diversi scritti e luoghi, preconizzava l’eutanasia per l’ebraismo in maniera tale che potrebbe essere stato il modo metafisico di gridare: “Morte agli Ebrei!”».

Poliakov riporta tra l’altro un brano della Antropologia di Kant, in cui il filosofo di Königsberg chiama gli ebrei “Palestinesi”, li definisce nazione di ingannatori e lamenta il loro spirito usuraio[2].

Il suo discepolo Fichte non è da meno. Nei Contributi per rettificare i giudizi sulla rivoluzione francese egli sostiene che si possono dare agli ebrei i diritti civili solo alla condizione di tagliare loro (metaforicamente) la testa e dargliene una nuova che non contenga una sola idea ebraica. Per tale ragione l’unica soluzione del problema ebraico è l’espulsione di tutti gli ebrei dalle terre tedesche[3].

Ma anche nel giovane Hegel, prosegue Poliakov, che cita alcuni passi delle Lezioni sulla filosofia della religione, della Fenomenologia dello spirito e delle Lezioni sulla filosofia della storia, ritroviamo, sebbene in modo più classico, la stessa violenza[4].

Al di là dell’enfasi (e del tono piagnucoloso che accompagna ogni pagina di Poliakov, dove i cattivi sono sempre gli antisemiti e i buoni sono sempre gli ebrei), anche se vari studiosi hanno cercato di minimizzare la portata di questi giudizi negativi sul giudaismo, rimane il fatto che essi effettivamente sono stati formulati e fanno oramai parte della storia dell’Idealismo tedesco.

Se mai, vi è da chiedersi come è possibile che persino pensatori “illuminati” e progressisti, campioni della “libertà”, della “tolleranza” e dell’“emancipazione del genere umano”, abbiano potuto nutrire sentimenti così ostili nei confronti del popolo ebraico.

Alcuni di essi, a partire da Voltaire, illuminista e massone affiliato alla loggia “Les Neuf  Soeurs”, sono menzionati dallo stesso Poliakov[5].

Alla fine dell’articolo Ebrei del Dizionario, Voltaire così scrive:

«Non troverete in loro che un popolo ignorante e barbaro, che unisce da tempo la più sordida avarizia alla più detestabile superstizione e al più invincibile odio per tutti i popoli che li tollerano e li arricchiscono»[6].

Un discepolo di Voltaire, il pastore Polier de Bottens, scrive la voce Messia dell’Encyclopédie, commissionata e ritoccata dal maestro, nella quale l’autore, facendo finta di difendere la Chiesa, ma in realtà col proposito di metterla in ridicolo, accusa gli ebrei di essere ricorsi ad ogni mezzo per invalidare e distruggere il grande mistero della divinità e della messianicità di Gesù Cristo.

Gli ebrei, scrive ancora Polier de Bottens, «non hanno trascurato niente per renderlo anche disprezzabile, per gettare sulla sua nascita, vita e morte, tutto il ridicolo e tutto l’obbrobbrio che il loro crudele accanimento contro il divino Salvatore e la sua celeste dottrina ha potuto immaginare. Ma di tutte le opere prodotte dalla cecità degli Ebrei, senza dubbio non ce n’è una più odiosa e strampalata del libro intitolato Sefer Toldoth Yeshu rispolverato da Wagenseil nel secondo tomo dell’opera intitolata Tela Ignea, ecc.».

L’enciclopedista Nicolas Boulanger afferma ne Le Christianisme dévoilé che quello ebraico è «il popolo più ignorante, stupido e abietto, la cui testimonianza non ha alcun peso per me (…) Gli Ebrei restano dispersi perché sono insocievoli, intolleranti, ciecamente attaccati alle loro superstizioni».

