
Ho finito di leggere nei giorni scorsi il libro l’Apocalypse – État de la question, pubblicato nel 1963 dall’importante esegeta francese cattolico André Feuillet (1909-1998). Apprendo da Wikipedia[1] che Feuillet nel corso della sua lunga carriera ha pubblicato 25 libri e 275 articoli. Ha tradotto il libro di Giona per la Bibbia di Gerusalemme. Nel 1983, è divenuto membro della Pontificia Accademia di Teologia. In Italia, però, non mi sembra che sia conosciutissimo: l’unico libro che mi consta essere stato tradotto qui da noi è “Maria, madre del Messia, madre della Chiesa”, pubblicato da Jaca Book.
Il suo libro sull’Apocalisse è piccolo nelle dimensioni (appena 140 pagine) ma denso di argomentazioni e di riferimenti bibliografici. Costituisce certamente una sintesi preziosa dello status quaestionis[2] sul testo di Giovanni negli anni Sessanta del Novecento, in particolare per ciò che concerne l’esegesi cattolica. Dopo averlo letto, provo a descriverne i contenuti a mio avviso più significativi.
La prima cosa che mi sembra di poter dire è che Feuillet era un preterista. Egli non usa mai questo termine, ma di fatto è questo il senso della sua concezione dell’Apocalisse. Ricordiamo brevemente che cosa si intende per “preterismo”. Cito dalla voce “Preterismo” della Enciclopedia in rete “Teopedia”[3]:
Il preterismo è una concezione dell’escatologia cristiana che sostiene che gran parte delle profezie escatologiche presenti nella Bibbia, specialmente quelle riguardanti l’Antico Testamento e il libro dell’Apocalisse, si sono già adempiute in passato, durante il periodo del Nuovo Testamento o poco dopo. Il termine “preterismo” deriva dal verbo latino “praeterire”, che significa “passare oltre”, “trascorrere”, “essere trascorso”.
In effetti, secondo Feuillet, gran parte degli eventi descritti nell’Apocalisse sono già accaduti. Leggiamo infatti cosa egli scrive a pagina 42:
“Ma, d’altra parte, resta vero che alcuni momenti cruciali della storia umana sono previsti nel Libro dell’Apocalisse. Ciò che viene rivelato, inoltre, non sono tanto gli eventi in sé (poiché in gran parte sono già accaduti) quanto il loro vero significato in relazione all’instaurazione del Regno di Dio. La catastrofe del 70 d.C. appartiene al passato, ma Giovanni (almeno a nostro avviso, vedi sotto) ne sottolinea il significato nei due settenari dei sigilli e delle trombe. La persecuzione degli imperatori è già iniziata, ma Giovanni ne rivela il significato e l’inevitabile esito”.
Dicevo che Feuillet non usa il termine “preterista”; una però un termine affine, il vocabolo tedesco “zeitgeschichtlich”:
“Apprezziamo molto diversi studi che utilizzano il cosiddetto metodo zeitgeschichtlich, già elaborato da Alcazar. Infatti, lungi dall’essere un’opera senza tempo, l’Apocalisse, come abbiamo appena visto, è incastonata nel tessuto degli eventi contemporanei alla sua composizione e può quindi, in una certa misura, esserne illuminata”.
L’Alcazar citato da Feuillet è il gesuita spagnolo Luis del Alcázar[4], considerato oggi come il moderno fondatore dell’esegesi preterista dell’Apocalisse. Leggiamo su Wikipedia che “la sua opera è considerata la prima grande applicazione del metodo di interpretazione della profezia attraverso la lettura nei termini delle preoccupazioni contemporanee dell’autore”.
