Berlinguer e la strage di Brescia: anche questa volta Vinciguerra non ha parlato a vanvera

Berlinguer e la strage di Brescia: anche questa volta Vinciguerra non ha parlato a vanvera

Vinciguerra dopo la deposizione all’ultimo processo di Brescia
Il penultimo articolo scritto da Vincenzo Vinciguerra per il suo sito, Scene da una strage[1], ha suscitato lo sconcerto[2] di un osservatore non prevenuto come Ugo Maria Tassinari. In effetti, nel pezzo in questione, Vinciguerra fa un affermazione forte, persino “sconcertante”, che Tassinari evidenzia con il rosso:
«La verità giudiziaria, che sarebbe comunque stata circoscritta agli esecutori materiali ed agli organizzatori della strage, non avrebbe mai potuto coincidere con la verità senza aggettivi perché non avrebbe ritenuto responsabili, ad esempio, i vertici del Pci, primo Enrico Berlinguer, che tacendo su quanto sapevano sulla strage compiuta dal confidente del Sid, Gianfranco Bertoli, il 17 maggio 1973, a Milano, dinanzi alla Questura, hanno assicurato impunità e libertà d’azione a quanti hanno proseguito nella strategia stragista da Brescia a Bologna. Responsabilità non solo politiche ed umane ma anche penali…».
“…i vertici del Pci che hanno assicurato impunità e libertà d’azione a quanti hanno proseguito nella strategia stragista”, questo il punto che a Tassinari suona insostenibile.
Capisco che la tesi è sgradevole, ma da parte di Vinciguerra non è certo una novità. Ad esempio, l’aveva già espressa ormai dieci anni fa, nel pezzo Silenzio di tomba[3]:
La strage alla questura di Milano

«Da quanto tempo, in Italia, è scomparsa ogni forma di opposizione? Forse, da quando i vertici del Partito comunista italiano, informati dal conte Pietro Loredan, seppero in anticipo dell’attentato a Mariano Rumor programmato per il 17 maggio 1973, e lasciarono che si compisse. Fecero di peggio: continuarono a depistare le indagini e… ricevettero il segretissimo onore, nell’autunno del 1973, di poter avere i sospirati contatti con i funzionari della Cia distaccati presso l’Ambasciata degli Stati uniti a Roma. Da quel momento, i vertici del Partito comunista assaporarono il gusto del doppio gioco e del tradimento. Scoprirono che sostenere e coprire le responsabilità dello Stato, della Nato, degli americani e degli israeliani pagava in termini politici perché garantiva della loro affidabilità atlantica».

Sulla conoscenza pregressa dell’attentato a Rumor, da parte dei vertici del Pci, Vinciguerra ha scritto, molto più diffusamente, anche nel saggio ART.81 C. P.: L’UNICO DISEGNO CRIMINOSO[4]. L’episodio in sé, infatti, è ormai acclarato (le sottolineature in grassetto, come quelle nelle citazioni successive, sono mie):

«Vediamo, prima delle considerazioni e delle conclusioni, i fatti scoperti dal giudice istruttore.
“L’istruttoria – scrive il giudice Lombardi – comunque serbava nel 1995 un’altra sconcertante scoperta, che cioè l’attentato del 17.5.1973 era stato preannunciato con due giorni di anticipo (il 15.5.73) con indicazione dell’obiettivo, del luogo e del giorno in cui sarebbe avvenuto” (ANTONIO LOMBARDI, Ordinanza cit., p.261).
A dirlo è Ivo Della Costa, “funzionario del Pci di Treviso dal 1950 ora in pensione, già consigliere e presidente del Comitato regionale di controllo, autore di numerosi libri di storia” (ivi, p.118), che sia pure con ventidue anni di ritardo racconta al giudice istruttore quanto si verificò nel lontano 15 maggio 1973, quando venne telefonicamente contattato dal conte Pietro Loredan».