Nel Tableau des saints, scritto probabilmente dal barone d’Holbach, ritornano anche i grandi temi della polemica antitalmudica cristiana:

«Quanto alla vera morale, essa è perfettamente ignorata sia dagli Ebrei moderni che dagli antichi. Essi non sono né più onesti né più giusti dei loro antenati verso gli stranieri. Credono che tutto sia sempre permesso contro gli infedeli e gli eretici (…) Dei dottori ebrei hanno detto senza perifrasi che se un Ebreo vede un infedele in procinto di morire o di affogare non deve salvarlo o ripescarlo, benché non gli sia permesso ucciderlo, quando non è in guerra contro gli Israeliti (…) non è consentito curare un infedele, neppure per denaro, a meno che non si tema che faccia del male agli Israeliti se lo si respinge (…) In generale, dalla condotta degli Ebrei moderni sembra che, come i loro antenati, non si credano obbligati da nessun dovere verso quelli che non sono della loro santa nazione.

«Sono famosi per le loro frodi e per la loro malafede nel commercio, e si ha ragione di pensare che, se fossero più forti, ripeterebbero in più di un’occasione le tragedie di cui il loro paese fu un tempo continuo teatro»[7].

Se perfino i più accesi fautori della “libertà” e della “tolleranza” si sono espressi in questo modo contro gli ebrei – gli avvocati di Israele e gli apostoli del filosemitismo ad oltranza qualche domanda sulla vera natura del giudaismo e sulle cause reali dell’antisemitismo dovrebbero pur porsela.

Ma nel nostro caso la vera questione è un’altra, e nasce da un singolare paradosso.

Qui ci troviamo di fronte a filosofi e intellettuali che da un lato criticano l’ebraismo e dall’altro con le loro idee preparano la strada all’irruzione di questo stesso ebraismo nella società cristiana.

Cacciato dalla porta sulla base di una polemica per molti versi sterile e quindi totalmente innocua, l’ebraismo, sostenuto dalle battaglie illuministico-borghesi in nome dell’emancipazione del genere umano (in realtà a beneficio dell’emancipazione della sola borghesia rivoluzionaria e del capitale giudaico), di fatto rientra dalla finestra più forte e più insidioso che mai.

Ciò vale anche e soprattutto per Kant, Fichte e Hegel, i quali da un lato hanno formulato giudizi più o meno severi nei confronti degli ebrei, e dall’altro, giustificando filosoficamente e legittimando la rivoluzione massonico-borghese del 1789, hanno preparato il terreno culturale alla rivoluzione ebraico-capitalistica contro i valori e le istituzioni della civiltà cristiano-medievale, che ha avuto nell’ebreo Karl Mordechai-Marx il suo campione più rappresentativo e nella seconda guerra mondiale la svolta epocale che ha segnato in occidente il definitivo dominio del sistema giudeo-plutocratico[8].

Come è stato osservato non senza compiacimento, le opere di Kant, Fichte e Hegel non sono soltanto testimonianze contemporanee alla rivoluzione, ma sono esse stesse parti integranti della rivoluzione, sono esse stesse rivoluzione.

È solo un caso che un ebreo come Henrich Heine, in un’opera che quasi ad ogni pagina trasuda odio talmudico contro la tradizione cattolica – a dispetto della sua affettata avversione al Talmud (definito «cattolicesimo per ebrei» (sic!) ‒ col suo fiuto da segugio della Sinagoga magnifichi la «rivoluzione filosofica» che si è compiuta da Kant a Hegel e che affonda le sue radici nella «grande rivoluzione religiosa» di Lutero?[9]

Heine però coglie quasi unicamente l’aspetto distruttivo filosofico-religioso della filosofia classica tedesca, sfiorando appena le sue implicazioni politiche e sociali. Altri invece ne sottolineano più giustamente la valenza rivoluzionaria, ancorché “progressiva”, sul piano storico, e la natura peculiare di ideologia borghese – che noi invece leggiamo in un’ottica antiprogressiva, antirivoluzionaria, antiborghese e anticapitalistica.

Nel suo lavoro sul giovane Hegel, l’ebreo Lukàcs evidenzia il nesso tra filosofia e comprensione teorica dei fenomeni sociali, sottolineando come la dialettica idealistica sia una grandiosa concezione della dialettica della società umana e dei rapporti sociali nel loro sviluppo[10].

Negli stessi anni l’ebreo Marcuse scrive lucidamente, sebbene da un punto di vista marxista:

«L’idealismo tedesco è stato considerato come la teoria della Rivoluzione francese. Ciò non implica che Kant, Fichte e Hegel abbiano dato un’interpretazione teoretica della rivoluzione francese, ma piuttosto che i loro sistemi filosofici costituirono una risposta alla sfida da parte della Francia di riconoscere lo stato e la società su di una base razionale, così che le istituzioni sociali e politiche potessero essere in armonia con la libertà e gli interessi dell’individuo.