Una delle conseguenze di questo approccio è che, secondo Feuillet, per capire il testo di Giovanni occorre tenere presenti i grandi libri profetici dell’Antico Testamento. Soffermandosi sul capitolo 11, ecco come si esprime Feuillet (pp. 48-49):
“Tutto diventa molto più chiaro se partiamo dal presupposto che l’autore, che dal capitolo 12 in poi si occupa del rapporto della Chiesa con la Roma pagana, abbia in mente qui (e anche nei capitoli precedenti) il rapporto della Chiesa con il popolo eletto. Egli conferisce così al suo libro una struttura che ricorda i libri profetici dell’Antico Testamento: prima gli oracoli contro gli ebrei, poi gli oracoli contro le nazioni. Vale la pena confrontare Apocalisse 11,2 con Luca 13,25-28, dove gli ebrei, “da fuori”, cominciano a bussare alla porta per cercare di entrare nella sala del banchetto e vengono tuttavia “cacciati fuori”. In entrambi i casi, notiamo questo paradosso: coloro che sono già fuori vengono cacciati fuori. Come ha giustamente osservato Swete, Giovanni sta pensando alla separazione definitiva tra Sinagoga e Chiesa provocata dalla catastrofe del 70 d.C., e fa riferimento anche agli oracoli di Ezechiele 40-48: gli eserciti di Tito non distrussero il vero tempio di Dio; esso permane, costituito in particolare dagli ebrei che hanno aderito a Cristo (il Resto messianico). Quanto agli ebrei increduli, che, per i legami tra Antico Testamento e Vangelo, potrebbero essere paragonati al cortile esterno del Tempio, vengono definitivamente espulsi”.
Questa esegesi del capitolo 11 dell’Apocalisse da parte di Feuillet verrà confermata, nei decenni successivi, da studiosi quali Alan Beagley, Edmondo Lupieri e Kenneth Gentry.
La catastrofe dell’anno 70 come punizione degli ebrei increduli è uno dei temi dominanti dell’Apocalisse. Feuillet ne ribadisce l’importanza da par suo (pp. 49-50):
“In 8:7-12, le piaghe delle prime quattro trombe colpiscono i terzi, e in 9:15 vengono nuovamente menzionate le piaghe del terzo dell’umanità. Nulla di simile si riscontra nelle parallele piaghe delle coppe, che colpiscono il mondo pagano. La spiegazione di questa differenza va ricercata nella dottrina profetica del Resto [d’Israele]. Se ricordiamo anche le plausibili allusioni alla Guerra Giudaica di Giuseppe Flavio che Giet ha scoperto nei dettagli delle piaghe delle trombe, e soprattutto se consideriamo il collegamento che collega i capitoli 8 e 9 al capitolo 11, il capitolo finale delle sette trombe situate a Gerusalemme, giungiamo a questa conclusione quasi inevitabile: le piaghe delle coppe non sono affatto un doppione di quelle delle trombe, perché, mentre le prime colpiscono gli adoratori della Bestia, le seconde sono strettamente legate al giudizio divino del popolo ebraico incredulo che fu la catastrofe del 70… I 144.000 membri delle dodici tribù d’Israele, contrassegnati dal sigillo (7,1-8), che l’autore contrappone agli innumerevoli convertiti gentili (7,9), rappresentano il Resto d’Israele; sono quindi distinti dai 144.000 vergini radunati sul monte Sion (14,1-5). Ciò che, nella mente di Gesù, aveva il carattere di una tragedia, poiché questa prospettiva poneva fine a secoli di storia religiosa, non era il giudizio dell’umanità alla fine dei tempi, ma piuttosto l’imminente giudizio del popolo ebraico incredulo. J. A. T. Robinson ci ha appena giustamente ricordato questa verità elementare, sebbene con qualche esagerazione: Gesù non avrebbe mai predetto la sua vera Parusia! In ogni caso, Robinson ha ragione nel ritenere che la profezia di Marco 13 si riferisca al popolo ebraico e a Gerusalemme, e potrebbe non sbagliarsi nel credere che il suo tono apocalittico derivi in parte dalla comunità cristiana primitiva, che vi lesse un presagio della Seconda Venuta. In Apocalisse 4:11, abbiamo una reinterpretazione e una lettura autentica di Marco 13”.
