HERMAN DE VRIES DE HEEKELINGEN: L’ATTEGGIAMENTO DEL TALMUD DI FRONTE AL NON-EBREO

HERMAN DE VRIES DE HEEKELINGEN

 

L’ATTEGGIAMENTO DEL TALMUD DI FRONTE AL NON-EBREO

 

(H. De Vries Heekelingen, L’atteggiamento del Talmud di fronte al non-ebreo, «La Vita Italiana», giugno 1940, pp. 621-630. Rispetto al testo originale, la presente edizione è emendata di qualche refuso tipografico e di alcuni errori).

 

Il Talmud contiene una quantità di prescrizioni concernenti il criterio di giustizia da seguire di fronte al prossimo. Fin nei minimi dettagli gli autori del Talmud vogliono prevenire ogni ingiustizia, di qualunque specie essa sia, ma fanno una distinzione fra il prossimo, il fratello, e il non-ebreo, lo straniero, sia esso pagano ovvero cristiano, il goy, l’ «esecrabile straniero, che non teme contaminazioni», come dice Bernard Lazare[1].

Perfino di fronte al proselita come uomo di religione ebraica, ma di razza non ebraica, il Talmud, pur usandogli certi riguardi, in non meno di quattro passi lo dichiara «così sgradevole, per Israele, quanto la lebbra lo è per l’epidermide»[2].

Quanto ai Minim, cioè agli ebrei che si son lasciati battezzare, non si dimostra per essi alcuna pietà. Non ho che da ricordare lo Shemoné Esré, preghiera che gli ebrei ortodossi debbono recitare ogni giorno. Questa preghiera, detta delle diciotto benedizioni, fu composta prima di Gesù Cristo, ma ad essa verso l’anno 80 fu aggiunta un’ulteriore “benedizione” interposta fra l’undicesima e la dodicesima e così concepita:

«Che gli apostati non abbiano alcuna speranza e che l’impero dell’orgoglio sia prontamente sradicato ai nostri giorni, che i Nazzareni e i Minim periscano in un istante, che essi siano cancellati dal Libro della Vita e non appaiano fra i giusti»[3].

Se a ciò si aggiunge che in parecchi punti il Talmud contesta ai non-ebrei la loro qualità di uomini, ci si spiega come è che il criterio della giustizia da seguire sia diverso a seconda che si tratti di un ebreo, considerato come fratello e come proprio prossimo, o invece di un non-ebreo.

Prendiamo, ad esempio, il caso abbastanza anodino della restituzione di un oggetto trovato. Fra i molti peccati che Dio non perdona, c’è anche quello di rendere a un non-ebreo un oggetto trovato[4].

Nelle annotazioni a piè di pagina il traduttore tedesco, Lazarus Goldschmidt, scrive:

«La restituzione di un oggetto trovato ad un non-ebreo qui viene biasimata, perché con l’agire così si dimostra di non obbedire al comandamento divino, il quale si riferisce esclusivamente alla restituzione ad un ebreo, ma di essersi comportati così per probità».

Il traduttore e commentatore ebreo di questo testo talmudico conferma dunque interamente il comandamento di non restituir nulla a un non-ebreo, anzi questo commentatore, nostro contemporaneo, ne aggrava perfino il significato dicendo che ciò è proibito, perché l’ebreo restituisce l’oggetto per probità, mentre Dio ha ordinato di restituire unicamente agli ebrei gli oggetti trovati.

Il traduttore inglese del Talmud preferisce non spiegare questo testo, ma aggiunge, quasi per scusarsi: «Quanto deve esser stata crudele la persecuzione degli ebrei sotto Ardeshir, per aver indotto un mansueto rabbino ad esprimersi in modo così severo»[5]. Ma evidentemente questa spiegazione, o, meglio, questo tentativo di spiegazione, non cambia assolutamente nulla al precetto contenuto nel testo.

Di rigore, si potrebbe seguire la veduta del traduttore inglese epperò considerare questo passo come una manifestazione sporadica di risentimento se esso fosse il solo e se il Talmud, i commentatori del Medioevo, e lo Shulhan Aruch, codificazione del Talmud oggi in uso, non offrissero testi analoghi.