«Nonostante la loro violenta critica del Terrore, gli idealisti tedeschi considerano tutti la rivoluzione positivamente, definendola l’alba di una nuova era e collegando i princìpi fondamentali delle loro concezioni filosofiche agli ideali che essa sosteneva.

«Le idee della Rivoluzione francese, pertanto, costituiscono il cuore dei sistemi idealisti, e determinano in grande misura la loro struttura concettuale. La Rivoluzione francese, come la videro gli idealisti tedeschi, non solo aboliva l’assolutismo feudale sostituendovi il sistema economico e politico della classe media, ma completava l’opera iniziata dalla Riforma tedesca, elevando l’individuo sino a renderlo fiducioso di sé stesso e delle sue possibilità e padrone della sua vita (…)

«Il mondo doveva essere ordinato secondo ragione. Gli ideali della Rivoluzione si cristallizzarono nei processi del capitalismo industriale. L’impero napoleonico troncò le tendenze radicali della rivoluzione e allo stesso tempo ne consolidò le conseguenze economiche. I filosofi francesi dell’epoca interpretarono la realizzazione della ragione come liberazione della produzione industriale (…)»[11].

Domenico Losurdo osserva parimenti:

«In nessun paese la Rivoluzione francese è stata accolta con tanto entusiasmo come in Germania. E non basta qui invocare la contiguità geografica: se fin dall’inizio Kant si riconosce nelle parole d’ordine provenienti dalla Francia, è perché la sua filosofia contiene motivi inconciliabili con l’Ancien Régime, oggettivamente rivoluzionari. Si vedano i “Fondamenti della metafisica dei costumi”: una condotta non può essere considerata morale che quando è dotata della “forma” dell’“universalità” (Allgemeinheit), e si fonda “su massime che possono valere al tempo stesso come leggi universali” (allgemein). Termine tutt’altro che innocente sul piano politico. La “rigorosa universalità” (strenge  Allgemeinheit) – categoria che, secondo il filosofo, governa tanto la scienza quanto la moralità – esclude in anticipo “ogni eccezione”. Come non percepire il tono appassionatamente antifeudale di questa regola che non tollera eccezioni né privilegi?»[12].

In Germania, continua Losurdo, è Fichte che porta al suo apice l’elogio dell’intellettuale progressista:

«Difensore energico della Rivoluzione francese nel suo insieme, Fichte vede negli intellettuali gli interpreti e gli agenti del progresso storico»[13].

Anche Nicolao Merker si compiace di mettere in evidenza lo stretto legame fra le elaborazioni teoriche della filosofia classica tedesca e la nuova realtà sociale borghese, fornendo nuovi preziosi strumenti ermeneutici:

«Fichte, come il suo pensiero politico mostra chiaramente, è un ideologo della borghesia tedesca. Ma ideologi della borghesia tedesca erano anche Kant e Hegel. Se ora volessimo ricondurre le differenze specifiche fra questi ideologi borghesi puramente e soltanto a particolarità immanenti alle loro dottrine, alle teorie logiche, agli strumenti categoriali formali, avremmo semplicemente la vecchia linea interpretativa idealistica.

«Ci troveremmo ad esempio a dover spiegare le differenze interne del loro pensiero politico soltanto, putacaso, attraverso le diversità categoriali che esistono fra criticismo kantiano, dottrina della scienza fichtiana e logica hegeliana. Ci sfuggirebbe il dato di fatto essenziale, primario rispetto a tutte le differenziazioni interne delle teorie, che i filosofi dell’idealismo classico tedesco, pur nella loro comune connotazione di ideologi dell’età borghese, appartengono ognuno a una diversa e specifica fase che lo sviluppo della classe borghese ha attraversato in Germania tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento.

