Mons. Ernest Jouin: Il non-ebreo nello Zohar

MONS. ERNEST JOUIN

IL NON-EBREO NELLO ZOHAR

(E. Jouin, Le péril judéo-maçonnique, t. V, Paris, 1925, pp. 74-88.  Le citazioni di mons. Jouin, tranne poche eccezioni, sono tratte da: Sepher ha-Zohar, traduit pour la première fois sur le texte chaldaïque et accompagné de notes par Jean de Pauly, Paris, 1906-1911. Talora le citazioni vengono parafrasate, ma sono comunque sempre aderenti allo spirito del testo. Sulla figura di mons. Jouin cfr. G.P. Mattogno, Il non-ebreo nello Shulchan Aruch. La battaglia di monsignor Jouin contro la “Giudeo-Massoneria” e lo Shulchan Aruch, Effepi, Genova, 2012. Il testo originale del passo dello Zohar citato da mons. Jouin in cui cristiani e maomettani, adepti di Gesù (Yeshu) e Maometto, vengono definiti “cani morti” che emanano un fetore pestilenziale, è in G.H. Dalman, Was sagt der Thalmud über Jesum?, Berlin, 1891, p. 19. Mutilato nelle prime edizioni di Mantova e Cremona del 1560, il passo in questione compare integralmente nell’edizione di Costantinopoli del 1736. In Dalman le frasi omesse nell’edizione di Mantova sono poste fra parentesi quadre).

 

Esteriormente lo Zohar ricorda il Talmud. Si tratta di una raccolta di opinioni e di pareri formulati da diversi rabbini. Vi ritroviamo i nomi abituali di Simeon, Isaac, Yehuda ecc. Nel suo insieme l’opera vuole essere un commento al Pentateuco, ma in realtà è una serie di glosse, oggettive e verbali, sui versetti tratti non solo dai cinque libri di Mosè, ma anche dalle altre parti della Bibbia, in particolare dai profeti e dai libri sapienziali, il tutto caratterizzato da un’assoluta mancanza di metodo.

Occorre un grandissimo sforzo per cercare di mettere ordine in questo caos di idee metafisiche e religiose, teorie cosmogoniche, dottrine morali e sociali che si frammischiano ad una interpretazione simbolica dei numeri e delle lettere dell’alfabeto.

È proprio questo simbolismo a caratterizzare l’intera opera. Il termine zohar significa splendore. Il Sepher ha-Zohar, o Libro dello splendore, si propone dunque di glorificare Dio.

Possiamo leggerne l’esatta definizione nel folio I, 15a:

«Il termine zohar, splendore, designa la scintilla che il Misterioso fece scaturire al momento di colpire il vuoto e che costituisce l’origine dell’universo, il quale è un palazzo costruito per la gloria del Misterioso. Questa scintilla costituisce il seme sacro [del mondo]. Così il termine zohar designa il seme che [il Misterioso] ha gettato per la sua gloria».

Questo passo dà il tono all’intera opera. Qui è ancora relativamente chiaro, ma più spesso lo splendore  svanisce per lasciare il campo a una densa oscurità. Non conveniva infatti che il libro fosse accessibile a tutti. Lo Zohar contiene la mistica e la gnosi ebraica. È un’opera esoterica che affianca il Sepher ha-Yetsira o Libro della formazione, e queste due opere vanno a costituire ciò che si è soliti chiamare la Cabbala ebraica.

Ma se il Libro della formazione rappresenta la Cabbala antica, poiché risale al VI o VII secolo, se non è addirittura contemporaneo degli ultimi talmudisti, lo Zohar è invece l’espressione della Cabbala moderna.

Fu a lungo attribuito a Simeon ben Yochai, che perì di morte violenta nel 120 d.C., durante la guerra di Adriano contro gli ebrei. Oggi tuttavia questa opinione è stata abbandonata. Come ha stabilito S. Munk (Mélanges de philosophie juive  et arabe, Paris, 1859, p. 275) e come ammette M. L. Strack (Einleitung in den Talmud, 3ᵃ ed., Leipizig, 1900, p. 83), che fa autorità in materia, nel suo stato attuale lo Zohar non è anteriore alla seconda metà del XIII secolo. Esso proverrebbe dalla Spagna e ne sarebbe il compilatore, ma non l’autore, Moisè de Leon.

Si tratta infatti di una compilazione, di una giustapposizione di opinioni ed anche di opere di epoche diverse. La caratteristica più evidente dello Zohar è la sua mancanza di omogeneità. Le ripetizioni sono numerose e vi sono stati incorporati libri anteriori. Alcuni sono indicati, ad es. il Pastore fedele, l’Assemblea del Santuario, il Libro occulto, la Grande e Santa Assemblea, e il Trattato dei Palazzi, una descrizione del cielo e dell’inferno che contrasta col resto per la definizione dei contorni, la precisione e la chiarezza.