Nel trattato Baba kamma si legge:

«È permesso (di conservar presso di sé) l’oggetto trovato di un non-ebreo (…) perché è detto (Deut. XXII, 3): Tutto ciò che un tuo fratello ha perduto tu lo devi dunque rendere al tuo fratello, ma non è necessario renderlo a un non-ebreo»[6].

Maimonide insegna proprio la stessa cosa[7], aggiungendo certe considerazioni che ritroveremo qualche secolo più tardi nello Shulchan Aruch.

Questo testo spiega perché non si deve rendere a un non-ebreo l’oggetto da lui perduto:

«Si può conservare presso di sé l’oggetto perduto da un non-ebreo, perché è detto (Deut. XXII,3): Ciò che un tuo fratello ha perduto. Chi rende a un non-ebreo l’oggetto perduto commette perfino un peccato, perché in tal modo consolida il potere dei peccatori (aumentandone i beni). Tuttavia, è permesso di restituirgli l’oggetto perduto, se l’ebreo agisce così per santificare il nome (di Dio) affinché per tal via gli ebrei siano elogiati e si riconosca che gli ebrei sono della gente onesta»[8].

Il paragrafo che segue dello stesso testo accentua ulteriormente la differenza di comportamento nei riguardi di un ebreo prescrivendo di rendergli l’oggetto perduto anche quando si tratti di un uomo non pio.

È interessante constatare che il precetto di non rendere a un non-ebreo l’oggetto trovato non è mutato durante i secoli. Il Talmud l’ha insegnato nel V secolo, Maimonide nel XII, lo Shulchan Aruch nel XVI e Lazarus Goldschmidt ai giorni nostri.

Fra i tanti, è un esempio tipico della perennità degli insegnamenti talmudici.

Certo, spesso vien fatto presente che Choshen ha’mishpat 267,1 prescrive di «metter l’oggetto trovato in un luogo sicuro e visibile, affinché il proprietario legittimo possa ritrovarlo». È vero, ma allora non bisogna dimenticare di citare il seguito. Il paragrafo 3 dello stesso testo dice: «L’avviso del rinvenimento dell’oggetto deve essere pubblicato nelle scuole ove si prega e si insegna». Ora, la scuola ove si prega, la Betschule, è la sinagoga, e la scuola ove si insegna, Lehrschule, è la scuola ebraica propriamente detta, «generalmente annessa alla sinagoga, come certe piccole scuole parrocchiali lo sono alla chiesa corrispondente»[9]. Tali luoghi non erano frequentati dai non-ebrei. L’avviso degli oggetti ritrovati non poteva dunque riguardarli e quindi è chiaro che una simile prescrizione si riferisce unicamente agli oggetti perduti da ebrei.

Inoltre il Talmud restringe l’obbligo dell’avviso agli oggetti trovati in luoghi di maggioranza ebraica:

«Se un ebreo trova un oggetto, è obbligato a darne un pubblico avviso solo se la maggioranza degli abitanti è ebrea, ma se la maggioranza non è ebrea, non è obbligato ad avvertire del rinvenimento»[10].

Passiamo ora a fatti più gravi.

Il trattato Bechoroth insegna alla pagina 13b:

«Se hai recato danno al tuo prossimo (cioè ad un ebreo, in occasione di un acquisto o di una vendita), sei tenuto a risarcirlo, ma tu non sei tenuto al risarcimento nei riguardi di un non-ebreo che avessi danneggiato».

Nello Shulchan Aruch si legge parimenti:

«È vietato ricavare profitti eccessivi dal prossimo tuo» ‒ e qualche paragrafo dopo: «ma tu puoi recar danno agli interessi di un non-ebreo, perché è detto: Tu non devi ingannare il tuo fratello. Invece, un non-ebreo che abbia tratto in inganno un ebreo, secondo le nostre leggi, deve restituirgli la somma di cui lo ha danneggiato»[11].

Ma se gli ebrei che hanno ingannato un non-ebreo sono due, che ne sarà del beneficio?

Choshen ha’mishpat 187,7 hagah dà la risposta:

«Se qualcuno fa un affare con un non-ebreo e un terzo l’aiuta ad ingannare il non-ebreo per quel che riguarda la misura, il peso o il numero, egli ha l’obbligo di spartire con lui il profitto».