«Onde il far intervenire anche queste differenze come collaterali criteri per una periodizzazione dell’idealismo tedesco, dovrebbe fornire alla ricerca elementi non trascurabili di arricchimento rispetto al vecchio modo di procedere puramente “filosofico”. Ma a poter dirci qualcosa circa le diversificate fasi dello sviluppo borghese che fattualmente sono sottese alle teorie rispettivamente di Kant, di Fichte e di Hegel (e anche di Schelling), e che costituiscono quel fattore di specificazione materiale che consente, a tenerlo nel debito conto, di non cadere in generiche ipotesi di ricostruzione speculativa, è appunto un’altra volta non tanto la storia della filosofia quanto piuttosto la storia reale»[14].

Per contro, va decisamente respinta l’interpretazione di Diego Fusaro in un volume[15] non privo peraltro di acute diagnosi dei mali del “turbocapitalismo” o “capitalismo assoluto” oggi dominante, ma per altri versi confusionario e contraddittorio quanto alle terapie da adottare, che da un lato si richiamano alla tradizione della “metafisica greca del limite” e dello “spirito comunitario” tradizionale, e dall’altro al pensiero di Kant, Fichte, Hegel e Marx, cioè ai principali protagonisti della devastazione capitalistico-borghese della tradizione cristiano-medievale, erede della tradizione classica e dello spirito comunitario tradizionale – quella stessa tradizione cristiano-medievale che Engels amava definire «sacro romano letamaio», «massa di putrefazione e di decadenza repellente», «foresta antidiluviana della società cristiano-germanica».

Secondo Fusaro, l’esperienza filosofica di Fichte, Hegel e Marx, i quali costituirebbero «un’unica costellazione all’insegna della reazione dialettica alla strutturazione mercatistica del mondo»[16], sarebbe animata da una presunta “coscienza infelice borghese”, locuzione mutuata dalla figura hegeliana della dialettica dell’autocoscienza nella Fenomenologia dello spirito.

Questa coscienza infelice borghese consisterebbe nel fatto (perfino ovvio) che il capitalismo non coincide in toto con la borghesia, la quale si caratterizzerebbe per il fatto che da un lato tenderebbe a legittimare integralmente il capitalismo, e dall’altro sarebbe pur sempre erede dell’ideale dell’emancipazione universale del genere umano, di cui il capitalismo stesso non sarebbe che il pervertimento. La borghesia, classe dialettica e unità contraddittoria, sostiene Fusaro, vorrebbe l’emancipazione di tutti kantianamente da un punto di vista cosmopolitico, ma poi sarebbe costretta alla dolorosa esperienza della scissione, dell’alienazione, dell’asservimento, della schiavitù che il capitalismo secerne a propria immagine e somiglianza.

Questa coscienza infelice borghese avrebbe dunque come propria prerogativa il fatto che essa vive nell’infelicità della propria condizione sociologica. La borghesia cioè vorrebbe l’emancipazione di tutti, ma al tempo stesso farebbe la dolorosa esperienza dell’annientamento di questa libertà di tutti nel cosmo del capitalismo che la vede dominante, donde appunto la sua infelicità.

Nascerebbe così, «all’interno della borghesia, una reazione filosofica al capitalismo, la quale trova espressione in Fichte, Hegel e Marx, tre pensatori borghesi e anticapitalisti»[17].

In questa personale lettura delle dinamiche della borghesia e del capitalismo, Fusaro sembra dare troppo credito alla autorappresentazione della borghesia come classe liberatrice che lotta per l’emancipazione universale del genere umano, quando invece dovrebbe ben sapere che l’astratto universalismo delle sue rivendicazioni serviva solo a camuffare e legittimare i propri interessi egoistici e particolaristici di classe (come dimostra la storia della rivoluzione francese), attribuendosi tutti i diritti reali e lasciando alla stragrande maggioranza del popolo i meri diritti formali.

Stendiamo invece un velo pietoso sulle esternazioni fusariane riguardo alla questione dell’antisemitismo, da lui bollato in un video con espressioni quali «pregiudizio», «idiozia senza senso che consiste nel criticare il popolo ebraico in quanto tale», «erramento imperdonabile della mente umana» (sic!), che fanno il paio con altre consimili – queste sì – idiozie propalate dagli apologeti giudei e dai loro ausiliari.