È dunque legittimo ammettere che lo Zohar, almeno per alcuni suoi elementi (non secondari), risale al II secolo dell’èra cristiana. Esso è impregnato delle idee alessandrine e rappresenta, come l’opera di Filone, un tentativo di sincretismo tra la Bibbia e la filosofia greca. È infatti con le sue Parole, il suo Verbo – le Sephirot – in numero di dieci, che Dio elabora il mondo: le Sephirot sono i suoi strumenti.

Dio infatti abbraccia l’infinito, en Soph. È il tutto, e sotto di lui si restringono e si incastrano quattro mondi come delle sfere sempre più piccole: il mondo di emanazione, ‘olam atsiluth; il mondo di formazione, ‘olam beria; il mondo di creazione, ‘olam yetsira, e il mondo di azione, ‘olam asia, che è il nostro universo. L’uomo è l’essere più elevato e la sua anima è immortale. Ma essa può raggiungere la perfezione solo dopo una serie di successive reincarnazioni. Allora i tempi saranno compiuti ed apparirà il Messia.

Questa, in sintesi, è la sostanza dello Zohar. L’opera è scritta in lingua aramaica e comprende cinque parti corrispondenti ciascuna ad uno dei libri del Pentateuco. Ogni parte si suddivide in sezioni (in tutto 54): 12 per il commento alla Genesi, 11 per l’Esodo, 10 rispettivamente per il Levitico e i Numeri, e 11 per il Deuteronomio.

Dopo l’edizione originale dello Zohar pubblicata a Mantova nel 1559, se ne contano altre nove. Esse presentano alcune differenze. Taluni passi che si leggono nell’una mancano nell’altra. L’edizione di Mantova resta la migliore sotto tutti i punti di vista, ma anche quella di Amsterdam del 1805 offre ogni garanzia circa l’integrità del testo.

Lo Zohar forma tre tomi, che saranno citati indicando il tomo e il folio, nonché il volume e la pagina corrispondente dell’ed. J. de Pauly.

In francese esiste infatti una soddisfacente traduzione dello Zohar in sei volumi a cura di Jean de Pauly, pubblicata tra il 1906 e il 1911 (L’opera è stata interamente rivista, corretta e completata da E. Lafuma-Giraud).

Da sempre e in ogni documento gli ebrei affermano la loro superiorità su tutti gli altri popoli.

Lo Zohar non fa eccezione. In termini non privi di grandezza e di poesia, così esso proclama l’eccellenza di Israele (III, 91a fine; V, p. 244):

«Fortunata è la sorte di Israele in questo mondo e nel mondo a venire! Poiché il Santo (egli sia benedetto) lo ha legato a sé e lo ha chiamato “popolo santo”. Legandolo al suo Nome con il segno dell’Alleanza lo ha innalzato ad un grado superiore chiamato “santo”».

I goyim vengono invece definiti in termini totalmente opposti, ed infatti lo Zohar così continua:

«Al contrario, i popoli pagani, che non sono legati a Dio, non osservano le sue leggi e non hanno il segno dell’Alleanza, finiscono per attaccarsi all’altro lato che non è santo». Così parlava un certo Rabbi Chiya.

Altrove (I, 163b in fine; II, p. 240) Rabbi Abba si esprime negli stessi termini:

«Fortunata è la sorte di Israele, che è superiore a tutti i popoli pagani. Israele si trova infatti su un piano superiore, mentre i popoli pagani appartengono al lato sinistro».

Il lato destro è chiamato “buono”, il lato sinistro “malvagio” (I, 205a; II, p. 416). E Rabbi Eliezer lo precisa con alcuni esempi (III, 259b; V, p. 605):

«Vi è un lato destro e un lato sinistro, cioè Israele e i popoli pagani, il paradiso e l’inferno, questo mondo e il mondo a venire. Israele è la Clemenza, i popoli pagani sono il Rigore».

L’Eterno ha favorito Israele inviandogli dei profeti per guidarlo e pervadendolo dello Spirito Santo. Come osserva R. Yehuda (II, 53b; III, pp. 240-241) sono vantaggi di cui i gentili non potranno mai approfittare:

«Fortunata è la sorte di Israele, per il quale Dio prova più amore che per tutti gli altri popoli. Proprio come conseguenza di questo amore Dio favorì Israele inviandogli dei profeti veridici, dei pastori fedeli e lo Spirito santo, benefici da cui gli altri popoli sono esclusi. Dio fa uscire lo Spirito santo dallo stesso Israele».