Molti rabbini han cercato di spiegare e attenuare questo precetto troppo cinico.

Il rabbino Munk pretende che avrebbe anche potuto trattarsi di una vittima ebraica, che altri autori vietano di ingannare un non-ebreo e che questa prescrizione concernente la ripartizione vale solo se non si può ritrovare la persona ingannata dai due ebrei[12]. Ma tutto questo bisognerebbe provarlo, perché nel testo in quistione non se ne trova traccia.

Il rabbino Joseph Bloch riproduce il testo allo stesso modo e mostra un visibile imbarazzo. Come unica scusa, egli sostiene trattarsi soltanto di un problema giuridico, quello del come dividere il profitto derivante da una frode; ciò però non significa – dice il rabbino – che la frode in sé stessa sia approvata[13].

Né l’un rabbino, né l’altro contestano però l’esattezza del testo, essi cercano solo delle scappatoie atte a mascherarne il carattere nocivo, senza però confortare con delle prove le loro affermazioni.

Del resto, l’argomentazione del rabbino Bloch è visibilmente artificiosa. Se si fosse solo trattato di sapere come bisogna dividere il ricavato di un inganno, perché il legislatore ebraico specifica che il caso si riferisce a due ebrei che hanno ingannato un non-ebreo? Se egli avesse solo voluto risolvere il problema giuridico della suddivisione del ricavato di un raggiro, perché parla del caso in cui degli ebrei hanno ingannato un non-ebreo?

Le citazioni precedenti ci danno la risposta: perché la legislazione ebraica, vale a dire il Talmud e lo Shulchan Aruch, fa una distinzione fondamentale fra la condotta da seguirsi nei riguardi degli ebrei e dei non-ebrei.

L’attitudine da assumere di fronte a un operaio non-ebreo non si distingue da quella prescritta nei riguardi degli altri non-ebrei. Nello spiegare un passo della Mishna, dove è detto che bisogna pagare a un operaio la mercede spettantegli e che il padrone non deve conservare il denaro corrispondente presso di sé nemmeno per una notte, si domanda successivamente se questo precetto si riferisce in egual modo ad un operaio straniero. Alla fine della discussione in proposito si legge:

«Ciò (una spiegazione precedente) significa che è permesso di non pagargli la mercede, e ciò (un’altra spiegazione precedente) che è permesso di spogliarlo (Goldschmidt in una nota precisa che, qui, si tratta di direkter Raub, di furto diretto). Egli (il rabbino Josè ben Rabbi Jehuda) è del parere che è permesso spogliare un non-ebreo. Queste due spiegazioni sono necessarie – continua il Talmud – perché se si parlasse solo di spogliare (un non-ebreo), si potrebbe credere (che così stessero le cose) perché egli non si era dato pena (nel guadagnarsi quel denaro) e che ciò non si riferisce alla mercede, quando egli si fosse dato pena per guadagnarsela. E se si fosse unicamente detto di trattenere (la mercede), si potrebbe credere che fosse così, perché egli non era ancora in possesso di quel denaro, mentre (si tratta del caso in cui) egli già possegga il denaro di cui si può spogliarlo. È dunque necessario – conclude il Talmud – parlare delle due possibilità»[14].

In un altro luogo il Talmud limita questa autorizzazione di spogliare un non-ebreo al periodo in cui Jahvè – il Dio ebraico – avrà dato i non-ebrei in preda agli ebrei[15]; nel testo ora citato la spoliazione viene però autorizzata senza restrizioni di sorta.

Passiamo ora al furto puro e semplice.

Lo Shulchan Aruch contiene a tale riguardo un passo assai curioso:

«Chi ha depredato o spogliato qualcuno, se (originariamente) ha negato il fatto, non è tenuto ad andar da lui per rendergli l’oggetto qualora più tardi confessi, perché non ha giurato (di non averlo rubato), ma può tenere presso di sé l’oggetto, finché il proprietario venga a reclamare la sua proprietà. Ma se ha rubato sia pure un oggetto di minimo valore, ed ha giurato (di non averlo rubato), allora deve andare da chi è stato depredato per restituirgli l’oggetto, perché il derubato non pensa più all’oggetto, quando il ladro ha giurato, e non può dunque presentarsi da lui a reclamarlo»[16].