Riguardo alle differenze (e alle analogie) tra le piaghe contemplate nel settenario delle trombe e quelle contemplate nel settenario delle coppe, devo dire di non essere del tutto d’accordo con Feuillet: anche il settenario delle coppe descrive – principalmente, anche se non esclusivamente – la punizione divina incombente sulla Gerusalemme del primo secolo, come hanno a suo tempo fatto notare due esegeti come Beagley[5] e come Lupieri[6].
Un altro giudizio significativo di Feuillet riguarda il sistema ermeneutico detto della “ricapitolazione”. Leggiamo come viene definito tale sistema dall’Enciclopedia Cattolica (alla voce “Apocalisse”):
“Il ricapitolativo è accennato o implicito presso i migliori rappresentanti latini del 1° sistema (ad es. Beda, Alcuino); è l’unico, con l’escatologico, che possa dirsi tradizionale. L’Apocalisse non espone gli eventi futuri in una serie progressiva continua, ma descrive alcuni supremi eventi della lotta tra Cristo e Satana, ripetendo in simboli differenti le stesse realtà fino alla maturazione e all’esito conclusivo: è il Regno di Dio militante e infine trionfante. Accennata da Vittorino di Pettau, la recapitulatio è formulata e applicata da donatista Ticonio (ca. 380), ammessa e spiegata da s. Agostino (De Civ. Dei, XX, 8) che stabilisce sicuri principi esegetici: l’Apocalisse predice le direttrici della storia spirituale dell’umanità dall’Incarnazione alla fine del mondo, senza attardarsi alle contingenze esterne particolari…”.
Eppure, a quanto pare, il predetto sistema ricapitolativo non è immune da esagerazioni, esagerazioni che hanno indotto Feuillet a formulare in proposito alcune significative obiezioni. Leggiamo la prima (p. 46):
“Gli autori che propugnano la ricapitolazione generalmente credono che le sette coppe si riferiscano esattamente agli stessi eventi dei sigilli; questi eventi sono semplicemente descritti in una forma nuova. Non possiamo accettare questa esegesi, principalmente a causa dell’espressione in 15, 1: “Sette piaghe, le ultime“. Non possiamo essere favorevoli a priori ad una ricapitolazione generalizzata: se è vero che la conclusione dell’Apocalisse si riferisce alla fine dei tempi in senso stretto e alla Gerusalemme celeste, non dovremmo forse supporre che le descrizioni precedenti ci conducano progressivamente verso questa fine, e quindi si susseguano in un certo ordine cronologico?
Un’altra obiezione (a pagina 100) di Feuillet al sistema ricapitolativo riguarda l’interpretazione del celeberrimo “Regno millenario” di Cristo descritto da Giovanni nel capitolo 20 dell’Apocalisse. Così si esprime lo studioso francese:
“Bisogna ammettere che il problema non è semplice. La spiegazione di sant’Agostino, ripresa da Allo, che fa coincidere il millennio con l’intera durata della Chiesa, è, a nostro avviso, difficilmente conciliabile con un’esegesi oggettiva dell’Apocalisse, dove il millennio occupa un posto specifico nella descrizione del dramma escatologico. Seguendo Swete, Boismard e Gelin, saremmo propensi a credere che il millennio coincida con il rinnovamento della Chiesa, dopo il periodo delle sanguinose persecuzioni (quello che stava iniziando al tempo in cui l’autore dell’Apocalisse scriveva), e prima della battaglia escatologica finale condotta da Gog e Magog”.