Appunto per questo i gentili hanno «lo spirito riottoso e il cuore indurito» (II, 12b; III, p. 54). Concetto che un altro Rabbi di nome Hizqiya esprime (III, 71b inizio; V, p. 194) in termini ancora più energici:

«I pagani sono morti anche durante la loro vita».

Difatti la luce è nascosta ai loro occhi (I, 203b; II, p. 410). Già Prov. 4,9 aveva affermato: “La vita degli empi è come il buio; essi non sanno in che cosa inciampano”. Lo Zohar, riprendendo questa affermazione, la corregge leggermente per accentuarne il significato (III, 292b fine; VI, p. 104): «Essi non sanno, cioè non vogliono sapere».

  1. Simeon, insegnando al figlio Eliezer, si richiama al versetto 10,7 di Geremia in questi termini:

«Fra tutti i saggi dei goyim e in tutti i loro regni nessuno è simile a te, o Eterno!», e qualifica i gentili con l’epiteto di «dementi»; e dopo aver raccontato come una volta aveva convertito un filoso pagano, conclude con Is. 44,9: «Quelli che fabbricano idoli sono tutti vanità e i loro oggetti più preziosi non giovano a nulla» (I, 10a; I, pp. 55-58).

Questi idoli dei gentili sono oggetto d’avversione per gli ebrei. In qualunque modo li si designi – dèi dei goyim, altri dèi, dèi stranieri – sono egualmente «orrendi», come fa notare R. Yehuda al suo collega R. Hizqiya (I, 173a; II, p. 280).

Il Pastore fedele [titolo attribuito a Mosè dalla letteratura cabbalistica] da parte sua usa epiteti non meno crudi (II, 118a; III, p. 455): «Il dio straniero è un distruttore, un brigante, un empio».

E R. Simeon, rilevando la differenza principale tra l’Eterno, Dio d’Israele, e gli dèi degli idolatri (I, 173b; II, pp. 281-282), pretende che «nessun pagano è in grado di farsi ascoltare dal suo dio, mentre il Santo (egli sia benedetto) è pronto ad ascoltare la preghiera di Israele ogni volta che ha bisogno di lui»; poiché, come dice Mosè (Deut. 4,5), «non v’è nazione, per quanto potente, che abbia gli dèi tanto vicini a sé, come il nostro Dio è vicino a noi e presente in tutte le nostre preghiere».

Invano i pagani interrogano i loro morti e praticano la magia (III, 71b; V, p. 194): «Il loro potere si esercita solo nel mondo inferiore», poiché lo ricevono dal demonio. Non sono infatti «i figli dell’antico serpente che sedusse Eva»? (I, 28b inizio; I, p. 179).

Il loro aspetto fisico tradisce la loro origine.

Isaia (3,9) è chiaroveggente: «L’aspetto del loro volto testimonia contro di loro».

Ispirandosi a questa osservazione, il Pastore fedele sostiene (III, 122b; V, p. 317) che «i loro volti sono differenti da quelli di Israele», mentre R. Simeon nota (III, 219a inizio; V, p. 553) che «restano immobili quando parlano».

D’altronde, l’affermazione di Ez. 34,31: “Voi siete uomini” riguarda solo gli ebrei, «non gli altri popoli pagani», i cui «spiriti impuri non hanno nulla in comune con tutto ciò che ha il nome di uomo» (I, 20b; I, p. 125).

I pagani infatti «assomigliano alle bestie» (III, 123a; V, p. 317) e «i loro spiriti (…) prendono l’aspetto di animali impuri (…) come i porci» (I, 20b; I, p. 126).

Di solito sono paragonati agli asini. Secondo III, 14b (V, p. 42), è proprio in riferimento ai pagani che Ezechiele ha detto (23,20): «La loro carne è come la carne degli asini, e il loro seme è come il seme dei cavalli».

Altrove (43a inizio; la traduzione di J. de Pauly, III, p. 193, omette questa frase) si legge: «L’asino designa il non-ebreo». Non si tratta certo di un complimento, dal momento che secondo il Pastore fedele (III, 275b; VI, p. 47) l’asino è «la cavalcatura dello schiavo».

All’asino viene spesso associato il bue.

È ancora il Pastore fedele ad affermare (II, 41b; III, p. 191): «Lo spirito del demonio è indicato coi nomi di bue, asino ecc.». E un certo R. Yossé, in un linguaggio più oscuro, esprime la stessa idea (II, 64b fine; III, p. 284): «Le due corone del lato sinistro alle quali i popoli pagani sono attaccati hanno il nome di bue e asino».

