
Oggi vorrei condividere con i miei amici e corrispondenti una (breve) riflessione su alcuni recenti fatti di cronaca, che chiamano in causa il tema del fine-vita, dal suicidio assistito (delle gemelle Kessler) alla cremazione (di Ornella Vanoni). Una delle discontinuità più evidenti nel magistero ecclesiastico, tra la Chiesa pre-conciliare e la Chiesa post-conciliare, riguarda proprio la pratica della cremazione. Prima del Concilio, al fedele moribondo che aveva deciso di farsi cremare la Chiesa negava l’assoluzione “in articulo mortis”. Adesso, invece, la pratica della cremazione è stata ampiamente sdoganata dalla gerarchia ecclesiastica e nessuno si fa più problemi al riguardo, né la Chiesa docente né quella discente. Eppure, la Chiesa pre-conciliare aveva ragione: la cremazione è una pratica profondamente contraria a quella pietas che dovrebbe guidare il cammino di ogni fedele, dalla nascita alla morte (e non è un caso che la cremazione sia stata fortemente propagandata dalle logge massoniche sin dal diciannovesimo secolo). Il corpo del defunto, infatti, essendo destinato alla resurrezione, non può, non deve essere distrutto. Ma c’è di più: la maggioranza dei cattolici odierni, a quanto pare, non ha nulla da obbiettare nemmeno riguardo alla pratica del suicidio assistito, che è pur sempre una forma di suicidio, da sempre considerato dalla Chiesa un peccato gravissimo (in quanto praticamente irrimediabile). Di fatto, ormai, i cattolici odierni ragionano, in maggioranza, da veri protestanti, anche quando pensano di essere dei cattolici inappuntabili.

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