Mons. Adrien Bressolles
LA QUESTIONE EBRAICA AL TEMPO DI LUDOVICO IL PIO
Questo scritto di mons. Adrien Bressolles (1893-1972) fu pubblicato sulla «Revue d’histoire de l’Église de France» 28 (1942), pp. 51-64, ed apparve poi rifuso in uno dei capitoli della sua opera: Doctrine et action politique d’Agobard. I. Saint Agobard, évêque de Lyon (760-840), Paris, 1949. Un errore di stampa riporta 760 in luogo di 769. Il libro doveva essere una introduzione ad ulteriori due volumi consacrati agli scritti e agli atti politici di Agobardo, che però l’autore non portò a termine.
Posizione del problema, gli scritti di Agobardo. ‒ Il regno di Ludovico il Pio costituisce per gli ebrei un periodo estremamente favorevole. Li vediamo tentati immediatamente di abusarne. A Lione, dove la loro potenza è grande, essi trovano un duro avversario nella persona del vescovo Agobardo. Scoppia un conflitto che getta una viva luce sulla condizione degli ebrei nell’Impero e sulle loro relazioni con i cristiani.
In un’opera letteraria estesa ed assai variegata, Agobardo ci ha lasciato cinque lettere o trattati destinati a combattere l’influenza degli ebrei: De Insolentia judaeorum, De Judaicis superstitionibus, De Baptismo judaicorum mancipiorum, De Cavendo convictu et societate judaica, Contra praeceptum impium de baptismo judaicorum mancipiorum[1].
Questi scritti, che ci serviranno da filo conduttore, costituiscono la migliore raccolta di documenti che possediamo sulla questione ebraica nel IX secolo. Per via del loro autore, essi meritano la massima attenzione[2].
- Agobardo è sicuramente una delle figure più elevate dell’epoca carolingia, «la mente più illuminata del suo secolo», come è stato scritto[3]. Egli infatti spicca sui suoi contemporanei, anche su quelli più illustri, per delle qualità pienamente classiche: ordine e fermezza della composizione, chiarezza del pensiero, amore della ragione, semplicità elegante dello stile. Egli fa già presentire il genio francese.
Alla forza dello spirito Agobardo univa, alleanza abbastanza rara, l’energia del carattere. Così, nelle lotte politiche che sotto Ludovico il Pio divisero l’impero, egli ebbe una parte di primo piano. Profondamente legato all’idea imperiale, fu l’«intelligenza» del partito di Lotario, il direttore di coscienza di quasi la metà della cristianità.
La polemica di Agobardo contro gli ebrei è stata valutata variamente, in generale in modo piuttosto severo[4]. Ma i sentimenti personali degli storici in materia di antisemitismo esercitano sul loro giudizio un’influenza fin troppo evidente[5]. In buona critica, non si può pretendere che, in una società interamente fondata sull’unità di fede e nella quale sia la legislazione civile che quella ecclesiastica assegnavano agli ebrei una condizione speciale, il vescovo di Lione muovesse dal principio dell’uguaglianza dei diritti. Non dobbiamo neppure immaginarci un alto prelato della Chiesa che abusa del suo potere contro una minoranza oppressa. Come vedremo, non è il vescovo, ma sono gli ebrei che beneficiano dell’appoggio dei pubblici poteri e del favore dei grandi. Osserviamo infine che nel popolo non si trova quella ostilità generalizzata e quel disprezzo che sono l’anima di ogni movimento antisemita. Se ci atteniamo ai documenti dell’epoca, l’antisemitismo propriamente detto non esiste al tempo di Agobardo[6].
Se solo scartiamo ogni idea preconcetta, l’atteggiamento del vescovo di Lione ci apparirà non già offensivo, ma bensì difensivo, e del resto in tutta questa faccenda è lui che avrà nettamente la peggio.
Il battesimo degli schiavi degli ebrei. ‒ Il primo degli scritti di Agobardo contro gli ebrei è una lettera indirizzata ad Adahlard, Wala ed Helisachar[7].
Agobardo aveva incontrato questi tre grandi personaggi all’assemblea di Attigny dell’822, dove aveva lui stesso preso la parola sulla questione dei beni della Chiesa, ma il suo punto di vista non ebbe l’approvazione della maggioranza[8]: Adalhard ed Helisachar, che presiedevano, gli erano stati favorevoli solo a metà, mentre Wala, così sembra, lo era stato di più[9]. Agobardo aveva parlato loro delle sue difficoltà con gli ebrei di Lione e li aveva pregati di presentare la sua causa all’imperatore, ma l’accoglienza non era stata per nulla incoraggiante[10].
Rientrato a Lione, Agobardo si riprende e scrive a quelli che ritiene i suoi protettori a Corte. Chiede loro una decisione su un punto preciso: che deve fare se degli schiavi pagani appartenenti ad ebrei e che vivono con loro desiderano il battesimo? Lo si può dare senza il consenso del loro padrone?[11]
Per timore di rappresaglie, Agobardo non osa agire senza la copertura dell’autorità sovrana[12]. Ma da parte sua la soluzione non lascia adito a dubbi. Ogni uomo, dice, è una creatura di Dio, anche se schiavo. Dio conserva su di lui più diritti rispetto a chi, solo per aver pagato venti o trenta soldi, gode del servizio del suo corpo.
Gli apostoli, per battezzare gli schiavi, non hanno chiesto il permesso ai loro padroni secondo la carne, ma, sapendo che padroni e schiavi avevano un solo Signore, Dio nel cielo, li battezzarono, insegnando loro «che erano tutti fratelli e figli di Dio, di modo che ognuno rimanesse nella condizione in cui era quando fu chiamato» (I Cor. 7,20).