Mosè è stato veramente ispirato da Dio quando ha ordinato a Israele: «Non arare con un bue e un asino insieme» (Deut. 22,10). Difatti questi due animali incarnano entrambi una potenza demonica (II, 172 fine; II, p. 278), e la loro associazione è perniciosa per il mondo, a cui porta pregiudizio (I, 166b; II, p. 254), e dove si scatena il male (II, 6a; III, p. 24). Infine, «dal bue e dall’asino ha origine il cane, che è il più sfrontato di tutti i demoni» (II, 65a inizio; III, p. 284), ed è per tale ragione che lo Zohar (III, 259b; V, p. 605), facendo sue le parole di Is. 56,11, assimila i gentili a «cani voraci e insaziabili», e questo richiama gli «animali selvaggi» e le «bestie» a cui esso si compiace parimenti di paragonarli (I, 28b fine; I, p. 182).

Le anime che si trovano in simili involucri ed animano corpi di tal fatta molto difficilmente potrebbero essere state create dall’Eterno. Difatti R. Simeon, il quale usa volentieri un linguaggio simbolico, insegna (III, 218b fine-219a inizio; V, p. 553) che «le anime degli israeliti sono tratte dal Lume sacro che arde», ovverosia provengono «dalla fiamma della candela celeste», mentre «le anime dei popoli pagani derivano dalla fiamma di paglia». Così non bisogna confondere gli israeliti, «che sono santi», con i pagani, «le cui anime emanano tutte dai demoni» (I, 13a; I, p. 75).

Da siffatta origine le anime dei gentili ricevono un discredito sostanziale: esse sono impure e immonde.

Eliezer insegna la seguente dottrina (I, 47a inizio; I, p. 272):

«Le anime degli altri popoli provengono dal lato sinistro, il che le rende immonde; esse dunque sono tutte impure e contaminano tutti coloro che le avvicinano».

Yossé non si esprime in modo differente (I, 131a fine; II, p. 116):

«I popoli idolatri contaminano durante la loro vita, poiché le loro anime provengono dal lato impuro».

Ed è ancora la stessa opinione che troviamo espressa da R. Yehuda (I, 167b; II, pp. 257-258):

«Israele è santo, ma nessuno degli altri popoli potrebbe esserlo; ad essi si attacca la contaminazione, poiché l’uomo impuro attira a sé la contaminazione».

Questa impurità dei goym, e segnatamente dei cristiani e dei musulmani, agli occhi degli ebrei è tale che questi la designano col termine ingiurioso di «letame». Ma il passo in cui si legge questo termine è stato soppresso nella maggior parte delle dizioni dello Zohar. Esso si trova in III, 282a (VI, p. 448) e dice:

«Come il letame è un miscuglio di escrementi e di animali striscianti, dove si gettano i cani e gli asini morti, così il cimitero dove si seppelliscono i figli di Esaù e di Ismael, gli adepti di Yeshu e di Maometto, che sono anch’essi cani morti, è un letamaio che contiene le impurità infette e diffonde un fetore pestilenziale (…) Questa empia famiglia [gli idolatri] si è mescolata agli israeliti in modo da formare uno stesso corpo. Nondimeno, le loro ossa e la loro carne sono impuri».

D’altronde la quantità va di pari passo con la qualità. L’impurità degli idolatri si estende all’infinito:

«Lo spirito impuro del lato sinistro si estende per migliaia e milioni di sentieri, sui quali marciano i popoli pagani» (I, 177b inizio; II, p. 297).

D’altra parte, essa persiste al punto che, secondo R. Simeon (III, 14b; V, p. 42) «è difficile purificare un pagano dalla contaminazione anche dopo la terza generazione».

Originariamente, tuttavia, ebrei e non-ebrei erano egualmente impuri, poiché la contaminazione derivava dalla colpa di Eva, madre di tutti gli uomini. Ma successivamente, secondo la tradizione che R. Yossé riferisce a R. Isaac (I, 126b inizio; II, p. 102), «Israele è stato posto ai piedi del monte Sinai (…); esso è stato purificato dalla contaminazione che il serpente aveva inoculata ad Eva». A sua volta, R. Isaac ribadisce: «Solo gli israeliti, che hanno ricevuto la Legge, sono stati purificati dalla contaminazione del serpente, ma non gli altri popoli pagani».

Le anime dei gentili, impregnate di impurità giacché provengono dal demonio, sono incapaci di purificare la propria natura e conservano il loro carattere diabolico. In questo mondo svolgono un ruolo negativo. Secondo la testimonianza del Pastore fedele, «sono le anime degli empi che divengono demoni distruttori del mondo» (II, 118a; III, p. 455).

Poi, quando il loro destino terreno è compiuto, esse vanno all’inferno:

«Chiunque si sia reso colpevole (…) di idolatria, sarà punito con l’inferno» (I, 27b; I, p. 172).

