Gian Pio Mattogno
KARL HEINRICH MORDECHAI-MARX E IL POTERE EBRAICO
In un interessante scritto su Marx e potere ebraico (Karl Marx and Jewish Power, The Unz Review, February 17, 2020), Laurent Guyénot esamina il contributo dell’ebreo di Treviri all’emancipazione ebraica e, come afferma, in ultima analisi, al movimento storico verso il dominio globale ebraico.
Guyénot si chiede se Marx abbia deliberatamente cospirato con gli altri ebrei per promuovere l’agenda globale ebraica, fingendo di emancipare i proletari gentili.
Io ritengo di sì.
Apparentemente più possibilista mi sembra Guyénot, il quale risponde che «l’ebraismo non funziona necessariamente in questo modo. Esso potrebbe essere definito come l’incapacità di distinguere tra l’interesse dei popoli e l’interesse del popolo eletto, tra ciò che è bene per l’umanità e ciò che è bene per gli ebrei».
Più che di “incapacità”, io parlerei piuttosto di volontà esplicita.
L’incapacità implica una impossibilità, per propria colpa o demerito, o per qualunque altra ragione, di fare qualcosa che si è intenzionati a fare.
L’ebraismo – cioè il giudaismo rabbinico-talmudico ‒ in realtà non ha nessuna intenzione, nessuna volontà di farlo, poiché distingue il proprio bene da quello dell’umanità idolatrica non per incapacità, ma deliberatamente.
E questo pone il problema del rapporto tra Marx e potere ebraico in un’altra prospettiva.
Nel caso di Marx, dice Guyénot, «vi sono prove di disonestà intellettuale, occultamento e inganno».
Quella di Marx, aggiunge, è la profezia di una trasformazione messianica del mondo di ispirazione ebraica.
Ciò che distinguerebbe «la visione profetica di Marx dal progetto biblico è che il suo obiettivo esplicito è la dittatura di un proletariato cosmopolita, non dell’ebraismo».
In realtà, proprio questa è la prova regina della sua disonestà intellettuale, dell’occultamento e dell’inganno: il proletariato cosmopolita doveva servire come manovalanza rivoluzionaria per perseguire il suo obiettivo.
Il vero obiettivo dell’ebreo di Treviri, a dispetto del mascheramento “ideologico” con cui ha rivestito il suo pensiero storico-dialettico, non è la dittatura di un proletariato cosmopolita, ma la distruzione dei valori e delle istituzioni dell’Europa tradizionale cristiana e il trionfo del sistema internazionale giudeo-plutocratico, cioè il dominio ebraico-capitalistico sul proletariato cosmopolita.
Del resto, sembra esserne convinto lo stesso Guyénot, quando subito dopo cita Bakunin, il quale in Stato e anarchia (1873) sostiene che lo Stato proletario di Marx “è una menzogna dietro cui si cela il dispotismo di una minoranza dominante”.
Dietro l’espressione di “socialismo scientifico”, osserva Bakunin, si nasconde in realtà il governo altamente dispotico delle masse da parte di una nuova oligarchia dominante.
È vero che, secondo la doxa marxista, questo stato centralizzato sarà una fase di transizione prima del vero socialismo, dopo di che lo Stato – come scrive Engels ‒ “si estinguerà”.
Ma, aggiunge Bakunin, nessuna dittatura può avere altro scopo che quello di perpetuarsi, ed essa non può che generare e alimentare solo schiavitù nelle persone che la subiscono.
«Bakunin – chiosa Guyénot – sospettava che, se Marx avesse avuto ragione, ebrei tedeschi come lui avrebbero finito per governare lo stato comunista».
Ed in effetti, la profezia rivoluzionaria di Marx piacque particolarmente agli ebrei tedeschi non proletari. Guyénot ricorda, riportandolo da Soljenitsin, che Fritz Kahn, nel suo volume Die Juden als Rasse und Kulturvolk (1920) salutò Marx come più di un profeta:
«Nel 1848, per la seconda volta, la stella di Betlemme fu innalzata al firmamento … e si levò di nuovo sopra i tetti della Giudea: Marx».
Se Marx era il messia nel 1848, Benjamin Disraeli poteva essere definito il suo profeta.
