Come il Pci imparò a convivere con la mafia: la segreteria “arancione” di Berlinguer

Come il Pci imparò a convivere con la mafia: la segreteria “arancione” di Berlinguer

Vi ricordate quando, nel 2001, l’allora ministro Pietro Lunardi affermò che “con la
mafia bisogna convivere”, scatenando una delle tipiche, quanto effimere, bufere
mediatiche del Bel Paese?
Ecco il video con la sua improvvida dichiarazione:

 
qui potete leggere invece le “scandalizzate” reazioni di
politici e magistrati:
 
“Convivere con la
mafia” Lunardi nella bufera
: http://www.repubblica.it/online/politica/lunardi/mafia/mafia.html

Mi è venuto di ripensare a queste reazioni perché è da un
pezzo, da un bel pezzo, che i partiti politici, anche quelli di sinistra, hanno imparato a convivere con la mafia.
A questo proposito mi sembra interessante condividere qui una riflessione
pubblicata qualche tempo fa su Facebook da un mio vecchio amico d’infanzia,
comunista da sempre:  

E’
vero che la mafia oggi non è più
di destra, né di sinistra. A dire il vero essa nasce di destra come espressione
dell’articolata rete di interessi che si sviluppano attorno alla proprietà
terriera. In seguito si volge verso la città in un naturale feedback del
processo di urbanizzazione della campagna tipico dello sviluppo capitalistico.
Nel secondo dopoguerra il riformismo borghese di sinistra (Pci e Psi) a caccia
del voto del bracciantato giornaliero, si oppone timidamente alla mafia
tentando di legarsi a fazioni borghesi interessate a un processo di
modernizzazione che vede il suo epicentro nel nord industriale. Sprovvisto
delle categorie di analisi marxiste, tale riformismo rinuncia a capire che la
mafia non è un residuo del feudalesimo, ma il portato di un capitalismo che nel
meridione era nato già decrepito. Al culmine del processo di accumulazione
postbellico, negli anni ’70 anche la borghesia del nord, una volta che non
trova più terre vergini nella produzione industriale da conquistare per
collocare i propri capitali, cioè settori ancora poco “maturi” in cui
la composizione organica del capitale fosse ancora relativamente bassa e la
fame di investimenti ancora sostenuta, ecco che scopre il mare della finanza
speculativa, dell’investimento fittizio, della rendita e del riciclaggio del
denaro, straordinaria stregoneria del crimine organizzato trasformandosi in
impresa borghese a tutti gli effetti e con tutti i crismi. Il capitale va dove
le condizioni della sua valorizzazione sono più propizie e allora ecco che la
mafia diventa un elemento centrale del sistema economico e dunque politico: la
politica è un concentrato dell’economia diceva Lenin. Circa tre decenni fa la
sinistra del capitale si fa sedurre dalla mafia e incomincia un lento
avvicinamento: deve vendersi per sopravvivere come ceto politico, per farlo
accetta che la mafia ammazzi anche qualche suo esponente di spicco. Il processo
di asservimento della sinistra borghese al potere mafioso e ai suoi metodi
avanza rapidamente e giunge a compimento già qualche lustro fa. In altre parole
oggi la mafia non è né di destra né si sinistra perché destra e sinistra sono
soltanto le sue appendici, i suoi burattini, i suoi saltimbanchi, mentre lo
Stato non deve trattare con la mafia perché il processo osmotico si è concluso
da decenni e non deve fare altro che trattare con sé stesso e con le proprie
articolazioni. La mafia a un certo punto del suo sviluppo è passata da banda

criminale ramificata a modo di essere del capitalismo agonizzante.

 

Quest’analisi mi sembra interessante ma incompleta.
Incompleta perché vede la mafia essenzialmente come potere economico che
condiziona la politica e la asservisce. Certo la mafia è anche questo. Ma, a
mio parere, non è questo il suo potere di condizionamento più forte, per lo
meno a livello politico nazionale.

In realtà, mafia e camorra “ci sono e sempre ci saranno”,
come disse Lunardi, perché la ragione ultima della loro permanenza sul
territorio è essenzialmente militare:
si tratta di realtà che fanno parte –
sia pure in modo necessariamente ufficioso
e tuttavia permanente – dei
comandi militari della NATO nel Mediterraneo
.

Sigonella e dintorni …

 

Chi tocca la mafia
militare
muore, questo è il punto.

