Il giudizio di Leo Longanesi e di Franco Tabasso sugli esuli antifascisti

Il giudizio di Leo Longanesi e di Franco Tabasso sugli esuli antifascisti

Leo Longanesi

Quando ho letto il (mordace) giudizio di Leo Longanesi sugli
esuli antifascisti che sto per proporre, ho avuto un dubbio: quello che forse
tale giudizio fosse il frutto di un’idiosincrasia soggettiva. Poi però mi sono
ricordato di un analogo giudizio: quello espresso da Franco Tabasso nel suo Su onda 31 Roma non risponde, uno dei
libri più censurati del 900 italiano[1],
pubblicato – e fulmineamente sequestrato – dieci anni dopo quello di Longanesi.
Così li propongo entrambi, come frutto di due fonti indipendenti, che tra loro
mi sembra abbiano poche cose in comune a parte, appunto, l’indipendenza di
giudizio. E che avvalorano, sia pure da una visuale agli antipodi, il giudizio
di una terza fonte indipendente, quella
costituita da Amadeo Bordiga quando parlava di “tumore” dell’”antifascismo
londrista e atlantico”[2].

Leo Longanesi[3]:

20 novembre [1944]

ll Comitato antifascista che abita nel piano sopra al nostro
ha una buona biblioteca, requisita al padrone di casa. Chiediamo di prendere
qualche volume, per leggerlo. G. e gli altri mostrano una certa ostilità a
questa richiesta, non per timore che non si restituiscano i libri, il che
avverrà certamente, ma soprattutto perché temono che noi si legga quei libri ch’essi
non leggeranno mai.

L’antifascismo è molto meschino, fatto di queste piccole
ostilità, di questi ripicchi. Il clima che si respira qui a Napoli è quello dei
collegi e delle sacrestie. La maggiore preoccupazione degli antifascisti è
quella di non allargare la propria cerchia, per timore che altri possano dire o
fare qualcosa a cui essi non hanno pensato; e custodiscono i loro meschini
sogni di vendetta con l’astio e il moralismo delle vecchie zitelle contro le
giovani spose.
Quelli giunti dall’America o dall’Inghilterra, dopo anni di
esilio, per lo più volontario, sono ritornati con la stessa mentalità con cui
partirono, gli stessi principî già invecchiati, gli stessi ordini
del giorno in saccoccia, e persino lo stesso cappello. Le loro voci, i loro
gesti, quel particolar sussiego di chi ha tanto errato per la libertà
testimoniano, anche all’uomo meno scaltro, la loro sfrenata ambizione. Pettegoli
e piccoli borghesi, benché ostentino un linguaggio rivoluzionario, e abbiano
viaggiato il mondo e vissuto fuori d’Italia per circa venti anni, conservano
modi e preconcetti provinciali. Il fascismo, per costoro, è un nemico
personale, non un avversario; un nemico da cui sono stati privati per venti
anni di potere, di cariche, di privilegi, vent’anni che nessuno potrà ora
restituire loro. E il loro moralismo è così meschino e cieco che li priva d’ogni
libertà di giudizio; non vedono oltre il naso dei loro piccoli programmi, dei
loro brevi opuscoletti, della loro sparuta conventicola, e si comportano come i
superstiti di una civiltà perduta, i depositari di un verbo che essi soli
conoscono e che non rivelano per paura di far proseliti. Ma quel che essi non
sanno, è che parlano lo stesso linguaggio demagogico del fascismo; e quel che
essi vogliono costruire in Italia è stato all’incirca fatto dal fascismo,
solamente con più violenza e meno metodo.
Se togliete loro la qualifica di « antifascisti »
rimarrà ben poco, perché essi vivono in virtù del nemico. L’Italia è qualcosa
di astratto che ben poco li interessa, tutto al più un campo di battaglia, che
dico, un parlamento, una piazza, una sala da comizi, uno sfondo sul quale
rappresentare la grande commedia democratica che stanno preparando da anni. Non
li vedrete mai interessarsi a un preciso problema, economico o politico, non li
vedrete perder tempo a segnarsi un appunto su una delle tante penose e insolute
questioni del popolo napoletano; passano fra le rovine di questa città, nelle
vie tristi e sudice, fra putridi mucchi d’immondizie, bimbi scalzi e denutriti,
donne e uomini fradici di miseria e di malattie, passano senza volgersi, con le
loro carte sotto il braccio in fretta, senza perdere un attimo. Nulla li
interessa; quel ch’essi vi diranno, se li interrogate, è che il fascismo è
colpevole di tutto. Inutile contraddirli; trent’anni fa, la miseria qui era
colore locale, sano, allegro, variopinto colore napoletano, spunti per le
curiosità partenopee del senatore Croce; oggi, quella stessa disperata miseria
è frutto del fascismo.

Franco Tabasso[4]:

Durante il secondo conflitto mondiale, gli italiani hanno
avuto soprattutto paura dei bombardamenti indiscriminati anglo-americani. Fa più
paura colui che uccide a sangue freddo, di colui che ammazza nell’ira.
Ma sorvoliamo.
L’Italia non prese in esame la pace separata offerta dall’Inghilterra
all’inizio del 1943 perché alcuni uomini vi si opposero.

Si trattava di quegli uomini che, secondo loro, avevano
tanto lottato per la Patria oppressa, diventando rauchi ai microfoni della BBC,
o di Washington, o di Mosca o di Praga.

Avevano versato fiumi d’inchiostro in tutte le lingue, per
aprirsi il varco verso il Quirinale, il Viminale, Montecitorio e Palazzo
Madama.
Mussolini li aveva allontanati.
Essi dovevano tornare a cavallo della propagandata libertà.
L’Inghilterra li aveva incoraggiati e aiutati in questa
rivendicazione per vincere la nostra resistenza militare.
Ma la resistenza dell’Italia cadeva come spada di Damocle
sulla lungimiranza di Churchill. Lo statista inglese voleva Mussolini umiliato
e vinto, ma non distrutto. L’eterogenea combinazione della quinta colonna
italiana voleva Mussolini distrutto!
(…)
Si voleva dare il governo al patriarca del Kremlino nell’impossibile
sogno dell’imperialismo sovietico.
Si voleva dare il governo agli americani nella impossibile
speranza di aggregarsi al Texas e al Minnesota, aggiungendo qualche stella alla
bandiera del dollaro.
Ma soprattutto si voleva dare il governo a se stessi.
Questa è la verità. Non è polemica. È realtà.
Gli uomini della « libertà », oggi, governano l’Italia! Ad
ogni costo.

[2] Il
giudizio in questione venne espresso nell’articolo Borghesia italiana fellona. In rete: http://www.quinterna.org/archivio/filitempo/009_1949_borfellona.htm
[3] Da Parliamo dell’elefante, Milano, 1947,
pp. 187-190.
[4] Da Su onda 31 Roma non risponde, Città di Castello/Taranto,
1957, p. 251.

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