L’inferno, come è descritto chiaramente dal Trattato dei Palazzi, si suddivide in sette zone o palazzi, che hanno rispettivamente i nomi di pozzo, precipizio, abisso, folla melmosa, sheol, ombra di morto e terra inferiore (II, 263a inizio; IV, p. 296). È nel settimo palazzo che gli idolatri ricevono il loro castigo. Questa parte dell’inferno si chiama anche «soggiorno del vino inebriante», e «ne esce un fuoco potente destinato alla punizione dei colpevoli» (II, 267b fine; IV, p. 301).

I dannati per idolatria si trovano sotto la sorveglianza di uno dei tre capi dell’inferno, il terzo, che si chiama Collera (III, 237a; V, p. 576), e subiscono un trattamento che varia a seconda della condotta tenuta sulla terra.

Ecco infatti la descrizione che ne dà il Trattato dei Palazzi (II, 268a inizio; IV, p. 301):

«Nella settima zona vi sono quattro porte attraverso le quali penetra debolmente la luce dell’impero santo, destinata ai pagani che non hanno mai fatto torti a Israele e l’hanno trattato con giustizia e lealtà. Questi pagani sono posti accanto alle porte. In questo palazzo vi sono anche finestre aperte sull’impero della luce santa. Vicino a queste finestre sono assisi i re dei popoli pagani che non hanno mai oppresso Israele, ma anzi lo hanno sempre protetto. Grazie appunto a Israele hanno la possibilità di godere un po’ di luce nella loro dimora coperta dalle tenebre. Quanto ai re dei popoli pagani che hanno oppresso Israele, essi sono castigati tre volte al giorno, ciascuno secondo la gravità della loro colpa».

L’ebreo ha un interesse maggiore a non compromettersi con gli idolatri ed anzi a trattarli con durezza. Innanzitutto si garantisce dalla dannazione, poi assicura la propria supremazia in questo mondo in attesa della sovranità finale e definitiva.

Lo Zohar, esattamente come il Talmud, offre dunque agli adepti dell’Eterno un piano direttivo. Esso enumera (II, 208a; IV, pp. 308-309) i dodici comandamenti positivi e i dodici precetti negativi cui deve attenersi il fedele israelita. I primi concernono il culto di Jahvè e il rispetto della Legge. I secondi regolano la condotta nei confronti dei goyim.

Questo è il testo:

«Ecco i dodici precetti negativi. Non favorire i pagani; non edificare una torre in onore di un tempio idolatrico; non pensare all’idolatria; non prostrarsi dinanzi a un idolo; non umiliarsi dinanzi agli idolatri; non attribuire l’unità di Dio [son Maître] a un dio pagano; non meditare sul culto pagano; non consultare l’oroscopo; non fare incantesimi; non evocare i morti; non praticare la magia; non pronunciare il nome di altre divinità».

Cerchiamo ora di entrare nei dettagli, raccogliendo qua e là le indicazioni che si trovano sparse tra i vari commenti.

In primo luogo, è preferibile per l’ebreo non vivere affatto fra i pagani. Il Pastore fedele lo prescrive in termini misurati (III, 219a; V, p. 553):

«Un albero che non produce lo si innesta. Allo stesso modo, un uomo che risiede in una città abitata da empi, dove non ci si può conformare ai precetti della Legge, deve cambiare residenza e andare a vivere fra gente pia, dove si trovano maestri della Legge».

Tuttavia non sempre è possibile all’ebreo abbandonare una località. In tal caso egli è costretto a vivere a stretto contatto coi pagani. La riservatezza che gli è imposta in queste condizioni sconfina nella maleducazione, poiché lo Zohar, fondandosi sulla tradizione talmudica che già conosciamo, proibisce a sua volta di salutare un empio (I, 171b; II, p. 273).

Il fedele d’Israele si asterrà altresì dal mangiare alimenti preparati dai pagani, poiché «i loro cibi rendono impuri» (II, 125b fine; III, pp. 486-487).

Per contro, è opportuno non associarli alle feste dell’Eterno e lasciarli nell’ignoranza del vero Dio. Ascoltiamo infatti queste solenni parole che R. Abba dice a R. Simeon (III, 73ab; V, p. 198):

«Israele porta sulla sua carne il segno sacro dell’Alleanza; egli inoltre fa parte dei membri del palazzo celeste. Per questo gli è proibito di rivelare le cose della Legge a coloro che non portano il segno sacro sulla loro carne. Tutta la Legge costituisce il nome di Dio e appunto per questo non bisogna rivelarla ai pagani».

E R. Simeon approva ribadendo:

«La Scrittura proibisce anche di far mangiare a un pagano una parte dell’agnello pasquale; a maggior ragione è proibito rivelare ai pagani le parole sacre della Legge che costituiscono il Santo dei santi, il Nome supremo».