Ho cercato di porre in risalto il livello geopolitico della
mafia, necessariamente sottaciuto dai media mainstream, nel post Cosa Nostra: la legione sicula della Cia:
https://www.andreacarancini.it/2011/01/nel-suo-la-fonte-del-petrolio-brevi/

Naturalmente, non sono né il solo né il primo: ad esempio,
su Internet c’è chi se ne occupa sistematicamente, come Antonio Mazzeo (in particolare, per quanto riguarda la
militarizzazione – e il degrado – del territorio siciliano):

O come il blog di Comidad
(più in generale, sulle connessioni criminali globali della NATO):

Per quanto riguarda invece le pubblicazioni cartacee, è
importante ricordare ciò che scrisse a suo tempo il noto storico Giuseppe De Lutiis (nella sua
prefazione al libro di Gianni Cipriani I MANDANTI – il patto strategico tra
massoneria mafia e poteri politici[1]
):

Il
ruolo di Cosa Nostra è stato quello di una Gladio del sud i cui interventi sono
stati tragicamente efficaci, dalla strage di Portella della Ginestra alla sistematica
eliminazione, negli anni Cinquanta, dei sindacalisti socialisti e comunisti …
Anche la P2 si è sviluppata su imput internazionale e non è certo un caso che
essa sia stata ricostituita su una base molto più ampia, articolata e riservata
proprio negli anni in cui il Pci, dopo la vittoria elettorale del 20 giugno
1976, stava accostandosi alla soglia del potere. Né può essere casuale che proprio in quegli stessi anni settori della
massoneria abbiano chiesto alla Commissione di Cosa Nostra di consentire
l’affiliazione alla muratoria di rappresentanti di varie famiglie mafiose.
Tutte queste iniziative sono da inserire nel contesto delle attività decise a
livello internazionale e volte ad arginare e neutralizzare la crescita
elettorale del Pci[2].

Proseguiva De Lutiis:

In quegli stessi
anni un partito dalle solide e radicate basi popolari, il Partito socialista,
subì una metamorfosi che nel giro di pochi anni ne stravolse la natura, la
collocazione politica, gli scopi, fino a farlo divenire, come evidenzia Gianni
Cipriani, il principale strumento politico della P2.[3]

Ma, questo De Lutiis non lo scrisse, la metamorfosi
riguardò, eccome, anche il Pci.
Ritengo perciò necessario riproporre qui il brano, tratto da un articolo[4] del blog
“ANARCHISMO.COMIDAD”, che avevo inserito all’epoca nel post su Cosa Nostra, brano che
riguarda l’omicidio di Pio La Torre,
episodio emblematico – per come venne accolto il delitto dai vertici comunisti
– dell’avvenuta accettazione di tutta la
classe politica italiana del principio
di convivenza con i poteri (atlantico) mafiosi:

In un solo caso un esponente della
sinistra istituzionale asserì l’esistenza di una relazione diretta tra la mafia
e l’occupazione militare statunitense del territorio. Questa persona fu il
siciliano Pio La Torre, segretario regionale del Partito Comunista, all’interno
del quale militava nell’ala più destrorsa: i “riformisti” capeggiati da
Amendola e Napolitano. La Torre lanciò
anche una manifestazione in cui la lotta alla mafia si collegava
all’opposizione contro la base missilistica NATO a Comiso. Un quarto di secolo
dopo, l’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga ci spiegò candidamente
che era stata la mafia ad incaricarsi di costringere i proprietari a cedere a
prezzi stracciati i terreni su cui sarebbe sorta la base militare di Comiso;
lo
stesso Cossiga aggiunse di aver usato quella
circostanza come strumento di ricatto per far cessare negli USA una campagna
giornalistica contro di lui. Quindi il collegamento tra militarizzazione e
criminalità organizzata individuato da La Torre non era astratto, ma si stava
manifestando sotto gli occhi dei Siciliani. Nel 1982 Pio La Torre fu
assassinato insieme con il suo autista Rosario Di Salvo. Nell’aereo che lo
portava a Palermo per assistere ai funerali del segretario regionale
assassinato, il segretario generale del Partito Comunista, Enrico Berlinguer,
rilasciò un’intervista televisiva in cui non
riuscì a dissimulare la sua evidente indifferenza
per la sorte di La Torre. Era chiaro
che aveva creato un enorme imbarazzo al partito, riportando al centro
dell’attenzione la lotta alla NATO, non più in nome di un antimperialismo
generico, ma sulla base della denuncia di un’evidente colonizzazione
militare/criminale del territorio siciliano. Per un PCI che aveva ormai
accettato la NATO, costituiva una contraddizione intollerabile vedersi
riproporre, da un esponente in vista del partito, la lotta alla NATO in termini
così concreti; perciò la morte di La Torre costituì una comoda soluzione al
problema. Successivamente all’uccisione di La Torre,
il PCI siciliano infatti si guardò bene
dal ricollegare la questione della mafia
a quella della NATO, e per la prima metà degli anni
’80 continuò una svogliata opposizione ai missili sulla base del solito
generico pacifismo. Negli anni ’70 e ’80 il crescendo della propaganda
antimafia doveva servire appunto a dissimulare la crescente occupazione militare
statunitense del territorio italiano, e quindi era da considerare off limits
per giornalisti e politici qualsiasi collegamento tra i due fatti”.