La ragione mostra infine che è empio e crudele respingere, a causa del suo padrone, un pagano che si rifugia in Cristo, poiché non c’è altro padrone per un’anima umana che il Creatore.
Agobardo aggiunge un argomento ad hominem: noi lodiamo l’imperatore, dice, perché sottomette al Cristo i popoli che ha sconfitto e dovremmo permettere che tra i suoi sudditi degli uomini che desiderano il battesimo siano tenuti al di fuori della Chiesa?[13]
La forza delle ragioni addotte dal vescovo, la grandezza delle sue vedute non sembrano contestabili. È da notare che egli non argomenta da canonista. Ancorché conosca bene la legislazione vigente in materia[14], non invoca le leggi. Egli parla da pastore e da teologo. Il regno di Dio, la salvezza delle anime ‒ questa è la ragione che deve fare giustizia.
Egli tuttavia non perde di vista i legittimi interessi degli ebrei. «Non vogliamo, dice, che gli ebrei perdano la somma che hanno versato per comprare lo schiavo. Abbiamo offerto loro un indennizzo, conformemente agli antichi regolamenti, ma essi non lo accettano, contando sull’appoggio dei magistrati della Corte»[15].
Gli antichi regolamenti ai quali si riferisce Agobardo sono verosimilmente i canoni del concilio di Mâcon (581)[16]. Il canone XVI fissa a dodici soldi il prezzo del riscatto pro quolibet bono mancipio [per ogni buono schiavo]. Ci si è chiesto se questo prezzo non fosse troppo inferiore al prezzo di mercato dello schiavo[17], di modo che, a dispetto delle apparenze, il proprietario ebreo ne avrebbe avuto un danno reale.
La questione non ci sembra ammettere una soluzione certa. È vero che Agobardo parla di venti o trenta soldi, pagati sul mercato per l’acquisto di uno schiavo, e non di dodici soldi secondo la tariffa del concilio di Mâcon. Ma ai suoi tempi non vi sono più monete d’oro, e dunque è di scudi d’argento che qui si parla, mentre nel 581, i Padri del concilio di Mâcon contavano in soldi d’oro[18].
Inoltre il testo non consente di affermare che Agobardo abbia proposto esattamente l’indennità fissata dal concilio di Mâcon: egli non quantifica la sua offerta, e l’allusione all’antica normativa sembra essere un semplice riferimento al principio della giusta stima. Non si vede peraltro che il vero problema non è il tasso d’indennità, ma il principio stesso del riscatto, che è la questione centrale.
Nel corso dell’esposizione raccoglieremo utili informazioni. Gli ebrei dispongono di potenti protezioni a Corte e se ne fanno un vanto[19]. A Lione hanno un capo investito di una funzione ufficiale: il magister judaeorum. Agobardo lo accusa di essere la causa di tutte le difficoltà e di non aver voluto, malgrado gli ordini ricevuti, lasciargli compiere il proprio ministero[20]. «Nulla sarebbe successo se avesse voluto agire ragionevolmente».
Vediamo infine che gli ebrei sono temuti dal vescovo, al quale fanno subire ogni sorta di ostilità fin dentro la sua casa. Agobardo deve farsi carico dei suoi più grandi doveri per trovare il coraggio di far fronte alle loro minacce[21].
Protesta contro un rescritto relativo al battesimo degli schiavi. ‒ Agobardo chiedeva una risposta precisa, e l’ebbe. Ma non fu quella che si aspettava. In una lettera a Wala e Ilduino[22] lo vediamo infatti lamentarsi del fatto che gli ebrei si vantino ovunque di aver ottenuto dall’imperatore un rescritto che proibiva a chiunque di battezzare i propri schiavi senza il suo permesso.
Agobardo si rifiuta di credere all’autenticità di questo documento: «Non è possibile, scrive, che il cristianissimo e piissimo imperatore abbia preso una decisione così contraria sia alle leggi della Chiesa che a tutta la prassi apostolica»[23].
In realtà l’autenticità della risposta non è dubbia. Ci si è chiesto solo se vi fu un rescritto generale a noi non pervenuto, oppure se gli ebrei semplicemente menzionarono queste lettere personali di protezione concesse loro dall’imperatore e di cui possediamo parecchie formule. Queste lettere infatti contengono il divieto di battezzare gli schiavi senza il consenso dei loro padroni[24].
Ma c’era comunque realmente qualcosa di strano ed anche di scandaloso per l’epoca nell’atteggiamento dell’imperatore. Nessun dogma era più fondamentale dell’universalità della salvezza nel Cristo. Tutti gli uomini, senza alcuna distinzione, erano chiamati, e di conseguenza nessuna potenza umana, nessuna legge, nessun divieto poteva ed aveva il diritto di sbarrare la strada al Vangelo. Come ammettere che questo cristianesimo universale che aveva sormontato perfino la resistenza degli imperatori romani fosse limitato dall’avarizia e dalla gelosia di alcuni ricchi ebrei e questo con la complicità di un imperatore cristiano?[25]
«Cristianissimo» ed anche «piissimo» Ludovico lo era davvero. Ma egli era anche debolissimo di carattere e fin troppo docile alle pressioni del suo entourage. Più volte lungo il suo regno prese delle decisioni ben più gravi, senza riguardo al bene pubblico, per capriccio o sotto l’influenza di un gruppo di consiglieri essi stessi infeudati all’imperatrice Giuditta.