Questa precisazione di Feuillet è importantissima perché permette di collocare cronologicamente i “mille anni” menzionati nel capitolo 20 dell’Apocalisse tra un prima e un dopo. Un prima, caratterizzato dalle persecuzioni scatenate dalle due Bestie (e descritte nel capitolo 13 dell’Apocalisse) e un dopo, caratterizzato dallo slegamento di Satana. Ne consegue che l’”anticristo” rappresentato dalle due Bestie non può essere identificato con l’Anticristo escatologico, destinato a fare la sua comparsa sulla terra poco prima della fine del mondo, in quanto le predette Bestie sono anteriori ai “mille anni” (che è un periodo dalla durata imprecisata ma comunque lunghissimo). In particolare, la prima Bestia (quella che “sale dal mare”) simboleggia in realtà l’impero romano (“l’archetipo di tutti gli stati totalitari persecutori che potrebbero seguire”[7]): questa era l’opinione non solo di Feuillet, ma anche di mons. Antonino Romeo, il maestro di mons. Francesco Spadafora. Se Giovanni avesse voluto nominare l’Anticristo escatologico, lo avrebbe menzionato in connessione con l’era di Gog e di Magog, ma così non è stato. Risulta quindi confermata la valutazione del predetto Spadafora, secondo cui il tema dell’Anticristo escatologico appare “non fondato sui testi biblici” (Dizionario biblico, Roma 1963, voce “Anticristo”).
Vi sono altri due punti, nella trattazione dello studioso francese, che mi sento di sottoscrivere. Il primo riguarda il fatto che il settenario delle lettere è costituito da lettere reali, che hanno una valenza davvero missionaria:
“Sembra ovvio che le lettere dell’Apocalisse non siano mai esistite in modo indipendente. Non sono pura finzione, poiché affrontano circostanze concrete della condizione delle chiese in Asia. Ma è importante sottolineare la loro natura oracolare più di quanto spesso si faccia: non è Giovanni, in senso stretto, a scrivere alle chiese; è Cristo che le esamina con il suo sguardo penetrante e lo Spirito di Cristo che le esorta. Molto più delle Epistole del resto del Nuovo Testamento, queste lettere ricordano la predicazione profetica, in particolare i sette oracoli all’inizio del libro di Amos, anche se le somiglianze nella forma si accompagnano a profonde differenze nell’intenzione: lì semplice annuncio di punizioni divine, qui raccomandazioni pastorali e promesse consolanti fatte in un clima di fervore religioso davvero inimitabile… Queste promesse fatte al vincitore valgono soprattutto per la vita futura, ma senza escludere un inizio di compimento quaggiù (almeno per alcune di esse)” (pp. 40-41).
Il secondo punto che mi preme di sottolineare, e di cui ho trovato un prezioso riscontro nel libro di Feuillet, è che le comunità cristiane alle quali si rivolgeva Giovanni avevano davanti a sé la prospettiva concreta del martirio:
“In realtà, l’Apocalisse è un libro autenticamente cristiano, ma unilaterale, scritto per un periodo di crisi e destinato a una comunità terribilmente provata, che cerca di fortificare” (p. 63).
Ma di quale periodo storico preciso stiamo parlando? Secondo Feuillet, la persecuzione adombrata da Giovanni è quella che sarebbe stata scatenata dall’imperatore Domiziano. Su questo punto, non mi sento di condividere la valutazione dello studioso francese: l’imminente martirio prefigurato da Giovanni non può corrispondere al regno di Domiziano, la cui (presunta) persecuzione anticristiana è ormai negata dalla maggioranza degli studiosi. Dovrebbe invece corrispondere ad una persecuzione molto più minacciosa e concreta: quella scatenata da Nerone a partire dall’anno 64 (Nerone: il sesto re dei sette menzionati dall’Apocalisse, quello ancora vivente nel momento in cui scriveva Giovanni, come è stato evidenziato da Kenneth Gentry nel suo recente commentario[8]).