Berlinguer ai funerali di Pio La Torre

 

Pio La Torre aveva toccato la mafia militare, ecco il
punto. Su questo aspetto cruciale si trovano pagine importanti proprio nel già
citato I MANDANTI. Ad esempio quelle
riguardanti le critiche che già all’inizio degli anni ’80 giungevano
all’indirizzo di Bruno Contrada[5]:

Nello
stesso tempo periodo, però, erano state scritte anche lettere di dura critica e
denuncia. Per esempio il commissario capo Renato Gentile, in servizio presso la
squadra mobile di Palermo, il 14 aprile 1980 scriverà al suo dirigente una dura
relazione di servizio contro Contrada: “La sera di sabato 12 c. m. nell’androne
di questa squadra mobile dopo aver lasciato la S. V. venivo avvicinato dal
dott. Contrada che mi chiedeva se fossi andato a fare una perquisizione a casa
di Inzerillo Salvatore, e se in quella occasione agenti armati di mitra fossero
entrati nelle stanze facendo impaurire i bambini. A questo punto il dott.
Contrada aggiungeva che aveva avuto lamentele dei Capi Mafia per il modo con
cui si era agito […] Il dott. Contrada
sopraggiungeva che determinati personaggi mafiosi hanno allacciamenti con
l’America per cui noi, organi di polizia, non siamo che polvere di fronte a
questa grande organizzazione mafiosa; hai visto che fine ha fatto Giuliano?”.
Sicuramente
Contrada, parlando dei rapporti privilegiati che esistevano tra boss di Cosa
Nostra e Stati Uniti, aveva individuato con precisione il vero problema
dell’impunità mafiosa, decretata di fatto dopo lo sbarco del 1943. Ed in
effetti i singoli “servitori dello Stato” erano realmente “polvere” rispetto al
grande sistema che aveva espresso la mafia. Si potevano combattere i singoli uomini d’onore. Ma chiunque avesse
superato le “colonne d’Ercole” della mafia militare sarebbe inevitabilmente
stato destinato alla sconfitta. E alla morte.

Tutto ciò è, ancora oggi, così vero che proprio i più
noti magistrati e opinionisti che si occupano di mafia – quelli che godono sui media
dell’immagine di implacabili nemici di Cosa Nostra – sono quegli stessi che
continuano a opporre un silenzio impenetrabile sulle coperture politiche internazionali della medesima.

 

Certo, il processo di avvicinamento della sinistra
italiana alla mafia ha avuto anche, come ha bene evidenziato il mio amico di
Facebook, dei rilevanti aspetti economici, sia a livello locale che nazionale.
Il rapporto Coop rosse-mafia, ad esempio, ha ormai una lunga storia,
controversa quanto si vuole a livello giudiziario ma politicamente innegabile[6].

Il punto dirimente della questione è però, ripeto,
squisitamente geopolitico, prima
ancora che economico-politico. Il dado
venne tratto anche prima di “circa tre decenni fa” (come invece sostiene il mio
amico su Facebook) e non venne tratto dal solo Partito socialista (come invece sostiene
De Lutiis): venne tratto quando il Pci di Berlinguer cambiò radicalmente la sua
posizione sull’adesione italiana alla NATO.

Ne avevo parlato nei post
 
Berlinguer
e il Pci smagnetizzati dalla Nato (a differenza di Fidel Castro)
:
https://www.andreacarancini.it/2011/03/berlinguer-e-il-pci-smagnetizzati-dalla/
e

Berlinguer e la strage di Brescia: anche
questa volta Vinciguerra non ha parlato a vanvera
:

Da quest’ultimo vale la pena di riprendere almeno una delle riflessioni di Aldo Giannuli:

Nel dicembre 1974 Berlinguer ufficializzò la linea di
piena accettazione dell’alleanza, pur se nella prospettiva di un futuro
dissolvimento dei blocchi; il 5 giugno
del 1976 affermò di «sentirsi
più sicuro sotto l’ombrello della Nato».
È singolare notare come la
posizione comunista sulla Nato sia mutata in un periodo che, a rigor di logica,
avrebbe dovuto semmai andare in senso contrario. A meno che questo non abbia fatto parte di un tentativo di trovare una
via d’uscita concordata dalla strategia della tensione.
 