Per rendersi conto di queste sottili distinzioni comprese nei precetti talmudici riguardanti il furto, bisogna distinguere due generi di rapina o, più esattamente, due specie di appropriazione di beni altrui. La rapina e il furto diretto sono spesso proibiti, che si tratti di un ebreo ovvero di un non-ebreo, benché vi siano alcuni passi che invece autorizzano la spoliazione dei non-ebrei. Il furto indiretto ai danni di un non-ebreo è invece permesso dalla legge ebraica.

Credo di poter definire esattamente la differenza dicendo: la spoliazione o il furto con uso della forza, il furto diretto e senza veli sono proibiti in alcune parti del Talmud, e in altre permessi, nel caso specifico che si tratti di non-ebrei. Invece la spoliazione dei non-ebrei e l’appropriazione dei loro beni per mezzo dell’astuzia, del dolo, del sotterfugio sono sempre permessi.

Nella vita ordinaria noi concepiamo come furto anche tutto ciò, ma la legge ebraica non fa così. Un ebreo può dunque affermare che il Talmud e lo Shulchan Aruch proibiscono il furto, mentre un non-ebreo può affermare con ragione che il furto dei beni non ebraici è da tali testi permesso, se si eccettuano alcune categorie di furto, ed anche in tal caso non in via assoluta, perché vi sono testi che autorizzano perfino la spoliazione con l’uso della forza.

Si crede di aver a che fare con un giuoco di prestigio, cosa che corrisponde esattamente alla mentalità talmudica, la quale eccelle nelle sottigliezze e alla quale, in generale, l’impiego della forza ripugna, mentre ha grande rispetto e la massima considerazione per la finezza e la duttilità dello spirito.

Questa distinzione fra il furto per mezzo della forza e quello per mezzo dell’astuzia risulta chiaramente da un altro passo dello Shulchan Aruch:

«Chi ruba, sia pure un oggetto di minimo valore, trasgredisce il comandamento: Tu non ruberai. Egli è tenuto alla restituzione, sia che il denaro rubato sia di un ebreo che di un non-ebreo, sia esso di un adulto che di un minorenne»[17].

Ciò riguarda dunque il furto puro e semplice e questo testo viene spesso citato dagli ebrei per dimostrare la purezza delle loro intenzioni nei riguardi dei non-ebrei. Ma se si prosegue la lettura, si constata che il furto per mezzo dell’astuzia, dell’inganno e del raggiro non cade sotto una tale proibizione. Chi cita il passo sopra riportato dimentica quasi sempre di accennare al séguito, senza il quale esso è incompleto.

Ecco dunque la seconda parte del testo:

«È (però) permesso approfittare dell’errore di un non-ebreo, per esempio (è permesso) di ingannarlo nei conti o di non pagargli quanto è dovuto. Ma tutto ciò è permesso solo a condizione che egli non se ne accorga, affinché il nome (di Dio) non sia profanato (vale a dire: affinché non si dica male degli ebrei). Altri dicono che è proibito ingannare un non-ebreo e che è solo permesso di approfittare degli errori da lui stesso commessi»[18].

Come regola generale, si può dunque ritenere che tutto ciò che non è furto diretto è permesso, a condizione che chi è danneggiato non se ne accorga. Come esempio, riportiamo questo passo dello Shulchan Aruch:

«Se un ebreo è debitore verso un non-ebreo e se questi muore senza che nessun non-ebreo sappia del debito, l’ebreo non è tenuto a pagare questo debito agli eredi»[19].

Potrei citare un numero impressionante di casi concreti assai caratteristici, nei quali il Talmud elenca gli inganni permessi ai danni dei non-ebrei. Mi limiterò a spigolarne alcuni da un’unica pagina del Talmud[20].