Nel nostro caso la decisione dell’imperatore sembra presa sotto la pressione della stessa cricca e in assenza completa d’ogni principio. Indubbiamente l’imperatrice aveva bisogno di mercanti ebrei per il lusso della sua Corte. In ogni caso, non era certo senza il suo permesso che le grandi dame della Corte, comprese le principesse di sangue reale, inviavano doni alle mogli dei ricchi mercanti ebrei di Lione[26]. Questi regali tra donne sono forse il segno più tangibile dell’estremo favore di cui godevano gli ebrei. Essi attestano che le loro relazioni con la Corte non si limitavano agli stretti rapporti d’affari tra uomini. Gli ebrei erano ammessi alle relazioni di società con la più alta aristocrazia dell’Impero.
Giuditta era allora onnipotente, e chiunque volesse far carriera regolava la propria condotta sui suoi minimi gesti. È alludendo a questo stato di cose che Agobardo si rivolge a Ilduino e Wala come se essi fossero quasi i soli della Corte a guidare ancora l’imperatore sulla via di Dio[27]. A questi buoni consiglieri il vescovo di Lione ricorda i princìpi che ha esposto nella prima lettera e li prega di intercedere presso l’imperatore «affinché queste anime, con cui il gregge dei fedeli avrebbe potuto accrescersi e per la salvezza delle quali nei giorni della Passione tutta la Chiesa fa sentire le sue suppliche, non restino avviluppate nelle reti del demonio a causa della durezza di uomini infedeli e nemici di Dio»[28].
Egli ricorda che è sempre pronto a pagare un adeguato prezzo di riscatto e che è contrario a che si sottraggano agli ebrei i loro schiavi[29] o i loro figli.
Sull’insolenza dei giudei. ‒ Agobardo si lamentava tra l’altro che il magister Judaeorum lo minacciasse di far venire i missi. La minaccia non era vana; questi infatti vennero, e ciò fu un trionfo completo per gli ebrei[30].
In un trattato in forma di supplica all’imperatore, Agobardo ci mostra i cristiani prostrati, molti obbligati a scappare o a nascondersi[31], preti chiamati in causa personalmente che non osano comparire davanti ai missi[32].
Quanto a lui, s’era assentato, col pretesto plausibile di una visita canonica al monastero di Nantua. Da qui inviò ai missi una lettera di sottomissione completa alla loro autorità, ma senza arrivare a conciliarseli[33]. Spinto dalla disperazione, si rivolge in prima persona all’imperatore. Egli è sempre convinto che l’imperatore sia pio e devoto alla giusta causa; rifiuta ancora di credere che i capitolari di cui sono muniti i missi siano stati davvero approvati da lui[34].
Che cosa pensava realmente dei sentimenti di Ludovico? Aveva ancora fiducia in lui? In ogni caso era persuaso che questo povero principe fosse mal consigliato e male accompagnato: teme che la sua lettera possa venire intercettata[35], sa che è molto pericoloso per lui scriverla[36]. Egli espone i fatti all’imperatore.
Innanzitutto la persecuzione che subisce da parte degli ebrei, del loro magister Evrardo ed infine dei missi Gerrico e Federico[37]. Enumera poi le misure che ha prescritto contro gli ebrei e che gli valgono questi attacchi:
- Che i cristiani non vendano agli ebrei schiavi cristiani;
- Che non si permetta agli ebrei di vendere in Spagna schiavi cristiani;
- Né di avere per domestici salariati dei cristiani, nel timore che le donne cristiane osservino il sabato assieme a loro e lavorino la domenica, o mangino assieme a loro in tempo di quaresima, e che gli altri domestici in quegli stessi giorni mangino anche della carne;
- Che nessun cristiano comperi carni macellate ritualmente dagli ebrei o le rivenda ad altri cristiani;
- Che non si beva vino preparato dagli ebrei[38].
Solo queste due ultime disposizioni non hanno precedenti nella legislazione canonica. Agobardo le giustifica col fatto che gli ebrei vendono ai cristiani prodotti di scarto[39]. In definitiva egli non fa che applicare il principio generale che ha ispirato in primo luogo il divieto canonico di mangiare in comune: che il cristiano non sembri inferiore all’ebreo.
Agobardo insiste a lungo sui pericoli dei pasti in comune ed invoca la fedeltà che si deve al proprio Signore per far comprendere agli uomini che essi non debbono sedersi alla tavola di coloro che sono nemici del loro Signore, il Cristo[40]. Poiché gli ebrei, dice, bestemmiano esplicitamente e maledicono ogni giorno il Cristo e i cristiani nelle loro preghiere[41].
Segue poi l’elenco dei favori di cui gli ebrei si servono per impressionare i cristiani sempliciotti ed attrarli al giudaismo: essi si vantano di essere a voi cari per via dei patriarchi, d’essere ricevuti con onore in vostra presenza. Dicono che personaggi importanti invocano le loro preghiere e le loro benedizioni, ed invidiano il loro legislatore. I vostri consiglieri sono irritati con noi ed hanno pagato loro una somma cospicua per acquistare il loro vino. Nulla nei canoni prescrive ai cristiani di astenersi dai loro alimenti. Essi mostrano i diplomi con il vostro sigillo, i doni fatti alle loro donne dalle dame della Corte, ed ostentano la gloria dei loro antenati. Infine, e qui si tratta di vere e proprie agevolazioni, contro la legge hanno il permesso di costruire nuove sinagoghe, ed i missi, per facilitare loro l’osservanza dello Shabbat, hanno spostato i mercati dal sabato alla domenica, non senza danni per i cristiani[42].
Agobardo chiede all’imperatore di porre fine a questi favori, i quali accreditano le dicerie che egli preferisca gli ebrei agli stessi cristiani[43] e non sono senza pericoli per la fede[44]. La gente del popolo infatti va dicendo che gli ebrei parlano meglio dei preti cristiani[45].