Qualche
tempo fa ho poi trovato delle notizie illuminanti, sul vecchio Pci, nel libro
intervista di Giovanni Fasanella e Alberto Franceschini, CHE COSA SONO LE BR[7]. Qui ne citerò due. La prima,
a p. 22 (sul mondo giovanile della sinistra a Reggio Emilia, città natale di
Franceschini, poco prima del ’68):

Il rapporto con il Partito non era
semplice, anzi direi che era piuttosto conflittuale. Eravamo dei ribelli, poco
ci importava di quello che pensavano i dirigenti. Tant’è che organizzammo
addirittura una serie di scioperi all’interno delle cooperative. Ha presente?
Proprio nel cuore rosso dell’Emilia. La Fgci allora aveva 12 mila iscritti (su
una popolazione di 150 mila abitanti), e molti lavoravano nelle cooperative, dove subivano uno sfruttamento bestiale.
Era intollerabile che i dipendenti delle coop venissero trattati peggio degli
operai delle fabbriche. E il fatto che noi lo sottolineassimo con le nostre lotte,
faceva imbufalire i dirigenti del Partito.

La
seconda alle pp. 31-32 (sulla rottura col Pci):

… Avvenne tutto nel giro di qualche
mese. Due avvenimenti fecero precipitare la situazione. Il primo fu il
congresso nazionale del Pci, a Bologna, in cui Enrico Berlinguer venne eletto
vice segretario. Formalmente il leader restava Luigi Longo, ma, date le sue
condizioni di salute, di fatto, il timone passò nelle mani di Berlinguer. Con lui, il
Partito andava esattamente nella direzione opposta a quella da noi auspicata …

Domanda
quindi Fasanella: … Quale fu il secondo? La
risposta di Franceschini: 

La visita in Italia del presidente
americano Nixon. Per sancire anche
pubblicamente il nostro distacco dalla linea berlingueriana, decidemmo di
partecipare con le bandiere della Fgci a una manifestazione contro la Nato,
organizzata dal movimento studentesco nei pressi della base militare di
Miramare, a Rimini. Allora la linea del Pci sulla Nato si era già ammorbidita e
la nostra scelta, che aveva avuto una larghissima eco sui giornali, venne
duramente censurata: quando tornammo a Reggio, venimmo subito deferiti alla
Commissione federale di controllo, una sorta di tribunale interno del partito.
ma il “processo” non si celebrò perché i dirigenti speravano sempre di ricucire
lo strappo.

Con
queste premesse, e alla luce di quanto detto in precedenza, era inevitabile per
i partiti di sinistra arrivare a convivere, prima o poi, con la mafia e, alla
luce di quanto detto da Franceschini sullo “sfruttamento bestiale” all’interno
delle cooperative rosse, era fatale che ciò avvenisse più prima che poi …

Resta da
dire qualche parola su Enrico Berlinguer.
Questo il giudizio che ne da Franceschini (p. 31):

Era il
capo dei venduti. Con lui, era arrivato a conclusione il processo iniziato con
la destalinizzazione. Non era di origini operaie, proveniva addirittura da una
famiglia aristocratica, e non aveva fatto la Resistenza, come Longo o Secchia:
anche dal punto di vista della biografia personale, rappresentava una rottura.

 

Il giudizio di Franceschini, al di là del “vissuto” polemico, è esatto. In un
certo senso, la segreteria di Berlinguer può essere considerata come la prima
segreteria “arancione”, non rossa, del partito: dopo che i comunisti si sono
sentiti “più sicuri” sotto l’ombrello NATO ai dirigenti politici italiani, anche a quelli che volevano
“cambiare il mondo” (vedi ad esempio il post Questo
è Paolo Gentiloni
: https://www.andreacarancini.it/2011/10/questo-e-paolo-gentiloni/
) non è rimasto altro che “vendersi per sopravvivere come ceto politico”, come
ha rimarcato il mio amico comunista. L’onda lunga del “berlinguerismo” è stata
davvero lunghissima, al punto che persino autori come Gianni e Antonio Cipriani
non scrivono più i libri di una volta: sia pure con ritardo, si sono adeguati
anche loro[8]!

 
Berlinguer nella famosa vignetta di Forattini

 

[1] Editori
Riuniti, 1993. L’edizione da me citata è la ristampa del 1994.
[2] Ivi, pp.
XIV-XV. I grassetti sono miei.
[3] Ivi, pp.
XV-XVI.
[4] LO SCONTRO TRA BERLUSCONI E FINI COINVOLGE SAVIANO:
http://www.comidad.org/dblog/articolo.asp?articolo=347.
I grassetti sono miei.
[5] Gianni
Cipriani, op. cit., pp. 110-111. I grassetti sono miei.
[7] Quinta
edizione BUR, marzo 2007. I grassetti sono miei.
[8] Vedi ad
esempio un libro come La nuova guerra
mondiale. Terrorismo e intelligence nei conflitti globali
: http://www.bol.it/libri/autore/Gianni-Cipriani-Antonio/7/S/1/,
in cui gli autori sono trasbordati dalla critica al terrorismo americano all’assunzione
della retorica che giustifica tale terrorismo: la “lotta al terrorismo”.
 

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