Il rabbino Hona chiede perché un altro rabbino dica che è proibito spogliare un non-ebreo, dato che sta scritto (Deut. VII, 16): Tu divorerai tutti i popoli che Jahvè, tuo Dio, ti darà. A tale domanda si risponde che è permesso spogliare i non-ebrei solo dopo che Jahvè li avrà abbandonati agli ebrei, non prima. Si tratta dunque di sapere se Jahvè ha già dato i non-ebrei nelle mani degli ebrei.

Ma, nel frattempo, il Talmud elenca le azioni che sono già permesse.

Dopo aver ricordato che l’ebreo può far propri gli oggetti perduti da un non-ebreo, il Talmud cita il caso di Samuele che acquistò da un non-ebreo una coppa d’oro facendogli credere che era di bronzo e, non contento del profitto, all’atto del pagamento fece perfino in modo di dargli una moneta di meno.

Il rabbino Kahan comprò da un non-ebreo cento botti, ma ne prese centoventi dicendogli: Mi fido di te (quanto al numero che invece gli era noto ed egli dunque sapeva maggiore). E nel pagarlo anche lui lo defraudò di una moneta.

Rabbina ha comprato insieme a un non-ebreo un palmeto e ne ricava tavole. Egli dice allora al suo domestico: Fa’ presto, portami le tavole più grosse perché il non-ebreo sa solo del numero complessivo di esse.

Il rabbino Asi passeggiando un giorno presso un vigneto diceva al suo domestico: Va’ ad informarti se questa vigna appartiene a un non-ebreo e in tal caso cogli i grappoli; ma se è proprietà di un ebreo, non portarmene. Il proprietario, che non era ebreo, aveva però udito questo discorso e diceva all’ebreo: Da un non-ebreo dunque li faresti prendere? Ma il rabbino aveva già pronta una scusa come ripiego e rispose: Sì, perché un non-ebreo accetterebbe il pagamento del prezzo corrispondente mentre un ebreo non vorrebbe essere pagato.

Sbaglierebbe chi considerasse questi casi come semplici storielle, poiché essi hanno una importanza ben diversa e il Talmud li riporta con lo scopo di consigliare gli ebrei di agire nello stesso modo. Il rabbino Eli Munk riconosce senz’altro che questi esempi appartengono alla Halacha (testi che hanno valore di leggi) essendo illustrazioni di un dogma[21].

È evidente che tutti questi casi possono provocare un processo.

Come deve allora agire il giudice ebreo?

Il trattato Baba kamma (113a) risponde:

«Se un non-ebreo è in causa con un ebreo, tu (il giudice ebreo) sosterrai finché è possibile la parte dell’ebreo affinché vinca e dirai all’ebreo: Così vuole la nostra legge. ‒ Se è possibile secondo la legislazione dei non-ebrei, cercherai di nuovo di far vincere l’ebreo e dirai al non-ebreo: Così vuole la vostra legge. Se tutto ciò non è possibile, occorrerà giuocar d’astuzia».

Ho usato la traduzione più anodina dicendo “giuocar d’astuzia”. Nella traduzione tedesca del Talmud il passo è reso dalle parole: dann komme ihm mit einer Hinterlist [allora vieni a lui con un’insidia][22], che non sono certo più anodine dell’espressione “giuocar d’astuzia” da me usata.

La traduzione inglese del Talmud è, quand’anche fosse possibile, ancor più rivelatrice: but if can not be done, we use subterfuges to circumvent him[23],vale a dire: allora noi usiamo dei sotterfugi per circonvenire il non-ebreo. [Il testo aramaico impiega il termine aqiphin, che significa raggiro, trucco avvocatesco, dal verbo aqaph, circuire, ingannare].

Poiché si cerca spesso di attenuare l’importanza di questo testo, è necessario far presente che il Talmud contempla, per il relativo precetto, una sola restrizione, quella relativa all’opportunità che nessuno si accorga della cosa.

Ecco il testo:

«Il rabbino Akiba dice che non si può usare un’astuzia, per via della santificazione del nome (di Dio). Ma – continua il Talmud – il rabbino Akiba dice ciò unicamente nel caso che si tratti della santificazione del nome (di Dio), se non si tratta della santificazione del nome (di Dio) si deve pur far uso dell’astuzia».