In viaggio l’ebreo, se è prudente, eviterà la compagnia di un idolatra, altrimenti può correre il rischio di venire assassinato. Si racconta (II, 49b; III, p. 225) che R. Chiya e R. Jossé «una volta camminavano insieme nel deserto (…) Incontrarono un uomo che portava un carico. R. Chiya disse al compagno: scansiamoci da lui; quest’uomo potrebbe essere un pagano o un analfabeta, coi quali è proibito accompagnarsi in via».

Bisogna anche ricusare i tribunali degli idolatri, poiché «la loro fede e la loro legge sono menzognere» (II, 188a fine; IV, p. 171).

Questa è la ragione umana. Ma ve n’è un’altra fornita dalla mistica. Secondo il Trattato dei Palazzi, fra le sette dimore celesti la sesta è superiore a tutte le altre sia per i numerosi pilastri che la sostengono, sia per la luce da cui è inondata dalle quattro direzioni dell’orizzonte, come pure dall’alto e dal basso. È il “palazzo della Clemenza” o, se si preferisce, il palazzo dei giudizi:

«È infatti in questo palazzo che sono esposte le sentenze pronunciate dai tribunali di Israele. Per questa ragione è proibito agli israeliti di portare le loro cause e le loro liti dinanzi ai tribunali pagani, poiché le sentenze di costoro non sono esposte nel palazzo celeste» (II, 257a fine; IV, p. 290).

Richiamandosi al Talmud, lo Zohar proibisce agli ebrei di sposare donne pagane (II, 87b, III, 259b; III, p. 358, V, p. 605).

Diversi rabbini spiegano i motivi di tale proibizione.

Eliezer afferma (II, 87b; III, p. 358):

«Non vi è tra i popoli pagani una sola donna che sia assolutamente pura».

Secondo R. Chiya (I, 130b; II, p. 112) «le donne dei popoli pagani contaminano i loro mariti e tutti coloro che si uniscono ad esse».

Da parte sua, R. Abba, come un poeta, usa (III, 266a fine; VI, p. 20) l’immagine già impiegata da Geremia (2,13): le giovani pagane – dice – sono chiamate “cisterne semiaperte”, mentre le donne israelite sono chiamate “fonti d’acqua viva”, e dichiara:

«L’uomo che si unisce a una donna pagana rinnega il segno della sacra Alleanza».

È la medesima spiegazione che altrove fornisce R. Yossé completandola (I, 131b inizio; II, p. 116):

«Chiunque si unisca a una donna pagana si contamina e il figlio nato da questa unione riceverà uno spirito impuro. Ma, si obietterà, dal momento che il padre è un israelita, perché il figlio riceverà uno spirito impuro se solo la madre è pagana? [Rispondo:] Considerate che nel momento stesso della coabitazione con questa donna, il padre si contamina; e se il padre è già contaminato, a maggior ragione il figlio che nascerà riceverà uno spirito impuro. Ma vi è di più. L’uomo che sposa una pagana trasgredisce il comandamento della Legge, poiché è scritto: “Non ti prostrare dinanzi a un altro dio, poiché l’Eterno (…) è un Dio geloso” (Es. 34,14). Difatti egli è geloso della sacra Alleanza».

Tali unioni costituiscono il secondo dei tre grandi peccati che allontanano dal Mondo dello Spirito dell’Eterno, come è stato insegnato nel folio II, 3b; III, p. 10:

«Il secondo peccato consiste nel coabitare con la figlia del “dio straniero”; perché agendo così si introduce il sacro segno dell’Alleanza in un dominio straniero».

E questo peccato determina un castigo eccezionale, poiché, secondo la tradizione, «il Santo (egli sia benedetto) si vendica soltanto di colui che profana il sacro segno dell’Alleanza, che costituisce la base del Nome sacro e del mistero della Fede».

Nel folio II, 87b; III, p. 357, la stessa dottrina viene esposta in termini quasi simili:

«Bisogna essere fedeli a questa Alleanza; l’infedeltà consiste nell’intrattenere relazioni con le donne pagane (…) Colui che tradisce l’Alleanza tradisce Dio, poiché proprio grazie ad essa si è uniti a Dio. Come dice la Scrittura (Os. 5,7): “Sono stati infedeli al Signore, hanno generato dei figli bastardi”».

Fin qui abbiamo menzionato un insieme di prescrizioni che si possono riassumere in una formula: l’ebreo deve evitare l’infedele.

Il modo migliore e più sicuro per difendersi dal gentile non è forse quello di sopprimerlo? Donde una nuova serie di regole che mirano alla rovina dei goyim, sia in modo lento e calcolato, che con atti di violenza.