È davvero singolare (ma non troppo) come certi fieri censori del “turbocapitalismo” nelle loro critiche si arrestino tutti sulla soglia della Sinagoga!

Così come la “coscienza infelice” esiste solo nella fantasia di Hegel, allo stesso modo la “coscienza infelice borghese” non è che una artificiosa costruzione concettuale che non ha alcun riscontro nella realtà storica, dove, a voler utilizzare la stessa figura, semmai saremmo piuttosto propensi a parlare di una “coscienza felice borghese”, anzi felicissima, euforica e addirittura raggiante per aver visto pienamente appagate le proprie rivendicazioni capitalistiche.

Celebrando e legittimando con la loro battaglia delle idee la lotta capitalistico-borghese contro la società cristiano-feudale e favorendo l’ascesa del capitalismo, Kant, Fichte, Hegel, nonché lo stesso ebreo Mordechai-Marx, agente della rivoluzione ebraico-capitalistica, vanno dunque annoverati a pieno titolo tra i pensatori borghesi e filocapitalisti.

Poiché non bisogna avere nessun timore reverenziale verso certa accademica “filosofia professorale dei professori di filosofia” (Schopenhauer) – che in un lessico spesso volutamente astruso e involuto si compiace di spacciare per sublimi verità le più strampalate scemenze, le quali sarebbero solo manicomiali se non fossero anche e soprattutto funzionali a precisi scopi concreti – non dobbiamo temere di chiamare le cose col loro nome.

Espressioni come “Io penso”, “Io puro”, “Io universale” “Assoluto”, “Idea”, “Spirito” etc., tutt’al più utilizzabili come mere astrazioni generali logico-concettuali, non sono che mostruose escrescenze filosofiche esistenti non nella realtà, ma unicamente nella mente dei vari pensatori che le hanno concepite.

Che cosa è questo fantomatico “Io assoluto”, questo “pensiero universale che pensa in me” (sic!!), questa “Grande Unità dello Spirito”, dove tutti i cosiddetti io empirici, tutti gli individui “sono integrati” (sic!!) (Fichte), questo mostruoso e orripilante calderone magmatico nel quale l’ “io empirico” di S. Francesco d’Assisi è “integrato” nel “pensiero universale” con l’ “io empirico” di uno strozzino ebreo, l’ “io empirico” di Codreanu è “integrato” con l’ “io empirico” dell’ultimo essere depravato, e così via?

Non esiste nessun Io, universale o assoluto, nessun pensiero universale che misteriosamente si frammenta in una miriade di singoli io empirici.

Esistono invece i singoli uomini, uniti in una determinata comunità popolare, nella famiglia, nelle articolazioni della società, della nazione e dello Stato, con una propria specifica tradizione, con una propria peculiare visione del mondo, con propri specifici valori spirituali trasmessi di generazione in generazione.

Ma è un errore grossolano credere che quelle degli idealisti tedeschi siano soltanto mere speculazioni filosofiche confinate nelle fumose e quasi impenetrabili sfere dell’astrazione.

Che cosa è infatti questo “Io assoluto” dei filosofi idealisti se non l’idealizzazione delle rivendicazioni e delle lotte della borghesia rivoluzionaria dell’epoca, e del capitale in ascesa?

Che cosa si nasconde dietro il ciarpame fraseologico delle loro filosofie se non la comprensione teoretica, la giustificazione e la legittimazione di quella rivoluzione massonico-borghese che ha spianato la strada al dominio del capitale giudaico – un dominio che essi, proprio per la conoscenza che mostravano di avere degli ebrei contemporanei, non potevano non vedere e prevedere?

E che cosa è la “libertà” da essi continuamente invocata, e sulla quale hanno costruito i loro sistemi filosofici, se non la libertà borghese, vale a dire la libertà dell’emergente borghesia capitalistica, finalmente “emancipata” da ogni vincolo cristiano-feudale, di arricchirsi “liberamente”, sfruttando “liberamente”, cioè legalmente, le masse popolari, e per queste ultime, soprattutto nella fase più acuta della rivoluzione industriale, la libertà di scegliere tra il rassegnarsi allo sfruttamento capitalistico oppure morire di fame?