Per risvegliare la religione dell’imperatore e mostrargli in quale sfiducia debbano essere tenuti gli ebrei, il vescovo di Lione, assieme a parecchi suoi confratelli, ha preparato un’opera di cui annuncia l’invio. L’imperatore vi troverà l’autentica tradizione della Chiesa in questa materia[46].
Sulle superstizioni dei giudei. ‒ Quest’opera sembra potersi identificare col trattato De Judaicis superstitionibus [47]. Il vescovo di Vienne Bernardo e quello di Chalon Eaof hanno collaborato alla sua redazione. È possibile che le loro diocesi fossero comprese con quella di Lione nella circoscrizione dei missi[48].
Il titolo non è dei più riusciti: sulle «superstizioni» dei giudei si trova solo un passo abbastanza breve[49]. Nel complesso si tratta di una dissertazione che mira a stabilire se bisogna astenersi dalla frequentazione degli ebrei. Per stabilire il pensiero della Chiesa, gli autori si basano opportunamente sull’esempio e la dottrina dei padri, le decisioni dei concili, le parole della Sacra Scrittura. I testi sono in genere ben scelti[50], ma la legislazione conciliare non è completa, e del resto neppure pretende di esserlo[51].
Il principale interesse di questo lungo trattato risiede nel passo dedicato alle credenze superstiziose degli ebrei. Si è preteso che qui Agobardo abbia raccolto del tutto acriticamente ogni sorta di affermazioni più o meno diffamatorie[52]. Vi si è vista la prova della passione violenta che lo accecava[53]. Questo significa liquidare troppo frettolosamente una questione che richiede invece un’indagine minuziosa.
Ecco in breve ciò che riferisce Agobardo[54].
Gli ebrei credono che Dio abbia un corpo le cui parti gli servono per compiere questa o quell’azione. Il corpo dell’uomo è ad immagine di quello di Dio, con l’unica eccezione che le dita di Dio sono rigide e non possono piegarsi, poiché egli non agisce con le mani. Dio siede su di un trono come i re della terra, in un immenso palazzo. Dio pensa molte cose vane e superflue che non possono tutte realizzarsi e diventano demoni. Le lettere dell’alfabeto sono eterne. Prima dell’origine del mondo, esse hanno ottenuto diverse funzioni, alle quali presiedono nel corso del tempo. La legge di Mosè era scritta molto tempo prima della creazione del mondo. Esistono più terre, più inferni e più cieli. Quello chiamato Racha sostiene le macine che servono a macinare la manna di cui si nutrono gli angeli. Quello dove risiede Dio si chiama Araboth. Dio ha sette trombe, una delle quali misura mille cubiti. Non c’è frase dell’Antico Testamento, conclude Agobardo, alla quale i loro antenati non abbiano aggiunto commentari menzogneri che a loro volta diventano oggetto di glosse superstiziose.
A queste speculazioni teologiche, gli ebrei aggiungono attacchi contro la fede cristiana. Essi hanno composto una vita di Gesù che altro non è che un tessuto di invenzioni oltraggiose; essi bestemmiano e maledicono nelle loro preghiere il Cristo e la sua Chiesa.
Che pensare di tutto ciò? In verità, le credenze attribuite agli ebrei sono singolari e si è subito tentati di ignorarle in quanto calunniose. Tuttavia, per quel poco che si siano sfogliati i due Talmud, vi si trova un’aria di incontestabile affinità con questi testi autentici. Ed infatti molte delle cose riportate da Agobardo si leggono tali e quali nei due Talmud, ad es. l’esistenza di più terre, inferni e cieli. Vi ritroviamo parimenti i nomi di Racha (per Raqia) e di Araboth, «che è il cielo dove Dio risiede», ripete ad alta voce Agobardo. Il Talmud registra altresì la preghiera Shemone Esre con le sue maledizioni contro i cristiani e ne regola la recita tre volte al giorno[55].
Ma v’è di più. È stato possibile individuare varie opere alle quali il vescovo di Lione fa allusione, almeno implicitamente, poiché tutte le sue informazioni sono orali: lo Shiur Koma, dimensioni della statua (dell’essere divino), le Hekaloth, santuari o palazzi, e le Othioth, le lettere, cioè l’alfabeto, di rabbi Akiba (quest’ultimo libro tratta del simbolismo delle lettere). Ritroviamo nel Sepher ha Zohar una lunga pagina analoga a quella delle Othioth.
È meno certo che Agobardo abbia conosciuto il Sepher Yetsirath, libro della creazione, dove si tratta dei rapporti fra i primi dieci numeri e le ventidue lettere. Lo si è supposto[56], poiché egli riferisce che gli ebrei credono che il loro alfabeto sia esistito dall’eternità. Ma il complesso delle sue informazioni è di natura «Aggadica» e null’altro indicherebbe che abbia conosciuto la filosofia del misticismo ebraico, cioè la Cabbala propriamente detta[57].
Il racconto ingiurioso della vita di Gesù, riportato da Agobardo, pone un problema abbastanza curioso. Questo racconto non è identico a quello che si legge nelle «Toledoth Yeshu»[58], anche se vi si avvicina molto. Non essendo questo libello, molto conosciuto, il più significativo della polemica anticristiana, probabilmente anteriore all’XI secolo, possiamo supporre che il racconto di Agobardo ci dà una forma più antica della tradizione orale definitivamente fissata. Nel complesso, è certo che il vescovo di Lione non si fa eco di dicerie popolari analoghe a quelle che pretendevano che gli ebrei avvelenavano i pozzi o che martirizzavano i bambini per raccoglierne il sangue. La qualità delle sue informazioni prova al contrario che egli aveva avuto, come dice, frequenti colloqui con degli ebrei[59]. Sono dunque propositi autentici degli ebrei pieni zeppi di tradizioni aggadiche quelli che ci riporta fedelmente[60].