Innanzitutto l’ebreo si guarderà dal fare del bene ai pagani (I, 25b; I, p. 158). È l’errore in cui cadevano i Rephaim, i giganti famosi per la loro deplorevole incostanza nei confronti dell’Eterno, e di cui Isaia (26,14) predisse che non sarebbero risorti e che la loro memoria sarebbe stata cancellata.

Bisogna poi combattere senza tregua i goyim e non temere di ricorrere all’inganno per annientarli. Ascoltiamo R. Hizqiya e R. Yehuda conversare durante il loro cammino dalla Cappadocia alla Lidia (I, 160a; II, p. 229). Il primo pronuncia questa sentenza:

«Fortunata la sorte dell’uomo che resta unito al lato buono e non si lascia sedurre dal lato malvagio».

E R. Yehuda approva:

«Difatti la sorte di colui che si distacca dal lato malvagio è fortunata. Fortunata la sorte dei giusti che fanno costantemente guerra al lato malvagio».

Allora R. Hizqiya, ricordando l’artifizio impiegato da Giacobbe ai danni di Esaù per usurpare la benedizione del padre Isacco (Gen. 27, 18 sgg.), giustifica l’inganno nella lotta contro gli infedeli. Egli invoca Prov. 24,6: “Tu farai guerra con astuzia”, e quando il suo interlocutore gli chiede di quale guerra si tratti, egli spiega:

«La guerra che l’uomo deve sempre dichiarare al lato malvagio. Considerate che Giacobbe ha agito con astuzia nei confronti di Esaù poiché costui era l’immagine del lato malvagio. L’inganno consisteva in ciò, che egli cominciò con l’essere sincero nei confronti di Esaù e finì per avere verso di lui un atteggiamento tortuoso. Ciò risulta dal seguente fatto: dapprima Giacobbe si impadronì del diritto di primogenitura di Esaù, e poi gli sottrasse la benedizione».

Ma tutte queste misure rischiano di restare inefficaci e di non raggiungere lo scopo di sopprimere l’infedele che si propone l’ebreo. È ciò che esprime R. Abba nel folio II, 64b fine (questo passo non è tradotto da J. de Pauly):

«Se procreassero solo gli idolatri, il mondo non potrebbe sussistere. Così siamo avvisati che gli uomini [gli ebrei] non devono lasciare spazio alcuno a questi abominevoli ladroni. Giacché, se procreassero oltre misura, sarebbe impossibile sussistere più a lungo per causa loro».

Lo Zohar concorda dunque con la dottrina costante di Israele:

«Appunto per questo la tradizione ci insegna che il migliore dei pagani merita la morte».

Come sappiamo, la tradizione è il Talmud, che pronuncia infatti questo giudizio in un’addizione al folio 62b del trattato Aboda zara. Lo Zohar non si esprime diversamente. Dice il Pastore fedele (III, 227b; passo non tradotto da J. de Pauly): «Per noi non v’è altro sacrificio che far sparire il lato immondo».

Altrove (I, 25a; la traduzione di J. de Pauly I, pp. 156-157, presenta qualche lacuna) lo Zohar invoca la Scrittura:

«I popoli della terra sono idolatri. È proprio di essi che è detto: “Siano distrutti dalla faccia della terra” (Deut. 11,23). Poiché fanno parte di coloro di cui s’è detto: “Distruggi la memoria di Amalek” (Es. 17,14)».

Ora, gli Amaleciti sono alla testa degli “strumenti della violenza” (Gen. 49,5) che costituisco i nemici di Israele, ed è a proposito di essi che Gen. 6,11 dice: “La terra era corrotta dinanzi a Dio e ripiena di violenza”.

Sono i re e i potenti che per primi bisogna mettere a morte; solo a questa condizione potrebbe essere conquistata la libertà di Israele:

«È certo che la cattività durerà fino a quando non saranno distrutti dalla terra i principi dei popoli che adorano gli idoli» (I, 219b inizio; II, pp. 466-467).

Quanto al popolino, alla massa degli infedeli, si cercherà anzitutto di convertirli alla fede dell’Eterno; se persisteranno nell’empietà, saranno uccisi. Così prescrive il Pastore fedele (II, 43a inizio; III, p. 193):

«L’asino designa il non-ebreo. Riscattalo dalla schiavitù con l’offerta di un agnello (…) Ma se rifiuta, spezzagli il collo (…) Poiché devono essere cancellati dal libro dei viventi quelli di cui è detto: Chi avrà peccato contro di me, lo cancellerò dal Libro».

[Quest’ultima citazione non corrisponde in J. de Pauly al luogo indicato. È invece menzionata da I.B. Pranaitis, Christianus in Talmude Iudaeorum sive rabbinicae doctrinae de christianis secreta, Petropolis, 1892. Testo originale di II, 43a (con traduzione latina a fronte) dell’ed. di Amsterdam del 1805].