La conclusione del Talmud non è dunque la condanna ma l’approvazione dell’uso dei sotterfugi da parte del giudice ebreo, eccettuando il caso che il nome di Dio rischi di essere profanato ‒ cioè: Voi, giudici ebrei, usate pure dei sotterfugi, ma state attenti che gli altri non se ne accorgano e dicano male di un ebreo e del suo Dio.

L’attitudine del borghese [?] ebreo di fronte a giudici non-ebrei è d’altronde conforme a quella dei giudici ebrei di fronte ad accusati non-ebrei.

Il Talmud ordina di scomunicare l’ebreo che testimoniasse in favore di un non-ebreo e contro un ebreo dinanzi ad un tribunale non-ebraico che condanni sulla base della deposizione di un solo teste[24].

Un ebreo, anche se sia al servizio di un governo, non può assicurare un criminale ebreo alla giustizia. Ciò risulta da un racconto talmudico, in cui si narra del rabbino Ismaele, incaricato dal re di denunciare i delinquenti alla giustizia. Durante l’esercizio delle sue funzioni il profeta Elia appare a Ismaele e gli dice: «Fino a quando consegnerai il popolo alla giustizia?». Essendogli risposto dal rabbino che egli eseguiva gli ordini del re, Elia gli consiglia di fuggire piuttosto che eseguire simili ordini[25].

Quanto allo Shulchan Aruch, esso prescrive parimenti che, quand’anche un non-ebreo avesse ragione, un ebreo non può testimoniare in suo favore qualora questa testimonianza bastasse per far condannare un ebreo[26].

Infine, per amor di completezza, mi sento tenuto ad illustrare con un esempio storico il valore che si può attribuire a certe dichiarazioni ebraiche.

Quando Napoleone nel 1807 fece riunire il gran Consesso ebraico – il Sanhedrin – uno dei deputati ebraici, Isacco Samuele Avigdor, fece l’apologia dei Papi ricordando che essi avevano sempre protetto gli ebrei. Questo panegirico destò un’ottima impressione e aiutò molto gli ebrei a raggiungere gli scopi che allora essi si erano prefissi.

Ora, che leggiamo nell’Univers Israélite, che è la grande rivista dell’ebraismo ortodosso? «L’assemblea del 1807 volle solo ottenere che i cattolici cessassero di opprimere i nostri fratelli, e non proclamare dei fatti la cui autenticità è discutibile. La manifestazione fu dunque un atto politico di grande abilità. Ma noi neghiamo che Israele debba essere comunque riconoscente ai Papi»[27].

Avigdor aveva seguito il precetto talmudico: «Per amore della pace è lecito mentire»[28].

Ma, si può domandare, perché s’incontra sempre questa differenza fra ebrei e non-ebrei? Perché quest’odio contro il non-ebreo? Perché questo disprezzo?

Tali sentimenti hanno due cause principali.

La prima, l’abbiamo accennata: l’ebreo crede di essere, per volontà del suo Dio, di Jahvè, infinitamente superiore agli altri uomini. Il Talmud ripete spesso che solo l’ebreo si deve chiamare “uomo” e questa opinione non è mutata durante i secoli.

Nel trattato Keretoth ( 6b), con riferimento a Ezechiele (XXXIV, 31), si legge:

«Voi siete le mie pecore, il gregge che io pascolo, voi siete uomini ‒ ma i non-ebrei non sono uomini».

Mi sembra che ciò sia chiaro e che non vi sia nulla da aggiungere.

Il trattato Jebamoth[29], a proposito di una discussione sulla paternità dei non-ebrei, ricorda che i rabbini han detto che un non-ebreo non ha padre e giunge alla seguente conclusione:

«Pensate dunque che il Misericordioso ha dichiarato che il loro sperma è libero, come è detto in Ezechiele (XXIII,20): la loro carne è come la carne di un asino e il flusso del loro seme è come quella dei cavalli».

Diverse Tosaphot [= aggiunte, commentari talmudici medievali] stabiliscono lo stesso paragone assimilando il seme di una bestia a quello di un non-ebreo.

Nello Shene Luchot Haberith del rabbino Jeshaja, stampato ad Amsterdam nel 1653 e a Wilmersdorf nel 1686, si può leggere:

«Benché i popoli del mondo rassomiglino nell’esteriore agli ebrei, non sono che ciò che le scimmie sono di fronte agli uomini»[30].