Episodio citato anche da Aldo Giannuli nel suo BOMBE A INCHIOSTRO[5]:

«Un altro esempio dell’atteggiamento del Pci si può cogliere a proposito della strage alla questura di Milano: nel 1995, durante l’istruttoria di Antonio Lombardi, si presentò spontaneamente l’ex segretario della federazione comunista di Treviso, Ivo Della Costa, che riferì di essere stato contattato, il 15 maggio del 1973 dal conte Pietro Loredan (lo abbiamo già incontrato come amico di Giovanni Ventura), che lo aveva avvisato che dopo due giorni ci sarebbe stato un attentato di destra, a Milano, contro un’alta personalità dello stato. A quel punto Della Costa si era incontrato presso la federazione milanese con Giancarlo Pajetta e Alberto Malagugini[6], che avrebbero avvisato il capo gabinetto del questore Gustavo Palumbo».

La gravità del fatto non sfugge a Giannuli, che subito dopo commenta:

 «È interessante che Dalla Costa abbia atteso un’intervista di Bertoli, nel tardo 1995, «nella quale raccontava le solite balle», ma non ne abbia fatto cenno per oltre vent’anni, così come non ne ha mai parlato la stampa comunista».

 Di questo silenzio, Vinciguerra e Giannuli danno due spiegazioni opposte, esattamente come potrebbero esserlo, in un processo, le spiegazioni dell’accusa e della difesa. La difesa di Giannuli è lunga ma ho deciso di riprodurla per intero perché proprio dalla sua lunghezza si desume che il problema sollevato da Vinciguerra è serio. Il lettore attento pazienti, e non se ne pentirà:

La strage di piazza Fontana

«Come in molti altri momenti di quel periodo, il Pci era alla ricerca di un delicatissimo punto di equilibrio fra la denuncia e la moderazione, fra lo svelamento della trama e il non delegittimare la politica dell’inserimento. Ovviamente il Pci usò tutti gli strumenti per opporsi alla strategia della tensione: «vigilanza» e, soprattutto, ricerca di alleanze. E si capisce che questo abbia richiesto forme di «diplomazia segreta». Le ragioni del riserbo furono diverse: proteggere le fonti, evitare di dare notizie dubbie o non dimostrabili, non prestarsi a manovre di disinformazione ecc. Ma furono le valutazioni di ordine politico generale a prevalere: occorreva non inasprire troppo i rapporti con la Dc e, insieme, tener conto degli umori della base; soprattutto bisognava evitare che la situazione sfuggisse di mano a tutti sfociando in una guerra civile.

 «Noi non sappiamo quanto il Pci fosse informato dei retroscena delle stragi ma, se anche avesse avuto a disposizione gli elementi poi emersi nelle inchieste più recenti su esponenti Dc, Sid e Cia, cosa avrebbe fatto? Rendere pubbliche prove del genere (o anche solo fornirle all’autorità giudiziaria) avrebbe avuto conseguenze imponderabili, e non era azzardato ipotizzare uno scenario del genere:

a)      la piazza avrebbe travolto il governo e reclamato elezioni anticipate, obbligando il Pci allo scontro frontale;
b)      gli accusati avrebbero negato anche la più evidente delle prove e si sarebbero opposti con tutte le forze alle elezioni anticipate;
c)      ne sarebbe seguita una situazione di stallo, durante la quale gli scontri di piazza sarebbero diventati gravissimi;
d)      la rivelazione del coinvolgimento dei servizi americani in stragi attuate in un paese dell’alleanza avrebbe avuto conseguenze irreparabili e, di fronte a questo pericolo, sia la Nato sia la Cia sarebbero ricorsi a qualsiasi mezzo per bloccare la valanga.

«La situazione sarebbe precipitata e ogni esito sarebbe stato possibile. Era disposto il Pci ad affrontare questi rischi? Nell’ipotesi più indolore, la strategia di inserimento sarebbe andata in fumo. È più ragionevole supporre che il Pci avrebbe preferito usare quelle informazioni in una partita coperta, alternando la minaccia alla lusinga. È infatti significativo che, proprio in quegli anni, il Pci abbia cambiato radicalmente la sua posizione sull’adesione italiana alla Nato. Sino al 1969 chiedeva l’uscita immediata dall’Alleanza atlantica, ma già il 15 marzo del 1972, nella sua relazione introduttiva al XIII congresso del partito, Berlinguer dava un giudizio più sfumato:

Berlinguer al XIII congresso

«La lotta contro il Patto Atlantico sarà molto più efficace quanto più si identificherà con un movimento generale per la liberazione dell’Europa dall’egemonia americana, con una graduale liquidazione dei due blocchi contrapposti che conduca alla fine al loro scioglimento.