Il Pastore fedele appare perciò completamente privo di indulgenza nei confronti dei gentili. È così poco benevolo nei loro riguardi che vuole castigarli tutti senza eccezioni ‒ anche quelli che sono nell’ignoranza del loro stato.

Nel folio III, 277b; VI, p. 50, si fa un’obiezione: «Forse ci si domanderà: perché gli uomini che adorano gli idoli nell’ignoranza sono puniti?». E si risponde: «Il fatto è che anche gli idolatri più ignoranti sanno di commettere il male».

Tuttavia, per bocca del profeta Osea (4,17), l’Eterno ha consigliato la clemenza: «Ephraim è attaccato agli idoli: lasciatelo stare». Così lo Zohar stabilisce (I, 200b; II, p. 396) che «il Rigore non ha presa sugli infedeli fintantoché vivono in pace». Proprio per questo, osserva ancora, «i popoli pagani subiscono la Clemenza prima del Rigore» (I, 174a; II, p. 283). Ma aggiunge subito dopo: «È proprio questo a causare la loro perdizione». Infatti Isaia (42,13 sgg.) afferma che, se l’Eterno «tace da tempi remoti», avanza tuttavia «come un guerriero (…) manda un grido, lancia un urlo di guerra», pronto a cambiare la faccia della terra. E dinanzi a lui «si voltano indietro (…) quelli che hanno fede in un idolo». Allora si realizzerà la profezia di Zaccaria (14,19): “L’Eterno sarà il re di tutta la terra”. Sarà la fine dei tempi, e come annuncia il Pastore fedele (III, 277b inizio; VI, p. 50), «il Santo farà scomparire l’idolatria».

Simeon (I, 235b fine; II, p. 529) predice parimenti:

«In quell’epoca la discendenza di Ruben dichiarerà guerra ai popoli pagani; tutti la temeranno e fuggiranno dinanzi ad essa», poiché sarà «l’epoca in cui il Re Messia apparirà nel mondo».

Lo Zohar si compiace di descrivere questi avvenimenti senza pari che sconvolgeranno l’universo (II, 7b-9a; III, pp. 31-38). Una colonna di fuoco si innalzerà dalla terra fino al cielo e sarà visibile da tutti i popoli per quaranta giorni. Allora il vero Messia «lascerà quella zona del giardino dell’Eden chiamata “nido d’uccello” e si rivelerà nella terra di Galilea».

Gli uomini, spaventati, fuggiranno e si nasconderanno nelle grotte e nelle caverne. Quando saranno trascorsi i quaranta giorni, apparirà dalla parte orientale una stella luminosa, i cui raggi saranno composti di tutti i colori. Per settanta giorni lotterà tre volte al giorno contro altre sette stelle disposte a cerchio attorno ad essa. «Raggi di fuoco usciranno dalla stella al centro per annientare le altre stelle. Queste scompariranno ogni sera per riapparire ogni mattina».

Al compimento del quarantesimo giorno la stella luminosa si eclisserà e il Messia ritornerà dentro la colonna di fuoco di nuovo visibile per un periodo di dodici mesi. Al dodicesimo mese, mentre la colonna di fuoco si spegnerà, il Messia salirà in cielo, «dove riceverà il potere e la corona della sovranità». Poi scenderà ancora sulla terra e numerose nazioni si inchineranno dinanzi a lui. Egli scatenerà una guerra universale, poiché «in quell’epoca il Santo (egli sia benedetto) mostrerà la potenza del Messia a tutti i popoli del mondo e il Messia sarà riconosciuto su tutta la terra».

E lo Zohar conclude (II, 120a; III, p. 462):

«In quel momento si adempiranno per i discendenti di Mosè le parole della Scrittura: “Ed io farò di te un grande popolo” (Num. 14,12), In quel momento Israele (…) diverrà il gregge di Dio».

[Poco più avanti, in un passo non menzionato da mons. Jouin, si fa allusione a due Messia: «Uno strapperà i beni dei popoli, e l’altro li dividerà fra Israele» (II, 120a)].

Allora i tempi saranno compiuti e Israele otterrà la sovranità su tutto l’universo.

Per tale ragione R. Yehuda e R. Yossé celebrano a gara questo futuro giorno di gloria (II, 17a; III, p. 79).

Il primo dice in un linguaggio immaginoso:

«Il Santo (egli sia benedetto) scuoterà la terra per gettarne via gli empi, come si scuote un vestito prendendolo per le estremità onde eliminare il fango».

E il secondo dichiara:

«Il Santo (egli sia benedetto) si rivelerà nella Gerusalemme terrena e la purificherà della lordura dei popoli pagani, prima ancora che il giorno sia compiuto».

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