IL POTERE EBRAICO NEGLI STATI UNITI D’AMERICA
IN UN ARTICOLO DELLA “JEWISH WORLD REVIEW”
Premessa di Gian Pio Mattogno. ‒ Una ventina d’anni fa, nel numero di ottobre 2007 il magazine “Vanity Fair” pubblicò un articolo dal titolo: The New Establishment, nel quale riportava un elenco dei 100 personaggi più potenti e influenti degli Stati Uniti d’America.
Fra costoro figuravano ben 51 ebrei, tutti indicati per nome e cognome (The Vanity Fair 100. The 2007 New Establisment. Our annual power ranking, vanityfair.com).
L’articolo ebbe ovviamente una risonanza internazionale, per via della presenza nella lista di oltre il 50% di ebrei.
Il “Jerusalem Post” (Jewish power dominated at “Vanity Fair”, Oct. 11, 2007, jpost.com, col sottotitolo: L’elenco è pressoché conforme agli stereotipi della sovrarappresentazione ebraica) lamentò che non un gruppo di antisemiti marginali, ma una delle riviste più mainstream e glamour in edicola aveva richiamato l’attenzione sulla sproporzionata influenza degli ebrei nella finanza e nei media.
Piena di Cohen e di Rothschild, di Bloomberg e di Perelman, scriveva, la lista sembrava conformarsi a tutti i tradizionali stereotipi circa la sovrarappresentazione ebraica.
Eppure, aggiungeva, la lista non sembrava aver suscitato soverchie preoccupazioni da parte di Joseph Aaron, direttore del “The Chicago Jewish News”, il quale invece aveva affermato che al contrario gli ebrei dovevano sentirsene molto soddisfatti.
Joseph Aaron, morto nel 2019 all’età di 64 anni (Obituary: Joseph Aaron, Illinois Press Association, illinoispress.org), aveva scritto sull’argomento un articolo-recensione, dal titolo: Feel the power, apparso sul numero di ottobre della “Jewish World Review” (Oct. 10, 2007, 28 Tishrei 5768, jewishworldreview.com).
A prescindere dalle lamentazioni vittimistiche che attribuisce alla comunità ebraica, la sua è la confessione di un intellettuale ebreo che riconosce il peso enorme del potere ebraico in seno alla società americana.
Certo, alcune sue esternazioni non possono che strappare un sorrisetto ironico, come quando, chiosando il racconto dei due capitalisti ebrei di Wall Street apparso sullo stesso numero di “Vanity Fair”, sembra meravigliarsi che da un lato essi trattavano in modo “abominevole” i propri impiegati, e dall’altro si dedicavano ad opere di beneficenza a favore della società dei gentili (che lui stesso giustifica col fatto che lo facevano per lo status sociale e l’influenza che da tutto ciò derivava).
Come se nella storia americana del passato e del presente questo non fosse un modo di procedere abituale di molti plutocrati e schiavisti, ebrei e non!
Quello che segue è il testo integrale dell’articolo di Joseph Aaron che, nonostante questa ed altre riserve, conserva ancora oggi tutta la sua validità.
Non posso farci niente.
Questo genere di cose mi dà una grande emozione. E anche un gran brivido.
Non capita spesso di trovare l’intera situazione della vita ebraica odierna condensata in un unico documento.
Perciò, quando capita, vale la pena di prenderne nota e trarne insegnamento.
Il luogo di cui parlo è il numero di ottobre di Vanity Fair.
Vanity Fair è una delle riviste più affascinanti in circolazione, una rivista in cui ogni numero presenta una raccolta incredibilmente eclettica di articoli, da quelli serissimi a quelli molto più frivoli.
Infatti, mentre il numero di ottobre presenta storie del tipo: “Come 9 milioni di dollari in contanti sono scomparsi in Iraq”, “Dentro il bunker di Bush”, “Come i media hanno incornato Al Gore nel 2000” [gioco di parole: “How the Media Gored Al Gore in 2000”] e altro ancora, la copertina mostra Nicole Kidman che indossa un berretto da marinaio e apre la camicia per mostrare la collana nautica e il reggiseno.