«Nel dicembre 1974 Berlinguer ufficializzò la linea di piena accettazione dell’alleanza, pur se nella prospettiva di un futuro dissolvimento dei blocchi; il 5 giugno del 1976 affermò di «sentirsi più sicuro sotto l’ombrello della Nato». È singolare notare come la posizione comunista sulla Nato sia mutata in un periodo che, a rigor di logica, avrebbe dovuto semmai andare in senso contrario. A meno che questo non abbia fatto parte di un tentativo di trovare una via d’uscita concordata dalla strategia della tensione.
Paolo Emilio Taviani

«In un quadro del genere, il Pci avrebbe dovuto dare le maggiori prove possibili di una sua vocazione al governo, prima fra tutte la netta distinzione dall’area dell’estremismo politico e rivendicativo. L’attacco all’estrema sinistra tornava, quindi doppiamente funzionale, sia perché forniva le garanzie richieste di non farsi condizionare dai movimenti sociali spontanei, sia perché contribuiva a scongiurare il pericolo che settori della base potessero subire troppo l’attrazione dell’estremismo. Taviani davanti alla Commissione stragi affermò:

«Durante la vicenda Sossi [il sequestro del magistrato a opera delle Br] il Pci […] collaborò con il Ministero dell’Interno per le investigazioni e la ricerca dei responsabili. L’on. Galluzzi, a diretto contatto con Berlinguer, aveva frequenti incontri con me […]. La tesi che il Pci si sia convertito solo dopo l’assassinio di Moro è destituita di fondamento; si era convertito assai prima.
Il prof. Aldo Giannuli

«È significativo che, a differenza di quanto era accaduto per il caso Sifar, il Pci, dopo un timido tentativo di proporre una commissione parlamentare d’inchiesta su piazza Fontana, abbia rapidamente lasciato cadere la cosa né l’abbia più proposta nemmeno dopo le altre stragi. Pertanto, le campagne della controinformazione militante giungevano sommamente sgradite, perché da un lato disturbavano la manovra coperta verso Dc, Nato e grande industria, dall’altro obbligavano la stampa comunista a misurarsi con una spiacevole concorrenza che, qualche volta, obbligava a spingersi oltre quel che sarebbe stato desiderabile. In questo senso, anche la controinformazione democratica non era sempre un interlocutore comodo o gradito: «fare luce» non era l’obbiettivo principale del Pci».

Chiedo venia al lettore per la lunghezza della citazione ma questa ci consente di dare una prima risposta all’importante quesito di Tassinari: «In che misura questa copertura ha concorso alla strage di Bologna, come asserisce l’ergastolano?». Risposta: perché, se “«fare luce» non era l’obiettivo principale del Pci”, se la politica dei comunisti era quella di non denunciare le trame eversive con i relativi reati, anche quando se ne era a conoscenza, se in sostanza, la politica era quella di “non disturbare il manovratore”, allora le cose non potevano andare diversamente da come sono andate.
Giancarlo Pajetta

Quanto alla difesa del Pci perorata dal prof. Giannuli, una prima osservazione: alla sua affermazione secondo cui «noi non sappiamo quanto il Pci fosse informato dei retroscena delle stragi», non posso non rimarcare che è lui stesso a far notare, proprio due pagine prima, che se, dell’attività informativa sullo stragismo «sicuramente proseguita e accresciuta dopo la strage milanese [di piazza Fontana], troviamo solo alcuni frammenti…tanto basta a farci intuire quanto di più sapesse il Pci rispetto a quello che appariva sulla sua stampa»[7].

La seconda osservazione è che la politica dell’omertà perseguita dal Pci negli anni ’70 è rimasta inalterata nei decenni successivi. Rivelatore in proposito il giudizio di Guido Salvini:
Il giudice Guido Salvini

«Intorno al 1996 l’ex PCI, infatti, era entrato per la prima volta nel governo e non aveva interesse a rimestare il passato e soprattutto a confrontarsi con un’indagine nella quale si cominciavano a scoprire i rapporti esistenti tra Ordine nuovo e gli alleati statunitensi, cioè il soggetto dinanzi al quale l’ex PCI si stava legittimando come credibile forza di governo in Italia. Insomma, la mia indagine non aveva un «fatturato politico»»[8].