Non si può dunque accusarlo di calunnia. Non si può neppure negare che egli si senta offeso dalle ingiurie veramente bassissime riversate sulla persona sacra del Cristo. Né ci si può ulteriormente stupire che, avversario d’ogni superstizione[61], egli denunci l’assurdità delle speculazioni teologiche che abbiamo visto[62].
Non bisogna infine dimenticare che Agobardo non invoca affatto lo sterminio degli ebrei, ma unicamente la necessità di mettere in guardia i cristiani contro una «perfidia» in grado di minare o almeno di turbare la fede presso le anime semplici[63].
È dubbio che un trattato di questo genere abbia potuto cambiare qualcosa nelle disposizioni del suo cuore. Agobardo probabilmente ne dubitava lui stesso per primo.
Condotta da tenere verso gli ebrei. ‒ La lettera a Nibridio[64] sembra mostrare che egli ha in mente di mettere in atto altri mezzi. Chiede al vescovo di Narbonne, la cui autorità sembra essere considerevole, di sostenerlo[65] ed anche di aiutarlo con i suoi colleghi dell’episcopato a sostenere un movimento d’opinione la cui forza riesca ad avere la meglio sulla resistenza della Corte[66].
Questo appello all’opinione è caratteristico dei metodi di Agobardo, di ciò che è stato benissimo definito il suo genio di pubblicista. Egli non prende posizione sulla base di una decisione ingiusta. Senza proclamare il diritto alla disobbedienza in ogni caso, di fatto dichiara impossibile che un imperatore religioso e fedele a Dio abbia dato degli ordini contrari alla legge divina e ai canoni della Chiesa[67]. In piena libertà, con un coraggio intrepido, egli sostiene il giusto diritto e si aspetta il soccorso della giustizia stessa alla sua causa e della forza della coscienza cristiana.
La lettera a Nibridio contiene interessanti dettagli di costume sulle relazioni amichevoli fra cristiani ed ebrei. Vediamo come questi ultimi, lungi dall’essere oggetto di disprezzo, sono circondati di prestigio, come corrompono i loro amici, come attraggono alle loro pratiche e alle loro credenze ingenui cristiani sedotti un poco alla volta.
Il movimento di adesione al giudaismo sembra aver acquistato in quel tempo una certa importanza, mentre il vescovo di Lione deve ammettere che non ottiene conversioni di ebrei alla vera fede[68]. Ed in conclusione ribadisce la necessità della separazione secondo la tradizione della Chiesa.
Conclusione. ‒ La rassegna da noi fatta degli scritti polemici del vescovo di Lione crediamo ci permetta di affermare che l’antisemitismo di cui sono testimonianza non ha nulla a che fare con il fanatismo odioso. La condotta di Agobardo sembra dettata dalla preoccupazione del bene delle anime, sia di quelle che vanno guadagnate al Cristo, sia di quelle che bisogna preservare. Quali che siano le sue accuse, egli non si lascia trascinare a ingiuste violenze. L’atteggiamento che preconizza è fatto di ragione, di saggezza e, checché se ne sia detto, perfino di carità. «Poiché i giudei vivono tra di noi, dice, affinché noi non si debba essere cattivi nei loro confronti, né far torto alla loro vita o alla loro salute o alle loro ricchezze, osserviamo la misura prescritta dalla Chiesa, che è quella di comportarci con loro con prudenza e al tempo stesso con umanità»[69].
Parole tanto più significative, in quanto pronunciate nel momento in cui il trionfo insolente degli ebrei avrebbe potuto esporre il vescovo alle rappresaglie. Noi vi troviamo un compendio fedele del pensiero costante di Agobardo: niente persecuzioni, niente ingiustizie, solo «umanità». Ma anche «prudenza», riservatezza, soprattutto separazione, secondo la disciplina tradizionale della Chiesa: tenete gli ebrei a distanza, non lasciateli dominare.
È assolutamente esagerato dire che l’antisemitismo del Medio Evo ha la sua origine in Agobardo[70]. Le disposizioni legislative contro gli ebrei risalgono molto più in là. In realtà Agobardo non ha apportato nulla di nuovo, ha semplicemente voluto mantenere in vigore le misure stabilite che un favore straordinario tendeva a rendere inoperose. Il suo intervento è solo un momento nello sviluppo delle relazioni fra cristiani ed ebrei, e non bisogna esagerarne l’importanza. Tuttavia noi crediamo, con Wiegand, che Ludovico il Pio non abbia fatto un buon servigio ai suoi amici ebrei favorendoli in modo così clamoroso: egli ha superato i giusti limiti e provocato una viva reazione. Poco importa che al momento le proteste di Agobardo abbiano avuto scarso successo. Un sentimento che si esprime si rafforza e il vescovo di Lione aveva dato all’espressione della sfiducia verso gli ebrei una chiarezza ed un vigore eccezionali. Nondimeno, i suoi censori hanno troppo dimenticato che questo vigore non aveva escluso il senso della misura.