Conosciamo gli esiti della rivoluzione massonico-borghese ed ebraico-capitalistica: distruzione dei valori e delle istituzioni tradizionali cristiane, dissoluzione dei vincoli comunitari e dell’“economia morale delle classi popolari” (Edward P. Thompson), mercificazione del lavoro e dell’uomo, alienazione, sfruttamento, “emancipazione” del capitale ebraico, imperialismo e dominio giudeo-plutocratico universale.

Già all’inizio del 1800, Louis De Bonald, in alcune magistrali pennellate impressionistiche, aveva denunciato le vere cause e l’esito capitalistico-borghese della rivoluzione:

«Questa cupidigia divorante, universale, che si alimenta con una circolazione rapida e forzata; questa sete inestinguibile dell’oro, che si accende alla vista dell’oro; stimato, non perché è raro, ma perché è caro; questo ardore smisurato di arricchirsi, che guadagna fino alle ultime classi del popolo, producono in alcuni disordini spaventevoli e delitti inauditi; in alcuni altri, l’egoismo più freddo e più duro; in quasi tutti, un raffreddamento universale della carità, un’estinzione totale di ogni sentimento generoso, e trasformano insensibilmente la nazione più disinteressata e più amorevole in un popolo di aggiotatori che, negli avvenimenti della società, non vedono che possibilità di guadagno o perdita; in un esercito di nemici che s’armano gli uni contro gli altri delle disgrazie pubbliche e degli infortuni privati»[18].

«E dappertutto uomini indifferenti a tutto, fuorché al denaro, non hanno visto, nella rivoluzione del loro paese, che beni confiscati da acquistare; nella guerra, forniture da dare: come non vedrebbero nella carestia che grano da vendere, e nella peste eredità da raccogliere»[19].

«Alla feudalità della terra è succeduta quella dell’usura; e gli infelici debitori sono umili vassalli, che un signore sovrano d’un milione di scudi fa trascinare in prigione, se ritardano d’un giorno il pagamento d’una rendita che, in pochi anni, ha raddoppiato il capitale. La tirannia tanto rimproverata ai signori di terre non s’avvicinava punto a questa»[20].

«Che cosa è accaduto in Inghilterra per l’estensione prodigiosa dell’industria e del sistema manifatturiero? Una popolazione eccessiva, una immensa quantità di proletari, una tassa dei poveri che opprime i proletari, una guerra interminabile tra l’agricoltura, che vuol vendere le sue derrate ad alto prezzo per raggiungere l’alto prezzo delle spese di coltura, e i fabbricanti che vorrebbero comprarle a buon mercato per poter abbassare il prezzo dei salari e sostenere la concorrenza nei mercati stranieri»[21].

Come si è visto, un d’Holbach si diceva pienamente consapevole delle «tragedie» che gli ebrei avrebbero inflitto ai popoli non ebrei, «se fossero divenuti più forti». Eppure, questo «araldo della borghesia in ascesa»[22] con le sue opere si è adoperato a favore di tutto ciò.

«Oggigiorno – scrive Poliakov – d’Holbach esce dall’anonimato e assurge a gloria postuma, grazie soprattutto alle ricerche di autori marxisti. In Unione Sovietica le sue principali pubblicazioni sono regolarmente ristampate a partire dal 1924. Il suo più recente curatore francese ne loda il “grande sforzo di critica razionalista [che] ha distrutto alla base il diritto divino dei feudatari e del loro monarca, e scosso la stessa struttura della società feudale” [D’Holbach, Textes choisis, a cura di P. Charbonnel, Paris, 1957, vol. 1, p. 80].

«La maggior parte dei commentatori moderni passa sotto silenzio la propaganda antiebraica della “sinagoga”; altri la segnalano – come il curatore precitato – per dire che “questo atteggiamento fu alla sua epoca progressista. Sarebbe un grave errore confonderlo con il barbaro antisemitismo e razzismo dei fascisti del XX secolo [Ivi, p. 106, n. 1]»[23].