Vanity Fair è sempre all’avanguardia rispetto a dove si trova e si sta dirigendo la società.
Vanity Fair non è certo una pubblicazione ebraica.
Eppure, in questo numero ci dice sul mondo ebraico com’è oggi molto di più di qualsiasi lezione, libro o corso in circolazione.
E lo fa in due modi.
Il primo è la lista annuale di quelli che vengono definiti “The New Establishment”, le cento persone più potenti e influenti della società americana.
Ciò che è assolutamente sorprendente e sbalorditivo di questa lista è il numero degli ebrei che vi figurano.
Gli ebrei costituiscono circa il 2,5% della popolazione statunitense, e quindi nella lista dovrebbero esserci 2 o tre ebrei.
Provaci ancora, bubeleh [termine affettuoso yiddish che significa propriamente caro, tesoro, dolcezza etc.].
La lista dei cento di Vanity Fair include, preparatevi, 51, sì proprio 51 ebrei. Minimo.
Dico 51, perché sono sicuro che siano ebrei. Potrebbero esserci altri nella lista, i cui nomi non sono palesemente ebrei, ma non so se lo siano.
Ma diciamo che li ho tutti.
Ciò significa che più della metà dei nomi nella lista delle cento persone più vitali per la nostra società sono ebrei.
E questa lista include Steve Jobs di Apple, Ophra, Bill Clinton e Warren Buffet, per citare solo alcuni dei pochi non ebrei presenti.
Ciò è a dir poco sorprendente.
Ci dite che siamo accettati in questa società, che abbiamo potere in questa società, che l’antisemitismo è una cosa del passato, che gli ebrei non devono più aver paura di essere visibili e influenti.
Ma vi è di più.
La rivista ha anche una lista separata di quelli che definisce The Next Establishment, ovverosia i giovani che ritiene destinati ad entrare nella grande lista tra qualche anno.
Dei 26 nomi di questa lista, 15 sono ebrei. Di questo sono sicuro. 15 su 26. Più della metà.
E non finisce qui.
La rivista ha anche una lista separata di quelli che chiama The Pit-Stop Club, ovverosia coloro che sono stati inseriti nella lista The New Establishment in passato, ma che sono abbastanza certi di ritornarvi in futuro.
Dei nove nomi di questa lista, otto sono ebrei. Dom Imus è il solo non-ebreo della lista.
Voglio dire che questo è semplicemente incredibile.
Il nostro è un grande paese, con tantissime persone di grande talento, altamente istruite e straordinariamente motivate. E nessuno conosce il polso delle persone che rendono questo paese quello che è meglio di Vanity Fair.
E quando è arrivato il momento di scegliere i 100 che più muovono e scuotono le cose in America, più della metà – sì, più della metà ‒ sono ebrei.
Per non parlare del fatto che quasi il 100% di coloro che erano nella lista e sono pronti a tornare sono ebrei.
Dice molto del posto che gli ebrei occupano in questo paese e su quelle persone straordinarie che sono gli ebrei.
Questa è una cosa che non dovremmo mai dare per scontata, una cosa che dovrebbe sempre stupirci e farci sentire molto, ma molto bene.
Invece, il mondo ebraico è fatto soprattutto di lamentele e preoccupazioni.
Quando impareremo a combattere questa battaglia?
Quando impareremo che non tutto deve essere considerato un dramma?
Non tutto ciò che non ci piace è un dramma; anzi, alcune delle cose che non ci piacciono diventano una cosa fastidiosa solo perché ne facciamo un dramma.
Noi siamo potenti, molto potenti.
Noi svolgiamo un ruolo fondamentale e cruciale nella vita di questo paese. Eppure ci comportiamo come topolini spauriti, sull’orlo dell’annientamento.