Un’altra eloquente testimonianza in proposito, ancora di Giannuli, che tocca direttamente l’attuale Capo dello Stato, la trovate qui:  http://www.aldogiannuli.it/tag/archivio-della-via-appia/
Padre Felix Morlion

A proposito poi di Giancarlo Pajetta, trovo interessante la seguente informazione, che lo mette in relazione non solo con il chiacchieratissimo Padre Felix Morlion[9] ma anche con Federico Umberto D’Amato, direttore del famigerato Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno all’epoca della strategia della tensione:

«I rapporti diretti continui sono tenuti esclusivamente con l’On. Giancarlo Pajetta, che è stato anche il tramite di collegamento con i Servizi dell’Est. Il P.C.I ha ottenuto grossi favori – alcuni fascicoli riservati furono forniti ed altri fatti scomparire. E’ indicativamente rilevante come mai, in tutte le occasioni in cui l’Ufficio Affari Riservati e la persona del dott. D’A. sono stati oggetti di rilievo sia in sede politica, amministrativa e parlamentare, la stampa di sinistra non abbia dato alcun risalto, nè abbia proposto inchieste giornalistiche. Più di una volta l’onorevole Pajetta, Anderlini (P.S.), Amendola, hanno riconfermato il loro divisamento: “D’A. non si tocca“. Con la stampa i rapporti sono stati sempre molto cordiali; il D’A. si è servito di vari fidati giornalisti ed Agenzie di Stampa largamente finanziate tramite fondi del Ministero dell’Interno (AIFE-Senise-Op-Pecorelli, ecc…). La posizione economica di D’A, in Svizzera e presso la Banca Morin di Parigi (versamenti americani), è rilevantissima. Il D’A ha seguito anche una serie di operazioni valutarie per autorevolissime Personalità politiche, tra cui due Ministri.
Archivio riservato e personale»[10].
Umberto Federico D’Amato

Il rapporto Pajetta-D’Amato è confermato dallo stesso Vinciguerra: «Referente del Pci al ministero degli Interni, in stretto contatto con Pajetta, era il prefetto Federico Umberto D’Amato, come doverosamente si segnala»[11].

Su D’Amato, in questi tempi di smemoratezza, richiamo ai lettori il giudizio di un giudice serio, Carlo Mastelloni:
«Eppure Carlo Mastelloni e’ sempre piu’ convinto: era proprio Federico Umberto D’Amato il Grande Vecchio a conoscenza di tutti i misteri d’Italia. Fondatore, signore e padrone di una polizia segreta dentro il corpo stesso della polizia. Una specie di “Gladio” parallela, costituita non per sonnecchiare nella quotidianita’, pronta a sollevarsi in armi nel caso di un golpe comunista ma operativa giorno dopo giorno, anno dopo anno, alla ricerca di ogni informazione utile alla causa anticomunista. Un fine per il quale tutti i mezzi, secondo il magistrato, erano buoni. Compreso l’arruolamento di personaggi coinvolti nelle faccende piu’ torbide della strategia della tensione»[12].
«D’Amato non si tocca!». Caro Tassinari, come si dice, “se non è vera, è ben trovata”.
Conclusione: anche quando dice cose apparentemente eccessive, Vinciguerra, pur con tutte le diversità di opinione che si possono avere nei suoi confronti, non è uno che parla a vanvera.          

[5] BUR, Milano, 2008. Le citazioni che traggo da questo libro si trovano alle pagine 268 e seguenti.
[6] All’epoca membro della Corte costituzionale (la nota è quella del libro di Giannuli).
[7] Aldo Giannuli, op. cit., p. 267.
[8] Da Luciano Lanza, BOMBE E SEGRETI – Piazza Fontana: una strage senza colpevoli – Con un’intervista a Guido Salvini, Milano, 2005, p. 169.
One Comment
  1. grazie. Molto interessante

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