Nello Jalkut Rubeni, parimenti del XVII secolo, si legge:

«Gli ebrei sono chiamati uomini, perché le loro anime emanano dall’uomo più illustre; i non-ebrei, le cui anime provengono dallo spirito impuro, sono chiamati maiali»[31].

Ed ecco infine il pensiero di un autore ebraico nostro contemporaneo, il filosofo Asher Ginzberg, che ha scritto sotto lo pseudonimo di Achad Haam:

«Per tutto il periodo della diaspora i nostri padri avevano il costume di ringraziare Dio di averli fatti nascere ebrei (…) Tutti ammettevano come indiscutibile assioma aver, la scala della creazione, dei gradi: i minerali, le piante, gli animali, gli uomini e infine, al sommo, gli ebrei»[32].

La seconda causa di questa differenza di trattamento è la certezza, nutrita da ogni ebreo, che Dio ha creato il mondo per lui e che, un giorno, tutti i beni della terra a lui apparterranno.

«Le nazioni si riuniranno per andare a porgere i loro omaggi al popolo di Dio – dice il rabbino Isidore Loeb ‒ .Tutti i beni delle nazioni passeranno al popolo ebraico, il contenuto dei granai d’Egitto, le riserve dell’Etiopia gli apparterranno; esse andranno in catene dietro al popolo ebraico, come prigionieri, e gli si prosterneranno dinanzi»[33].

Lo Shulchan Aruch dice la stessa cosa meno poeticamente, ma non meno chiaramente:

«I beni di un non-ebreo sono come beni senza padrone e il primo che se ne impossessa ha ragione di agire in tal guisa»[34].

Aggiungo che un tale testo non è attenuato, nel luogo citato, da alcuna restrizione di sorta.

[…].

 

[1] Bernard Lazare, L’antisémitisme (1934), vol. II, p. 135.

[2] Jebamoth 47b, 109 b; Qiddushin 70a;  Nidda 3b.

[3] Cfr. M.J. Lagrange, Le Messianisme chez les Juifs (1909), p. 294 e la riproduzione del testo ebraico alle pp. 338-339, come pure Augustin Lemann, Histoire complète de l’idée messianique  chez le peuple d’Israël (1909), pp. 225-276.

[4] Sanhedrin 76b.

[5] I. Epstein, The Babylonian Talmud (1935), Seder Nezikin, v. VI, p. 517.

[6] Baba kamma 113b.

[7] Hilchoth Gesela Waabeda XI, 3.

[8] Choshen ha’mishpat 266,1.

[9] Towa Perlow, L’éducation et l’enseignement chez les Juifs à l’époque talmudique (1931), p. 33.

[10] Baba mezia 24a.

[11] Choshen ha’mishpat 277,1,26.

[12] Eli Munk, Nichtjuden im jüdischen Religionsrecht (1932), p. 72.

[13] Joseph H. Bloch, Israel und die Völker (1922), pp. 161-162.

[14] Baba mezia 111b.

[15] Baba kamma 113b.

[16] Choshen ha’mishpat 367,1.

[17] Choshen ha’mishpat 348,2.

[18] Ibid., 348,2 hagah.

[19] Ibid., 283,1 hagah.

[20] Baba kamma 113b.

[21] E. Munk, op.cit., p. 120.

[22] Lazarus Goldschmidt, op. cit., v. VII, p. 394.

[23] I. Epstein, op. cit., vol. I, p. 664.

[24] Baba kamma 113b.

[25] Baba mezia 84a.

[26] Choshen ha’mishpat 28,3.

[27] L’Univers Israélite (Paris), 1867, p. 293.

[28] Jebamoth 65b.

[29] Jebamoth 98a.

[30] J.A. Eisenmenger, Entdecktes Judenthum (1700), v. I, p. 599.

[31] Ibid., vol. I, p. 595.

[32] Achad Haam, Am Scheidenwege (1923), vol. II, pp. 103-104.

[33] Isidore Loeb, La littérature des pauvres dans la Bible (1892), p. 219.

[34] Choshen ha’mishpat 156,5 hagah.

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