Un altro punto importante da sottolineare nell’esegesi di Feuillet è il chiarimento relativo alla questione della Parusia (p. 53), incautamente associata all’Apocalisse dagli esegeti modernisti:
“Tra tutti i commentatori recenti dell’Apocalisse, Padre Allo sembra essere quello che ne ha esaminato la dottrina più attentamente. Le sue principali conclusioni sono le seguenti. È falso che la prima generazione di cristiani vivesse con la paura della Parusia. Agli occhi dei primi cristiani, il cambiamento radicale era già avvenuto grazie all’Incarnazione Redentrice, e la venuta finale di Cristo non avrebbe portato nulla di essenzialmente nuovo. Questa è la convinzione generale degli autori del Nuovo Testamento. Questa è anche la prospettiva dell’Apocalisse: Cristo ha già riportato la vittoria sul diavolo, e i cristiani stanno assistendo alla nascita dolorosa ma certa della salvezza definitiva. Padre Bonsirven segue le orme di Padre Allo”.
E ancora (p. 59):
“In uno studio stimolante (The Wrath of the Lamb, Londra, 1957, pp. 159-180), A. T. Hanson contesta l’idea semplicistica che nell’Apocalisse la manifestazione dell’ira di Dio sia indissolubilmente legata alla Parusia. Egli dimostra che, al contrario, essa si verifica nel corso della storia e che, inoltre, Giovanni la cristianizza collegandola alla Croce: è infatti versando il suo sangue che Cristo ha ottenuto la vittoria, ed è attraverso il martirio che i cristiani a loro volta trionfano”.
Importante è anche la considerazione di Feuillet riguardo alle affinità dell’Apocalisse con il Vangelo di Giovanni (p. 87):
“Un’altra coincidenza particolarmente notevole: il tema di Cristo trafitto è comune a entrambi gli scritti, e il testo di Zaccaria 12,10 su cui si basa – “vedranno colui che hanno trafitto” – è utilizzato similmente in Giovanni 19,37 e in Apocalisse 1,7, in una traduzione simile, diversa da quella della Settanta”.
A questo punto riporto a beneficio dei lettori le conclusioni di Feuillet sul capitolo 12 del libro di Giovanni, perché le considero senz’altro meritevoli di riflessione:
pagina 88: “Se la Donna, Madre del Messia, in Apocalisse 12 è prima di tutto la Sion spirituale dei profeti, che poi diventa la Chiesa, e può essere solo secondariamente la Vergine Maria, la Donna di Cana e della scena dell’addio al Calvario è Maria, in quanto, crediamo, ella rappresenta la Chiesa, madre del popolo di Dio nell’età della grazia”.
Pagina 96: “La Donna contemplata da Giovanni è anzitutto la Sion ideale dei profeti, che dando alla luce (metaforicamente) il Messia diventa la Chiesa; è quanto dimostrano senza dubbio i passi scritturali utilizzati da Ap 12, 1-6: soprattutto Is 26, 17; 60, 19-20; 66, 7, e senza dubbio anche Cantico dei Cantici 6, 10, testo che a sua volta dipende da Is 60, 19-20”.
Pagina 97: “La Donna, Madre del Messia, che appare poi al veggente, è il popolo di Dio dell’Antico Testamento, che, dopo aver donato Cristo al mondo, diventa il popolo cristiano. Il suo parto doloroso rimanda alla Passione di Cristo, preludio necessario alla sua Risurrezione e alla nascita della Chiesa”.
È un peccato che il libro di Feuillet non sia mai stato tradotto in italiano; venne però all’epoca tradotto in inglese ed è stato utilizzato con profitto da un esegeta come Kenneth Gentry. Speriamo che anche qui da noi qualcuno si accorga finalmente della sua esistenza.
[1] https://fr.wikipedia.org/wiki/Andr%C3%A9_Feuillet.
[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Status_quaestionis.
[3] https://www.tempodiriforma.it/mw/index.php?title=Teopedia/Preterismo.
[4] https://en.wikipedia.org/wiki/Luis_del_Alc%C3%A1zar.
[5] Beagley 1987, p. 91.
[6] Lupieri 1999, p. 246.
[7] Feuillet 1963, p. 46.
[8] Gentry 2024.
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