Nel 1789, emblematicamente l’anno stesso della rivoluzione, fu pubblicato a Parigi uno scritto dell’ebreo polacco Zalkind-Hourwitz dal titolo: Apologie des Juifs en réponse à la question; Est-il des moyens de rendre les Juifs plus heureux & plus utiles en France? Ouvrage couronnée par la Société Royale des Arts & des Sciences de Metz. Par M. Zalkind-Hourwitz, Juif Polonais, Paris, 1789.

Questo «paria, difensore della nazione ebraica, caustico, violentemente anticlericale»[24] scrive che Voltaire ha calunniato crudelmente la nazione ebraica con un accanimento particolare, ma subito dopo si affretta ad aggiungere in nota:

«Può darsi che Voltaire ce l’avesse meno con gli ebrei moderni che con quelli antichi, cioè il tronco del cristianesimo contro cui si rivolge incessantemente. Ad ogni modo, gli ebrei gli perdonano tutto il male per tutto il bene che ha fatto loro, forse anche senza saperlo; perché se da qualche anno godono di un po’ di tranquillità, essi lo devono al progresso dei Lumi, al quale Voltaire ha sicuramente contribuito più d’ogni altro scrittore con le sue numerose opere contro il fanatismo»[25].

La stessa cosa può ben dirsi della filosofia classica tedesca. Gli ebrei debbono perdonare ai vari Kant, Fichte e Hegel tutto il male per tutto il bene che hanno fatto loro, contribuendo coi loro scritti a combattere il «fanatismo», cioè i valori tradizionali e le istituzioni cristiano-feudali, favorendo così il trionfo della rivoluzione massonico-borghese ed ebraico-capitalistica.

 

[1] L. Poliakov, Storia dell’antisemitismo. III. Da Voltaire a Wagner, Firenze, 1976, pp. 211, 213. Preciso che utilizzo il termine antisemitismo nel senso generico di ostilità verso gli ebrei, come sinonimo di quello più appropriato di antigiudaismo.

[2] Ivi, pp. 214-215.

[3] Ivi, pp. 216-217.

[4] Ivi, pp. 219-221.

[5] Ivi, pp. 109 sgg.

[6] Un’ampia antologia di testi antigiudaici di Voltaire è in H. Labroue, Voltaire antijuif, Paris, 1942.

[7] Cit. in Poliakov, p. 151.

[8] G.P. Mattogno, Maschera e volto del marxismo: Karl Marx e la rivoluzione ebraico-capitalistica contro la civiltà cristiana, Effepi, Genova, 2016; Id., Il giudaismo internazionale e le origini della seconda guerra mondiale, ivi, 2012. Sulla vera natura del giudaismo rabbinico-talmudico cfr. Id., La polemica contro il Talmud nella Germania nazional-socialista, ivi, 2023 (orientamenti bibliografici sull’atteggiamento dell’ebreo nei confronti del non-ebreo e sui vari aspetti della questione ebraica alle pp. 26-36). Sulla volontà di dominio universale degli ebrei, attestata dalle stesse fonti rabbinico-talmudiche, cfr. Id., L’imperialismo ebraico nelle fonti della tradizione rabbinica, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 2009.

[9] Henri Heine, De l’Allemagne, Nouvelle édition, Paris, 1866 (Troisième Partie. – De Kant jusqu’à Hegel, pp. 115 sgg.). In tedesco l’opera ha il titolo: Zur Geschichte der Religion und Philosophie in Deutschland.

[10] G. Lukàcs, Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica. Volume primo, Torino, 1975, pp. 14 sgg.

[11] H. Marcuse, Ragione e rivoluzione. Hegel e il sorgere della “teoria sociale”, Bologna, 1966, pp. 19, 20.

[12] D. Losurdo, La “Philosophie allemande” entre les idéologies (1789-1848), «Genèse», 9, 1992, p. 60.

[13] Ivi, p. 70.