[1] Citiamo questi diversi trattati con delle abbreviazioni, secondo i termini generalmente accolti per designarli. I titoli sono stati composti da Baluze secondo Papire Masson, il primo editore di Agobardo (Paris, 1605), di cui Baluze critica peraltro l’eccessiva libertà, e secondo il ms. 2883 del fondo latino della Biblioteca nazionale che entrambi presero come base della loro edizione. Questa è la lista di tali scritti, con i loro titoli completi, nell’ordine adottato da Baluze e riportato da Migne: 1. Ad eumdem imperatorem, de insolentia judaeorum (Baluze, t. I, p. 59; Patr. lat., t. CIV, col. 69); 2. Epistola S. Agobardi, Bernardi et Eaof episcoporum ad eumdem imperatorem, de judaicis superstitionibus (Baluze, t. I, p. 66; Patr. lat.,t. CIV, col. 77); 3. Agobardi epistola ad proceres palatii consultatio et supplicatio de baptismo judaïcorum mancipiorum (Baluze, t. I, p. 98; Patr. lat., t. CIV, col. 99); 4. Epistola S. Agobardi exhortatoria, ad Nibridium episcopum Narbonensem, de cavendo convictu et societate judaïca (Baluze, t. I, p. 102; Patr. lat., t. CIV, col. 107); 5. Epistola ad proceres palatii, contra praeceptum impium de baptismo judaïcorum mancipiorum (Baluze, t. I, p. 192; Patr. lat., t. CIV, col. 173). Simson (Jahrbücher des fränkischen Reichs unter Ludwig dem Frommen, t. I, p. 393) ha fornito una buona cronologia di questi scritti: 1. Consultatio et supplicatio ad proceres palatii de baptismo judaïcorum mancipiorum: 822-825; 2. Ad proceres palatii contra praeceptum impium: fra il 2 gennaio 826 e l’828, verosimilmente l’826; 3. De insolentia judaeorum: 826-827; De Judaïcorum superstitionibus: 826-827; 5. Epistola ad Nibridium: prima della fine dell’828, ma dopo i n. 3 e 4. Graetz (Geschichte der Juden, t. v, p. 223) e Baehr (Geschichte des römischen Literatur im karolingischen Zeitalter, p. 383) propongono date differenti, ma che non hanno nulla di certo. Sono più condivisibili le osservazioni di Hefele-Leclercq, Histoire des conciles, t. IV, p. 73.
[2] Opere principali da consultare: Friedrich Wiegand, Agobard von Lyon und die Judenfrage, Leipzig, 1901; Robert Enge, De Agobardi archiepiscopi Lugdunensis cum judaeis contentione, Leipzig, 1888; Julius Aronius, Regesten zur Geschichte der Juden im fränkischen und deutschen Reiche, bis zum Jahre 1273, Berlin, 1887.
[3] Reuter, Geschichte der religiösen Aufklärung im Mittelalter, t. I, p. 24.
[4] Secondo alcuni, l’origine spagnola di Agobardo spiegherebbe il suo «antisemitismo». «Era naturale ‒ scrive Wiegand ‒ che un figlio della Spagna provasse per l’ebreo la tradizionale diffidenza e vedesse in lui un nemico pericoloso dello Stato» (Agobard von Lyon cit., p. 223). In ciò potrebbe esservi del vero. Osserviamo tuttavia che l’origine spagnola di Agobardo non è sicura e che in ogni caso egli si sarebbe trasferito nella Gallia narbonense dall’età di tredici anni. Osserviamo altresì che Agobardo non considera gli ebrei nemici dello Stato, ma della fede. È comunque un fatto che la questione ebraica era particolarmente grave in Spagna: cfr. infra ciò che lui stesso dice del commercio ebraico degli schiavi in Spagna.
[5] Théodore Reinach, Agobard et les juifs, in «Revue des etudes juives», t. L (1905), p. LXXXI, impartisce al vescovo di Lione una buona lezione di carità cristiana e si stupisce che la Chiesa lo abbia canonizzato. Friedrich Wiegand deplora che uno spirito così grande abbia potuto lasciarsi andare a dichiarazioni e atteggiamenti «che lo mettono sullo stesso piano dei più brutali antisemiti di tutti i tempi … Da un teologo che, come l’arcivescovo Agobardo di Lione, disponeva di un rispettabile tesoro di conoscenze naturali e che, con una lodevole severità, si opponeva alla superstizione della massa, ci si doveva aspettare qualcosa di meglio delle lagnanze sulle turpitudini dei suoi concittadini ebrei e degli scritti incendiari, che invocavano una rigida esecuzione delle leggi dirette contro gli ebrei» (Agobard von Lyon, p. 221). Nel corpo dell’articolo, Wiegand è portato peraltro a mitigare costantemente questo giudizio.
[6] Su questo punto la nostra opinione non ha nulla di originale. Cfr. Vernet nel «Dictionnaire apologétique», t. II, col. 1652: «… quanto ai cristiani, questi non erano ostili agli ebrei, e non vi fu antipatia reciproca né alle origini del cristianesimo, né nell’Alto Medioevo». Negli scritti di Agobardo non si trova traccia di nessuna delle tradizionali accuse popolari: usura, tradimento, magia, sacrilegio e crimini rituali.
[7] De baptismo judaicorum mancipiorum (Patr. lat., t. CIV, col. 99).
[8] Sull’assemblea di Attigny e l’atteggiamento di Agobardo cfr. Mgr. Lesne, Histoire de la propriété ecclésiastique, t. II, fasc. I, p. 157.
[9] Wala riprenderà le tesi di Agobardo sui beni della Chiesa (cfr. Lesne, op. cit., pp. 162-163) e soprattutto legherà con Agobardo una solida alleanza politica. Anche il secondo appello di Agobardo ai Proceres palatii è indirizzato a lui e contemporaneamente ad Hilduin.
[10] De Baptismo judaicorum mancipiorum, in Patr. lat., t. CIV, col. 101.
[11] De Baptismo judaicorum mancipiorum, in Patr. lat., t. CIV, col. 102.
[12] De Baptismo judaicorum mancipiorum, in Patr. lat., t. CIV, col. 106.
[13] De Baptismo judaicorum mancipiorum, in Patr. lat., t. CIV, coll. 103-104.
[14] Cfr. il suo trattato De Judaicis superstitionibus.