Nel suo romanzo Coningsby (1844) il protagonista, Sidonia, un incrocio tra Lionel de Rothschild e lo stesso Disraeli, dichiara: “Quella potente rivoluzione che in questo momento si sta preparando in Germania, e che di fatto sarà una seconda e più grande Riforma, e di cui si sa ancora così poco in Inghilterra, si sta sviluppando sotto gli auspici degli ebrei, che quasi monopolizzano le cattedre universitarie in Germania”.
Appena quattro anni dopo la stesura di queste parole viene pubblicato il Manifesto del partito comunista e quasi contemporaneamente scoppia la rivoluzione in Germania, come aveva previsto Disraeli.
Scrive Amos Elon (The Pity of It All: A History of Jews in Germany 1743-1933) che l’80% di tutti I giornalisti, medici ed altri professionisti ebrei sostennero la rivoluzione. I più importanti furono Ludwig Bamberger a Magonza, Ferdinand Lassalle a Düsseldorf, Gabriel Riesser ad Amburgo, Johan Jacobi a Koenigsberg, Aron Bernstein a Berlino, Herman Jellinek a Vienna, Moritz Harmann a Praga e Sigmund Asch a Breslau.
In tutto il paese, scrive ancora Elon, nei loro sermoni i rabbini salutarono la rivoluzione come un vero e proprio evento messianico.
La rivista ebraica Der Orient celebrò “l’eroica battaglia maccabea dei nostri fratelli sulle barricate di Berlino”.
Lo studioso ebreo Leopold Zunz, fondatore della scienza del giudaismo, descrisse gli eventi rivoluzionari in termini specificamente biblici, come il compimento della promessa biblica.
Arringando gli studenti berlinesi dalle barricate, Zunz descrisse il cancelliere Metternich come Haman, ed auspicò che, forse entro Purim, Amalek, ovverosia il re prussiano Federico Guglielmo IV, venisse sconfitto.
(Non si rimarcherà mai abbastanza che, nonostante Marx nel Manifesto parli dello spettro del comunismo che si aggira per l’Europa, dallo stesso punto di vista marxista le rivoluzioni del 1848 non potevano essere delle rivoluzioni comuniste, ma erano puramente e semplicemente delle rivoluzioni borghesi, cioè delle rivoluzioni fatte dalla borghesia per gli interessi capitalistici della borghesia).
Dopo il fallimento della rivoluzione, come altri rivoluzionari Marx si stabilisce a Londra, dove rimarrà per il resto della sua vita, circondato da un piccolo gruppo di amici intimi e collaboratori politici, molti dei quali ebrei.
Ora l’influenza di Marx si fa sempre più forte.
In una lettera del 1872 al giornale La liberté di Bruxelles, Bakunin sottolinea il “notevole genio dell’intrigo” di Marx, ed aggiunge che questi ha al suo servizio un numeroso corpo di agenti, organizzati gerarchicamente e operanti segretamente sotto i suoi ordini diretti, “una specie di massoneria socialista e letteraria, in cui i suoi compatrioti, gli ebrei tedeschi ed altri, occupano un posto considerevole e dispiegano uno zelo degno di miglior causa”.
Lo stesso anno, in un indirizzo ai compagni della federazione del Giura, Bakunin scrive:
“Questo mondo ebraico è oggi, per la maggior parte, a disposizione da un lato di Marx e dall’altro di Rothschild. Sono convinto che i Rothschild, da parte loro, apprezzino i meriti di Marx e che Marx, da parte sua, provi un’attrazione istintiva e un grande rispetto per i Rothschild. Questo potrà anche sembrare strano. Cosa può esserci in comune tra il socialismo ed una grande banca? Il punto è che il comunismo di Marx vuole una forte centralizzazione dello Stato, e dove c’è centralizzazione dello Stato deve esserci necessariamente una banca centrale, e dove tale banca esiste, la nazione parassita degli ebrei, che specula sul lavoro del popolo, prospererà sempre”.
Dopo aver fatto espellere Bakunin e i suoi seguaci dall’Associazione Internazionale dei Lavoratori (Prima Internazionale), Marx ne trasferisce il Consiglio generale da Londra a New York, «la città che presto sarebbe diventata la capitale occidentale dell’ebraismo, dove un altro ebreo tedesco, Leon Braunstein detto Trotsky, avrebbe preparato la rivoluzione bolscevica col sostegno finanziario di banchieri ebrei di Wall Street come Jacob Schiff».
Guyénot osserva a ragione che per comprendere l’agenda nascosta di Marx bisogna iniziare dai suoi due articoli sulla questione ebraica, pubblicati nel 1844 sui Deutsch-Französische Jahrbücher.