[14] Introd. a J.G. Fichte, Lo Stato di tutto il popolo, Roma, 1978, p. 26. Da un punto di vista prettamente teoretico, l’idealismo tedesco opera nel solco della rivoluzione soggettivistica compiuta da Cartesio e i cui prodromi vanno ricercati, oltre che nella Riforma protestante, in taluni aspetti laicistici del pensiero umanistico-rinascimentale. Dal punto di vista della storia sociale delle idee, come ha mostrato H. Lefebvre nel suo saggio su Descartes (Paris, 1947), la filosofia cartesiana è anch’essa espressione di una borghesia in ascesa che vuole affrancarsi dalle “pastoie” della società cristiano-medievale ed aspira a divenire classe dominante. «Onde il “Discorso sul metodo” – espressione d’un “Cartesio progressista” – è come un manifesto: a) “manifesto della civiltà occidentale”, che si libera dai miti antichi e medievali del cristianesimo, miti adottati “par la civilisation agraire du Moyen Age”; b) “manifesto della civiltà industriale”, in quanto l’uomo moderno vuole emergere dalla natura e dominarla, pur fermandosi ancora ad una Ragione impersonale; c) “manifesto della borghesia ascendente e liberale”, che sviluppa la scienza della natura, le tecniche, e le forze produttive: il “ ‘Discours’ il faut le relire, des ses premières lignes, comme un texte révolutionnaire”» (C. Ferro, Intorno ad alcune recenti interpretazioni del pensiero cartesiano, «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica» 42 (1950), p. 212). Il padre Cornoldi così riassume i termini della questione: «La filosofia di Cartesio dalla quale si volle applicare alla ragione il metodo che Lutero avea voluto adoperare nella fede, quella del Lock [sic], quella del Malebranche, dello Spinosa, del Kant, del Fichte, dell’Hegel, dello Scelling [sic], e di tanti altri mostrarono ad evidenza la debolezza anche di poderosi intelletti allorquando cozzano contro la verità. La storia delle moderne filosofie altro non è, che la storia delle intellettuali aberrazioni dell’uomo abbandonato alle vertigini del suo orgoglio; tanto che, come altri ben disse, si potrebbe quella storia chiamare: “la patologia dell’umana ragione”» (Lezioni di filosofia ordinate allo studio delle altre scienze per G.M. Cornoldi, Firenze, 1872, p. XXIII). Cfr. G. de Liguori, L’ateo smascherato. Immagini dell’ateismo e del materialismo nell’apologetica cattolica da Cartesio a Kant, Milano, 2009.

[15] D. Fusaro, Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo, Firenze-Roma, 2017. Si vedano in particolare le pp. 233-244, 295-315, 315-335. Fusaro, che si dichiara allievo indipendente di Hegel e Marx, non nasconde la sua avversione radicale al comunismo storico, che evidentemente ritiene figlio degenere di Marx, e che definisce «una delle più subdole attuazioni della disuguaglianza che l’umanità abbia mai sperimentato. Fondato sulla menzogna, il comunismo non poteva che crollare miseramente» (p. 31), salvo affrettarsi subito dopo a sottolinearne «il numero tutt’altro che esiguo di aspetti positivi» (pp. 31-32), tra cui la “liberazione” dell’Europa ad opera dell’Internazionale giudeo-plutocratico-bolscevica – la stessa “liberazione” che ha determinato il dominio mondiale di quel medesimo odierno “turbocapitalismo”, da lui denunciato ad ogni pie’ sospinto, in combutta fino al 1989 con il “turbocomunismo” sovietico, come tra gli altri hanno mostrato Charles Levinson, Vodka-Cola (Firenze, 1978; nuova ed.: Iduna, Sesto S. Giovanni, 2020) e Cleon W. Skouse, Il capitalista nudo, Roma, 1978.

[16] Op. cit., p. 36.

[17] Ivi, pp. 72, 247-288.

[18] Bonald, Considérations politiques sur l’Argent et le Prêt à intérêt, 1806, in Mélanges littéraires, Paris, 1819, cit. in M. Capurso, La polemica antiborghese nella Restaurazione, Reggio Calabria, 1974, pp. 99-100.

[19] Considérations politiques, ivi, pp. 101-102.

[20] Pensées sur divers sujets, ivi, p. 107.

[21] Pensées sur divers sujets, ivi, p. 157.

[22] L. Poliakov, op. cit., p. 147.

[23] Ivi, p. 152.

[24] F. Malino, Zalkind Hourwitz, Juif polonais, «Dix-huitième siècle», n. 13, 1981, p. 79.

[25] Zalkind-Hourwitz, Apologie des Juifs cit., pp. 56-57 n.

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