E se pensate che il nostro modo di essere non abbia conseguenze, vi prego di dare un’occhiata a qualcos’altro in questo stesso numero di Vanity Fair, qualcosa che ci dice molto sulla vita ebraica al giorno d’oggi.
C’è un articolo sulla rivista intitolato “Talk of the Town”. Racconta la storia dell’accesa rivalità fra due degli uomini più potenti di Wall Street, Henry Krevis e Stephen Schwarzman.
Entrambi, come avete intuito, sono ebrei.
Entrambi sono ai vertici del “private equity world”, che è il settore finanziario più attivo al giorno d’oggi.
Entrambi controllano asset per decine di miliardi di dollari.
La prima cosa che mi ha colpito della storia è quanto entrambi siano idioti. Ognuno cerca di sopraffare l’altro, di distruggerlo, di superarlo. Per non parlare del modo abominevole con cui ognuno tratta i propri dipendenti.
Ognuno agisce secondo modi che non sono molto in linea con gli insegnamenti e i valori dell’ebraismo.
È triste, ma non è questo che mi ha colpito.
Ciò che mi ha colpito è quanto questi due facciano, quanto diano a favore di ogni tipo di buona causa: biblioteche, musei, ospedali, università, e così via, ogni cosa menzionata per nome nell’articolo.
Leggi e vedi quanta energia ognuno di loro dedica alla sua opera di beneficenza, quanti soldi ciascuno dona a cause benefiche.
Facendo così, è chiarissimo, per lo status sociale e l’influenza che ne derivano.
Ciò che è altrettanto chiaro è che nessuno dei due sembra essere coinvolto o contribuire alle cause ebraiche, almeno in modo significativo.
Anche questo la dice lunga sulla vita ebraica di oggi.
Perché questi non sono i soli.
Il fatto è che, come dimostrano numerosi sondaggi, la maggior parte degli ebrei di questo paese non dona a beneficio di cause ebraiche. Di certo non le decine di milioni di dollari che donano con tanto entusiasmo ad una università o ad un museo.
La domanda è perché provino così poca lealtà verso la propria comunità, perché cerchino così tanto altrove cui dedicare le proprie risorse e le proprie energie.
Credo che ciò sia dovuto al fatto che abbiamo reso l’ebraismo un luogo oltremodo sgradevole.
L’ebraismo conta tra di noi così tante persone potenti, come dimostra la lista di Vanity Fair. Siamo parte integrante di questa società, abbiamo un impatto enorme su di essa, eppure siamo sempre infelici, ci sentiamo sempre vittime, ci lamentiamo sempre di questo e di quello.
C’è sempre un altro olocausto dietro l’angolo, c’è sempre il prossimo Hitler sulla scena, Israele è sempre in guerra, siamo sempre preoccupati, sempre spaventati, sempre convinti che la fine sia vicina.
Bene, chi diavolo vuole unirsi a questa festicciola?
Poiché sprechiamo tutto il bene che abbiamo ricevuto, troppi di noi scelgono semplicemente di fare di testa loro, di partecipare a cose che non comportano sensi di colpa e nevroticismo.
Più della metà di coloro che compaiono nella classifica di Vanity Fair sono ebrei.
Eppur non ci sentiamo potenti; anzi, il solo fatto di essere in questa lista ci rende più nervosi di prima.
Invece di essere compiaciuti e orgogliosi, ci preoccupiamo che non sia bello essere così visibili, che i gentili vedano quanta influenza abbiamo.
Così prendiamo anche un’occasione di gioia e la trasformiamo in una cosa futile.
C’è da stupirsi allora se, nonostante tutte le prove contrarie, continuiamo a sostenere che la vita ebraica è un luogo spaventoso e triste, e coloro che ce l’hanno fatta non vogliono averci niente a che fare?
Leave a comment