[15] De Baptismo judaicorum mancipiorum, in Patr. lat., t. CIV, col. 105. Checché ne pensi Wiegand, non è questione di sapere se la «Loskaufungstheorie» [teoria del riscatto] è in se stessa giustificabile (Wiegand, Agobard von Lyon, p. 242). Agobardo la trova bell’e fatta, ammessa nel diritto, e come tale la accetta.
[16] Concilio di Mâcon, in Mansi, Concilia, t. IX, col. 934.
[17] Possiamo supporre che questo prezzo forfettario era stato fissato piuttosto basso dal concilio di Mâcon per facilitare ai cristiani la pratica del riscatto. Malgrado tutto, era importante realizzare la somma in contanti e la pratica del riscatto doveva essere rara. Un passo del Contra praeceptum sembra peraltro indicare che Agobardo considera il riscatto non già un suo vantaggio personale, ma bensì un onere di cui si fa carico solo per dovere. Inoltre egli è disposto a pagare la somma necessaria in considerazione dell’immenso beneficio spirituale così procurato (Contra praeceptum, in Patr. lat., t. CIV, col. 178).
[18] Wiegand (Agobard von Lyon, p. 240) non fa distinzione tra soldi d’oro e d’argento, e sembra credere che Agobardo offrisse 20 o 30 soldi, mentre qui si tratta del prezzo pagato dall’acquirente ebreo. Cfr. De Baptismo: «… quam illum qui vigenti aut trigenta solidis datis, fruitur corporis ejus servitio» (Patr. lat., t. CIV, col. 103).
[19] Patr. lat., t. CIV, col. 101: Contra eos qui quaerelas judaeorum astruebant; ‒ col.105: putantes sibi favere magistratus palatii. Cfr. Deploratoria de injusticiis.
[20] Patr. lat., t. CIV, col. 105.
[21] Patr. lat., t. CIV, col. 106.
[22] Epistola ad proceres palatii, contra praeceptum impium de baptismo judaicorum mancipiorum (Patr. lat., t. CIV, coll. 173 sgg.).
[23] Patr. lat., t. CIV, coll. 175-176.
[24] Rozière, Recueil des formules, nn. 27 e 28.
[25] Cfr. Wiegand, Agobard von Lyon, p. 240.
[26] De Insolentia judaeorum, in Patr. lat., t. CIV, col. 74.
[27] Patr. lat., t. CIV, col. 175.
[28] Patr. lat., t. CIV, col. 178 b-c.
[29] Patr. lat., t. CIV, col. 178c. Si allude alla legge del re Recaredo approvata dal concilio di Toledo del 589.
[30] De Insolentia judaeorum (Patr. lat., t. CIV, col. 71): «His causis laetificati sunt judaei ultra modum».
[31] Patr. lat., t. CIV, col. 71b.
[32] Patr. lat. t. CIV, col. 72a.
[33] Patr. lat., t. IV, col.72a.
[34] Patr. lat., t. CIV, col. 71a. Si veda anche 74c: «continentia verba, ut putamus vera».
[35] «Nesciens utrum pervenire possit ad vestram notitiam» (Patr. lat., t. CIV, col. 74a).
[36] Patr. lat., t. CIV, col. 70b.
[37] Patr. lat., t. CIV, coll. 70-71.
[38] Patr. lat., t. CIV, coll. 70-71
[39] Patr. lat., t. CIV, col. 75a.
[40] Patr. lat., t. CIV, col. 75.
[41] Patr. lat., t. CIV, coll. 72,75.
[42] Patr. lat., t. CIV, col. 74. Interessante scena di costume.
[43] Patr. lat., t. CIV, col. 72a.
[44] Patr. lat., t. CIV. col. 74a.
[45] Patr. lat., t. CIV, col. 75.
[46] Patr. lat., t. CIV, coll. 75-76. ‒ Agobardo aveva terminato la sua lettera quando accadde un fatto che riporta in una sorta di post-scriptum. Arriva un fuggitivo da Cordoba. Questi racconta che è stato rapito ventiquattro anni prima, quando era ancora un bambino, da un ebreo di Lione, e poi venduto, e che quest’anno è fuggito con un altro, rapito anche lui ad Arles da un altro ebreo sei anni prima. «Riguardo a quello di Lione, abbiamo cercato persone che lo conoscessero, e le abbiamo trovate, ed alcuni ci hanno detto che altri bambini erano stati rapiti da quello stesso ebreo, che altri erano stati comperati e poi venduti, e che quello stesso anno un bambino era stato rapito e venduto da un altro ebreo. Allora si è scoperto che dei (bambini) cristiani erano venduti da cristiani e comperati da ebrei che commettevano ogni sorta di orrori che sarebbe imbarazzante riferire». Agobardo ha inventato questo fatto drammatico? È possibile, ma i fatti riportati sono verosimili. Il commercio degli schiavi dava certamente luogo ad abusi di questo genere. Da altri testi sappiamo che il traffico che si faceva con la Spagna, cioè con i Saraceni, era particolarmente sospetto. È parimenti verosimile che i trafficanti di carne umana fossero i fornitori della dissolutezza. In altri testi si trova la stessa accusa. Gfroerer (Zur Geschichte deutscher Volksrechte, t. II, p. 42) ritiene che nel testo si parli di circoncisione, ma questa interpretazione ci sembra falsa. Cfr. Aronius, Regesten, p. 36.