Marx, scrive, riduce erroneamente l’ebraismo alla sua sola dimensione economica. Rendendo l’amore per il denaro non solo l’attributo di alcuni ebrei, ma l’essenza stessa degli ebrei, dissolve la questione ebraica in una questione socio-economica, facendo dell’ebreo l’archetipo del borghese.
Così facendo, secondo Guyénot, Marx avrebbe trascurato un aspetto importante dell’influenza ebraica nel mondo: la rivoluzione.
In altre parole, Marx avrebbe ignorato l’attività rivoluzionaria ebraica, ed ignorandola «stava, come minimo, nascondendo il ruolo della propria ebraicità nella sua impresa rivoluzionaria, eliminando al contempo ogni sospetto sulle sue simpatie ebraiche».
Come appare evidente, si tratta di questioni discutibili.
Quel che invece è indiscutibile ‒ e sembra che Guyénot non vi presti la dovuta attenzione ‒ è che negli articoli in questione Marx si dichiara apertamente a favore dell’emancipazione degli ebrei, cioè dell’emancipazione del capitale ebraico e della sua irruzione nella società cristiana, dei cui effetti rovinosi era pienamente consapevole.
Guyénot è invece pienamente nel giusto quando scrive con grande acutezza:
«La prima cosa da notare è che Marx ed Engels non hanno alcuna intenzione di placare l’antagonismo tra proletari e borghesi, migliorando le condizioni dei lavoratori. Al contrario, sperano che il conflitto si intensifichi fino a trasformarsi in una sanguinosa guerra civile. Per questa ragione, la miseria della classe operaia deve aumentare. Va ricordato che lacerare il tessuto sociale delle nazioni esacerbando le tensioni sociali, razziali, generazionali o di genere è una strategia che gli intellettuali ebrei hanno adottato fino ad oggi.
«In secondo luogo, Marx ed Engels non hanno alcuna intenzione di bloccare o addirittura contrastare il progresso del capitalismo. Al contrario, essi invocano la totale scomparsa delle strutture sociali ed economiche che lo hanno preceduto, e ne auspicano lo sviluppo più estremo, quando tutti i mezzi di produzione saranno caduti in poche mani, perché solo allora, sostengono, potrà nascere il mondo nuovo.
«Il capitalismo contiene i semi della propria distruzione, ma deve prima raggiungere la sua piena maturità, che è il monopolio di pochi miliardari».
Come osserva a ragione Guyénot, qui Marx si presenta addirittura come l’araldo del capitale monopolistico.
Guyénot si chiede se i capitalisti monopolisti debbano temere il passo successivo del pensiero marxista, cioè la rivoluzione e l’appropriazione di tutti i mezzi di produzione da parte dello Stato, e risponde, citando Antony Sutton (Wall Street and the Bolshevik Revolution, 2001), che i capitalisti monopolisti amano fare affari con le debolezze di una pianificazione centralizzata socialista, poiché lo Stato socialista totalitario si rivela per essi un mercato perfetto (come mostra con dovizia di particolari Charles Levinson in Vodka-Cola).
Il tema dei rapporti tra marxismo e potere ebraico, cui Guyénot ha dato questo contributo, risulta pienamente comprensibile alla luce degli scritti di Ottokar Lorenz, il quale ha rivoluzionato le interpretazioni tradizionali, sia marxiste che antimarxiste, del pensiero marxiano, aprendo la strada all’unica autentica interpretazione del marxismo.
Il marxismo, così come è maturato nel XIX secolo, non è la dottrina della liberazione della classe operaia dallo sfruttamento capitalistico, come pretende la vulgata marxista.
Al contrario, l’ebreo di Treviri, in combutta col suo degno compare, il capitalista e socio della Borsa di Londra, Friedrich Engels, fu, consapevolmente, l’agente della sovversione ebraico-capitalistica contro la “barbarie medievale”, contro la “reazione feudale”, contro lo “Stato cristiano-germanico”, vale a dire contro le istituzioni e i valori antiborghesi e anticapitalistici della tradizione cristiano-feudale.
(Cfr. Leggenda e realtà di Karl Marx. Note per una lettura controcorrente del marxismo, andreacarancini.it; Il marxismo battistrada della sovversione ebraico-capitalistica contro la tradizione cristiano-feudale. Un articolo di Marx/Engels sul “New York Tribune”, andreacarancini.it).
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