[47] Epistola S. Agobardi, Bernardi et Eaof episcoporum ad eumdem imperatorem de judaicis superstitionibus (Patr. lat., t. CIV, col. 77). S. Bernardo (o Barnardo) di Vienne, nato nel lionese verso il 778, intorno al 799 fonda il monastero di Ambronay, di cui diviene abate verso l’806; vescovo di Vienne nell’810, fonda l’abbazia di Romans verso l’837; muore nell’842. Eaof: Baluze lo identifica con un vescovo di Chalon che viene menzionato in diversi documenti dell’epoca con i nomi di Faova, Fova e Favo; egli esclude giustamente l’identificazione con Ebon proposta da Papire Masson.
[48] Simson, Jahrbücher des fränkischen Reichs, t. I, p. 395.
[49] Fine del cap. IX e cap. X (Patr. lat., t. CIV, coll. 86, 87, 88).
[50] Wiegand rimprovera ad Agobardo di averli scelti e raccolti con una incredibile parzialità: «eine, von unglaublicher Einsitigkeit zeugende, Zusammenstellung von Propheten-, Herren- und Apostelworten» (Agobard von Lyon, p. 249). Avrebbe voluto che egli cercasse dei testi contrari alla sua tesi?
[51] «Breviter ergo ista a nobis perstricta sint. Nam et cedendum est majoribus, etc.?» (cap. XXVII, in Patr. Lat., t. CIV, col. 100 c).
[52] «Als Beweis für diese Behauptung tischt Agobard eine Reihe kritiklos aufgelesener Talmudmärchen» (Wiegand, Agobard von Lyon, p. 249).
[53] «Es ist ein schauerliches Gemisch von Unvernunft und Leidenschaftlihkeit in das man hier hineinblickt» (Wiegand, ibid., p. 249). Cfr. Th. Reinach, Agobard et les Juifs, in «Revue des etudes juives», t. L, pp. CV, CVI.
[54] De Judaicis superstitionibus, cap. X, in Patr. lat., t. CIV, coll. 86 c sgg.
[55] Sulle prescrizioni talmudiche contro i goyim, cfr. Loeb, in «Revue des études juives», t. I (1880), p. 251.
[56] Joüon, art. Kabbale, in «Dictionnaire apologétique», t. XX, col. 1765.
[57] Cfr. Israël Lévy, Études sur les juifs de France, in «Rapport au Séminaire israélite pour 1903»; Th. Reinach, in «Revue des etudes juives», t. L, p. CVI.
[58] Loeb, in «Revue d’histoire des religions», t. XVII, 317, dice che Agobardo conosceva certamente le Toledoth. Noi al contrario supponiamo che è il redattore delle Toledoth che conosceva la tradizione orale attestata da Agobardo.
[59] Patr. lat., t. CIV, col. 86 c.
[60] Questa è la conclusione di una consulenza che ha voluto darci un eminente specialista, Paul Vuillaud.
[61] Agobardo è autore di quattro importanti trattati contro le superstizioni della sua epoca: 1. Adversus legem Gundobadii et impia certamina quae per eam geruntur (Patr. lat., t. CIV, col. 113); 2. De divinis sententiis digestus, cum brevissimis adnotationibus contra damnabilem opinionem putantium divini judici veritatem igne, vel aquis, vel conflictu armorum patefieri (ibid., col. 249); 3. Contra insulsam vulgi opinionem de grandine et tonitruis (ibid., col. 147); 4. De quorumdam illusione signorum (ibid., col. 179).
[62] Sembra che gli interlocutori di Agobardo abbiano interpretato nel modo più letterale le espressioni che riferisce. Questa è anche l’opinione di Paul Vaillaud: «Dopo la lettura della lettera di Agobardo, scrive, si pone una questione. In che modo gli ebrei con i quali era in contatto concepivano le tradizioni trasmesse dallo Shiur-Koma? Sembra che le interpretassero da un punto di vista somatico. Di qui probabilmente l’indignazione di Agobardo nel vedere delle intelligenze incrostate di superstizioni. Io lo credo, tanto più che egli distingue gli “ebrei carnali” dagli “ebrei spirituali”. È evidente che i dottori dell’antico misticismo ‒ poiché tutto ciò che Agobardo riporta appartiene ad antichi dati mistici ‒ predicavano tutto il fascino escatologico, le dimensioni dell’Essere divino ed altre immagini, spiegandole allegoricamente».
[63] Patr. lat., t. CIV, col. 77 a. Le popolazioni cristiane dell’Impero ci appaiono ancora molto traballanti in materia di fede. Le vediamo sensibili al prestigio del giudaismo, come d’altronde al fascino delle superstizioni più grossolane. La fierezza che in genere mostrano per il loro cristianesimo non impedisce che la loro religione manchi di chiarezza. Agobardo è costantemente obbligato nella sua predicazione a ritornare sul principio fondamentale che Dio è uno ed è Spirito.
[64] Epistola S. Agobardi exhortatoria ad Nibridium espiscopum Narbonensem de cavendo convictu et societate judaica (Patr. lat., t. CIV, coll. 107-114). Nibridio, vescovo di Narbonne intorno al 799, legato di Carlo Magno al concilio di Arles nell’ 813; morto dopo l’822, prima dell’828.
[65] Patr. lat., t. CIV, col. 108.
[66] Patr. lat., t. CIV, col. 114.
[67] Patr. lat., t. CIV, col. 112 a.
[68] Fra le conversioni al giudaismo, quella del diacono Bodon fece gran rumore. Di nobile famiglia germanica, diacono di Corte, particolarmente caro all’imperatore, egli fuggì a Saragozza assieme ad uno dei suoi nipoti; qui si fece circoncidere e sposò una donna ebrea. Cfr. Simson, Jahrbücher des fränkischen Reichs cit., t. II, pp. 252 sgg.
[69] De Insolentia judaeorum, in Patr. lat., t. CIV, col. 74 a.
[70] Wiegand, Agobard von Lyon, pp. 249-250.
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